La vicenda è ormai abbastanza nota. Monopoli, il popolarissimo gioco da tavolo, altro non è che il figlioccio un po’ guastato di un altro gioco, The Landlord’s Game, inventato all’inizio del secolo scorso. A inventare il gioco fu Elisabeth Magie – donna eclettica e progressista, scrittrice e stenografa – che lo concepì come strumento di apprendimento: «è una dimostrazione pratica dell’attuale sistema di land-grabbing, dei suoi esiti reali e delle sue conseguenze» (Pilon, 2015). Il gioco prevedeva infatti due sistemi di regole. Uno era quello con cui pressappoco si gioca ancora oggi: giocatrici e giocatori si confrontano per acquisire terreni, costruire case e alberghi, impoverire gli avversari. L’altro sistema si basava invece su una ben precisa teoria economica, la cosiddetta “single tax”, avanzata dall’economista Henry George. George proponeva di tassare esclusivamente i terreni per poi redistribuire i profitti a cittadine e cittadini. Analogamente, nel sistema di regole anti-monopoliste ideato da Magie, i giocatori pagavano le tasse sulle proprietà acquisite ed erano poi costretti a dividere i guadagni, così che a trarre vantaggio dalla loro ricchezza fossero anche tutti gli altri giocatori. Magie registrò il brevetto nel 1903, il gioco iniziò a circolare nelle case americane, e infine venne venduto, nella versione tuttora giocata, a una casa editrice di giochi da un uomo disoccupato che sosteneva di averlo inventato.

Oltre ad essere una luminosa parabola sull’appropriazione capitalista e sull’invisibilizzazione del lavoro femminile (nel senso di un gioco inventato da una donna, i cui profitti dell’invenzione andarono a un altro), il concepimento di The Landlord’s Game presenta un ulteriore elemento di interesse: il nesso tra giochi e società, tra rappresentazione di una realtà o di un problema sociale e la possibilità, attraverso l’attività ludica, di ridefinirne i contorni e di esplorarne scenari alternativi. Si tratta di un nesso che negli ultimi anni è stato particolarmente sviluppato nell’ambito degli studi sociali della Scienza e della Tecnologia (STS). Sia nella loro fase di design e di sviluppo sia in quella più propriamente ludica, i giochi sono stati infatti descritti e utilizzati come strumenti attraverso cui simulare, apprendere o re-inventare i fenomeni sociali oggetto di studio antropologico e sociologico. Il cambio di prospettiva intrinseco al giocare (si gioca sempre in prima persona, che sia una partita a dadi o un gioco di ruolo) consente infatti di sperimentare in modo più diretto le dinamiche, le strutture di potere, le possibili forme di collaborazione o di competizione che caratterizzano un certo contesto. D’altra parte, la progettazione di un gioco ispirato a un determinato contesto o problema sociale può rappresentare un momento estremamente produttivo in termini etnografici. Attraverso il design di un gioco, ricercatrici e ricercatori hanno infatti la possibilità di riflettere sulla propria attività di ricerca sul campo. Alla luce di queste caratteristiche, l’interesse per le potenzialità etnografiche dei giochi va inserita all’interno di una più ampia riflessione sui metodi delle scienze sociali e sulla loro componente creativa e performativa.

«Gli approcci creativi (inventive) tendono a considerare la performatività (enactment) dei fenomeni sociali non come un argomento da esporre o descrivere, ma come un compito o una sfida di ricerca: possiamo farcela? Possiamo contribuire all’articolazione creativa dei fenomeni sociali?» (Marres et al. 2018, p. 25, mia traduzione)

Aspetto importante di questi approcci è anche il tentativo di emanciparsi dal predominio del testo e delle parole, per abbracciare metodi in cui siano le interazioni tra oggetti, immagini, suoni e corpi a costituire tanto il dato antropologico quanto le modalità di incontro etnografico. Si tratta di un approccio multisensioriale alla pratica antropologica il cui obiettivo è appunto inventare diverse modalità di partecipazione, collaborazione e apprendimento tra i vari soggetti coinvolti (Dattatreyan & MarreroGuillamón (2019). In questa prospettiva, creare giochi ispirati a un sito di ricerca etnografica, e poi testarli con i soggetti coinvolti da tale ricerca, costituisce un’interessante possibilità per simulare quelle realtà oppure per re-inventarle e re-immaginarle. L’eterogeneità dei giochi offre inoltre la possibilità di sperimentare diverse modalità di partecipazione: giochi di ruolo o di strategia, collaborativi o competitivi, da tavolo o digitali. Alcune caratteristiche sembrano però essere comuni a tutti i giochi. Secondo lo storico olandese Johan Huizinga, giocare è un’attività volontaria e disinteressata, circoscritta sia nello spazio che nel tempo, e definita dalla tensione legata alla sconfitta dell’avversario o al raggiungimento di qualcosa di difficile. La combinazione di questi tratti rende il gioco «un’attività libera che si colloca consapevolmente al di fuori della ‘vita ordinaria’ come ‘non seria’, ma che allo stesso tempo assorbe intensamente e totalmente il giocatore» (Huizinga 1949, p. 13). A queste caratteristiche se ne possono aggiungere altre che, come sostiene l’antropologo Joseph Dumit, rendono i giochi uno strumento pedagogico particolarmente utile nell’insegnamento delle scienze sociali (Dumit 2018). Nell’attività ludica, decisioni, conseguenze e sfortuna vengono infatti vissute in prima persona, consentendo quindi ai giocatori di vivere ed esperire dal proprio punto di vista la complessità delle strutture sociali riprodotte nel gioco, ad esempio le asimmetrie informative e le relazioni di potere che le attraversano. Per queste ragioni, la creazione di giochi (game design) può rappresentare un utile strumento per sollecitare gli studenti a riflettere sui sistemi sociotecnici. Dumit porta l’esempio di un gioco sul fracking, ovvero l’estrazione di petrolio e di gas naturale attraverso l’utilizzo della pressione dell’acqua. La ricerca per il design del gioco, spiega Dumit, ha portato gli studenti a individuare i vari attori coinvolti, a mappare le dinamiche tra le società di fracking, a problematizzare il ruolo dei media e delle notizie giornalistiche nell’articolare tali dinamiche.

