Alla lunga, diventa piuttosto insostenibile vagare con il solo scopo di diffondere opinioni nate altrove. Per questo, inizio con un’ammissione di colpevolezza, forse più d’una. 

Prima ammissione: questa risposta, pensata in origine come contraltare all’articolo di Matteo Donolato sul caso del sovraesteso femminile, è stata riscritta più volte di quanto mi piacerebbe ammettere. Al punto che mi ero convinto che valesse la pena scrivere un collage che comprendesse tutte le versioni precedenti. Sarebbe stata un’opzione molto democratica e molto moderna, sufficientemente paritaria. C’era tutto, pro e contro, e tutti nati in seno ad una stessa persona, che poi sarei io…

Seconda ammissione, corollario della prima: devo confessare di essere stato sballottato a fasi alterne dall’una all’altra parte della staccionata, e con altrettanta momentanea convinzione, con fretta e foga, ho interpretato il burattino degli uni e degli altri, di chi ci sta e di chi non ci sta. Ed ogni volta bisognava analizzare, e poi giudicare e condannare o perdonare. Arrivavo alla fine, e quel minimo di non-so-bene-cosa mi faceva scrivere, ad ogni conclusione, «che idiota!». 

Dunque, ricomincio. C’è il fatto, lo strano caso del sovraesteso femminile: l’Università di Trento decide di andare per la via della provocazione, ogni professione indicata al maschile nei documenti d’Ateneo diverrà femminile, dunque sovraesteso. Ogni presidente è ora presidenta, ogni studente può diventare studentessa – the sky is the limit

A dirla tutta, non nasce interamente come “caso”, lo diventa. Ci sono due rami della questione. Da una parte, mediaticamente, la divisione si forma sulla capacità divisiva dell’atto stesso, dall’altra questo stesso effetto di polarizzazione fomenta, in un fenomeno di feedback, l’amplificarsi della questione. Ecco, all’orizzonte, il «caso mediatico», il cui intimo meccanismo reclama la polarizzazione come elemento necessario per la sua riuscita, anzi, per la sua stessa esistenza.

Se tutto va a buon fine, da qualche parte si imbandisce un panel televisivo saggiamente strutturato per raccogliere il peso della provocazione e semplificare il tutto in una disputa tra contendenti. L’amplificazione iniziale funziona come una disseminazione ad alta velocità, «bisogna che se ne parli». Diversamente, lo scontro mediatico raccoglie i frutti con una sorta di sistema ad imbuto per generare categorie altamente digeribili. Rallenta il tempo, si distilla una suddivisione semplice delle parti contendenti: chi sta di qua e chi sta di là. È tutto propedeutico al nutrimento dell’ascoltatore. Due opinioni opposte l’una all’altra, ma sufficientemente chiarificate, possono essere distribuite al  popolo, che a sua volta produrrà ancora una volta un effetto a cascata verso il basso. Così, la buona novella circola per il mondo, molto più semplice e strutturata di prima, e ciascun talk show si ripete in ogni bar che offra da bere del bianchino alle dieci del mattino, o qualche spritz all’happy hour. 

Ma stai di qua o stai di là? 

Se non hai deciso una parte, allora cosa parli a fare?! 

Innanzitutto, pazienza… e dubbio che, a intenderlo propriamente, dovrebbe essere il metodo per sviare da questo inferno. Se dico «propriamente», è perché la polisemia di dubbio rischia di generare – ahimè – un ulteriore dubbio, dunque riformulo. 

In un primo senso, dubitare contraddistingue un modo dell’intelligenza di procedere in avanti: dubito tra questa e quell’opzione. Nei limiti del possibile, possiamo chiamarlo un fatto di «problem solving». Quando dubito se sia meglio andare a destra o a sinistra, non dubito della mia inclinazione a giungere alla destinazione che mi sono precedentemente prefissato. 

Dall’altra parte, con «dubbio» potremmo intendere ciò che da Henri Bergson in poi chiamiamo «l’inversione del normale corso di pensiero»: andare indietro, piuttosto che in avanti. Non consiste nel dubitare di quale opzione favorire – cosa scegliere dal menu o quale strada sia più favorevole al raggiungimento della meta -, ma piuttosto dubitare del modo nel quale le opzioni sono poste – sarà il menù giusto? Perché vado dove vado?

Non è più un’operazione dell’intelligenza dettata dal superamento di un ostacolo, ma più propriamente un atto del pensiero e della riflessione e…del dubbio. 

A proposito di questo metodo, quando l’autore del Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) ripropone il classico paradosso di Achille e la tartaruga, la contrapposizione tra spazio e tempo è sviscerata nel medesimo modo: non bisogna partire dalla dicotomia tra spazio e tempo come problema già formato, ma piuttosto risalire fino alla formulazione della questione. Primo lato della questione: siamo sicuri che spazio e tempo vadano posti come sono posti? Secondo lato della questione: perché, ed è una domanda a cui è altrettanto fondamentale rispondere, la dicotomia è stata posta proprio in questi termini?

