Il 28 marzo scorso il Consiglio di Amministrazione dell’università di Trento ha deciso per l’uso del femminile sovraesteso in tutti i suoi documenti ufficiali. Ovvero, per esempio, il rettore e il presidente diventano la rettrice e la presidente, anche se si tratta di uomini.

A seguito di questa decisione il rettore Flavio Deflorian diventa la rettrice Flavio Deflorian, il quale (o la quale?) ha così commentato il suo nuovo status: “Leggendolo mi sono sentito escluso. Così ho capito il senso della decisione”.

Il comunicato ufficiale recita: “È il primo caso di atto redatto in questo modo all’Università di Trento. Dall’adozione nel 2017 delle guida sul linguaggio rispettoso delle differenze, prosegue l’impegno dell’Ateneo per la costruzione di un’università più inclusiva”.

L’obiettivo di costruire un’università sempre più inclusiva è senz’altro condivisibile e, d’altro canto, il tema dell’inclusività è diventato uno dei temi più sensibili in tutte le università del mondo occidentale. Nel frattempo io faccio una certa fatica a capire perché nelle università non sia altrettanto popolare, che so, il tema dello sfruttamento dei bambini nelle miniere di litio africane per estrarre il raro minerale indispensabile per far funzionare i nostri pc e le nostre auto pulite… ma vabbè, sto divagando.

Torniamo al punto, naturalmente questa iniziativa ha fatto discutere sui giornali e sui social (ma per quel che ho visto, avrei immaginato un dibattito più caldo e serrato, segno forse che l’iniziativa di UniTrento non è stata presa molto sul serio?). Naturalmente molte voci a favore, provenienti soprattutto dalle aree culturali riconducibili ai movimenti come quello delle transfemministe e, a rimorchio, dai partiti di sinistra; qualche voce scettica, anche a sinistra, e non poche voci ironiche o sarcastiche, non necessariamente provenienti solo da visioni socio politiche di destra o reazionarie.

A questo punto però credo che ci siano due domande da farsi, la prima: una iniziativa di questo tipo ha una funzione di reale utilità nella lotta alle diseguaglianze di genere nella società? E la seconda: è per forza necessario dividersi per schieramenti ideologici (e partitici) su un tema come questo?

Provo a rispondere, a puro titolo personale, a entrambe le questioni. Senza girarci troppo attorno, credo che iniziative come questa non servano assolutamente a nulla per la causa dell’inclusione e, anzi, siano controproducenti. Già, perché ai reazionari con mentalità patriarcale (e chi decide se uno è reazionario con mentalità patriarcale?) un’iniziativa a come questa non solo NON li farà riflettere, ma servirà ad aumentare la loro convinzione di essere “in un mondo di pazzi” dal quale difendersi arroccandosi sulle proprie rassicuranti posizioni.

Poi però serve a poco (o a nulla) anche con le persone di mentalità aperta e consapevoli. Perché costoro sanno bene che esistono problemi reali, di contenuto, e scrivere rettrice di un uomo non risolve nulla dei problemi reali. E, quindi, quando leggo la dichiarazione della rettrice / rettore, che dice di essersi sentito escluso e di aver (finalmente!) capito (il non detto è “il dramma dell’esclusione femminile e fluida”), mi viene da ridere. Per cui, professoressa Flavio & C., se lei ha bisogno di questa cosa per capire che ci sono ancora da colmare dei gap di genere, siamo messi male male…

In realtà farei un torto all’intelligenza della rettrice / rettore a pensare che solo attraverso questa iniziativa lei / lui abbia preso coscienza esistenziale delle disuguaglianze di genere. Così a me questa iniziativa di UniTrento non sembra neppure una provocazione per sensibilizzare. Mi sembra, invece, solo un atto di piaggeria verso le frange estreme della cosiddetta cultura woke che, detto en passant, nulla hanno a che spartire col concetto di inclusività. Peggio ancora.

Ma qui c’è un altro punto, qualcuno effettivamente cerca un dialogo e un confronto su questi temi? A qualcuno interessa parlare di contenuti, di situazioni concrete? Francamente vedo sempre più intransigenza da una parte e dall’altra e sempre meno voglia di capire le ragioni altrui, e questo vale per tutti i temi di confronto del vivere comune nelle nostre società. Vengo poi alla seconda domanda. È proprio necessario creare delle contrapposizioni ideologiche?

Parrebbe di sì. Uno sport diffusissimo nel mondo intero, da sempre, è quello di dividersi in fazioni. A prescindere, in parte o anche completamente, dai contenuti. Contrapposizioni tra fazioni che spesso sfociano nella categorizzazione e demonizzazione del pensiero altrui e, infine, in odio reciproco; odio di appartenenza, di bandiera, che non è una bella cosa e che sa tanto di disagio psicologico.

Il problema è rompere questa spirale e spostare la discussione dal “packaging” al contenuto.

Non saranno delle rettrici uomini a riuscire in questo.

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