C’era una volta il soggetto? Ibridi, protesi, algoritmi indossabili: tutti i supplementi di un latitante

Il supplemento viene al posto di un cedimento,
di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza.
Non c'è nessun presente prima di esso,
è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento.

Jacques Derrida, Della grammatologia

 

1 MAPPE

Perché è stato Colombo a sbarcare sulle coste americane – e dopo di lui i ben più temibili Cortés e Pizarro – e non una flotta Inca ad attraccare nel porto di Lisbona o di Genova? Franco Farinelli ritiene che la casualità della storia e l’impredicibilità del comportamento degli uomini non possano soddisfare l’urgenza dell’interrogativo, quanto invece può fornire una risposta l’evidenza che è capitato agli europei di realizzare mappe dei mari e delle terre emerse, e non alle popolazioni amerinde. Si può diventare scopritori di continenti e conquistatori di imperi sconosciuti, solo carta alla mano. Non importa nemmeno se il contenuto della rappresentazione geografica sia corretto o meno; senza il diagramma, viene a mancare l’ingrediente che si rivela essere il più banale nella circostanza in cui la scrittura e la proiezione geometrica sono disponibili – il progetto dell’esplorazione, la motivazione alla partenza, il piano di conquista.

Le mappe offrono un contributo indispensabile alla formazione della soggettività dei navigatori, dei conquistatori e degli eroi. Tzvetan Todorov suggerisce però che per plasmare una coscienza come quella di Cortès serva un altro ingrediente tecnologico: la scrittura alfabetica e la sua capacità di «insegnare» la separazione e la connessione tra una catena di significanti e una di significati. Il conquistador infatti legge le operazioni epistemiche degli aztechi, interpreta la visione della realtà di Montezuma, simula attributi e ruoli per manipolare la loro comprensione degli eventi, partendo dalle credenze degli avversari: i segni possono essere separati dal loro referente, possono essere imitati, contraffatti, manomessi a piacimento. Al contrario, gli indigeni appaiono vincolati ad una prospettiva monolitica di percezione del mondo, in cui quello che accade deve essere la ripetizione di qualcosa di già avvenuto, e deriva la sua identità dal passato dei loro miti fondativi. La vittoria degli spagnoli viene conseguita sul piano cognitivo prima ancora che sul campo di battaglia.

2 SCRITTURA ALFABETICA

La scissione tra un piano del significante e uno del significato è la separazione che si è innalzata dalla scrittura alfabetica alla fondazione delle disgiunzioni essenziali della cultura occidentale, come quelle tra interno ed esterno, trascendenza e immanenza, spirito e materia.

In un articolo precedente su Controversie, Edmondo Grassi propone di osservare i dispositivi di wearable technology, gli strumenti che rendono smart le case e le città, e la generazione degli algoritmi che li gestiscono, un sistema o uno sciame di intelligenze che rimodellano la nostra presenza fisica, e soprattutto che ridefiniscono la nostra soggettività. La trasformazione in corso non avrebbe precedenti nella storia dell’umanità, perché non si limiterebbe a potenziare facoltà già esistenti, ma creerebbe nuove dimensioni di coscienza, estranee a quelle implicate nella natura umana. Credo che le considerazioni sviluppate su Colombo e su Cortès impongano di rivedere in modo più prudente queste dichiarazioni. L’entusiasmo per lo sviluppo delle macchine digitali degli ultimi decenni è legittimo, ma rischia di mettere in ombra alcune linee di continuità con la storia delle tecnologie più remote (di cui fanno parte anche il linguaggio e la scrittura), e di alimentare la fede in un fantasma  come quello della natura umana, intesa come una struttura consegnata dall’evoluzione filogenetica ai nostri avi ancestrali, che incarnerebbe la nostra sostanza compiuta e immutabile: dal suo fondo sarebbero derivate le culture e le civiltà, che ne avrebbero potenziato alcuni aspetti, lasciando però intatta la sua essenza fino ai nostri giorni. L’asimmetria tra il dinamismo delle trasfromazioni che abbiamo sotto gli occhi oggi, e la presunta staticità di quello che abbiamo già incorporato e metabolizzato, con la pratica del dialogo e delle lettere, è troppo evidente per non destare qualche sospetto.

La Scuola di Toronto, soprattutto con Harold Innis ed Eric Havelock, ha sottoposto a scrutinio il rapporto tra tecnologie della scrittura e formazione sia della soggettività, sia della struttura politica della società. L’elaborazione greca dell’alfabeto introduce, rispetto alle altre tipologie di grafia, un elemento di forte innovazione: i segni non richiedono un’interpretazione semantica, come accade con i pittogrammi, ma rinviano in modo meccanico ad altri segni, ai suoni delle parole. La loro presenza materiale non si impone allo sguardo pretendendo l’interpretazione di un esperto – scriba o sacerdote – con un esercizio di esegesi specialistica e creativa, ma si spalanca in modo immediato sulla catena dei significati. Il senso emerge alla vista prima ancora del suo rappresentante simbolico: basti pensare a quanta attenzione richiede la revisione editoriale dei testi, e alla facilità con cui gli errori di battitura sfuggono alla rilettura – perché il significato appare all’occhio prima ancora della sua raffigurazione fisica. La scrittura alfabetica schiude lo spazio logico come evidenza percettiva, esibisce la dimensione dell’essere che è sottratta alla contingenza dello spazio e del tempo, che si dilata nell’universalità e nella necessità, e che è la protagonista della filosofia di Platone. Le idee hanno scavato un’interiorità nella vita degli individui, e hanno sostenuto la nascita della comunità scientifica: la verità privata e la verità pubblica, l’articolazione della loro distinzione e della loro unità, sono estensioni impreviste dello sviluppo tecnologico subito dai meccanismi di annotazione del linguaggio.

3 TRACCE

Le procedure di redazione e di lettura nell’Atene del V secolo non somigliavano di sicuro a quelle dei nostri giorni; tuttavia la rivoluzione avviata dalla tecnologia della scrittura nella Grecia antica ha contribuito a configurare la forma stessa della soggettività occidentale, così come ancora oggi la sperimentiamo. Ma anche questo scavo nell’archeologia dei sistemi di produzione documentale non mostra in modo abbastanza radicale il doppio legame che si stringe tra processi di ominazione e tecnologia.