È un modo di procedere che contraddistingue tutta l’opera bergsoniana: è necessario risalire la catena delle false contrapposizioni, curandosi di dar ragione del perché, in primo luogo, quella falsa dicotomia è venuta ad essere. In Materia e memoria la dicotomia tra idealismo e realismo è denunciata come errore già nelle pagine introduttive, mentre ne L’evoluzione creatrice sono poste in questione le (false) dicotomie tra ordine e caos, finalismo e meccanicismo, e molto altro ancora. Pur con qualche postilla, si può affermare che quello del filosofo francese è un metodo generale del pensiero. 

Dunque, nel nostro caso si tratta non soltanto di osservare con scrupolo le opzioni che l’opinione pubblica ci propina, ma di saggiare le modalità stesse di questa produzione di schieramenti e, ultimo ma non ultimo, riflettere sulle ragioni per cui il dubbio che procede a “ritroso” parrebbe, almeno ad un primo e fugace sguardo, essere così sistematicamente avversato. 

Perché da ambo le parti c’è una certa fretta, tanto di coloro che con fermezza reclamano la condanna repentina, quanto degli altri che gioirebbero sentendo annunciare che ciò che ieri era provocazione, oggi diventa legge e imposizione; ed ambo le parti sfruttano il “dubbio” solo nel suo senso “semplice”, ossia nel riproporre, piuttosto incessantemente, dei dubbi da risolvere rapidamente tra alternative già determinate: vai di qua o vai di là?

Possibile aver così poca cura di ciò che ci circonda da altalenare tra l’immediato rifiuto del nuovo o la condanna di ciò che è stato, con l’ottusa fiducia che ciò che sarà, per ciò stesso, sarà meglio? Anche l’altalena tra il «nuovo» e il «già stato», direbbe Bergson, è una falsa alternativa. 

D’altra parte, nel suo secondo significato il dubbio rivela – almeno potenzialmente – l’inganno delle opzioni, scoprendosi come l’atto stesso di contrapposizione alla fretta delle parti. In virtù di ciò, non è un primariamente un meccanismo deduttivo per risolvere l’incertezza tra le opzioni, ma un metodo di retrocessione per porre sotto esame la creazione stessa del campo di alternative che ci sono proposte. 

Se dovessi ipotizzare dove ci porterebbe questa ricerca, in primis si rivolgerebbe con sospetto verso la foga che contraddistingue questi schieramenti della domenica, che il giorno prima ci sono, il giorno dopo spariscono a favore di qualcos’altro. Bisognerebbe indagare psichicamente questa famelica necessità di applaudire e ripudiare, in quello che a tutti gli effetti sembrerebbe una continua fioritura di micro-identificazioni “alla giornata”, il cui funzionamento necessita la ripetizione ininterrotta di nuove approvazioni, così come richiede la brevità temporale di ogni nuova “battaglia”.

In ciò, si rivelerebbe al fondo degli attuali movimenti pseudo rivoluzionari, di cui “la provocazione del sovraesteso” fa parte, la loro ingenuità: a foga e certezza rispondono con foga e certezza, a iper-legiferazione rispondono con altrettanta iper-legiferazione, di conseguenza sono interamente determinati – oso dire prodotti – dal sistema stesso che credono di fronteggiare.

Di conseguenza, tra coloro che ci fanno ballare tra l’innegoziabilità di ciò che è sacro e la rinegoziazione di ogni cosa, la nostra attenzione dovrebbe vertere non tanto sulla valutazione di quale alternativa preferire, ma sulla presentazione stessa di questa alternativa, e delle ragioni storiche e culturali che forzano questo ristretto menù contro i nostri occhi, limitandoci la vista. Scoveremmo, come ho già scritto, il loro modo comune, l’intenzione manifesta di passare per la via dell’iper-legiferazione, che – in aggiunta o parallelamente – non passa più per i soli canali statali o sovrastatali, ma opera con un taglio trasversale tramite sistemi che mimano, ovunque, i tribunali: “giudizio-sulla-rete”, “cancel-culture” e “bolle mediatiche”, sono pienamente in linea con la definizione di questo percorso iperbolico della codificazione. 

Scoveremmo tra coloro che difendono a spada tratta una lingua – come se questa fosse nata in seno alla mente brillante di un solo ed eroico legiferatore patriottico – e coloro che professano la possibilità di rinegoziare ogni parola – come se la lingua rinascesse nuova e candida ad ogni mattina – il comune desiderio di agire su vasta scala ad una micro-codificazione della lingua, fin nelle sue più intime fibre, al fine di direzionare le fibre sociali che stanno per essa… almeno in teoria. 

Tra i movimenti rivoluzionari della lingua, e i moti controrivoluzionari della cultura, scoveremmo il timore comune di perdere il controllo di ciò che varia – di quel «che varia davvero, nonostante ogni previsione o premonizione» – benché l’una parte se ne dichiari fallacemente a favore, e l’altra esplicitamente contraria.

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