L’Effetto Proteo: Quando l’Avatar cambia chi siamo
Nell’era digitale, l’identità personale non è più confinata al corpo fisico: sempre più spesso si estende ai nostri avatar, quei corpi virtuali che abitiamo nei social network, nei videogiochi, negli ambienti digitali in generale. Ma cosa succede quando l’aspetto di questi avatar inizia a influenzare profondamente il nostro comportamento reale? Questo è il cuore dell’“Effetto Proteo”, un fenomeno psicologico che mette in luce il potere trasformativo dell’identità digitale.
DALLA MASCHERA ALL’AVATAR: LE ORIGINI DELL’EFFETTO PROTEO
Coniato nel 2007 da Nick Yee 1 e Jeremy Bailenson 2, il termine “Effetto Proteo” richiama la figura mitologica greca di Proteo, capace di cambiare forma a piacimento. L’idea alla base è semplice ma potentissima: quando adottiamo un avatar in un ambiente digitale, tendiamo inconsciamente a comportarci in modo coerente con il suo aspetto. Se l’avatar è alto e attraente, potremmo mostrarci più sicuri di noi; se appare debole, potremmo essere più remissivi.
Già Oscar Wilde, ben prima del digitale, scriveva: “Man is least himself when he talks in his own person. Give him a mask, and he will tell you the truth”. La maschera, oggi, è l’avatar, e funziona da catalizzatore per l’esplorazione dell’identità.
Nell’affrontare l’identificazione tra avatar ed essere umano si analizzeranno, in prima battuta, i meccanismi psicologici e cognitivi che sono alla base dell’esistenza dell’Effetto Proteo; successivamente, verranno valutati gli effetti di stereotipi e bias su comportamento e identità; infine, si tenterà una sintesi di quanto analizzato, vagliando come e quanto l’identificazione nel proprio avatar conduca a delle modifiche nella percezione di sé, tanto nei mondi virtuali quanto in quello reale.
INQUADRAMENTO PSICOLOGICO
Numerosi studi hanno indagato i fondamenti teorici dell’Effetto Proteo. Uno dei principali è la “self-perception theory” di Daryl Bem 3. Secondo questa teoria non sempre conosciamo i nostri stati interiori in modo immediato: spesso ci osserviamo dall’esterno, proprio come farebbe un osservatore qualsiasi, e traiamo conclusioni su cosa proviamo in base al nostro comportamento visibile. Questo meccanismo diventa particolarmente evidente quando mancano segnali interni chiari o quando ci troviamo in contesti ambigui. Negli ambienti virtuali ciò significa che, quando “indossiamo” un avatar, tendiamo a comportarci secondo le caratteristiche estetiche e simboliche che gli abbiamo attribuito, e da tali comportamenti inferiamo i nostri stati d’animo. L’avatar, quindi, non è solo una maschera, ma anche uno specchio che riflette (e crea) il nostro Sé.
Un’altra teoria rilevante è la “deindividuation theory” di Philip Zimbardo 4, sviluppata a partire dagli anni Sessanta. Secondo Zimbardo, in situazioni di anonimato o di forte immersione in un gruppo, l’individuo tende a perdere il senso della propria individualità, diminuendo l’autocontrollo e mostrando comportamenti che normalmente inibirebbe. L’anonimato riduce la paura del giudizio altrui e attenua il senso di responsabilità personale: in un ambiente digitale queste condizioni si verificano con facilità. Secondo Zimbardo, l’effetto della de-individuazione è tendenzialmente negativo, e conduce a comportamenti antisociali; tuttavia, altri autori hanno evidenziato che individui in condizione di de-individuazione, temendo meno il giudizio sociale, possono esibire anche espressioni di empatia, solidarietà o affetto.
Questa visione è stata successivamente affinata da Tom Postmes 5, Russell Spears 6 e Martin Lea 7 attraverso il modello SIDE (Social Identity Model of Deindividuation Effects). Gli autori sostengono che l’anonimato non elimina l’identità personale, ma favorisce il passaggio a un’identità sociale condivisa. Quando un individuo si sente parte di un gruppo tende a interiorizzarne norme e valori, comportandosi in maniera coerente con le aspettative collettive. Ciò significa che, in un contesto digitale, l’utente può sviluppare un forte senso di appartenenza a una comunità online assumendo atteggiamenti e comportamenti che riflettono la cultura del gruppo stesso. Come osservano gli autori, il bisogno di sentirsi accettati nella cerchia sociale di riferimento supera qualsiasi considerazione etica riguardo il comportamento adottato. In questo senso, l’avatar non è solo uno strumento di espressione individuale, ma anche di conformità sociale. L’interazione tra anonimato, immersione e identità condivisa crea una cornice psicologica che amplifica le norme del gruppo. In positivo, questo può rafforzare la cooperazione, il supporto reciproco e l’inclusività; in negativo, può alimentare polarizzazioni, intolleranze e comportamenti aggressivi.
STEREOTIPI E IDENTITÀ DIGITALI
Gli stereotipi giocano un ruolo centrale nell’Effetto Proteo. Già nel 1977, Mark Snyder 8 dimostrava che le aspettative proiettate sull’interlocutore influenzano profondamente l’interazione. Tre fenomeni descrivono l’impatto degli stereotipi:
- Stereotype threat: la paura di confermare uno stereotipo negativo conduce a prestazioni peggiori.
- Stereotype lift: l’identificazione con un gruppo visto positivamente migliora fiducia e risultati.
- Stereotype boost: l’appartenenza a gruppi stereotipicamente forti conduce a benefici in prestazioni e autostima 9.
Nei videogiochi è stato osservato che avatar maschili e femminili esibiscono comportamenti diversi quando utilizzati da persone del sesso opposto: tale fenomeno è noto come “gender swapping”. Gli uomini tendono a usare avatar femminili per ottenere vantaggi sociali, mentre le donne lo fanno per evitare attenzioni indesiderate. Uno studio condotto su World of Warcraft (Yee, Bailenson, & Ducheneaut, 2009) ha rilevato che avatar più attraenti o più alti generano atteggiamenti più estroversi, mentre avatar meno imponenti portano a comportamenti più schivi. In uno studio parallelo, condotto su giocatrici e giocatori di EverQuest II (Huh & Williams, 2010), è stato evidenziato che personaggi maschili controllati da donne sono più attivi in combattimento, mentre personaggi femminili controllati da uomini si dedicano maggiormente alla socializzazione: in entrambi i casi si assiste alla messa in atto di comportamenti stereotipici, aderenti a ciò che un determinato individuo si aspetta da persone identificate in un genere altro.
IDENTITÀ DESIDERATA E OVERCOMPENSATION
Il fenomeno dell’identificazione desiderata, o “wishful identification”, si manifesta quando l’individuo si immedesima in personaggi con qualità che vorrebbe possedere. Nel 1975 Cecilia von Feilitzen 10 e Olga Linné 11 teorizzavano che gli spettatori più giovani dei programmi televisivi tendessero a proiettarsi nei protagonisti delle storie che consumavano per sentirsi più intelligenti, forti o valorosi. Questo desiderio di immedesimazione non richiede necessariamente una somiglianza fisica tra soggetto e personaggio: l’importante è che il personaggio incarni qualità desiderabili, e assenti nella vita reale dell’osservatore. Nei mondi virtuali, tale meccanismo assume una dimensione interattiva: non ci si limita più a osservare un eroe sullo schermo, ma lo si diventa, scegliendo avatar che riflettono i nostri desideri più profondi e agendo attraverso di essi.
Una manifestazione concreta di questo processo si osserva nel fenomeno dell’overcompensation. In uno studio condotto da Roselyn Lee-Won 12 e colleghi, a un gruppo di giovani uomini è stato chiesto di sottoporsi a una serie di test stereotipicamente associati alla mascolinità (forza fisica, cultura generale “virile”, autovalutazioni). Coloro che ottenevano risultati deludenti tendevano poi a creare avatar in The Sims 3 con tratti fisici accentuatamente maschili: muscoli pronunciati, lineamenti decisi, capelli corti. Questa costruzione ipermaschile del proprio alter ego virtuale rappresenta una forma di riaffermazione identitaria, un tentativo inconscio di compensare una percezione negativa del proprio Sé fisico o sociale. Non solo: quando questi stessi individui ripetevano i test dopo aver interagito con l’avatar, i loro risultati miglioravano. Questo suggerisce che l’identificazione con un corpo virtuale desiderato possa rafforzare l’autoefficacia anche nel mondo reale. Il Sé digitale, in questo senso, non è solo uno strumento di espressione, ma anche un vero e proprio alleato nella costruzione di fiducia e autostima.
Questa dinamica di retroazione è una delle più affascinanti implicazioni dell’Effetto Proteo: non è solo l’avatar a essere influenzato dall’utente, ma anche l’utente a essere modificato dal suo avatar. L’identità digitale, quindi, diventa non solo espressione, ma anche motore di trasformazione del Sé.
ETICA E DESIGN DELL’IDENTITÀ DIGITALE
L’Effetto Proteo non è un semplice artificio sperimentale: è una dinamica concreta con ripercussioni reali su comportamento, percezione di sé e relazioni sociali.
Come vogliamo che ci vedano gli altri? E quanto siamo pronti ad accettare che il nostro comportamento possa cambiare, anche profondamente, in base al corpo digitale che abitiamo? La progettazione di avatar non può essere considerata solo una questione estetica: è un atto di modellazione identitaria. Costruire un corpo digitale significa anche dare forma a una possibile versione di sé, con tutto il potere trasformativo che questo comporta.
NOTE:
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bem, D. (1972). Self-Perception Theory. In L. Berkovitz (ed.), Advances in Experimental Social Psychology, vol. 6. New York: Academic Press.
Gergen, K. J., Gergen, M. M., & Barton, W. H. (1976). Deviance in the Dark. In Psychology Today, vol. 7, no. 5. New York: Sussex Publishers.
Huh, S., & Williams, D. (2010). “Dude Looks like a Lady: Gender Swapping in an Online Game”. In W. S. Bainbridge (ed.), Online Worlds: Convergence of the Real and the Virtual. Londra: Springer.
Hussain, Z., & Griffiths, M. D. (2008). Gender Swapping and Socializing in Cyberspace: An Exploratory Study. In CyberPsychology & Behavior, vol. 11, no. 1. Larchmont: Mary Ann Liebert, Inc.
Lee-Won, R. J., Tang, W. Y., & Kibbe, M. R. (2017). When Virtual Muscularity Enhances Physical Endurance: Masculinity Threat and Compensatory Avatar Customization Among Young Male Adults. In Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, vol. 20, no. 1. Larchmont: Mary Ann Liebert, Inc.
Postmes, T., Spears, R., & Lea, M. (1998). Breaching or Building Social Boundaries?: SIDE-Effects of Computer-Mediated Communication. In Communication Research, vol. 25, no. 6. Thousand Oaks: SAGE Publishing.
Shih, M., Pittinsky, T. L., & Ambady, N. (1999). Stereotype Susceptibility: Identity Salience and Shifts in Quantitative Performance. In Psychological Science, vol. 10, no. 1. New York: SAGE Publishing.
Snyder, M., Tanke, E. D., & Berscheid, E. (1977). Social Perception and Interpersonal Behavior: On the Self-Fulfilling Nature of Social Stereotypes. In Journal of Personality and Social Psychology, vol. 35, no. 9. Washington, D.C.: American Psychological Association.
Steele, C. M., & Aronson, J. (1995). Stereotype Threat and the Intellectual Test Performance of African Americans. In Journal of Personality and Social Psychology, vol. 69, no. 5. Washington, D.C.: American Psychological Association.