Jacques Derrida e Bernard Stiegler ampliano la nozione di scrittura per includere una serie di fenomeni più varia, il cui valore consiste nel registrare programmi di azioni, che vengono archiviati e resi disponibili da una generazione all’altra. In questo senso anche la scheggiatura della selce, la preparazione di ogni genere di manufatti, permette di conservare le tracce delle operazioni con cui è avvenuta la loro realizzazione, e quelle della loro destinazione. L’innovazione non è una galleria di episodi disparati, ma si dispiega in gruppi tecnici, che dislocano lo stesso principio fisico in diversi contesti: la ruota per esempio sollecita la trasformazione dei mezzi di trasporto, ma decreta anche la nascita del tornio e quella della cisterna. La tecnica, come il linguaggio, sono artificiali, ma non «capricciosi»: l’organicità della realtà costruita contribuisce a elaborare l’ordinamento della ragione, che è sia logos, sia kosmos. Ma questa filogenesi culturale è il sintomo di due processi che sanciscono la differenza, e la distanza, dell’uomo da ogni altra creatura.

Il primo è testimoniato dalle indagini di paleontologia, che provano la collaborazione del fattore biologico e di quello tecnologico nell’evoluzione del sistema nervoso centrale dell’homo sapiens. La lavorazione della pietra e del legno non è stata avviata quando l’evoluzione fisiologica poteva dirsi conclusa, ma ha contribuito allo sviluppo cerebrale, rendendo l’espansione della massa neuronale e la raffinatezza nel trattamento dei materiali, insieme alla la complessità nella collaborazione dei gruppi sociali, due percorsi che si rispecchiano, si modellano e si rappresentano in modo reciproco.

Il secondo tenta una fondazione trascendentale di ciò che l’archeologia espone sul piano dei fatti. Nella ricostruzione del confronto di Leroi Gourhan con la descrizione speculativa che Rousseau schizza dell’uomo originario, Stiegler evidenzia che entrambi gli autori devono supporre un salto tra l’ominide ancora senza linguaggio, e l’essere umano compiuto, con una razionalità in grado di esprimersi in termini di simboli universali. La ragione, la tecnica (e il linguaggio come prima tecnica) compaiono tutti insieme, dal momento che sgorgano dalla stessa istanza capace di individuare l’uomo e distinguerlo da tutti gli altri esseri viventi: la consapevolezza della propria morte, e l’assunzione di tutte le iniziative possibili per dilazionarne l’imminenza. Da questo progetto di differimento scaturiscono la storia e le storie; per questo ogni linguaggio è a suo modo un programma di azione, che deve disporre già sempre di un carattere di ripetibilità e di universalità, e per questo ogni tecnica e ogni linguaggio sono una scrittura che plasma al contempo la realtà esterna e la soggettività del suo esecutore.

Non esiste una natura umana, e nessun ominide che sia identico all’uomo – solo privo di tecnica e di linguaggio, prima del salto che invera il miracolo della cultura. Né esiste un’essenza dell’umanità che preceda e che sia la fonte dei sistemi simbolici e delle procedure operative, che si succedono nelle epoche della storia, e di cui potremmo sbarazzarci o che possiamo implementare, senza esserne modellati nel profondo. La storia e le differenze delle scienze e delle tecniche sono anche il dispiegamento della natura umana nella varietà delle forme e delle identità in cui – soltanto – essa può assumere esistenza concreta.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Derrida, Jacques, Della Grammatologia, trad. it. a cura di Gianfranco Dalmasso, Jaka Book, Milano 2020.

Havelock, Eric, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it. a cura di Mario Capitella, Laterza, Bari 2019.

Innis, Harold, Imperi e comunicazione, trad. it. di Valentina Lovaglio, Meltemi, Roma 2001.

Farinelli, Franco, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003.

Leroi-Gourhan, André, L’uomo e la materia, trad. it. a cura di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1977.

Rousseau, Jean-Jacques, Discorso sull’origine della disegueglianza, trad. it a cura di Diego Giordano, Bompiani, Milano 2012.

Stiegler, Bernard, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo, trad. it. a cura di Claudio Tarditi, Luiss University Press, Roma 2023.

Todorov, Tzvetan, La conquista dell’America. Il problema dell’Altro, trad. it. a cura di Aldo Serafini, Einaudi, torino 2014.


Eco-ansia - La crisi ecologica tra medicalizzazione e politicizzazione

ECO-ANSIA: TRA DISAGIO PSICHICO E SINTOMO POLITICO

Negli ultimi anni, la crisi ecologica ha prodotto un'ondata di emozioni collettive che ridefiniscono il modo in cui le persone vivono il proprio rapporto con il mondo. Tra queste emozioni, l’eco-ansia si impone come una delle più diffuse e significative. Spesso descritta come una “paura cronica della fine del mondo” o come uno stato di angoscia legato al futuro del pianeta, l’eco-ansia è rapidamente entrata nel lessico della psicologia e dei media, fino a essere talvolta trattata come una vera e propria patologia da gestire individualmente[1].

Tuttavia, ridurre l’eco-ansia a un disturbo mentale rischia di oscurare il suo significato più profondo. Il pericolo non è solo quello di medicalizzare un’emozione condivisa, ma anche di depoliticizzarla - trasformando una risposta motivata dalla consapevolezza di una crisi reale in un problema personale da contenere. In questo senso, parlare di eco-ansia significa entrare nel cuore della tensione culturale, politica ed esistenziale verso la crisi climatica.

UN’EMOZIONE RADICATA IN UN’EPOCA

 L’eco-ansia non nasce nel vuoto. È il frutto di un’epoca segnata da disastri ambientali, disuguaglianze globali e una crescente percezione dell’irreversibilità della crisi climatica. In molti casi, questa ansia non è legata a esperienze dirette di catastrofe, ma alla consapevolezza della loro imminenza, che si traduce in un senso di incertezza paralizzante. Si tratta, in altri termini, di una forma di disagio che nasce dalla difficoltà di immaginare un futuro vivibile.

A questo proposito, il pensiero dell’antropologo Ernesto De Martino offre una chiave di lettura particolarmente illuminante. De Martino parlava di “crisi della presenza” per indicare quei momenti in cui un individuo o una collettività perdono la capacità di situarsi nel mondo con continuità, agire con intenzionalità, e proiettarsi nel futuro. Ne La fine del mondo (1977), De Martino indaga la percezione dell’apocalisse come forma radicale di crisi della presenza, in cui il mondo perde senso e coerenza. L’apocalisse, per l’antropologo italiano, non era solo la fine materiale del mondo, ma un’esperienza culturale e simbolica di disintegrazione: è la perdita di senso, il collasso dei riferimenti storici, etici e affettivi che permettono agli individui di “esserci” nel mondo. L’apocalisse, in questa prospettiva, è una minaccia interna alla cultura: accade quando la struttura simbolica che tiene insieme l’esperienza umana viene meno, lasciando spazio all’angoscia, alla paralisi, alla perdita di futuro.

