1.
L’Università di Trento ha recentemente redatto il nuovo Regolamento generale di Ateneo in un modo che, a prima vista, può sembrare curioso: ha indicato tutte le professioni con i termini al femminile, a prescindere dal genere delle persone che ricoprono le varie cariche.
Le parole del rettore stesso, riferendosi alla bozza del testo, sono emblematiche: «leggere tutto il documento […] mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali».
L’Ateneo si è avvalso del femminile sovraesteso in luogo del modello standard, cioè il maschile sovraesteso (o non marcato). Questa è una forma espressiva che conosciamo bene, in quanto la usiamo in ogni contesto, pubblico o privato; per esempio, quando salutiamo dando il buongiorno a tutti, quando dichiariamo che siamo arrivati in un luogo, oppure quando specifichiamo di uscire con amici, pur in presenza, in tutti questi casi, anche di persone di genere non maschile.
Per far scattare il maschile sovraesteso, è sufficiente che in un gruppo ci sia almeno un soggetto di genere maschile, a prescindere dal genere di tutte le persone appartenenti al gruppo stesso e, inoltre, senza considerare le eventuali statistiche: anche se la percentuale di uomini dovesse essere nettamente inferiore rispetto alle altre identità, da prassi verrebbe comunque usato il maschile.
La questione non è di poco conto. Infatti, «il problema secondo chi se ne occupa è che alla prevalenza del maschile sul femminile nel linguaggio corrisponda anche una prevalenza nel pensiero, e che quindi continuare a usare il maschile sovraesteso […] sia di fatto un modo per perpetrare un modo di pensare in cui le donne sono sistematicamente subordinate agli uomini».
Alla luce di tutte queste considerazioni, proviamo ad approfondire la tematica.
2.
La scelta linguistica dell’Università di Trento mi piace. Molto. Aiuta a fare chiarezza su come il linguaggio non sia qualcosa di neutro, in quanto riflette la società nella quale viene costruito, ereditandone gli errori e le distorsioni. In effetti, «la lingua parlata da una comunità è uno specchio della realtà in cui si vive; in questo specchio si rendono evidenti anche quelle situazioni ancora da migliorare che non sono solo negli elementi della lingua, ma anche della comunità stessa dei parlanti» (Lorenzo Gasparrini, Non sono sessista, ma… Il sessismo nel linguaggio contemporaneo, Roma, Edizioni Tlon, 2019, p. 48).
Il linguaggio è, a volte, sottovalutato e, pertanto, non se ne coglie la fondamentale importanza per la costruzione del mondo che ci circonda; infatti, esso può contribuire a creare una ben specifica narrazione e, di contro, ne va a oscurare altre.
Facciamo dunque attenzione a quello che diciamo: usare una determinata parola piuttosto che un’altra chiama in causa un mondo piuttosto che un altro; così facendo, viene coinvolta anche la rete di significati che tale mondo porta necessariamente con sé. Quindi, il linguaggio non solo non è neutro, ma non è neanche isolato.
Il maschile sovraesteso, come tutto il linguaggio, rappresenta un modello di società, una presa di posizione; tuttavia, questo modello non l’abbiamo scelto ma ci è stato imposto. Come? Per esempio, attraverso l’abitudine, che «scambiamo per naturalezza, ovvietà, inoffensività e leggerezza» (cit., p. 75). Infatti, usando costantemente termini declinati al maschile per riferirci a una pluralità mista di persone, abbiamo sviluppato l’idea che il maschile sia l’opzione “giusta” e, pertanto, non abbiamo ritenuto che potesse avere delle criticità. Eppure, esso esprime solo una delle alternative possibili, rappresenta semplicemente quella standardizzata. Ma standard non sempre significa corretto.
Il maschile sovraesteso è quindi uno dei (tanti) modi di cui la società si avvale per sopravvivere, generazione dopo generazione; occultando le sue scelte fa in modo che diventino le nostre scelte, e siamo tutti felici. Al maschile, però. Infatti, così facendo, non vengono prese in considerazione altre narrazioni, verso le quali tale scelta non è adeguata. Esistono allora persone di serie A e persone di serie B?
