IL CONCETTO DI “IMMATERIALE” E QUELLO DI “INTANGIBILE”
La scorsa volta abbiamo cominciato a esplorare le sopravvivenze del sacro nel mondo secolarizzato, che a torto s’immagina essere emancipato dalle istanze più arcaiche di Homo sapiens. Certamente il lettore di STS è informato dai protocolli congiunti di ragione, scienza e tecnica, il sacro essendo per lui al più un ricordo d’infanzia legato all’educazione scolastica e famigliare. Se un’indole religiosa ancora lo abita, è quella dell’agnostico/a. Ciò nondimeno, questo episodio della serie è dedicato a chiunque, pur professandosi ateo o agnostico, è persuaso che un mondo “immateriale” si accompagni a quello materiale, mostrando così come il sacro permei tuttora la sua concezione del mondo.
Per sconfiggere questa forma residuale di superstizione, certamente meno grave di quella religiosa ancorché altrettanto diffusa, cominciamo con l’esaminare l’uso linguistico del lemma “immateriale”. Non a caso esso è aggettivale, si pensi a espressioni quali “corpo immateriale”, “patrimonio immateriale”, “cultura immateriale”, ecc. Senza un campo d’applicazione concreto, non avrebbe ragion d’essere. Il sostantivo che di volta in volta il lemma parassita non si riferisce a un “ni-ente”, ma a un ente vampirizzato. Se l’intensione del concetto rimanda a enti inconsistenti di fatto inesistenti, la sua estensione si riferisce a espressioni linguistiche multiuso al servizio di utilizzatori persuasi che esistano due mondi. Quello di “immateriale” è un concetto figlio della superstizione dualistica, la quale a sua volta è debitrice del sacro. Se non è il caso di espungerlo dal vocabolario delle lingue umane, pena un impoverimento del mondo, certamente va bandito dall’orizzonte onto-epistemologico.
Al suo posto andrebbe utilizzato il concetto di “intangibile”, da cui “corpo intangibile”, “patrimonio intangibile”, “cultura intangibile”, ecc. L’equivoco che si insinua tra i due concetti non discende solo dalla sfera sacrale e da concezioni filosofiche superate, ma anche dalla serie di precondizioni materiali che ne sono alla radice. Sul banco degli imputati va convocata la natura eterogenea del mesocosmo terrestre, laddove immagini, suoni e odori si propagano attraverso un’atmosfera rarefatta e una forza gravitazionale debole. Quello che comunemente si ritiene “immateriale” è una rete inafferrabile di relazioni materiali a bassa densità, della quale partecipa la coscienza. La nostra impalpabile soggettività ci sembra abitare un corpo gettato in un mondo a sua volta conteso tra spirito e materia, una superstizione tanto ubiqua, quanto congenita.
Qualcuno obietterà che passi la materialità controintuitiva dell’aria, delle immagini, dei suoni e degli odori. Ma le emozioni, i sentimenti, le idee e la cultura non sono identificabili con alcun supporto materiale. Per eliminare ogni residuo spiritualista, è sufficiente applicare il concetto di intangibilità a ogni ambito della sfera spirituale. Prendiamo il più impalpabile degli enti, la mente. In polemica a distanza con il dualismo cartesiano, al giorno d’oggi si parla opportunamente di “mente estesa” (CLARK-CHALMERS 1998), tanto nell’alveo della filosofia analitica che, con qualche resistenza, in quello della filosofia continentale europea. Se l’estensione è disomogenea nello spazio e nel tempo, se una mente estesa è differentemente localizzata, allora è dis-locata. Essa consiste in un processo interamente materiale che evolve di corpo pensante in corpo pensante, depositandosi all’occorrenza su supporti inerti che attendono di essere animati. Nelle culture alfabetizzate, per esempio, poggia sui differenti media che ci hanno insegnato a leggere queste righe, e che assieme al resto si sono depositati in noi sub specie di informazione elettrochimica, non prima che colpissero i sensi attraverso luci, suoni, odori, sensazioni in genere. A ciò si unisce la voce che i significati declama prima di imparare a silenziarli nel pensiero o a trascriverli su un supporto, la quale necessita delle corde vocali per propagarsi. Non parliamo dell’esperienza di vita che la voce forgia. L’intero processo che fa capo a ciò che siamo è chiamato in causa, il quale altro non è se non la nostra mente estesa. Questo contribuisce a farla ritenere priva di quel corpo materiale che in effetti non ha, perché ne ha molti in relazione tra loro. Tra di essi, i significati, le idee e la cultura di cui la mente si sostanzia, tutti necessariamente materiali.
Chi, leggendo queste righe, si fosse persuaso che il monismo materialista è cosa buona e giusta, provi a ripensare a un solo ente immateriale: non ci riuscirà più. La sua nuova fede comporta l’abbandono di altri tre concetti indebiti: quello di riduzionismo, di panpsichismo e di creazione intelligente. Al monismo materialista non può che accompagnarsi una concezione emergentista in un mondo causalmente autonomo (cfr. ZHOK 2011). Assegnare una mente creatrice alla sostanza generalizzata significa far rientrare dalla finestra la divinità cacciata dalla porta, come la Pimpa che anima gli enti applicando loro un paio d’occhi. Sovrapporli agli oggetti quotidiani, ai feticci della divinità o all’universo mondo non fa alcuna differenza, se l’artefice è chi sovrappone. Quanto al riduzionismo, in aperta contraddizione è chi pretende di ridurre gli enti ai suoi costituenti non essendo a sua volta ridotto. In un mondo composito, a densità variabile e caratterizzato da organizzazioni spazio-temporali relativamente in/dipendenti, non si vede a quale livello si sia legittimati a fondare. Ritenere il microcosmo come il livello più autentico significa perdere di vista non solo il mesocosmo terrestre e chi lo abita, ma anche il macrocosmo. La danza delle galassie necessita anch’essa del vuoto quale pista da ballo, il quale non è immateriale, è vuoto e basta.
Insomma Dio è morto, Marx pure e anche l’immateriale sembra debba lasciarci.
NOTE
Clark, A. – Chalmers, D., The extended mind, Analysis, 58.1, January 1998, pp. 7-19.
Zhok, A., Emergentismo. Le proprietà emergenti della materia e lo spazio ontologico della coscienza nella riflessione contemporanea, ETS, 2011
Autore
-
Laureando in scienze filosofiche all’Università degli Studi di Padova, si definisce un realista prospettico. Per lui la verità, in filosofia come nelle scienze, è una questione di prospettive vincenti, comprese quelle all’inizio date per sfavorite o rivelatesi alla lunga perdenti. Ama ragionare di epistemologia macinando pedalate sulla Martesana.