Questa riflessione è sorprendentemente attuale nel contesto dell’eco-ansia. Molti giovani oggi vivono una forma di apocalisse simbolica: la percezione che il futuro sia compromesso dal collasso ecologico genera sentimenti di impotenza, paura e smarrimento. Come nella crisi della presenza descritta da De Martino, anche l’eco-ansia è segnata da un’interruzione del senso e della fiducia nella continuità del mondo. Rileggere De Martino alla luce della crisi ecologica significa dunque riconoscere che la posta in gioco non è solo ambientale, ma profondamente culturale e antropologica: è la possibilità stessa di abitare il mondo che viene messa in questione. L’eco-ansia, in questa prospettiva, è molto più di uno stato mentale: è il sintomo di una frattura storica, culturale ed esistenziale che mette in discussione il legame tra persone, ambiente e futuro.

IL RISCHIO DELLA MEDICALIZZAZIONE

Negli ultimi anni, l’eco-ansia è stata sempre più spesso affrontata come una condizione psicologica da trattare clinicamente: terapie, tecniche di mindfulness, strategie di coping individuale. Sebbene tali risposte siano necessarie e possano offrire sollievo, concentrarsi esclusivamente sulla loro promozione rischia di generare un duplice effetto negativo. Da un lato, individualizzano un problema collettivo, attribuendolo alla sensibilità o fragilità della singola persona. Dall’altro, distolgono l’attenzione dalle cause strutturali della crisi climatica, alimentando l’idea che l’unica risposta possibile sia l’adattamento psicologico e non la trasformazione sociale.

Questo processo di medicalizzazione non è nuovo. Come mostrano le critiche mosse da studiosi e studiose della sociologia critica, la tendenza a psichiatrizzare forme di disagio legate a condizioni sociali ingiuste è un tratto ricorrente della modernità. In questo caso, però, l’effetto è ancora più pericoloso: nel trattare l’eco-ansia come un disturbo da curare, si contribuisce a rendere “normale” l’anomalia ecologica, neutralizzando la sua carica potenzialmente sovversiva.

UN’EMOZIONE POLITICA

 L’eco-ansia, al contrario, può essere interpretata come una forma di sensibilità ecologica e politica. Si tratta di un’emozione che nasce dall’inconciliabilità tra la gravità della crisi ecologica e la lentezza - o l’inazione - delle risposte istituzionali. Non è un caso che molti giovani dichiarino di sentirsi traditi dalla politica e impotenti di fronte a un sistema economico che continua a produrre disastri ambientali pur conoscendone gli effetti[2]. L’eco-ansia è, in questo senso, una reazione ragionevole, persino lucida, a un contesto che oscilla tra apocalisse annunciata e immobilismo strutturale.

Movimenti come Fridays for Future, Ultima Generazione o Extinction Rebellion hanno fatto di questa emozione un motore di mobilitazione. Le loro azioni performative—come i blocchi stradali o le proteste simboliche—possono essere lette come rituali collettivi per rielaborare la crisi della presenza. Invece di fuggire dall’eco-ansia, questi movimenti la mettono in scena, la condividono e la trasformano in linguaggio politico. Così facendo, restituiscono all’ansia la sua dimensione culturale e collettiva, sottraendola alla sfera dell’intimo e del patologico.

CURA, SPERANZA, APPARTENENZA

 Se l’eco-ansia è il segnale di una frattura nel rapporto con il mondo, la risposta non può che passare attraverso una forma di “cura del legame”. Non si tratta solo di proteggere gli ecosistemi, ma di rigenerare i significati condivisi, di ricostruire le condizioni per sentirsi parte di un mondo abitabile. In questo senso, le comunità ecologiche, le reti di mutualismo climatico e le esperienze di resistenza ambientale rappresentano tentativi di produrre nuove forme di appartenenza, nuove narrazioni, nuove temporalità.

L’eco-ansia non va repressa né semplicemente gestita. Va ascoltata come un sintomo, sì, ma non di un disagio mentale: di una crisi epocale. È un’emozione che ci obbliga a interrogarci su cosa significa “stare al mondo” oggi, su quali futuri siano ancora immaginabili, e su come ricostruire un senso di presenza che non escluda la speranza.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Clayton, S. D., Pihkala, P., Wray, B., & Marks, E. (2023). Psychological and emotional responses to climate change among young people worldwide: Differences associated with gender, age, and country. Sustainability, 15(4), Article 3540. 10.3390/su15043540

De Martino, E. (1977). La fine del mondo, Einaudi, Torino.

Kałwak, W., & Weihgold, V. (2022). The relationality of ecological emotions: An interdisciplinary critique of individual resilience as psychology’s response to the climate crisis. Frontiers in psychology13, 823620. 10.3389/fpsyg.2022.823620

[1] Per un approfondimento su questa controversia vedi Kałwak e Weihgold (2022).

[2] Vedi la ricerca di Clayton e colleghi (2023).


Politiche della montagna - Il conflitto geotermico sul Monte Amiata tra pianificazione su larga scala e modi di vita locali

La geotermia è generalmente considerata una fonte di energia rinnovabile e sostenibile, poiché sfrutta il calore naturale della Terra, che dal nucleo si diffonde attraverso il mantello e la crosta fino alla superficie. Questa energia può essere impiegata sia per la produzione di elettricità sia per il riscaldamento. In Italia, tuttavia, il caso del Monte Amiata, in Toscana, rappresenta un esempio emblematico di conflitto tra sostenibilità ambientale, sviluppo energetico e diritti delle comunità locali. Situato tra le province di Grosseto e Siena, il Monte Amiata è un ex vulcano che ospita impianti geotermici gestiti da ENEL Green Power. La geotermia ha una lunga tradizione in Toscana, con i primi impianti costruiti nei primi anni del Novecento a Larderello (Pisa). Se in alcune aree della regione questa forma di energia è stata considerata un'opportunità di sviluppo, sul Monte Amiata ha suscitato una forte opposizione. Tale conflitto si è intensificato ulteriormente dopo che la Regione Toscana ha annunciato nuovi piani per espandere la costruzione di centrali geotermiche sul territorio. Le principali preoccupazioni riguardano l'impatto ambientale e sanitario, poiché le emissioni di sostanze come arsenico, mercurio e anidride carbonica sollevano dubbi sulla sicurezza della popolazione e sulla tutela della biodiversità locale.