Walton, G. M., & Cohen, G. L. (2003). Stereotype Lift. In Journal of Experimental Social Psychology, vol. 39, no. 5. Amsterdam: Elsevier.
Yee, N., & Bailenson, J. (2007). The Proteus Effect: The Effect of Transformed Self-Representation on Behavior. In Human Communication Research, vol. 33, no. 3. Oxford: Oxford University Press.
Yee, N., Bailenson, J., & Ducheneaut, N. (2009). The Proteus Effect. Implications of Transformed Digital Self-Representation on Online and Offline Behavior. In Communication Research, vol. 36, no. 2. New York: SAGE Publishing.
Zimbardo, P. G. (1969). The Human Choice: Individuation, Reason, and Order versus Deindividuation, Impulse, and Chaos. In W. J. Arnold, & D. Levine (eds.), Nebraska Symposium on Motivation, vol. 17. Lincoln: University of Nebraska Press.
“Ostipitalità” - Controversia di un concetto (anche) politico
Dopo la cosiddetta “crisi dei rifugiati” che ha segnato profondamente l’Europa e l’Italia negli ultimi anni, il concetto di ospitalità ha assunto una rilevanza centrale nel dibattito pubblico e politico. Lontano dall’essere un semplice gesto privato di gentilezza, l’ospitalità è diventata una posta in gioco etica e politica, un banco di prova per le democrazie contemporanee. Accogliere chi fugge da guerre, persecuzioni o condizioni di vita insostenibili significa oggi confrontarsi con domande fondamentali: chi ha diritto di entrare? Chi decide le condizioni dell’accoglienza? Quali obblighi morali e sociali comporta il prendersi cura dell’altro?
In questo contesto, l’ospitalità rivela tutta la sua ambivalenza. Da un lato, rappresenta un’apertura verso l’altro, un riconoscimento della sua vulnerabilità e un tentativo di costruire legami di solidarietà e coesistenza. Dall’altro, proprio nel momento in cui viene istituzionalizzata – attraverso leggi, regolamenti, dispositivi di controllo – l’ospitalità può diventare uno strumento di esclusione, di selezione, di subordinazione. Le pratiche di accoglienza si situano dunque in una zona grigia, dove generosità e potere, cura e controllo, si intrecciano in modi spesso contraddittori.
È in questo intreccio che diventa urgente interrogarsi sul significato profondo dell’ospitalità e sulle sue implicazioni nei confronti della cittadinanza, dell’identità e della giustizia sociale.
NON SAPPIAMO COSA SIA L’OSPITALITÀ
«Non sappiamo cosa sia l’ospitalità». Con questa frase, Jacques Derrida (2000: 7, Hostipitality) riassume tutta l’ambivalenza del gesto di accogliere. L’ospitalità non si può definire in astratto, perché prende forma solo dentro contesti concreti, attraversati da emozioni contrastanti, relazioni asimmetriche, limiti materiali. È proprio nello scarto tra l’ideale dell’accoglienza incondizionata e la pratica quotidiana che l’ospitalità rivela il suo carattere conflittuale. A prima vista appare come un gesto di apertura, generosità, cura verso l’altro. Ma basta osservarla da vicino per coglierne il lato meno rassicurante. L’ospitalità non è mai neutra: implica sempre una posizione di potere, una gerarchia, una condizione. E può facilmente trasformarsi in una forma sottile di controllo.
È a partire da questa tensione che Derrida elabora alla fine degli anni Novanta il concetto – oggi più attuale che mai – di ostipitalità, un neologismo che unisce “ospitalità” e “ostilità”. Con questa idea, il filosofo mette in luce il potere tacito di chi ospita nel fissare regole, limiti e condizioni dell’accoglienza. L’ospitalità, quindi, non è solo un gesto di solidarietà: è anche un dispositivo di normalizzazione. Il suo paradosso, per Derrida, sta proprio qui: promette apertura, ma la limita per mantenere l’autorità dell’ospitante.
In questo senso, ospitalità e cittadinanza sono concetti “gemelli”. Entrambi tracciano confini: tra chi ha diritto a restare e chi può solo transitare, tra chi appartiene e chi viene tollerato, tra chi stabilisce le regole e chi deve adeguarvisi.
IL DEBITO INVISIBILE
C’è poi un altro elemento meno evidente, ma altrettanto incisivo: l’aspettativa del “contro-dono”. Chi viene accolto dovrebbe, in qualche modo, ricambiare. Mostrare gratitudine, adattarsi, non disturbare. Come spiegava l’antropologo Marcel Mauss (1925), ogni dono porta con sé l’obbligo di rispondere. E l’ospitalità non fa eccezione. Anche quando è presentata come “incondizionata”, si accompagna spesso a richieste implicite: di rispetto, di conformità, di invisibilità. È così che la persona accolta entra in una posizione fragile: deve dimostrare di meritare l’ospitalità; deve evitare di apparire “troppo esigente” o “fuori posto”. L’asimmetria è evidente, anche se si presenta con il volto della solidarietà. Chi accoglie ha il potere di definire cosa è giusto, normale, accettabile. Chi è accolto deve adeguarsi.
ACCOGLIERE SELEZIONANDO
Uno degli aspetti più evidenti dell’ostipitalità italiana è la sua natura selettiva. Si accolgono alcuni, i “veri rifugiati”, i “profughi ucraini”, i “minori stranieri non accompagnati”, mentre altri vengono respinti, criminalizzati o semplicemente ignorati. Si costruiscono gerarchie di merito, in cui il diritto all’accoglienza dipende da criteri morali, politici o culturali. Le leggi sull’immigrazione, dalla Bossi-Fini ai decreti sicurezza, fino al recente “Piano Mattei”, consolidano questa distinzione, trasformando l’ospitalità in un privilegio riservato a chi si adatta, rispetta, non disturba.
Questo approccio prende forma nei dispositivi di governo: i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) si aprono e si chiudono in base all’emergenza del momento; le commissioni territoriali decidono chi ha diritto a restare e chi deve andarsene; le frontiere (da Lampedusa al confine italo-sloveno) si trasformano in luoghi di ostilità permanente, dove ogni gesto di accoglienza appare come una minaccia da contenere. Anche il linguaggio è attraversato da questa logica ostile: termini come “clandestino”, “emergenza”, “degrado” servono a delegittimare l’idea stessa di accoglienza, trasformandola in problema, in anomalia da gestire o nascondere.
Nelle città, questa ostilità si riflette nello spazio: l’accoglienza è tollerata solo se invisibile, silenziosa, discreta. Laddove non è possibile renderla invisibile, si tenta di spostarla ai margini. Sempre più spesso, il compito dell’accoglienza viene lasciato al volontariato, mentre il welfare pubblico si ritira, ridotto a una presenza intermittente e inefficace. Così, l’ospitalità smette di essere un diritto e diventa un gesto condizionato, fragile, continuamente messo alla prova.
VIVERE L’OSPITALITÀ
Eppure, tra ospitalità e ostilità esiste una zona grigia, fatta di pratiche quotidiane: è in questa zona che si muovono i volontari, i mediatori, gli operatori sociali. Il caso delle “famiglie accoglienti” – famiglie che accolgono nella loro abitazione un rifugiato per un tempo che va da poche settimane fino, in rari casi, a molti anni – è un esempio concreto dell’esperienza paradossale e dilemmatica dell’ospitalità. Come messo in evidenza da alcune ricerche (Sperandio e Lampredi, 2024), è in queste pratiche concrete che nascono dilemmi che possono diventare profondamente politici: come rispettare l’altro senza annullare le proprie abitudini? Come evitare di imporre? Come convivere con differenze radicali? Sono momenti scomodi, ma preziosi, perché mettono in discussione l’idea stessa di appartenenza, sicurezza, normalità. L’ospitalità, allora, non è più solo un gesto di apertura, ma un processo di apprendimento. Non è una concessione, ma una relazione da coltivare, sbagliare, ripensare. Queste pratiche mostrano che l’ospitalità è un processo fragile e trasformativo, non una condizione data. È qualcosa che si costruisce, e si mette in discussione, ogni giorno, nei rapporti concreti con l’altro. È proprio nel confronto con le contraddizioni che può emergere un senso più profondo di responsabilità e giustizia.
CONCLUSIONE: NON INVISIBILIZZARE LE CONTROVERSIE DELL’OSPITALITÀ, MA AFFRONTARLE
La vera sfida, allora, non è eliminare (o invisibilizzare) l’ambiguità dell’ospitalità, ma imparare a riconoscerla e ad attraversarla. Significa costruire forme di convivenza che non cancellino la differenza, che non trasformino la solidarietà in paternalismo, che non implichino silenziosamente un dovere di riconoscenza. Significa anche accettare che l’ospitalità, per essere davvero etica e politica, deve saper trasformare le sue imperfezioni in occasioni per rivalutare costantemente le radici etico-politiche del vivere comune. Deve esporsi al rischio del fraintendimento, del conflitto, dell’errore. Solo così può diventare, davvero, un’apertura all’altro – non come proiezione dei nostri ideali, ma come incontro imprevedibile e trasformativo. In un’epoca in cui l’ospitalità è invocata tanto per includere quanto per escludere, riflettere sul suo carattere paradossale non è un lusso teorico. È un’urgenza politica.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Derrida, J. (2000). Hostipitality. Angelaki: Journal of Theoretical Humanities, 5(3), 3-18.
Mauss, M. (1925). Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques. L’Année sociologique, 1(2), 30–186.
Sperandio, E., & Lampredi, G. (2024). From hospitality to dwelling: a lens for migrant homesharing in Italy. Journal of Ethnic and Migration Studies, 1-19. https://doi.org/10.1080/1369183X.2024.2346618
Giochi di società. La simulazione in antropologia per apprendere e re-inventare i fenomeni sociali
La vicenda è ormai abbastanza nota. Monopoli, il popolarissimo gioco da tavolo, altro non è che il figlioccio un po' guastato di un altro gioco, The Landlord’s Game, inventato all’inizio del secolo scorso. A inventare il gioco fu Elisabeth Magie – donna eclettica e progressista, scrittrice e stenografa – che lo concepì come strumento di apprendimento: «è una dimostrazione pratica dell’attuale sistema di land-grabbing, dei suoi esiti reali e delle sue conseguenze» (Pilon, 2015). Il gioco prevedeva infatti due sistemi di regole. Uno era quello con cui pressappoco si gioca ancora oggi: giocatrici e giocatori si confrontano per acquisire terreni, costruire case e alberghi, impoverire gli avversari. L’altro sistema si basava invece su una ben precisa teoria economica, la cosiddetta “single tax”, avanzata dall’economista Henry George. George proponeva di tassare esclusivamente i terreni per poi redistribuire i profitti a cittadine e cittadini. Analogamente, nel sistema di regole anti-monopoliste ideato da Magie, i giocatori pagavano le tasse sulle proprietà acquisite ed erano poi costretti a dividere i guadagni, così che a trarre vantaggio dalla loro ricchezza fossero anche tutti gli altri giocatori. Magie registrò il brevetto nel 1903, il gioco iniziò a circolare nelle case americane, e infine venne venduto, nella versione tuttora giocata, a una casa editrice di giochi da un uomo disoccupato che sosteneva di averlo inventato.