Mentre Dumit sottolinea il valore pedagogico nell’ideare giochi inerenti a realtà sociali solitamente oggetto di indagine, gli antropologi Tomas Criado e Ignacio Farías illustrano come sviluppare e testare giochi produca nuove possibilità etnografiche (Farías & Criado 2022). I giochi da loro discussi sono stati creati insieme ai loro studenti e sono inspirati ai conflitti tra proprietari di case e affittuari, un tema particolarmente sentito e delicato nel mercato immobiliare contemporaneo. Lo sviluppo dei giochi ha dato luogo a una doppia dinamica tra ricerca etnografica e creazione delle regole e dei materiali dei giochi. Da un lato, l’esigenza, alla luce della ricerca svolta sul campo, di evitare rappresentazioni stereotipate delle persone rappresentate nel gioco (proprietari, affittuari, attivisti, avvocati). Dall’altro l’anticipazione e la proiezione di siti etnografici non ancora esplorati ma tuttavia inclusi nelle dinamiche dei giochi per renderli più verosimili. Provare i giochi (game testing) con persone effettivamente coinvolte nella crisi immobiliare ha funzionato invece come strumento di riflessione sul potenziale valore politico ed etnografico dei giochi. Per questa ragione, Farías e Criado sostengono che i giochi possono creare le condizioni per forme di ragionamento para-etnografico1. I giocatori erano infatti portati a fare costanti collegamenti tra le dinamiche e le situazioni scaturite dal gioco e le loro esperienze, emozioni e opinioni sui temi del gioco.

Questa incompleta rassegna ha tentato di identificare due diverse potenzialità di utilizzo dei giochi in ambito antropologico e sociologico.

In primo luogo, i giochi possono essere utilizzati come strumento per riflettere sulle dinamiche di un certo contesto economico (il land-grabbing, il mercato immobiliare) o di un determinato sistema socio-tecnico (il fracking). La possibilità di esperire in prima persona le dinamiche che caratterizzano quei contesti produce un “salto epistemologico” che può aiutare a comprenderle meglio. Non si tratta però di un approccio puramente conservativo, che si limita a riprodurre l’esistente. Al contrario, come Elizabeth Magie aveva intuito, i giochi possono aiutare a inventare e a mettere in atto realtà alternative, scenari possibili.

In secondo luogo, lo sviluppo di un gioco può essere utile a ricercatrici e ricercatori per ragionare sui dati e sugli elementi emersi durante la ricerca etnografica. In questo senso, lo sviluppo di un gioco può essere interpretato anche come la traduzione in regole, obiettivi e narrazioni della propria ricerca etnografica e quindi come un’attività che consente di svelare e di problematizzare alcune delle assunzioni e dei preconcetti che inevitabilmente la influenzano.

In conclusione, se è vero, come sostiene Huizinga, che giocare è un’attività non seria, tendenzialmente divertente e spensierata, sembra altrettanto vero che i processi di immedesimazione e di riflessione impliciti in moltissimi giochi li rendono anche dei formidabili dispositivi di critica e di indagine sociale.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Dattatreyan, E. G. & Marrero‐Guillamón, I. (2019). Introduction: Multimodal Anthropology and the Politics of Invention. American Anthropologist, 121(1), 220–28.

Dumit, J. (2017). Game Design as STS Research, Engaging Science, Technology, and Society, 3, 603-612

Farías, I. & Criado, T. S. (2022). How to game ethnography. In Criado, T. S. and Estalella, A. (eds.). An Ethnographic Inventory: Field Devices for Anthropological Inquiries. London: Routledge.

Holmes, Douglas R., and George E. Marcus. 2008. “Para-Ethnography.” In The SAGE Encyclopaedia of Qualitative Research Methods, edited by Lisa Given, 595–97. Thousand Oaks: Sage

Huizinga, J. (1949): Homo Ludens. A Study of the Play-Element in Culture. London, Boston, and Henley: Routledge & Kegan Paul.

Marres, N., Guggenheim, M. & Wilkie, A. (2018). Inventing the Social. Manchester: Mattering Press.

Pilon, M, (2015). Monopoly’s Inventor: The Progressive Who Didn’t Pass ‘Go’, The New York Times, 13 febbraio.

 

 

NOTE:

1 La nozione di para-etnografia intende evidenziare come la ricerca etnografica debba in quella modo essere re-imparata e ri-modulata in contesti caratterizzati da una significativa riflessività da parte dei soggetti di studio (Holmes & Marcus 2008)

Autore

  • Assegnista di ricerca in Studi Sociali della Scienza e della Tecnologia presso il dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna. Si è occupato di infrastrutture per il controllo dei processi migratori e dell'interazione tra tecnologie e soggettività.

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