IL DIBATTITO SCIENTIFICO: DATI E INTERPRETAZIONI CONTRASTANTI

Le principali controversie legate alla geotermia sul Monte Amiata riguardano tre aspetti: 1) l'impatto ambientale degli impianti; 2) le conseguenze sulla salute della popolazione; 3) gli effetti sull’economia locale.

Le associazioni e gli attivisti contestano la presunta sostenibilità della geotermia nella zona, denunciando il rilascio in atmosfera di sostanze inquinanti come arsenico, idrogeno solforato, mercurio e grandi quantità di CO₂.

Sul piano sanitario, le preoccupazioni sono aumentate dopo la pubblicazione di uno studio del CNR di Pisa (ARS Toscana 2010), che ha evidenziato nei comuni del Monte Amiata con attività geotermiche un tasso di mortalità maschile superiore di circa il 13% rispetto ai comuni vicini. Tuttavia, ENEL, l’amministrazione regionale e alcune associazioni tecniche negano una correlazione diretta tra queste statistiche e la produzione geotermica. In risposta alle proteste, ENEL ha introdotto nei suoi impianti i filtri "AMIS", progettati per ridurre le emissioni di mercurio e idrogeno solforato. Tuttavia, le associazioni ambientaliste ritengono che questi filtri non siano sufficientemente efficaci nell’eliminare molte altre sostanze inquinanti.

Sul piano economico, gli oppositori della geotermia temono che lo sfruttamento energetico comprometta le risorse naturali e il paesaggio, mettendo a rischio il turismo e le attività agricole, pilastri dell’economia locale. Il Monte Amiata è infatti un’area di grande valore paesaggistico e agricolo, nota per la produzione di vino, olio, castagne e altri prodotti tipici. Secondo i critici, la geotermia ha avuto un impatto minimo sull’occupazione locale – contrariamente a quanto sostenuto da ENEL e dalla Regione Toscana – ma ha invece danneggiato i settori economici tradizionali della zona.

LE RADICI DEL CONFLITTO: DIVERSI TIPI DI ATTACCAMENTI AL TERRITORIO

Oltre agli aspetti scientifici, il dibattito sulla geotermia del Monte Amiata ha una forte dimensione sociale e politica. Le comunità locali, organizzate in comitati, esprimono un profondo senso di solastalgia (Lampredi, 2024) – l'angoscia di non sentirsi più a casa pur essendo ancora a casa, causata dal degrado o dalla trasformazione dell’ambiente naturale a cui una persona è emotivamente legata, spesso dovuta a cambiamenti climatici, industrializzazione o disastri ambientali. La percezione di essere escluse dai processi decisionali ha alimentato il conflitto, rafforzando la sfiducia nei confronti delle istituzioni e delle aziende coinvolte.

Sul piano politico, la Regione Toscana ha continuato a sostenere l’espansione della geotermia, minimizzando il conflitto e definendolo un “non-conflitto”. L'opposizione locale è stata spesso ridotta a una reazione emotiva e classificata come un caso di sindrome NIMBY (Not In My Back Yard, "Non nel mio cortile"). Tuttavia, le proteste e le azioni legali intraprese dai comitati locali hanno rallentato l’approvazione di nuovi impianti e portato la questione al centro del dibattito pubblico.

Per comprendere il conflitto, è fondamentale considerare i diversi legami che le parti coinvolte hanno con il territorio. Gli oppositori della geotermia sono spesso agricoltori, operatori termali, proprietari di agriturismi e piccoli imprenditori, la cui sussistenza dipende dalla tutela dell’ambiente locale. Per loro, il Monte Amiata non è solo una risorsa economica, ma un luogo profondamente legato alla loro storia familiare e alla loro identità. Al contrario, i promotori della geotermia, che detengono un maggiore potere decisionale, affrontano la questione da una prospettiva principalmente tecnica. Il conflitto riflette quindi anche uno scontro tra coinvolgimento diretto e distacco dal territorio, influenzando il modo in cui la risorsa geotermica viene promossa, accolta, contrastata e negoziata

LA "MONTAGNA MADRE": UN LEGAME ANTICO E SPIRITUALE

Già nell’antichità, gli abitanti del luogo chiamavano il Monte Amiata “Montagna Madre” per il sostentamento che ha garantito alle famiglie della zona per generazioni, grazie alla ricchezza della sua biodiversità. Inoltre, il suo aspetto spirituale è di primaria importanza, poiché il calore della terra ha ispirato un legame profondo e secolare tra la montagna e i suoi abitanti. L'idea della Montagna Madre ha origini antiche e affonda le sue radici non solo nella storia cristiana del luogo, ma anche in quella etrusca. Per gli Etruschi, infatti, la vetta del Monte Amiata era considerata la dimora del dio Tinia, assimilabile a Zeus nella mitologia greca e a Giove in quella romana. L'immagine sottostante (figura 1) raffigura l’Allegoria del Monte Amiata, un dipinto di Nasini situato nell'abbazia di Abbadia San Salvatore, uno dei borghi più attivi dal punto di vista geotermico della montagna.

Figura 1: “Allegoria del Monte Amiata", F. Nasini, abbazia di San Salvatore (foto di Cesare Moroni)

Il Monte Amiata ospita inoltre Merigar, uno dei più importanti centri tibetani d’Europa. Il suo nome, che significa residenza della montagna di fuoco, richiama esplicitamente il passato vulcanico della zona. La montagna è quindi un luogo di culto per diverse tradizioni religiose, non solo cristiane, tutte in qualche modo legate al calore sotterraneo che caratterizza il territorio.

È impossibile non notare l’evidente legame simbolico tra il calore della montagna, che per generazioni ha nutrito la biodiversità e garantito la sussistenza delle comunità locali, e il suo sfruttamento attuale per alimentare le centrali geotermiche, inserendolo in logiche economiche più ampie.

CONCLUSIONE

Il caso della geotermia sul Monte Amiata dimostra che la transizione ecologica non può essere ridotta a una semplice questione tecnica ed economica, ma deve includere anche le percezioni e le esigenze delle comunità locali. Il dibattito scientifico rimane aperto, con studi che offrono dati contrastanti sugli impatti ambientali, economici e sanitari degli impianti geotermici.