Oltre ad essere una luminosa parabola sull’appropriazione capitalista e sull’invisibilizzazione del lavoro femminile (nel senso di un gioco inventato da una donna, i cui profitti dell’invenzione andarono a un altro), il concepimento di The Landlord’s Game presenta un ulteriore elemento di interesse: il nesso tra giochi e società, tra rappresentazione di una realtà o di un problema sociale e la possibilità, attraverso l’attività ludica, di ridefinirne i contorni e di esplorarne scenari alternativi. Si tratta di un nesso che negli ultimi anni è stato particolarmente sviluppato nell’ambito degli studi sociali della Scienza e della Tecnologia (STS). Sia nella loro fase di design e di sviluppo sia in quella più propriamente ludica, i giochi sono stati infatti descritti e utilizzati come strumenti attraverso cui simulare, apprendere o re-inventare i fenomeni sociali oggetto di studio antropologico e sociologico. Il cambio di prospettiva intrinseco al giocare (si gioca sempre in prima persona, che sia una partita a dadi o un gioco di ruolo) consente infatti di sperimentare in modo più diretto le dinamiche, le strutture di potere, le possibili forme di collaborazione o di competizione che caratterizzano un certo contesto. D’altra parte, la progettazione di un gioco ispirato a un determinato contesto o problema sociale può rappresentare un momento estremamente produttivo in termini etnografici. Attraverso il design di un gioco, ricercatrici e ricercatori hanno infatti la possibilità di riflettere sulla propria attività di ricerca sul campo. Alla luce di queste caratteristiche, l’interesse per le potenzialità etnografiche dei giochi va inserita all’interno di una più ampia riflessione sui metodi delle scienze sociali e sulla loro componente creativa e performativa.
«Gli approcci creativi (inventive) tendono a considerare la performatività (enactment) dei fenomeni sociali non come un argomento da esporre o descrivere, ma come un compito o una sfida di ricerca: possiamo farcela? Possiamo contribuire all'articolazione creativa dei fenomeni sociali?» (Marres et al. 2018, p. 25, mia traduzione)
Aspetto importante di questi approcci è anche il tentativo di emanciparsi dal predominio del testo e delle parole, per abbracciare metodi in cui siano le interazioni tra oggetti, immagini, suoni e corpi a costituire tanto il dato antropologico quanto le modalità di incontro etnografico. Si tratta di un approccio multisensioriale alla pratica antropologica il cui obiettivo è appunto inventare diverse modalità di partecipazione, collaborazione e apprendimento tra i vari soggetti coinvolti (Dattatreyan & Marrero‐Guillamón (2019). In questa prospettiva, creare giochi ispirati a un sito di ricerca etnografica, e poi testarli con i soggetti coinvolti da tale ricerca, costituisce un’interessante possibilità per simulare quelle realtà oppure per re-inventarle e re-immaginarle. L’eterogeneità dei giochi offre inoltre la possibilità di sperimentare diverse modalità di partecipazione: giochi di ruolo o di strategia, collaborativi o competitivi, da tavolo o digitali. Alcune caratteristiche sembrano però essere comuni a tutti i giochi. Secondo lo storico olandese Johan Huizinga, giocare è un'attività volontaria e disinteressata, circoscritta sia nello spazio che nel tempo, e definita dalla tensione legata alla sconfitta dell'avversario o al raggiungimento di qualcosa di difficile. La combinazione di questi tratti rende il gioco «un'attività libera che si colloca consapevolmente al di fuori della 'vita ordinaria' come 'non seria', ma che allo stesso tempo assorbe intensamente e totalmente il giocatore» (Huizinga 1949, p. 13). A queste caratteristiche se ne possono aggiungere altre che, come sostiene l’antropologo Joseph Dumit, rendono i giochi uno strumento pedagogico particolarmente utile nell’insegnamento delle scienze sociali (Dumit 2018). Nell’attività ludica, decisioni, conseguenze e sfortuna vengono infatti vissute in prima persona, consentendo quindi ai giocatori di vivere ed esperire dal proprio punto di vista la complessità delle strutture sociali riprodotte nel gioco, ad esempio le asimmetrie informative e le relazioni di potere che le attraversano. Per queste ragioni, la creazione di giochi (game design) può rappresentare un utile strumento per sollecitare gli studenti a riflettere sui sistemi sociotecnici. Dumit porta l’esempio di un gioco sul fracking, ovvero l’estrazione di petrolio e di gas naturale attraverso l’utilizzo della pressione dell’acqua. La ricerca per il design del gioco, spiega Dumit, ha portato gli studenti a individuare i vari attori coinvolti, a mappare le dinamiche tra le società di fracking, a problematizzare il ruolo dei media e delle notizie giornalistiche nell’articolare tali dinamiche.
Mentre Dumit sottolinea il valore pedagogico nell’ideare giochi inerenti a realtà sociali solitamente oggetto di indagine, gli antropologi Tomas Criado e Ignacio Farías illustrano come sviluppare e testare giochi produca nuove possibilità etnografiche (Farías & Criado 2022). I giochi da loro discussi sono stati creati insieme ai loro studenti e sono inspirati ai conflitti tra proprietari di case e affittuari, un tema particolarmente sentito e delicato nel mercato immobiliare contemporaneo. Lo sviluppo dei giochi ha dato luogo a una doppia dinamica tra ricerca etnografica e creazione delle regole e dei materiali dei giochi. Da un lato, l’esigenza, alla luce della ricerca svolta sul campo, di evitare rappresentazioni stereotipate delle persone rappresentate nel gioco (proprietari, affittuari, attivisti, avvocati). Dall’altro l’anticipazione e la proiezione di siti etnografici non ancora esplorati ma tuttavia inclusi nelle dinamiche dei giochi per renderli più verosimili. Provare i giochi (game testing) con persone effettivamente coinvolte nella crisi immobiliare ha funzionato invece come strumento di riflessione sul potenziale valore politico ed etnografico dei giochi. Per questa ragione, Farías e Criado sostengono che i giochi possono creare le condizioni per forme di ragionamento para-etnografico1. I giocatori erano infatti portati a fare costanti collegamenti tra le dinamiche e le situazioni scaturite dal gioco e le loro esperienze, emozioni e opinioni sui temi del gioco.
Questa incompleta rassegna ha tentato di identificare due diverse potenzialità di utilizzo dei giochi in ambito antropologico e sociologico.
In primo luogo, i giochi possono essere utilizzati come strumento per riflettere sulle dinamiche di un certo contesto economico (il land-grabbing, il mercato immobiliare) o di un determinato sistema socio-tecnico (il fracking). La possibilità di esperire in prima persona le dinamiche che caratterizzano quei contesti produce un “salto epistemologico” che può aiutare a comprenderle meglio. Non si tratta però di un approccio puramente conservativo, che si limita a riprodurre l’esistente. Al contrario, come Elizabeth Magie aveva intuito, i giochi possono aiutare a inventare e a mettere in atto realtà alternative, scenari possibili.
In secondo luogo, lo sviluppo di un gioco può essere utile a ricercatrici e ricercatori per ragionare sui dati e sugli elementi emersi durante la ricerca etnografica. In questo senso, lo sviluppo di un gioco può essere interpretato anche come la traduzione in regole, obiettivi e narrazioni della propria ricerca etnografica e quindi come un’attività che consente di svelare e di problematizzare alcune delle assunzioni e dei preconcetti che inevitabilmente la influenzano.
In conclusione, se è vero, come sostiene Huizinga, che giocare è un’attività non seria, tendenzialmente divertente e spensierata, sembra altrettanto vero che i processi di immedesimazione e di riflessione impliciti in moltissimi giochi li rendono anche dei formidabili dispositivi di critica e di indagine sociale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Dattatreyan, E. G. & Marrero‐Guillamón, I. (2019). Introduction: Multimodal Anthropology and the Politics of Invention. American Anthropologist, 121(1), 220–28.
Dumit, J. (2017). Game Design as STS Research, Engaging Science, Technology, and Society, 3, 603-612
Farías, I. & Criado, T. S. (2022). How to game ethnography. In Criado, T. S. and Estalella, A. (eds.). An Ethnographic Inventory: Field Devices for Anthropological Inquiries. London: Routledge.
Holmes, Douglas R., and George E. Marcus. 2008. “Para-Ethnography.” In The SAGE Encyclopaedia of Qualitative Research Methods, edited by Lisa Given, 595–97. Thousand Oaks: Sage
Huizinga, J. (1949): Homo Ludens. A Study of the Play-Element in Culture. London, Boston, and Henley: Routledge & Kegan Paul.
Marres, N., Guggenheim, M. & Wilkie, A. (2018). Inventing the Social. Manchester: Mattering Press.
Pilon, M, (2015). Monopoly’s Inventor: The Progressive Who Didn’t Pass ‘Go’, The New York Times, 13 febbraio.
NOTE:
C’era una volta il soggetto? Ibridi, protesi, algoritmi indossabili: tutti i supplementi di un latitante
Il supplemento viene al posto di un cedimento,
di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza.
Non c'è nessun presente prima di esso,
è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento.
Jacques Derrida, Della grammatologia
1 MAPPE
Perché è stato Colombo a sbarcare sulle coste americane – e dopo di lui i ben più temibili Cortés e Pizarro – e non una flotta Inca ad attraccare nel porto di Lisbona o di Genova? Franco Farinelli ritiene che la casualità della storia e l’impredicibilità del comportamento degli uomini non possano soddisfare l’urgenza dell’interrogativo, quanto invece può fornire una risposta l’evidenza che è capitato agli europei di realizzare mappe dei mari e delle terre emerse, e non alle popolazioni amerinde. Si può diventare scopritori di continenti e conquistatori di imperi sconosciuti, solo carta alla mano. Non importa nemmeno se il contenuto della rappresentazione geografica sia corretto o meno; senza il diagramma, viene a mancare l’ingrediente che si rivela essere il più banale nella circostanza in cui la scrittura e la proiezione geometrica sono disponibili – il progetto dell’esplorazione, la motivazione alla partenza, il piano di conquista.
Le mappe offrono un contributo indispensabile alla formazione della soggettività dei navigatori, dei conquistatori e degli eroi. Tzvetan Todorov suggerisce però che per plasmare una coscienza come quella di Cortès serva un altro ingrediente tecnologico: la scrittura alfabetica e la sua capacità di «insegnare» la separazione e la connessione tra una catena di significanti e una di significati. Il conquistador infatti legge le operazioni epistemiche degli aztechi, interpreta la visione della realtà di Montezuma, simula attributi e ruoli per manipolare la loro comprensione degli eventi, partendo dalle credenze degli avversari: i segni possono essere separati dal loro referente, possono essere imitati, contraffatti, manomessi a piacimento. Al contrario, gli indigeni appaiono vincolati ad una prospettiva monolitica di percezione del mondo, in cui quello che accade deve essere la ripetizione di qualcosa di già avvenuto, e deriva la sua identità dal passato dei loro miti fondativi. La vittoria degli spagnoli viene conseguita sul piano cognitivo prima ancora che sul campo di battaglia.
2 SCRITTURA ALFABETICA
La scissione tra un piano del significante e uno del significato è la separazione che si è innalzata dalla scrittura alfabetica alla fondazione delle disgiunzioni essenziali della cultura occidentale, come quelle tra interno ed esterno, trascendenza e immanenza, spirito e materia.
In un articolo precedente su Controversie, Edmondo Grassi propone di osservare i dispositivi di wearable technology, gli strumenti che rendono smart le case e le città, e la generazione degli algoritmi che li gestiscono, un sistema o uno sciame di intelligenze che rimodellano la nostra presenza fisica, e soprattutto che ridefiniscono la nostra soggettività. La trasformazione in corso non avrebbe precedenti nella storia dell’umanità, perché non si limiterebbe a potenziare facoltà già esistenti, ma creerebbe nuove dimensioni di coscienza, estranee a quelle implicate nella natura umana. Credo che le considerazioni sviluppate su Colombo e su Cortès impongano di rivedere in modo più prudente queste dichiarazioni. L’entusiasmo per lo sviluppo delle macchine digitali degli ultimi decenni è legittimo, ma rischia di mettere in ombra alcune linee di continuità con la storia delle tecnologie più remote (di cui fanno parte anche il linguaggio e la scrittura), e di alimentare la fede in un fantasma come quello della natura umana, intesa come una struttura consegnata dall’evoluzione filogenetica ai nostri avi ancestrali, che incarnerebbe la nostra sostanza compiuta e immutabile: dal suo fondo sarebbero derivate le culture e le civiltà, che ne avrebbero potenziato alcuni aspetti, lasciando però intatta la sua essenza fino ai nostri giorni. L’asimmetria tra il dinamismo delle trasfromazioni che abbiamo sotto gli occhi oggi, e la presunta staticità di quello che abbiamo già incorporato e metabolizzato, con la pratica del dialogo e delle lettere, è troppo evidente per non destare qualche sospetto.