Attenzione, non sviliamo la questione affermando che c’è “ben altro”, ma chiediamoci: se un certo tipo di parole venissero usate verso di me, cosa proverei? Facciamo un esempio: se io fossi un uomo privilegiato e, in una conferenza, il relatore salutasse il pubblico esordendo con “buongiorno a tutte”, come mi sentirei? Ecco, magari quella stessa sensazione la provano – o l’hanno sempre provata – altre persone.
Allora, valutiamo bene se alcune parole possano farci sentire a disagio, mettendoci poi nei panni di altri individui; il mondo che abbiamo sempre abitato potrebbe sembrarci molto diverso, se osservato con altri occhi.
È necessario, pertanto, ripensare (anche) come ci esprimiamo, in modo da includere altre narrazioni rispetto a quella standard; non dimentichiamo che «la nostra natura è quella di scopritori di differenze» (cit., p. 22). La scelta dell’Università di Trento, paradossale solo in apparenza, indica una direzione che mi sembra corretta.
Come ogni costruzione sociale, anche il linguaggio si può problematizzare e rinegoziare; può essere decostruito e, con esso, si possono decostruire le narrazioni, i mondi, che porta con sé. Può dunque evolvere. Tutto parte sempre da noi, con le nostre domande e le nostre scelte; se comprendiamo la contingenza delle influenze che abbiamo intorno, arriveremo ad abitudini più consapevoli e, inoltre, avremo maggior cura e riguardo nei confronti di altre persone.
E, lo ripeto, non sono affatto questioni di poco conto.
Autore
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Laureando in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, appassionato di gender studies, di influenze sociali e di Corto Maltese. Insegna, viaggia, fa surf – quello vero – sulle onde oceaniche. Lì trova le ragioni più profonde.
Ciao Teo, complimenti per l’articolo in cui spieghi molto bene il tuo – e non solo tuo – punto di vista.
Con il quale però non sono d’accordo…
Il maschile sovraesteso è una consuetudine, uno standard, come scrivi.
E proprio come standard ha perso, secondo me, un significato di differenziazione “qualitativa” fra generi.
Il rettore dell’università di Trento scopre che a sentire tutto al femminile si sente discriminato?
Ovvio, perché scrivere tutto al femminile – oggi – è una forzatura, mentre usare il maschile “tutti” è uno standard.
L’iniziativa può avere un senso come provocazione per ricordarci che il problema esiste, ma nel linguaggio per fortuna si possono declinare tutte le professioni al femminile e per il resto bisognerebbe inventare il neutro in italiano.
Altrimenti, dopo qualche anno di rettrici di genere maschile, saranno gli uomini a sentirsi discriminati…
[…] ammissione: questa risposta, pensata in origine come contraltare all’articolo di Matteo Donolato sul caso del sovraesteso femminile, è stata riscritta più volte di quanto mi piacerebbe […]
Ottima osservazione e ottimo antidoto dialettico! Mentre la ‘sinistra’ progressista – quella che si reputa più ‘colta’, o radicalchic, non quella che scende in piazza per la pace e contro i genocidi condotti dai criminali internazionali di turno, evidenti o celati … – blatera su questioni nominalistiche, arrivando perfino ad estenderle alle aberrazioni giuridico-normative (e penali) del “gender ad oltranza”. E la ‘destra’ conservatrice trova facili argomentazioni sul tema per metterla all’angolo, a sua volta però non facendosi scrupolo di stimolare all’inverso reazioni di autentica e volgare omofobia. Mentre insomma entrambe lavorano ciascuno a proprio modo per collaborare a questo disegno politico-culturale di estremizzazione del libertarismo individualista tanto economico (liberista) quanto culturale (coscienzale, esistenziale …) di prevalente matrice anglosassone, utile solo a fomentare conflittualità sociale e non solo dal basso verso l’alto, le vere questioni fondamentali all’ordine del giorno, quelle connesse alla giustizia sociale nazionale e sovranazionale e alla pace tra i popoli vengono costantemente emarginate e mistificate proprio da entrambe queste stesse parti politiche. Che in ultima istanza sono solo funzionali alle aberrazioni di sistemi politici in evidente crisi di credibilità. E arrivando solo a supportare l’oramai vigente Grande Fratello, ossia una dominante “politica mediatica intesa come pervasivo oppio dei popoli” … A ciascuno il suo.