Per evitare conflitti e garantire una transizione energetica equa e sostenibile, è fondamentale adottare processi decisionali inclusivi, che favoriscano un confronto trasparente tra esperti, istituzioni e cittadini. Solo attraverso un approccio partecipativo sarà possibile trovare un equilibrio tra innovazione tecnologica, tutela ambientale e giustizia sociale

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

ARS Toscana. 2010. Geotermia e Salute. https://www.ars.toscana.it/geotermia-e-salute/dati-estatistiche/1728-progetto-di-ricerca-epidemiologica-sulle-popolazioni-residentinellintero-bacino-geotermico-toscano-ottobre-2010.html

Lampredi, G. (2024). Solastalgia as Disruption of Biocultural Identity. The Mount Amiata Geothermal Conflict. Society & Natural Resources37(11), 1508-1527.


Ecologie delle evidenze in vaccinovigilanza: quali esperienze (non) si trasformano in conoscenza?

Le pratiche vaccinali sono generalmente rappresentate nei discorsi pubblici, nelle discussioni mediatiche, ma anche nei documenti ufficiali nazionali e sovranazionali, come una delle forme di tutela della salute pubblica più sicure ed efficaci. Vero e proprio emblema del successo biomedico – sino a diventarne spesso una metonimia - le vaccinazioni operano “salvando innumerevoli vite” (Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2023:4) e assicurando un rapporto “rischi/benefici particolarmente positivo” (ivi: 10). La sicurezza, in particolare, sarebbe garantita da un sistema di vaccinovigilanza, anche post-marketing, particolarmente efficiente: esso si articola attorno a complessi apparati burocratico-amministrativi che coinvolgono molteplici infrastrutture e soggetti diversificati.

Secondo le indicazioni dell’OMS, infatti, ogni AEFI (Adverse Event Following Immunization) – ossia qualsiasi episodio sfavorevole verificatosi dopo la somministrazione di un vaccino, non necessariamente causato dal vaccino stesso – andrebbe riportato al sistema di sorveglianza preposto.

SEGNALAZIONI DI AEFI IN ITALIA: TRA SICUREZZE E CRITICITA’

In Italia, l’organo deputato a questa sorveglianza è la Rete Nazionale di Farmacovigilanza (RNF), connessa, da una parte, al SSN (Sistema Sanitario Nazionale) e, dall’altra, alle reti di farmacovigilanza sovranazionali. Solo in seguito alla segnalazione, l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) è tenuta a valutare la possibile correlazione causale tra l’AEFI e la vaccinazione somministrata. Tuttavia, in Italia, la RNF è un sistema di segnalazione passivo, nel senso che la segnalazione è volontaria. Per cui i medici, così come i cittadini, possono inserire spontaneamente un AEFI sul sito dell’AIFA. La vaccinovigilanza strutturata in questo modo permetterebbe di “raccogliere, monitorare e investigare continuamente l’eventualità di eventi avversi (anche imprevedibili) ed è in grado di rilevare anche potenziali segnali di allarme, utili a rivalutare il rapporto beneficio/rischio del vaccino e a gestire gli eventuali rischi per la salute” (ivi: 14).

In quanto processi socio-culturali complessi, tuttavia, queste pratiche meritano di essere esplorate in profondità, tenendo in considerazione anche i discorsi che ne evidenziano limiti e lacune e che, spesso, sono frettolosamente derubricati come “no-vax” o “anti-vax”. Prendere in considerazione tali discorsi è un passo fondamentale non solo per comprendere come sfiducia e diffidenza possano generarsi proprio all’interno di quelle azioni di “vigilanza” che vorrebbero invece produrre affidabilità e sicurezza, ma anche perché gli sguardi critici si rivelano spesso essere strumenti utili per cogliere alcune antinomie intrinseche al sistema di produzione del sapere stesso.

VISSUTI IMMOBILIZZATI IN UN’ECOLOGIA DELLE EVIDENZE

Nel corso della ricerca etnografica che ho condotto sulle pratiche vaccinali e, in particolare, sul danno da vaccino (soprattutto in relazione all’età pediatrica, Lesmo 2024), alcune narrazioni tornavano, ostinate, a tormentare i racconti di molti genitori. “Allora dopo la seconda vaccinazione, proprio… è la catastrofe” mi ha raccontato una mamma. “Dopo che ha fatto il richiamo è cambiato tutto”, ha ricordato un’altra madre. Di narrazioni simili, rievocate con emozione da madri e padri, ne ho raccolte numerose. Nonostante ciò, un’unica famiglia aveva, faticosamente, segnalato “l’episodio sfavorevole” all’AIFA. La maggior parte degli altri genitori da me incontrati non era stata informata della possibilità di farlo in autonomia; in due casi i miei interlocutori ne acquisirono piena consapevolezza solo durante i nostri incontri. D’altra parte, i genitori si erano spesso rivolti ai pediatri evidenziando l’accadimento e, in almeno due situazioni, i medici avevano immaginato una possibile correlazione tra l’evento e le vaccinazioni. In nessuna di queste situazioni, tuttavia, l’evento era stato segnalato all’AIFA.

Perché?

Il senso di questi vuoti – questi passaggi mancati - non può restare sotto traccia. Renderli visibili diviene fondamentale perché permette di intercettare quei momenti in cui l’esperienza del singolo e il sistema volto a tradurre quest’ultima in un sapere condiviso non riescono a incontrarsi. Espulse e deviate verso traiettorie divergenti, le esperienze di alcuni soggetti non possono così contribuire alla produzione di una conoscenza di cui pure riconoscerebbero il valore (Lello, 2020). L’antropologo Charles Briggs (2016) ha definito “ecologie delle evidenze” quei processi per cui alcune esperienze individuali sono chiamate ad esistere all’interno del sapere scientifico, mentre altre ne sono rigettate, declassate “allo stato di ignoranza, superstizione, o patologia”, o finanche rese “impensabili” (ivi: 151). Quali ecologie delle evidenze vengono dunque attivate entro i processi di vaccinovigilanza, e specificamente nelle pratiche di segnalazione degli eventi avversi? Quali antinomie del sistema esse rendono manifeste?

CIRCOLARITA’ EPISTEMICHE

La maggior parte dei medici incontrati sul campo ha rilevato come, effettivamente, la segnalazione di eventi avversi non avvenga di frequente. Se alcuni tra loro attribuivano questa difficoltà all’onerosità di un tempo-lavoro da situarsi tra una crescente burocratizzazione della pratica medica e la conseguente compressione degli spazi clinici – con il rischio di una riduzione nella qualità dell’assistenza ai pazienti – altri processi sono emersi più spesso, sino a delineare un’ecologia delle evidenze specifica. Essa opera in due diverse – e paradossali – direzioni.