La Scuola di Toronto, soprattutto con Harold Innis ed Eric Havelock, ha sottoposto a scrutinio il rapporto tra tecnologie della scrittura e formazione sia della soggettività, sia della struttura politica della società. L’elaborazione greca dell’alfabeto introduce, rispetto alle altre tipologie di grafia, un elemento di forte innovazione: i segni non richiedono un’interpretazione semantica, come accade con i pittogrammi, ma rinviano in modo meccanico ad altri segni, ai suoni delle parole. La loro presenza materiale non si impone allo sguardo pretendendo l’interpretazione di un esperto – scriba o sacerdote – con un esercizio di esegesi specialistica e creativa, ma si spalanca in modo immediato sulla catena dei significati. Il senso emerge alla vista prima ancora del suo rappresentante simbolico: basti pensare a quanta attenzione richiede la revisione editoriale dei testi, e alla facilità con cui gli errori di battitura sfuggono alla rilettura – perché il significato appare all’occhio prima ancora della sua raffigurazione fisica. La scrittura alfabetica schiude lo spazio logico come evidenza percettiva, esibisce la dimensione dell’essere che è sottratta alla contingenza dello spazio e del tempo, che si dilata nell’universalità e nella necessità, e che è la protagonista della filosofia di Platone. Le idee hanno scavato un’interiorità nella vita degli individui, e hanno sostenuto la nascita della comunità scientifica: la verità privata e la verità pubblica, l’articolazione della loro distinzione e della loro unità, sono estensioni impreviste dello sviluppo tecnologico subito dai meccanismi di annotazione del linguaggio.
3 TRACCE
Le procedure di redazione e di lettura nell’Atene del V secolo non somigliavano di sicuro a quelle dei nostri giorni; tuttavia la rivoluzione avviata dalla tecnologia della scrittura nella Grecia antica ha contribuito a configurare la forma stessa della soggettività occidentale, così come ancora oggi la sperimentiamo. Ma anche questo scavo nell’archeologia dei sistemi di produzione documentale non mostra in modo abbastanza radicale il doppio legame che si stringe tra processi di ominazione e tecnologia.
Jacques Derrida e Bernard Stiegler ampliano la nozione di scrittura per includere una serie di fenomeni più varia, il cui valore consiste nel registrare programmi di azioni, che vengono archiviati e resi disponibili da una generazione all’altra. In questo senso anche la scheggiatura della selce, la preparazione di ogni genere di manufatti, permette di conservare le tracce delle operazioni con cui è avvenuta la loro realizzazione, e quelle della loro destinazione. L’innovazione non è una galleria di episodi disparati, ma si dispiega in gruppi tecnici, che dislocano lo stesso principio fisico in diversi contesti: la ruota per esempio sollecita la trasformazione dei mezzi di trasporto, ma decreta anche la nascita del tornio e quella della cisterna. La tecnica, come il linguaggio, sono artificiali, ma non «capricciosi»: l’organicità della realtà costruita contribuisce a elaborare l’ordinamento della ragione, che è sia logos, sia kosmos. Ma questa filogenesi culturale è il sintomo di due processi che sanciscono la differenza, e la distanza, dell’uomo da ogni altra creatura.
Il primo è testimoniato dalle indagini di paleontologia, che provano la collaborazione del fattore biologico e di quello tecnologico nell’evoluzione del sistema nervoso centrale dell’homo sapiens. La lavorazione della pietra e del legno non è stata avviata quando l’evoluzione fisiologica poteva dirsi conclusa, ma ha contribuito allo sviluppo cerebrale, rendendo l’espansione della massa neuronale e la raffinatezza nel trattamento dei materiali, insieme alla la complessità nella collaborazione dei gruppi sociali, due percorsi che si rispecchiano, si modellano e si rappresentano in modo reciproco.
Il secondo tenta una fondazione trascendentale di ciò che l’archeologia espone sul piano dei fatti. Nella ricostruzione del confronto di Leroi Gourhan con la descrizione speculativa che Rousseau schizza dell’uomo originario, Stiegler evidenzia che entrambi gli autori devono supporre un salto tra l’ominide ancora senza linguaggio, e l’essere umano compiuto, con una razionalità in grado di esprimersi in termini di simboli universali. La ragione, la tecnica (e il linguaggio come prima tecnica) compaiono tutti insieme, dal momento che sgorgano dalla stessa istanza capace di individuare l’uomo e distinguerlo da tutti gli altri esseri viventi: la consapevolezza della propria morte, e l’assunzione di tutte le iniziative possibili per dilazionarne l’imminenza. Da questo progetto di differimento scaturiscono la storia e le storie; per questo ogni linguaggio è a suo modo un programma di azione, che deve disporre già sempre di un carattere di ripetibilità e di universalità, e per questo ogni tecnica e ogni linguaggio sono una scrittura che plasma al contempo la realtà esterna e la soggettività del suo esecutore.
Non esiste una natura umana, e nessun ominide che sia identico all’uomo – solo privo di tecnica e di linguaggio, prima del salto che invera il miracolo della cultura. Né esiste un’essenza dell’umanità che preceda e che sia la fonte dei sistemi simbolici e delle procedure operative, che si succedono nelle epoche della storia, e di cui potremmo sbarazzarci o che possiamo implementare, senza esserne modellati nel profondo. La storia e le differenze delle scienze e delle tecniche sono anche il dispiegamento della natura umana nella varietà delle forme e delle identità in cui – soltanto – essa può assumere esistenza concreta.
BIBLIOGRAFIA
Derrida, Jacques, Della Grammatologia, trad. it. a cura di Gianfranco Dalmasso, Jaka Book, Milano 2020.
Havelock, Eric, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it. a cura di Mario Capitella, Laterza, Bari 2019.
Innis, Harold, Imperi e comunicazione, trad. it. di Valentina Lovaglio, Meltemi, Roma 2001.
Farinelli, Franco, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003.
Leroi-Gourhan, André, L’uomo e la materia, trad. it. a cura di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1977.
Rousseau, Jean-Jacques, Discorso sull’origine della disegueglianza, trad. it a cura di Diego Giordano, Bompiani, Milano 2012.
Stiegler, Bernard, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo, trad. it. a cura di Claudio Tarditi, Luiss University Press, Roma 2023.
Todorov, Tzvetan, La conquista dell’America. Il problema dell’Altro, trad. it. a cura di Aldo Serafini, Einaudi, torino 2014.
Eco-ansia - La crisi ecologica tra medicalizzazione e politicizzazione
ECO-ANSIA: TRA DISAGIO PSICHICO E SINTOMO POLITICO
Negli ultimi anni, la crisi ecologica ha prodotto un'ondata di emozioni collettive che ridefiniscono il modo in cui le persone vivono il proprio rapporto con il mondo. Tra queste emozioni, l’eco-ansia si impone come una delle più diffuse e significative. Spesso descritta come una “paura cronica della fine del mondo” o come uno stato di angoscia legato al futuro del pianeta, l’eco-ansia è rapidamente entrata nel lessico della psicologia e dei media, fino a essere talvolta trattata come una vera e propria patologia da gestire individualmente[1].
Tuttavia, ridurre l’eco-ansia a un disturbo mentale rischia di oscurare il suo significato più profondo. Il pericolo non è solo quello di medicalizzare un’emozione condivisa, ma anche di depoliticizzarla - trasformando una risposta motivata dalla consapevolezza di una crisi reale in un problema personale da contenere. In questo senso, parlare di eco-ansia significa entrare nel cuore della tensione culturale, politica ed esistenziale verso la crisi climatica.
UN’EMOZIONE RADICATA IN UN’EPOCA
L’eco-ansia non nasce nel vuoto. È il frutto di un’epoca segnata da disastri ambientali, disuguaglianze globali e una crescente percezione dell’irreversibilità della crisi climatica. In molti casi, questa ansia non è legata a esperienze dirette di catastrofe, ma alla consapevolezza della loro imminenza, che si traduce in un senso di incertezza paralizzante. Si tratta, in altri termini, di una forma di disagio che nasce dalla difficoltà di immaginare un futuro vivibile.
A questo proposito, il pensiero dell’antropologo Ernesto De Martino offre una chiave di lettura particolarmente illuminante. De Martino parlava di “crisi della presenza” per indicare quei momenti in cui un individuo o una collettività perdono la capacità di situarsi nel mondo con continuità, agire con intenzionalità, e proiettarsi nel futuro. Ne La fine del mondo (1977), De Martino indaga la percezione dell’apocalisse come forma radicale di crisi della presenza, in cui il mondo perde senso e coerenza. L’apocalisse, per l’antropologo italiano, non era solo la fine materiale del mondo, ma un’esperienza culturale e simbolica di disintegrazione: è la perdita di senso, il collasso dei riferimenti storici, etici e affettivi che permettono agli individui di “esserci” nel mondo. L’apocalisse, in questa prospettiva, è una minaccia interna alla cultura: accade quando la struttura simbolica che tiene insieme l’esperienza umana viene meno, lasciando spazio all’angoscia, alla paralisi, alla perdita di futuro.
Questa riflessione è sorprendentemente attuale nel contesto dell’eco-ansia. Molti giovani oggi vivono una forma di apocalisse simbolica: la percezione che il futuro sia compromesso dal collasso ecologico genera sentimenti di impotenza, paura e smarrimento. Come nella crisi della presenza descritta da De Martino, anche l’eco-ansia è segnata da un’interruzione del senso e della fiducia nella continuità del mondo. Rileggere De Martino alla luce della crisi ecologica significa dunque riconoscere che la posta in gioco non è solo ambientale, ma profondamente culturale e antropologica: è la possibilità stessa di abitare il mondo che viene messa in questione. L’eco-ansia, in questa prospettiva, è molto più di uno stato mentale: è il sintomo di una frattura storica, culturale ed esistenziale che mette in discussione il legame tra persone, ambiente e futuro.
IL RISCHIO DELLA MEDICALIZZAZIONE
Negli ultimi anni, l’eco-ansia è stata sempre più spesso affrontata come una condizione psicologica da trattare clinicamente: terapie, tecniche di mindfulness, strategie di coping individuale. Sebbene tali risposte siano necessarie e possano offrire sollievo, concentrarsi esclusivamente sulla loro promozione rischia di generare un duplice effetto negativo. Da un lato, individualizzano un problema collettivo, attribuendolo alla sensibilità o fragilità della singola persona. Dall’altro, distolgono l’attenzione dalle cause strutturali della crisi climatica, alimentando l’idea che l’unica risposta possibile sia l’adattamento psicologico e non la trasformazione sociale.
Questo processo di medicalizzazione non è nuovo. Come mostrano le critiche mosse da studiosi e studiose della sociologia critica, la tendenza a psichiatrizzare forme di disagio legate a condizioni sociali ingiuste è un tratto ricorrente della modernità. In questo caso, però, l’effetto è ancora più pericoloso: nel trattare l’eco-ansia come un disturbo da curare, si contribuisce a rendere “normale” l’anomalia ecologica, neutralizzando la sua carica potenzialmente sovversiva.