Da una parte, i medici incontrati hanno sottolineato come disturbi “benigni” o “quadri non gravi” (l’innalzamento della temperatura, l’irritabilità, le reazioni cutanee locali o le convulsioni febbrili…) fossero “già noti” o finanche “attesi”. In quanto tali, si riteneva superfluo segnalarli. “Ci sono eventi avversi previsti e non sono neanche considerabili tali” spiegava una dottoressa. Queste esperienze, pertanto, venivano immobilizzate all’esterno del sistema di rilevazione.

D’altra parte, un’eguale immobilità interessava alcuni disagi importanti occorsi nel periodo di somministrazione vaccinale - quali ad esempio disturbi neuro-muscolari o psicomotori severi. In questo caso, la motivazione alla base dell’esclusione era, paradossalmente, opposta a quella delineata in precedenza: dal momento che la letteratura medico-scientifica in questi casi aveva già escluso ogni possibile correlazione con le vaccinazioni, sarebbe stato superfluo segnalare l’evento.

In questo modo, tuttavia, ciò che avrebbe dovuto garantire una rivalutazione costante del rischio associato a possibili eventi avversi, veniva pre-determinato a priori dalle interpretazioni già esistenti in relazione al rischio stesso. Questa circolarità epistemica, a tratti paradossale, non affiorava in un vuoto epistemologico, ma si radicava entro una gerarchia delle evidenze ben consolidata nell’Evidence Based Medicine. I livelli di evidenza qui definiti, infatti, collocano tra le prove più attendibili le revisioni sistematiche di studi clinici randomizzati; all’opposto, le opinioni e le esperienze cliniche degli esperti si collocano alla base di simile costruzione piramidale (Oxford Centre for Evidence-Based Medicine). Tale gerarchia, profondamente interiorizzata dai medici da me incontrati, non consentiva ad osservazioni basate su singole esperienze cliniche di contravvenire quanto già sostenuto in letteratura e, dunque, neanche di ritenerlo manifesto al punto da doverlo/poterlo segnalare.

In questo modo, tuttavia, il sistema di sapere tendeva a riprodurre sé stesso riconfermando quanto già definito e dirottando – o immobilizzando - al suo esterno esperienze che avrebbero potuto contribuire a sollecitarne un riesame. Tali esperienze venivano così ricondotte - e ridotte – allo stato di banalità, ovvietà, ignoranza.

Già Foucault, in fondo, aveva rilevato come “l’esterno di una scienza è più e meno popolato di quanto non si creda” (Foucault, 2004:17), costellato da tutto ciò che ogni disciplina “respinge oltre i suoi margini” (ibidem). Tuttavia, per molti genitori da me incontrati, vedersi convergere a forza verso una simile esteriorità escludeva contemporaneamente ogni possibile credibilità di un sistema orientato, invece, a produrre fiducia: esso si trasformava piuttosto in fonte di sospetto e biasimo nelle istituzioni tutte e nei loro discorsi.

 

BIBLIOGRAFIA

Briggs, Charles, L. 2016. “Ecologies of evidence in a mysterious epidemic.” Medicine Anthropology Theory 3(2):149-162.

Foucault M., 2004, L'ordine del discorso e altri interventi, Torino: Einaudi.

Lello, E., 2020, “Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax”, Rassegna Italiana di Sociologia, 3:479-507.

Lesmo, I., 2024, “Ecologie delle pratiche nella vaccinovigilanza italiana. Antinomie nel sapere vaccinale”, AM_Rivista della Società italiana di antropologia medica, 25(58):181-211,

Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2023, Piano nazionale Prevenzione Vaccinale PNPV 2023-2025.

Oxford Centre for Evidence-Based Medicine, https://www.cebm.ox.ac.uk/resources/levels-of-evidence/oxford-centre-for-evidence-based-medicine-levels-of-evidence-march-2009


Deus absconditus. L’emancipazione di Homo “sacer” - Seconda parte

IL CONCETTO DI “IMMATERIALE” E QUELLO DI “INTANGIBILE”

La scorsa volta abbiamo cominciato a esplorare le sopravvivenze del sacro nel mondo secolarizzato, che a torto s’immagina essere emancipato dalle istanze più arcaiche di Homo sapiens. Certamente il lettore di STS è informato dai protocolli congiunti di ragione, scienza e tecnica, il sacro essendo per lui al più un ricordo d’infanzia legato all’educazione scolastica e famigliare. Se un’indole religiosa ancora lo abita, è quella dell’agnostico/a. Ciò nondimeno, questo episodio della serie è dedicato a chiunque, pur professandosi ateo o agnostico, è persuaso che un mondo “immateriale” si accompagni a quello materiale, mostrando così come il sacro permei tuttora la sua concezione del mondo.

Per sconfiggere questa forma residuale di superstizione, certamente meno grave di quella religiosa ancorché altrettanto diffusa, cominciamo con l’esaminare l’uso linguistico del lemma “immateriale”. Non a caso esso è aggettivale, si pensi a espressioni quali “corpo immateriale”, “patrimonio immateriale”, “cultura immateriale”, ecc. Senza un campo d’applicazione concreto, non avrebbe ragion d’essere. Il sostantivo che di volta in volta il lemma parassita non si riferisce a un “ni-ente”, ma a un ente vampirizzato. Se l’intensione del concetto rimanda a enti inconsistenti di fatto inesistenti, la sua estensione si riferisce a espressioni linguistiche multiuso al servizio di utilizzatori persuasi che esistano due mondi. Quello di “immateriale” è un concetto figlio della superstizione dualistica, la quale a sua volta è debitrice del sacro. Se non è il caso di espungerlo dal vocabolario delle lingue umane, pena un impoverimento del mondo, certamente va bandito dall’orizzonte onto-epistemologico.

Al suo posto andrebbe utilizzato il concetto di “intangibile”, da cui “corpo intangibile”, “patrimonio intangibile”, “cultura intangibile”, ecc. L’equivoco che si insinua tra i due concetti non discende solo dalla sfera sacrale e da concezioni filosofiche superate, ma anche dalla serie di precondizioni materiali che ne sono alla radice. Sul banco degli imputati va convocata la natura eterogenea del mesocosmo terrestre, laddove immagini, suoni e odori si propagano attraverso un’atmosfera rarefatta e una forza gravitazionale debole. Quello che comunemente si ritiene “immateriale” è una rete inafferrabile di relazioni materiali a bassa densità, della quale partecipa la coscienza. La nostra impalpabile soggettività ci sembra abitare un corpo gettato in un mondo a sua volta conteso tra spirito e materia, una superstizione tanto ubiqua, quanto congenita.