UN’EMOZIONE POLITICA
L’eco-ansia, al contrario, può essere interpretata come una forma di sensibilità ecologica e politica. Si tratta di un’emozione che nasce dall’inconciliabilità tra la gravità della crisi ecologica e la lentezza - o l’inazione - delle risposte istituzionali. Non è un caso che molti giovani dichiarino di sentirsi traditi dalla politica e impotenti di fronte a un sistema economico che continua a produrre disastri ambientali pur conoscendone gli effetti[2]. L’eco-ansia è, in questo senso, una reazione ragionevole, persino lucida, a un contesto che oscilla tra apocalisse annunciata e immobilismo strutturale.
Movimenti come Fridays for Future, Ultima Generazione o Extinction Rebellion hanno fatto di questa emozione un motore di mobilitazione. Le loro azioni performative—come i blocchi stradali o le proteste simboliche—possono essere lette come rituali collettivi per rielaborare la crisi della presenza. Invece di fuggire dall’eco-ansia, questi movimenti la mettono in scena, la condividono e la trasformano in linguaggio politico. Così facendo, restituiscono all’ansia la sua dimensione culturale e collettiva, sottraendola alla sfera dell’intimo e del patologico.
CURA, SPERANZA, APPARTENENZA
Se l’eco-ansia è il segnale di una frattura nel rapporto con il mondo, la risposta non può che passare attraverso una forma di “cura del legame”. Non si tratta solo di proteggere gli ecosistemi, ma di rigenerare i significati condivisi, di ricostruire le condizioni per sentirsi parte di un mondo abitabile. In questo senso, le comunità ecologiche, le reti di mutualismo climatico e le esperienze di resistenza ambientale rappresentano tentativi di produrre nuove forme di appartenenza, nuove narrazioni, nuove temporalità.
L’eco-ansia non va repressa né semplicemente gestita. Va ascoltata come un sintomo, sì, ma non di un disagio mentale: di una crisi epocale. È un’emozione che ci obbliga a interrogarci su cosa significa “stare al mondo” oggi, su quali futuri siano ancora immaginabili, e su come ricostruire un senso di presenza che non escluda la speranza.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Clayton, S. D., Pihkala, P., Wray, B., & Marks, E. (2023). Psychological and emotional responses to climate change among young people worldwide: Differences associated with gender, age, and country. Sustainability, 15(4), Article 3540. 10.3390/su15043540
De Martino, E. (1977). La fine del mondo, Einaudi, Torino.
Kałwak, W., & Weihgold, V. (2022). The relationality of ecological emotions: An interdisciplinary critique of individual resilience as psychology’s response to the climate crisis. Frontiers in psychology, 13, 823620. 10.3389/fpsyg.2022.823620
[1] Per un approfondimento su questa controversia vedi Kałwak e Weihgold (2022).
[2] Vedi la ricerca di Clayton e colleghi (2023).
Politiche della montagna - Il conflitto geotermico sul Monte Amiata tra pianificazione su larga scala e modi di vita locali
La geotermia è generalmente considerata una fonte di energia rinnovabile e sostenibile, poiché sfrutta il calore naturale della Terra, che dal nucleo si diffonde attraverso il mantello e la crosta fino alla superficie. Questa energia può essere impiegata sia per la produzione di elettricità sia per il riscaldamento. In Italia, tuttavia, il caso del Monte Amiata, in Toscana, rappresenta un esempio emblematico di conflitto tra sostenibilità ambientale, sviluppo energetico e diritti delle comunità locali. Situato tra le province di Grosseto e Siena, il Monte Amiata è un ex vulcano che ospita impianti geotermici gestiti da ENEL Green Power. La geotermia ha una lunga tradizione in Toscana, con i primi impianti costruiti nei primi anni del Novecento a Larderello (Pisa). Se in alcune aree della regione questa forma di energia è stata considerata un'opportunità di sviluppo, sul Monte Amiata ha suscitato una forte opposizione. Tale conflitto si è intensificato ulteriormente dopo che la Regione Toscana ha annunciato nuovi piani per espandere la costruzione di centrali geotermiche sul territorio. Le principali preoccupazioni riguardano l'impatto ambientale e sanitario, poiché le emissioni di sostanze come arsenico, mercurio e anidride carbonica sollevano dubbi sulla sicurezza della popolazione e sulla tutela della biodiversità locale.
IL DIBATTITO SCIENTIFICO: DATI E INTERPRETAZIONI CONTRASTANTI
Le principali controversie legate alla geotermia sul Monte Amiata riguardano tre aspetti: 1) l'impatto ambientale degli impianti; 2) le conseguenze sulla salute della popolazione; 3) gli effetti sull’economia locale.
Le associazioni e gli attivisti contestano la presunta sostenibilità della geotermia nella zona, denunciando il rilascio in atmosfera di sostanze inquinanti come arsenico, idrogeno solforato, mercurio e grandi quantità di CO₂.
Sul piano sanitario, le preoccupazioni sono aumentate dopo la pubblicazione di uno studio del CNR di Pisa (ARS Toscana 2010), che ha evidenziato nei comuni del Monte Amiata con attività geotermiche un tasso di mortalità maschile superiore di circa il 13% rispetto ai comuni vicini. Tuttavia, ENEL, l’amministrazione regionale e alcune associazioni tecniche negano una correlazione diretta tra queste statistiche e la produzione geotermica. In risposta alle proteste, ENEL ha introdotto nei suoi impianti i filtri "AMIS", progettati per ridurre le emissioni di mercurio e idrogeno solforato. Tuttavia, le associazioni ambientaliste ritengono che questi filtri non siano sufficientemente efficaci nell’eliminare molte altre sostanze inquinanti.
Sul piano economico, gli oppositori della geotermia temono che lo sfruttamento energetico comprometta le risorse naturali e il paesaggio, mettendo a rischio il turismo e le attività agricole, pilastri dell’economia locale. Il Monte Amiata è infatti un’area di grande valore paesaggistico e agricolo, nota per la produzione di vino, olio, castagne e altri prodotti tipici. Secondo i critici, la geotermia ha avuto un impatto minimo sull’occupazione locale – contrariamente a quanto sostenuto da ENEL e dalla Regione Toscana – ma ha invece danneggiato i settori economici tradizionali della zona.
LE RADICI DEL CONFLITTO: DIVERSI TIPI DI ATTACCAMENTI AL TERRITORIO
Oltre agli aspetti scientifici, il dibattito sulla geotermia del Monte Amiata ha una forte dimensione sociale e politica. Le comunità locali, organizzate in comitati, esprimono un profondo senso di solastalgia (Lampredi, 2024) – l'angoscia di non sentirsi più a casa pur essendo ancora a casa, causata dal degrado o dalla trasformazione dell’ambiente naturale a cui una persona è emotivamente legata, spesso dovuta a cambiamenti climatici, industrializzazione o disastri ambientali. La percezione di essere escluse dai processi decisionali ha alimentato il conflitto, rafforzando la sfiducia nei confronti delle istituzioni e delle aziende coinvolte.
Sul piano politico, la Regione Toscana ha continuato a sostenere l’espansione della geotermia, minimizzando il conflitto e definendolo un “non-conflitto”. L'opposizione locale è stata spesso ridotta a una reazione emotiva e classificata come un caso di sindrome NIMBY (Not In My Back Yard, "Non nel mio cortile"). Tuttavia, le proteste e le azioni legali intraprese dai comitati locali hanno rallentato l’approvazione di nuovi impianti e portato la questione al centro del dibattito pubblico.
Per comprendere il conflitto, è fondamentale considerare i diversi legami che le parti coinvolte hanno con il territorio. Gli oppositori della geotermia sono spesso agricoltori, operatori termali, proprietari di agriturismi e piccoli imprenditori, la cui sussistenza dipende dalla tutela dell’ambiente locale. Per loro, il Monte Amiata non è solo una risorsa economica, ma un luogo profondamente legato alla loro storia familiare e alla loro identità. Al contrario, i promotori della geotermia, che detengono un maggiore potere decisionale, affrontano la questione da una prospettiva principalmente tecnica. Il conflitto riflette quindi anche uno scontro tra coinvolgimento diretto e distacco dal territorio, influenzando il modo in cui la risorsa geotermica viene promossa, accolta, contrastata e negoziata
LA "MONTAGNA MADRE": UN LEGAME ANTICO E SPIRITUALE
Già nell’antichità, gli abitanti del luogo chiamavano il Monte Amiata “Montagna Madre” per il sostentamento che ha garantito alle famiglie della zona per generazioni, grazie alla ricchezza della sua biodiversità. Inoltre, il suo aspetto spirituale è di primaria importanza, poiché il calore della terra ha ispirato un legame profondo e secolare tra la montagna e i suoi abitanti. L'idea della Montagna Madre ha origini antiche e affonda le sue radici non solo nella storia cristiana del luogo, ma anche in quella etrusca. Per gli Etruschi, infatti, la vetta del Monte Amiata era considerata la dimora del dio Tinia, assimilabile a Zeus nella mitologia greca e a Giove in quella romana. L'immagine sottostante (figura 1) raffigura l’Allegoria del Monte Amiata, un dipinto di Nasini situato nell'abbazia di Abbadia San Salvatore, uno dei borghi più attivi dal punto di vista geotermico della montagna.
Figura 1: “Allegoria del Monte Amiata", F. Nasini, abbazia di San Salvatore (foto di Cesare Moroni)
Il Monte Amiata ospita inoltre Merigar, uno dei più importanti centri tibetani d’Europa. Il suo nome, che significa residenza della montagna di fuoco, richiama esplicitamente il passato vulcanico della zona. La montagna è quindi un luogo di culto per diverse tradizioni religiose, non solo cristiane, tutte in qualche modo legate al calore sotterraneo che caratterizza il territorio.
È impossibile non notare l’evidente legame simbolico tra il calore della montagna, che per generazioni ha nutrito la biodiversità e garantito la sussistenza delle comunità locali, e il suo sfruttamento attuale per alimentare le centrali geotermiche, inserendolo in logiche economiche più ampie.
CONCLUSIONE
Il caso della geotermia sul Monte Amiata dimostra che la transizione ecologica non può essere ridotta a una semplice questione tecnica ed economica, ma deve includere anche le percezioni e le esigenze delle comunità locali. Il dibattito scientifico rimane aperto, con studi che offrono dati contrastanti sugli impatti ambientali, economici e sanitari degli impianti geotermici.
Per evitare conflitti e garantire una transizione energetica equa e sostenibile, è fondamentale adottare processi decisionali inclusivi, che favoriscano un confronto trasparente tra esperti, istituzioni e cittadini. Solo attraverso un approccio partecipativo sarà possibile trovare un equilibrio tra innovazione tecnologica, tutela ambientale e giustizia sociale
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ARS Toscana. 2010. Geotermia e Salute. https://www.ars.toscana.it/geotermia-e-salute/dati-estatistiche/1728-progetto-di-ricerca-epidemiologica-sulle-popolazioni-residentinellintero-bacino-geotermico-toscano-ottobre-2010.html
Lampredi, G. (2024). Solastalgia as Disruption of Biocultural Identity. The Mount Amiata Geothermal Conflict. Society & Natural Resources, 37(11), 1508-1527.
Ecologie delle evidenze in vaccinovigilanza: quali esperienze (non) si trasformano in conoscenza?
Le pratiche vaccinali sono generalmente rappresentate nei discorsi pubblici, nelle discussioni mediatiche, ma anche nei documenti ufficiali nazionali e sovranazionali, come una delle forme di tutela della salute pubblica più sicure ed efficaci. Vero e proprio emblema del successo biomedico – sino a diventarne spesso una metonimia - le vaccinazioni operano “salvando innumerevoli vite” (Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2023:4) e assicurando un rapporto “rischi/benefici particolarmente positivo” (ivi: 10). La sicurezza, in particolare, sarebbe garantita da un sistema di vaccinovigilanza, anche post-marketing, particolarmente efficiente: esso si articola attorno a complessi apparati burocratico-amministrativi che coinvolgono molteplici infrastrutture e soggetti diversificati.
Secondo le indicazioni dell’OMS, infatti, ogni AEFI (Adverse Event Following Immunization) – ossia qualsiasi episodio sfavorevole verificatosi dopo la somministrazione di un vaccino, non necessariamente causato dal vaccino stesso – andrebbe riportato al sistema di sorveglianza preposto.
SEGNALAZIONI DI AEFI IN ITALIA: TRA SICUREZZE E CRITICITA’
In Italia, l’organo deputato a questa sorveglianza è la Rete Nazionale di Farmacovigilanza (RNF), connessa, da una parte, al SSN (Sistema Sanitario Nazionale) e, dall’altra, alle reti di farmacovigilanza sovranazionali. Solo in seguito alla segnalazione, l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) è tenuta a valutare la possibile correlazione causale tra l’AEFI e la vaccinazione somministrata. Tuttavia, in Italia, la RNF è un sistema di segnalazione passivo, nel senso che la segnalazione è volontaria. Per cui i medici, così come i cittadini, possono inserire spontaneamente un AEFI sul sito dell’AIFA. La vaccinovigilanza strutturata in questo modo permetterebbe di “raccogliere, monitorare e investigare continuamente l’eventualità di eventi avversi (anche imprevedibili) ed è in grado di rilevare anche potenziali segnali di allarme, utili a rivalutare il rapporto beneficio/rischio del vaccino e a gestire gli eventuali rischi per la salute” (ivi: 14).
In quanto processi socio-culturali complessi, tuttavia, queste pratiche meritano di essere esplorate in profondità, tenendo in considerazione anche i discorsi che ne evidenziano limiti e lacune e che, spesso, sono frettolosamente derubricati come “no-vax” o “anti-vax”. Prendere in considerazione tali discorsi è un passo fondamentale non solo per comprendere come sfiducia e diffidenza possano generarsi proprio all’interno di quelle azioni di “vigilanza” che vorrebbero invece produrre affidabilità e sicurezza, ma anche perché gli sguardi critici si rivelano spesso essere strumenti utili per cogliere alcune antinomie intrinseche al sistema di produzione del sapere stesso.
VISSUTI IMMOBILIZZATI IN UN’ECOLOGIA DELLE EVIDENZE
Nel corso della ricerca etnografica che ho condotto sulle pratiche vaccinali e, in particolare, sul danno da vaccino (soprattutto in relazione all’età pediatrica, Lesmo 2024), alcune narrazioni tornavano, ostinate, a tormentare i racconti di molti genitori. “Allora dopo la seconda vaccinazione, proprio… è la catastrofe” mi ha raccontato una mamma. “Dopo che ha fatto il richiamo è cambiato tutto”, ha ricordato un’altra madre. Di narrazioni simili, rievocate con emozione da madri e padri, ne ho raccolte numerose. Nonostante ciò, un’unica famiglia aveva, faticosamente, segnalato “l’episodio sfavorevole” all’AIFA. La maggior parte degli altri genitori da me incontrati non era stata informata della possibilità di farlo in autonomia; in due casi i miei interlocutori ne acquisirono piena consapevolezza solo durante i nostri incontri. D’altra parte, i genitori si erano spesso rivolti ai pediatri evidenziando l’accadimento e, in almeno due situazioni, i medici avevano immaginato una possibile correlazione tra l’evento e le vaccinazioni. In nessuna di queste situazioni, tuttavia, l’evento era stato segnalato all’AIFA.
Perché?
Il senso di questi vuoti – questi passaggi mancati - non può restare sotto traccia. Renderli visibili diviene fondamentale perché permette di intercettare quei momenti in cui l’esperienza del singolo e il sistema volto a tradurre quest’ultima in un sapere condiviso non riescono a incontrarsi. Espulse e deviate verso traiettorie divergenti, le esperienze di alcuni soggetti non possono così contribuire alla produzione di una conoscenza di cui pure riconoscerebbero il valore (Lello, 2020). L’antropologo Charles Briggs (2016) ha definito “ecologie delle evidenze” quei processi per cui alcune esperienze individuali sono chiamate ad esistere all’interno del sapere scientifico, mentre altre ne sono rigettate, declassate “allo stato di ignoranza, superstizione, o patologia”, o finanche rese “impensabili” (ivi: 151). Quali ecologie delle evidenze vengono dunque attivate entro i processi di vaccinovigilanza, e specificamente nelle pratiche di segnalazione degli eventi avversi? Quali antinomie del sistema esse rendono manifeste?
CIRCOLARITA’ EPISTEMICHE
La maggior parte dei medici incontrati sul campo ha rilevato come, effettivamente, la segnalazione di eventi avversi non avvenga di frequente. Se alcuni tra loro attribuivano questa difficoltà all’onerosità di un tempo-lavoro da situarsi tra una crescente burocratizzazione della pratica medica e la conseguente compressione degli spazi clinici – con il rischio di una riduzione nella qualità dell’assistenza ai pazienti – altri processi sono emersi più spesso, sino a delineare un’ecologia delle evidenze specifica. Essa opera in due diverse – e paradossali – direzioni.
Da una parte, i medici incontrati hanno sottolineato come disturbi “benigni” o “quadri non gravi” (l’innalzamento della temperatura, l’irritabilità, le reazioni cutanee locali o le convulsioni febbrili…) fossero “già noti” o finanche “attesi”. In quanto tali, si riteneva superfluo segnalarli. “Ci sono eventi avversi previsti e non sono neanche considerabili tali” spiegava una dottoressa. Queste esperienze, pertanto, venivano immobilizzate all’esterno del sistema di rilevazione.
D’altra parte, un’eguale immobilità interessava alcuni disagi importanti occorsi nel periodo di somministrazione vaccinale - quali ad esempio disturbi neuro-muscolari o psicomotori severi. In questo caso, la motivazione alla base dell’esclusione era, paradossalmente, opposta a quella delineata in precedenza: dal momento che la letteratura medico-scientifica in questi casi aveva già escluso ogni possibile correlazione con le vaccinazioni, sarebbe stato superfluo segnalare l’evento.
In questo modo, tuttavia, ciò che avrebbe dovuto garantire una rivalutazione costante del rischio associato a possibili eventi avversi, veniva pre-determinato a priori dalle interpretazioni già esistenti in relazione al rischio stesso. Questa circolarità epistemica, a tratti paradossale, non affiorava in un vuoto epistemologico, ma si radicava entro una gerarchia delle evidenze ben consolidata nell’Evidence Based Medicine. I livelli di evidenza qui definiti, infatti, collocano tra le prove più attendibili le revisioni sistematiche di studi clinici randomizzati; all’opposto, le opinioni e le esperienze cliniche degli esperti si collocano alla base di simile costruzione piramidale (Oxford Centre for Evidence-Based Medicine). Tale gerarchia, profondamente interiorizzata dai medici da me incontrati, non consentiva ad osservazioni basate su singole esperienze cliniche di contravvenire quanto già sostenuto in letteratura e, dunque, neanche di ritenerlo manifesto al punto da doverlo/poterlo segnalare.
In questo modo, tuttavia, il sistema di sapere tendeva a riprodurre sé stesso riconfermando quanto già definito e dirottando – o immobilizzando - al suo esterno esperienze che avrebbero potuto contribuire a sollecitarne un riesame. Tali esperienze venivano così ricondotte - e ridotte – allo stato di banalità, ovvietà, ignoranza.
Già Foucault, in fondo, aveva rilevato come “l’esterno di una scienza è più e meno popolato di quanto non si creda” (Foucault, 2004:17), costellato da tutto ciò che ogni disciplina “respinge oltre i suoi margini” (ibidem). Tuttavia, per molti genitori da me incontrati, vedersi convergere a forza verso una simile esteriorità escludeva contemporaneamente ogni possibile credibilità di un sistema orientato, invece, a produrre fiducia: esso si trasformava piuttosto in fonte di sospetto e biasimo nelle istituzioni tutte e nei loro discorsi.
BIBLIOGRAFIA
Briggs, Charles, L. 2016. “Ecologies of evidence in a mysterious epidemic.” Medicine Anthropology Theory 3(2):149-162.
Foucault M., 2004, L'ordine del discorso e altri interventi, Torino: Einaudi.
Lello, E., 2020, “Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax”, Rassegna Italiana di Sociologia, 3:479-507.
Lesmo, I., 2024, “Ecologie delle pratiche nella vaccinovigilanza italiana. Antinomie nel sapere vaccinale”, AM_Rivista della Società italiana di antropologia medica, 25(58):181-211,
Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2023, Piano nazionale Prevenzione Vaccinale PNPV 2023-2025.
Oxford Centre for Evidence-Based Medicine, https://www.cebm.ox.ac.uk/resources/levels-of-evidence/oxford-centre-for-evidence-based-medicine-levels-of-evidence-march-2009
Deus absconditus. L’emancipazione di Homo “sacer” - Seconda parte
IL CONCETTO DI “IMMATERIALE” E QUELLO DI “INTANGIBILE”
La scorsa volta abbiamo cominciato a esplorare le sopravvivenze del sacro nel mondo secolarizzato, che a torto s’immagina essere emancipato dalle istanze più arcaiche di Homo sapiens. Certamente il lettore di STS è informato dai protocolli congiunti di ragione, scienza e tecnica, il sacro essendo per lui al più un ricordo d’infanzia legato all’educazione scolastica e famigliare. Se un’indole religiosa ancora lo abita, è quella dell’agnostico/a. Ciò nondimeno, questo episodio della serie è dedicato a chiunque, pur professandosi ateo o agnostico, è persuaso che un mondo “immateriale” si accompagni a quello materiale, mostrando così come il sacro permei tuttora la sua concezione del mondo.
Per sconfiggere questa forma residuale di superstizione, certamente meno grave di quella religiosa ancorché altrettanto diffusa, cominciamo con l’esaminare l’uso linguistico del lemma “immateriale”. Non a caso esso è aggettivale, si pensi a espressioni quali “corpo immateriale”, “patrimonio immateriale”, “cultura immateriale”, ecc. Senza un campo d’applicazione concreto, non avrebbe ragion d’essere. Il sostantivo che di volta in volta il lemma parassita non si riferisce a un “ni-ente”, ma a un ente vampirizzato. Se l’intensione del concetto rimanda a enti inconsistenti di fatto inesistenti, la sua estensione si riferisce a espressioni linguistiche multiuso al servizio di utilizzatori persuasi che esistano due mondi. Quello di “immateriale” è un concetto figlio della superstizione dualistica, la quale a sua volta è debitrice del sacro. Se non è il caso di espungerlo dal vocabolario delle lingue umane, pena un impoverimento del mondo, certamente va bandito dall’orizzonte onto-epistemologico.
Al suo posto andrebbe utilizzato il concetto di “intangibile”, da cui “corpo intangibile”, “patrimonio intangibile”, “cultura intangibile”, ecc. L’equivoco che si insinua tra i due concetti non discende solo dalla sfera sacrale e da concezioni filosofiche superate, ma anche dalla serie di precondizioni materiali che ne sono alla radice. Sul banco degli imputati va convocata la natura eterogenea del mesocosmo terrestre, laddove immagini, suoni e odori si propagano attraverso un’atmosfera rarefatta e una forza gravitazionale debole. Quello che comunemente si ritiene “immateriale” è una rete inafferrabile di relazioni materiali a bassa densità, della quale partecipa la coscienza. La nostra impalpabile soggettività ci sembra abitare un corpo gettato in un mondo a sua volta conteso tra spirito e materia, una superstizione tanto ubiqua, quanto congenita.