Qualcuno obietterà che passi la materialità controintuitiva dell’aria, delle immagini, dei suoni e degli odori. Ma le emozioni, i sentimenti, le idee e la cultura non sono identificabili con alcun supporto materiale. Per eliminare ogni residuo spiritualista, è sufficiente applicare il concetto di intangibilità a ogni ambito della sfera spirituale. Prendiamo il più impalpabile degli enti, la mente. In polemica a distanza con il dualismo cartesiano, al giorno d’oggi si parla opportunamente di “mente estesa” (CLARK-CHALMERS 1998), tanto nell’alveo della filosofia analitica che, con qualche resistenza, in quello della filosofia continentale europea. Se l’estensione è disomogenea nello spazio e nel tempo, se una mente estesa è differentemente localizzata, allora è dis-locata. Essa consiste in un processo interamente materiale che evolve di corpo pensante in corpo pensante, depositandosi all’occorrenza su supporti inerti che attendono di essere animati. Nelle culture alfabetizzate, per esempio, poggia sui differenti media che ci hanno insegnato a leggere queste righe, e che assieme al resto si sono depositati in noi sub specie di informazione elettrochimica, non prima che colpissero i sensi attraverso luci, suoni, odori, sensazioni in genere. A ciò si unisce la voce che i significati declama prima di imparare a silenziarli nel pensiero o a trascriverli su un supporto, la quale necessita delle corde vocali per propagarsi. Non parliamo dell’esperienza di vita che la voce forgia. L’intero processo che fa capo a ciò che siamo è chiamato in causa, il quale altro non è se non la nostra mente estesa. Questo contribuisce a farla ritenere priva di quel corpo materiale che in effetti non ha, perché ne ha molti in relazione tra loro. Tra di essi, i significati, le idee e la cultura di cui la mente si sostanzia, tutti necessariamente materiali.

Chi, leggendo queste righe, si fosse persuaso che il monismo materialista è cosa buona e giusta, provi a ripensare a un solo ente immateriale: non ci riuscirà più. La sua nuova fede comporta l’abbandono di altri tre concetti indebiti: quello di riduzionismo, di panpsichismo e di creazione intelligente. Al monismo materialista non può che accompagnarsi una concezione emergentista in un mondo causalmente autonomo (cfr. ZHOK 2011). Assegnare una mente creatrice alla sostanza generalizzata significa far rientrare dalla finestra la divinità cacciata dalla porta, come la Pimpa che anima gli enti applicando loro un paio d’occhi. Sovrapporli agli oggetti quotidiani, ai feticci della divinità o all’universo mondo non fa alcuna differenza, se l’artefice è chi sovrappone. Quanto al riduzionismo, in aperta contraddizione è chi pretende di ridurre gli enti ai suoi costituenti non essendo a sua volta ridotto. In un mondo composito, a densità variabile e caratterizzato da organizzazioni spazio-temporali relativamente in/dipendenti, non si vede a quale livello si sia legittimati a fondare. Ritenere il microcosmo come il livello più autentico significa perdere di vista non solo il mesocosmo terrestre e chi lo abita, ma anche il macrocosmo. La danza delle galassie necessita anch’essa del vuoto quale pista da ballo, il quale non è immateriale, è vuoto e basta.

Insomma Dio è morto, Marx pure e anche l’immateriale sembra debba lasciarci.

 

 

NOTE

Clark, A. - Chalmers, D., The extended mind, Analysis, 58.1, January 1998, pp. 7-19.

Zhok, A., Emergentismo. Le proprietà emergenti della materia e lo spazio ontologico della coscienza nella riflessione contemporanea, ETS, 2011


Antropologia dell’IA - Stereotipi, discriminazioni di genere e razzismi

Da un twitter divenuto virale nel 2019 si è venuti a conoscenza del fatto che Goldman Sachs, una delle più importanti banche d’investimento del mondo, aveva escluso una potenziale cliente dall’accesso a una prestigiosa ed esclusiva Apple card in base a una profilazione erronea e discriminatoria. Il fatto si è saputo perché l’autore del twitter, un danese sviluppatore di software, è il marito della persona a cui era stata negata la card, che lui invece aveva ottenuto pur guadagnando meno di lei. In sostanza, la donna per ragioni opache e non trasparenti era stata considerata non idonea per quel determinato prodotto.

Discriminazioni di genere

Se non ci fosse stato quel twitter non si sarebbe saputo nulla di tutto ciò, ovvero di una sistematica e silenziosa discriminazione di genere. La vicenda rappresenta una plastica esemplificazione della nota metafora del cosiddetto “soffitto di cristallo”: la possibilità che una donna ha di poter scalare il potere o di avere pari opportunità di carriera è spesso preclusa da una sorta di soffitto trasparente, che costituisce una barriera invisibile eppure potente e limitante. Per ragioni imperscrutabili, non esplicitate chiaramente e senza la possibilità di entrare nel merito, gli algoritmi rischiano di attuare politiche discriminatorie, che si supponeva dovessero appartenere al passato e non alle tecnologie del futuro. La rappresentazione, l’interpretazione e la codificazione degli esseri umani attraverso dataset di training e le modalità con cui i sistemi tecnologici raccolgono, etichettano e utilizzano questi materiali sono aspetti decisamente cruciali nel riprodurre stereotipi, pregiudizi, forme di discriminazione di genere o razziale. I bias trovano sempre una strada per inserirsi nel sistema, o meglio in un certo senso i bias fanno parte del sistema. A questo proposito, è noto che fino al 2015 Amazon reclutasse i suoi futuri dipendenti tramite un sistema che si era “allenato” sui curricula, in genere di uomini, ricevuti nei dieci anni precedenti. I modelli avevano quindi imparato a raccomandare gli uomini, autoalimentando e amplificando le disuguaglianze di genere dietro la facciata di una supposta neutralità tecnica. Tanto per fare un esempio, il curriculum di un aspirante dipendente di Amazon veniva scartato se al suo interno conteneva la parola “donna”, perché il sistema aveva imparato a gestire di dati così (Dastin 2018).