Qualcuno obietterà che passi la materialità controintuitiva dell’aria, delle immagini, dei suoni e degli odori. Ma le emozioni, i sentimenti, le idee e la cultura non sono identificabili con alcun supporto materiale. Per eliminare ogni residuo spiritualista, è sufficiente applicare il concetto di intangibilità a ogni ambito della sfera spirituale. Prendiamo il più impalpabile degli enti, la mente. In polemica a distanza con il dualismo cartesiano, al giorno d’oggi si parla opportunamente di “mente estesa” (CLARK-CHALMERS 1998), tanto nell’alveo della filosofia analitica che, con qualche resistenza, in quello della filosofia continentale europea. Se l’estensione è disomogenea nello spazio e nel tempo, se una mente estesa è differentemente localizzata, allora è dis-locata. Essa consiste in un processo interamente materiale che evolve di corpo pensante in corpo pensante, depositandosi all’occorrenza su supporti inerti che attendono di essere animati. Nelle culture alfabetizzate, per esempio, poggia sui differenti media che ci hanno insegnato a leggere queste righe, e che assieme al resto si sono depositati in noi sub specie di informazione elettrochimica, non prima che colpissero i sensi attraverso luci, suoni, odori, sensazioni in genere. A ciò si unisce la voce che i significati declama prima di imparare a silenziarli nel pensiero o a trascriverli su un supporto, la quale necessita delle corde vocali per propagarsi. Non parliamo dell’esperienza di vita che la voce forgia. L’intero processo che fa capo a ciò che siamo è chiamato in causa, il quale altro non è se non la nostra mente estesa. Questo contribuisce a farla ritenere priva di quel corpo materiale che in effetti non ha, perché ne ha molti in relazione tra loro. Tra di essi, i significati, le idee e la cultura di cui la mente si sostanzia, tutti necessariamente materiali.
Chi, leggendo queste righe, si fosse persuaso che il monismo materialista è cosa buona e giusta, provi a ripensare a un solo ente immateriale: non ci riuscirà più. La sua nuova fede comporta l’abbandono di altri tre concetti indebiti: quello di riduzionismo, di panpsichismo e di creazione intelligente. Al monismo materialista non può che accompagnarsi una concezione emergentista in un mondo causalmente autonomo (cfr. ZHOK 2011). Assegnare una mente creatrice alla sostanza generalizzata significa far rientrare dalla finestra la divinità cacciata dalla porta, come la Pimpa che anima gli enti applicando loro un paio d’occhi. Sovrapporli agli oggetti quotidiani, ai feticci della divinità o all’universo mondo non fa alcuna differenza, se l’artefice è chi sovrappone. Quanto al riduzionismo, in aperta contraddizione è chi pretende di ridurre gli enti ai suoi costituenti non essendo a sua volta ridotto. In un mondo composito, a densità variabile e caratterizzato da organizzazioni spazio-temporali relativamente in/dipendenti, non si vede a quale livello si sia legittimati a fondare. Ritenere il microcosmo come il livello più autentico significa perdere di vista non solo il mesocosmo terrestre e chi lo abita, ma anche il macrocosmo. La danza delle galassie necessita anch’essa del vuoto quale pista da ballo, il quale non è immateriale, è vuoto e basta.
Insomma Dio è morto, Marx pure e anche l’immateriale sembra debba lasciarci.
NOTE
Clark, A. - Chalmers, D., The extended mind, Analysis, 58.1, January 1998, pp. 7-19.
Zhok, A., Emergentismo. Le proprietà emergenti della materia e lo spazio ontologico della coscienza nella riflessione contemporanea, ETS, 2011
Antropologia dell’IA - Stereotipi, discriminazioni di genere e razzismi
Da un twitter divenuto virale nel 2019 si è venuti a conoscenza del fatto che Goldman Sachs, una delle più importanti banche d’investimento del mondo, aveva escluso una potenziale cliente dall’accesso a una prestigiosa ed esclusiva Apple card in base a una profilazione erronea e discriminatoria. Il fatto si è saputo perché l’autore del twitter, un danese sviluppatore di software, è il marito della persona a cui era stata negata la card, che lui invece aveva ottenuto pur guadagnando meno di lei. In sostanza, la donna per ragioni opache e non trasparenti era stata considerata non idonea per quel determinato prodotto.
Discriminazioni di genere
Se non ci fosse stato quel twitter non si sarebbe saputo nulla di tutto ciò, ovvero di una sistematica e silenziosa discriminazione di genere. La vicenda rappresenta una plastica esemplificazione della nota metafora del cosiddetto “soffitto di cristallo”: la possibilità che una donna ha di poter scalare il potere o di avere pari opportunità di carriera è spesso preclusa da una sorta di soffitto trasparente, che costituisce una barriera invisibile eppure potente e limitante. Per ragioni imperscrutabili, non esplicitate chiaramente e senza la possibilità di entrare nel merito, gli algoritmi rischiano di attuare politiche discriminatorie, che si supponeva dovessero appartenere al passato e non alle tecnologie del futuro. La rappresentazione, l’interpretazione e la codificazione degli esseri umani attraverso dataset di training e le modalità con cui i sistemi tecnologici raccolgono, etichettano e utilizzano questi materiali sono aspetti decisamente cruciali nel riprodurre stereotipi, pregiudizi, forme di discriminazione di genere o razziale. I bias trovano sempre una strada per inserirsi nel sistema, o meglio in un certo senso i bias fanno parte del sistema. A questo proposito, è noto che fino al 2015 Amazon reclutasse i suoi futuri dipendenti tramite un sistema che si era “allenato” sui curricula, in genere di uomini, ricevuti nei dieci anni precedenti. I modelli avevano quindi imparato a raccomandare gli uomini, autoalimentando e amplificando le disuguaglianze di genere dietro la facciata di una supposta neutralità tecnica. Tanto per fare un esempio, il curriculum di un aspirante dipendente di Amazon veniva scartato se al suo interno conteneva la parola “donna”, perché il sistema aveva imparato a gestire di dati così (Dastin 2018).
Il razzismo dell’IA
L’IA produce e riflette le relazioni sociali, una determinata visione del mondo e, inevitabilmente, i rapporti economici e di potere, visto il notevole capitale in termini finanziari che occorre per investire in essa. Basti pensare che i sistemi di riconoscimento facciale, che contribuiscono fortemente a etichettare la realtà e gli umani, derivano dai primi tentativi sperimentali della Cia e dell’FBI negli anni Sessanta, passando per i database basati sulle immagini dei carcerati, per arrivare all'epoca attuale, dove i principali sistemi di questo tipo sono alimentati da volti e scatti liberamente messi in circolazione sui social (Crawford 2021:105-135). Ovviamente l'accresciuta complessità tecnologica e il suo considerevole impatto sociale hanno fatto emergere anche i tratti più controversi dell’IA, a cominciare dai pregiudizi automaticamente inseriti nei dataset utilizzati per nutrire l'intelligenza artificiale. Si pensi al fatto che c’è stato un lungo dibattito sul riconoscimento facciale, in cui si è visto che è più difficile distinguere i neri, proprio perché i dataset di training si fondano prevalentemente su materiale fotografico di bianchi, raccolto e categorizzato soprattutto da bianchi.
Le differenze razziali, culturali e di genere sono elementi che non si limitano ad affiancarsi o a sommarsi uno sull’altro, ma interagiscono producendo nuove e incomparabili forme di segregazione e di assoggettamento, che si stratificano su vecchi e consumati stereotipi e discriminazioni. A questo riguardo, sui media ha molto circolato la storia di un’afroamericana che non riusciva ad avere il mutuo per acquistare una casa e non si capiva perché, visto che aveva un buon lavoro in una università americana; finché non è apparso chiaro che ciò dipendeva dal quartiere afroamericano in cui abitava e dal suo essere afroamericana (Glantz, Martinez, 2018). In pratica, l’IA acuiva le asimmetrie già esistenti riguardo i singoli gruppi umani a partire dalla loro supposta affidabilità in termini creditizi. Limitando le chance di un futuro migliore si perpetua e “naturalizza” un razzismo esistente e conclamato seppure mai apertamente dichiarato.
Secondo la scienziata esperta in intelligenza artificiale Timnit Gebru e la studiosa di linguistica computazionale Emily Bender un gigante come Google riafferma e ratifica continuamente le disuguaglianze. Ad esempio, il suo programma di riconoscimento facciale è meno accurato nell’identificare le donne e le persone di colore (Hao 2020). Gli algoritmi, concepiti a partire da tecnologie innovative, possono convalidare forme di razzismo istituzionalizzato. Addirittura in uno studio dell’Università del Maryland è stato riscontrato che in alcuni software di riconoscimento facciale le emozioni negative vengono maggiormente attribuite ai neri piuttosto che ai bianchi (Crawford, 2021:197).
Il contesto socio-culturale dell’IA
Lo sviluppo esponenziale dell’IA ha in qualche maniera obbligato a ragionare su determinati aspetti, come quelli per così dire più umani delle machine learning. Gli stereotipi, le forme di discriminazione e di razzismo infatti vengono automaticamente appresi e inseriti nei dataset, ma questi ovviamente erano e sono già presenti in internet e nella realtà quotidiana al di là della IA. Per cui bisogna tornare a monte, appunto. Di cosa si nutre l’IA? Chi costruisce l’intelligenza artificiale? Perché è ovvio che non si tratta di semplicemente di correggere errori una volta che emergono, come il caso dei curricula di Amazon o della Apple card di Goldman Sachs. Le immagini inserite nei dataset basati sulla visione artificiale per il riconoscimento degli oggetti, nel categorizzare i generi si ritrovano a organizzare, etichettare ad esempio foto in cui gli uomini sono spesso stati fotografati outdoor presi in qualche attività sportiva e con oggetti relativi allo sport e le donne prevalentemente in cucina con qualche utensile relativo al cucinare (Wang, A., Liu, A., Zhang, R., Kleiman, A., Kim, L., Zhao, D.,Shirai, I. Narayanan, A. Russakovsky, O., 2021: 9). Questo dato è di per sé rilevante e in qualche modo va analizzato perché i bias sono già incapsulati nel sistema.
Fei-Fei Li, un’esperta di visione artificiale che si occupa anche di debiasing, come ridurre i bias che i dataset tendono ad inglobare, afferma che le conseguenze della attuale situazione sono “dataset non sufficientemente diversificati, compreso quello di ImageNet [a cui la stessa Li ha lavorato, n.d.a.], esacerbate da algoritmi testati male e decisioni discutibili. Quando internet presenta un’immagine prevalentemente bianca, occidentale e spesso maschile della vita quotidiana, ci resta una tecnologia che fatica a dare un senso a tutti gli altri” (Li, 2024: 253). I dataset riflettono anche una concezione del mondo fortemente ancorata a quella di coloro che ci lavorano.
È interessante sapere che, secondo il Guardian, nel team di Sam Altman il 75% dei dipendenti di OpenAI è uomo (Kassova, 2023). E la domanda che inevitabilmente sorge è: quali sono le conseguenze di una IA sviluppata senza la piena partecipazione delle donne, delle minoranze e di Paesi non occidentali? Perché allo stato attuale è ovvio che la loro mancanza di rappresentanza nel settore tech ha come conseguenza che gli algoritmi funzionano male con coloro che non sono bianchi e maschi.
L’IA e il marchio del capitalismo
Le altre domande altrettanto cruciali sono: per chi è fatta l’IA? Chi possiede i dataset e che uso ne fa? E qua ovviamente entra in gioco anche la democrazia sulla trasparenza e l’etica della non discriminazione. Uno degli elementi chiave riguardo i dati è che sono presi senza contesto e senza consenso. Nick Couldry e Ulises Mejias (2022) fanno un interessante parallelismo tra epoca coloniale e società attuale. Se nell’epoca del colonialismo, il potere agiva in maniera estrattiva, ovvero i colonizzatori spoliavano i paesi colonizzati di materie prime preziose e di forza lavoro (tramite lo schiavismo), i corrispettivi contemporanei per profitto estraggono dati senza chiedere il consenso ai legittimi possessori, come nel caso di Midjourney che, come recentemente emerso in una class action promossa da alcuni artisti americani, ha utilizzato le opere di 16.000 artisti senza chiedere il consenso e aggirando il copyright. I maggiori giganti tecnologici sono costantemente e voracemente in cerca di enormi quantità di dati per alimentare e allenare i sistemi di intelligenza artificiale (Metz, C., Kang, C., Frenkel, S., Thompson, S.A., Grant, N., 2024). Internet è stato concepito da coloro che operano nel settore dell’IA come una sorta di risorsa naturale, disponibile da cui si possono estrarre dati a piacimento. Il colonialismo dei dati è un ordine sociale emergente basato su un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo a beneficio di alcune élite, come era avvenuto in passato con il “classico” colonialismo. C’è una continuità profonda nei metodi di acquisizione, negli atteggiamenti mentali, nelle forme di esclusione e di preservazione del potere. È incredibile come ciò sia a volte incastonato in qualche biografia emblematica: Elon Musk, ad esempio, ha un padre che è stato proprietario di una miniera di smeraldi in Zambia. In famiglia la forma di colonizzazione si è solo evoluta con i tempi e con le tecnologie, ma il marchio è lo stesso.
L’intelligenza artificiale, come un tempo il colonialismo, genera valore in modo iniquo e asimmetrico, impattando negativamente su molte persone, non importa se le definiamo in termini di razza, classe o genere, o tramite l’intersezione di tutte queste categorie.
E renderla più inclusiva non sarà una battaglia facile.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Crawford, K. (2021), Né intelligente né artificiale: il lato oscuro della IA, Il Mulino, Bologna.
Couldry, N., Mejias, U.A. (2022), il prezzo della connessione: Come i dati colonizzano la nostra vita e se ne appropriano per fare soldi, Il Mulino, Bologna.
Dastin, J. (2018), “Amazon Scraps Secret AI Recruiting Tool That Showed Bias against Women”, in Reuters, October 11.
Glantz, A., Martinez of Reveal, E. (2018), “Kept out: How Banks Block People of Color from Homeownership, APnews, February 15.
Hao, K. (2020), “We Read the Paper That Forced Timnit Gebru Out of Google. Here’s What It Says”, in MIT Technology Review, December 4.
Kassova, L. (2023) “Where are All the ‘Godmothers’ of AI? Women’s Voices are not being Heard”, The Guardian, November 25.
Li, F.F, (2024), Tutti i mondi che vedo, Luiss University Press, Roma.
Metz, C., Kang, C., Frenkel, S., Thompson, S.A., Grant, N. (2024), “How Tech Giants Cuts Corners to Harvest Data for A.I.”, The New York Times, April 6.
Telford, T. (2019), “Apple Card algorithm sparks gender bias allegations against Goldman Sachs”, Washington Post, November 11.
Wang, A., Liu, A., Zhang, R., Kleiman, A., Kim, L., Zhao, D., Shirai, I. Narayanan, A. Russakovsky, O., (2021,“A Tool for Misuring and Mitigating Bias in Visual Dataset”, arXiv: 2004.07999v4 [cs.CV] 23 Jul 2021.
Un fiume norvegese, il governo e dei pescatori tradizionali - La conoscenza scientifica come forma di colonialismo?
Noi occidentali abbiamo imparato a dare per scontato che la conoscenza scientifica abbia un primato epistemologico sulle altre forme di conoscenza. Ma esistono anche delle conoscenze tradizionali che non sono formalizzate in teorie, concetti specifici, ma che possono avere una forte presa sulla realtà.
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Nel saggio “Indigeneity, science and difference: notes on the politics of how”, John Law e Solveig Joks (2019) analizzano una controversia coloniale riguardante la regolamentazione della pesca del salmone nel fiume Deatnu.
Da un lato c’è il governo norvegese che, con i suoi ricercatori e biologi, vuole imporre delle norme per preservare le popolazioni di salmoni attraverso la riduzione delle attività di pesca. Secondo il governo e i ricercatori, gli obiettivi di stoccaggio non venivano raggiunti e il numero di salmoni stava diminuendo.
Questo gruppo di scienziati finlandesi e norvegesi aveva raccolto statistiche, modellato stock ittici ed eseguito proiezioni demografiche; sulla base di questi elementi aveva elaborato delle regole rigide su chi può e chi non può pescare in questo fiume scandinavo, con quali tecniche, in quali periodi e in quale ora del giorno. Queste norme sono il prodotto di statistiche e proiezioni biologiche sulla popolazione ittica.
Dall’altro lato ci sono le popolazioni indigene dei Sàmi che abitano sulle rive del fiume: i Sami conoscono come si comporta il livello dell'acqua nella sua loro parte di Deatnu, conoscono l'ora del giorno più propizia, il momento della stagione più favorevole per pescare, le predisposizioni dei vari tipi di salmone, e come incidono la temperatura, il sole, il vento, la pioggia e la neve sulla pesca.
In altre parole, hanno pratiche e concezioni diverse del fiume e del salmone.
Inoltre, la cautela e il rispetto per il fiume e per il salmone, il senso del luogo, la modestia, sono valori fondamentali che orientano la loro pratica di pesca; ad esempio, non pescano più salmone del necessario, non contano i pesci che catturano (farlo sarebbe irrispettoso) e non pescano quando i salmoni stanno per riprodursi. Fanno affidamento su un tipo di conoscenza caratterizzata da un'avversione per le statistiche. Anche i pescatori Sàmi si preoccupano per il salmone, solo che non lavorano con i numeri, ma si chiedono: arriverà il salmone? Continueranno ad arrivare? E, se ne arrivano meno, perché?
Nonostante ciò, il governo norvegese ha adottato le norme prodotte dal gruppo di scienziati riducendo i periodi di pesca da 11 (nel 2016) a 4 (nel 2017).
Queste regole - però - impedivano ai Sami di pescare quando le condizioni erano giuste, oppure glielo impedivano in un’altra parte del fiume anche se lì le condizioni sono giuste ma non in quella dove loro abitavano; impedivano di pescare anche se lo stato del tempo e del fiume sono ottimali, o le attività degli altri pescatori e l’ottima pesca dell’ultimo periodo hanno fatto capire loro che quello è un buon momento per pescare.
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Il punto è che queste regole ignorano le competenze delle popolazioni locali e la loro più profonda preparazione perché le costringe a pescare in orari predeterminati e, a volte, inappropriati; oppure permettono di pescare quando invece non si può perché non c’è nessuno che ti può aiutare con le reti, oppure perchè l’acqua è troppo bassa o alta.
Gli autori dello studio mettono in luce l’asimmetria di potere tra le pratiche della biologia e le conoscenze ecologiche tradizionali dei Sami. La scienza dei biologi e ricercatori si basa sulla raccolta e l’elaborazione rigorosa di dati sistematici all'interno di un modello o ipotesi di ricerca, in grado di produrre un tipo di conoscenza oggettiva.
Quella dei Sàmi, invece, è un tipo di conoscenza in gran parte basata sull’esperienza, orale e visiva, intuitiva, e altamente qualitativa. Proprio per questo motivo viene marginalizzata.
Questo produce degli effetti più ampi.
In primo luogo, con la pesca limitata a quattro periodi all’anno, diventerà quasi impossibile per i giovani Sami imparare l’arte della pesca tradizionale, e questo la farà piano piano scomparire, insieme a quell’insieme di saperi e conoscenze sul come controllare una barca e maneggiare una rete, ma anche su come funziona il fiume, dove scorrono i canali profondi, dove è probabile che nuotino i salmoni. Tutto ciò richiede tempo, pazienza e pratica, ma con l’introduzione di queste regole tutto ciò viene loro tolto.
In secondo luogo, la scelta di adottare quelle norme ha una forte dimensione politica. Siamo di fronte a due modi differenti di assemblare la realtà. La modellazione scientifica della pesca mette in scena un modello fatto di meccanismi causali standard per spiegare le specificità di particolari fiumi, popolazioni e tassi di sfruttamento. In questo mondo non c’è spazio per le pratiche di pesca Sámi.
Gli autori parlano di un “soffocamento ontologico”, da parte del mondo delle regole che ignora le contingenze tradizionali dei locali e mette in atto un altro tipo di realtà. I modelli degli scienziati mettono in pratica una logica di colonizzazione perché presumono che esista un unico mondo “scopribile” attraverso meccanismi e/o correlazioni.
Ma questo tipo di rappresentazione non lascia spazi per storie, realtà e conoscenza alternative.
Sembra evidente che, a volte, la conoscenza scientifica ha lo stesso effetto del colonialismo sui Paesi che sono diventati colonie, cioè l’imposizione di un modo di pensare alla realtà in aperto contrasto e incompatibile con gli stili di vita tradizionali.
L’idea dell’oggettività, dello sguardo da nessun luogo non è realistica, I laboratory studies (Latour e Woolgar 1979; Knorr Cetina 1997) hanno mostrato come l’oggettività venga prodotta attraverso una continua manipolazione degli oggetti.
In questo caso abbiamo una ontologia, quella degli scienziati e biologi, che viene sovrapposta all’ontologia dei Sàmi.
I Sami hanno, infatti, una visione di cos’è oggettivo, ma la scienza impone una realtà divergente, che poi propone alla politica e pretende che sia implementata.
CONCLUSIONE
Nel momento in cui le norme vengono implementate si genera un circolo vizioso, in cui alcuni scienziati possono giustificare le proprie pratiche con frasi del tipo “eh ma sono scelte politiche”. Allo stesso tempo, la politica, implementando quel tipo di decisioni può deresponsabilizzarsi, attraverso il famoso mantra “lo dice la scienza”. La scienza fornisce una importante legittimazione alle scelte politiche a causa della sua autorità epistemica sulle altre forme di sapere, ma proprio per questo motivo non può rivendicare una neutralità perchè le decisioni prese producono degli effetti.
La scienza è una pratica sociale che crea un tipo di realtà e, spesso attraverso la politica, la mette in atto. Non c’è spazio per altre versioni. La natura viene rappresentata come un'unica realtà modellata da meccanismi generali che possono essere individuati dai ricercatori, mentre la cultura viene vista come multipla, soggettiva e normativa.
La sfida non è convincere le popolazioni Sami che la conoscenza scientifica è epistemicamente superiore, ma piuttosto fare in modo che la conoscenza dei Sami venga integrata nella scienza. La necessità è quella di creare pratiche materiali concrete che avvicinino gli uffici, i laboratori, i modelli biologici dei “coloni” alle pratiche locali dei Sámi.
Nel caso specifico la direzione potrebbe essere quella di “ammorbidire” il realismo della biologia.
BIBLIOGRAFIA
Knorr-Cetina K. (1997), Sociality with Objects. Theory, Culture and Society 14 (4):1-30.
Latour B. e Woolgar S. (1979), Laboratory life: The construction of scientific facts, Princeton University Press, Princeton.
Law, J., & Joks, S. (2019). Indigeneity, Science, and Difference: Notes on the Politics of How. Science, Technology, & Human Values, 44(3), 424-447.