Il razzismo dell’IA

L’IA produce e riflette le relazioni sociali, una determinata visione del mondo e, inevitabilmente, i rapporti economici e di potere, visto il notevole capitale in termini finanziari che occorre per investire in essa. Basti pensare che i sistemi di riconoscimento facciale, che contribuiscono fortemente a etichettare la realtà e gli umani, derivano dai primi tentativi sperimentali della Cia e dell’FBI negli anni Sessanta, passando per i database basati sulle immagini dei carcerati, per arrivare all'epoca attuale, dove i principali sistemi di questo tipo sono alimentati da volti e scatti liberamente messi in circolazione sui social (Crawford 2021:105-135). Ovviamente l'accresciuta complessità tecnologica e il suo considerevole impatto sociale hanno fatto emergere anche i tratti più controversi dell’IA, a cominciare dai pregiudizi automaticamente inseriti nei dataset utilizzati per nutrire l'intelligenza artificiale. Si pensi al fatto che c’è stato un lungo dibattito sul riconoscimento facciale, in cui si è visto che è più difficile distinguere i neri, proprio perché i dataset di training si fondano prevalentemente su materiale fotografico di bianchi, raccolto e categorizzato soprattutto da bianchi.

Le differenze razziali, culturali e di genere sono elementi che non si limitano ad affiancarsi o a sommarsi uno sull’altro, ma interagiscono producendo nuove e incomparabili forme di segregazione e di assoggettamento, che si stratificano su vecchi e consumati stereotipi e discriminazioni. A questo riguardo, sui media ha molto circolato la storia di un’afroamericana che non riusciva ad avere il mutuo per acquistare una casa e non si capiva perché, visto che aveva un buon lavoro in una università americana; finché non è apparso chiaro che ciò dipendeva dal quartiere afroamericano in cui abitava e dal suo essere afroamericana (Glantz, Martinez, 2018). In pratica, l’IA acuiva le asimmetrie già esistenti riguardo i singoli gruppi umani a partire dalla loro supposta affidabilità in termini creditizi. Limitando le chance di un futuro migliore si perpetua e “naturalizza” un razzismo esistente e conclamato seppure mai apertamente dichiarato.

Secondo la scienziata esperta in intelligenza artificiale Timnit Gebru e la studiosa di linguistica computazionale Emily Bender un gigante come Google riafferma e ratifica continuamente le disuguaglianze. Ad esempio, il suo programma di riconoscimento facciale è meno accurato nell’identificare le donne e le persone di colore (Hao 2020). Gli algoritmi, concepiti a partire da tecnologie innovative, possono convalidare forme di razzismo istituzionalizzato. Addirittura in uno studio dell’Università del Maryland è stato riscontrato che in alcuni software di riconoscimento facciale le emozioni negative vengono maggiormente attribuite ai neri piuttosto che ai bianchi (Crawford, 2021:197).

Il contesto socio-culturale  dell’IA

Lo sviluppo esponenziale dell’IA ha in qualche maniera obbligato a ragionare su determinati aspetti, come quelli per così dire più umani delle machine learning. Gli stereotipi, le forme di discriminazione e di razzismo infatti vengono automaticamente appresi e inseriti nei dataset, ma questi ovviamente erano e sono già presenti in internet e nella realtà quotidiana al di là della IA. Per cui bisogna tornare a monte, appunto. Di cosa si nutre l’IA? Chi costruisce l’intelligenza artificiale? Perché è ovvio che non si tratta di semplicemente di correggere errori una volta che emergono, come il caso dei curricula di Amazon o della Apple card di Goldman Sachs. Le immagini inserite nei dataset basati sulla visione artificiale per il riconoscimento degli oggetti, nel categorizzare i generi si ritrovano a organizzare, etichettare ad esempio foto in cui gli uomini sono spesso stati fotografati outdoor presi in qualche attività sportiva e con oggetti relativi allo sport e le donne prevalentemente in cucina con qualche utensile relativo al cucinare (Wang, A., Liu, A., Zhang, R., Kleiman, A., Kim, L., Zhao, D.,Shirai, I. Narayanan, A. Russakovsky, O., 2021: 9). Questo dato è di per sé rilevante e in qualche modo va analizzato perché i bias sono già incapsulati nel sistema.

Fei-Fei Li, un’esperta di visione artificiale che si occupa anche di debiasing, come ridurre i bias che i dataset tendono ad inglobare, afferma che le conseguenze della attuale situazione sono “dataset non sufficientemente diversificati, compreso quello di ImageNet [a cui la stessa Li ha lavorato, n.d.a.], esacerbate da algoritmi testati male e decisioni discutibili. Quando internet presenta un’immagine prevalentemente bianca, occidentale e spesso maschile della vita quotidiana, ci resta una tecnologia che fatica a dare un senso a tutti gli altri” (Li, 2024: 253). I dataset riflettono anche una concezione del mondo fortemente ancorata a quella di coloro che ci lavorano.

È interessante sapere che, secondo il Guardian, nel team di Sam Altman il 75% dei dipendenti di OpenAI è uomo (Kassova, 2023). E la domanda che inevitabilmente sorge è: quali sono le conseguenze di una IA sviluppata senza la piena partecipazione delle donne, delle minoranze e di Paesi non occidentali? Perché allo stato attuale è ovvio che la loro mancanza di rappresentanza nel settore tech ha come conseguenza che gli algoritmi funzionano male con coloro che non sono bianchi e maschi.

L’IA e il marchio del capitalismo

Le altre domande altrettanto cruciali sono: per chi è fatta l’IA? Chi possiede i dataset e che uso ne fa? E qua ovviamente entra in gioco anche la democrazia sulla trasparenza e l’etica della non discriminazione. Uno degli elementi chiave riguardo i dati è che sono presi senza contesto e senza consenso. Nick Couldry e Ulises Mejias (2022) fanno un interessante parallelismo tra epoca coloniale e società attuale. Se nell’epoca del colonialismo, il potere agiva in maniera estrattiva, ovvero i colonizzatori spoliavano i paesi colonizzati di materie prime preziose e di forza lavoro (tramite lo schiavismo), i corrispettivi contemporanei per profitto estraggono dati senza chiedere il consenso ai legittimi possessori, come nel caso di Midjourney che, come recentemente emerso in una class action promossa da alcuni artisti americani, ha utilizzato le opere di 16.000 artisti senza chiedere il consenso e aggirando il copyright. I maggiori giganti tecnologici sono costantemente e voracemente in cerca di enormi quantità di dati per alimentare e allenare i sistemi di intelligenza artificiale (Metz, C., Kang, C., Frenkel, S., Thompson, S.A., Grant, N., 2024). Internet è stato concepito da coloro che operano nel settore dell’IA come una sorta di risorsa naturale, disponibile da cui si possono estrarre dati a piacimento. Il colonialismo dei dati è un ordine sociale emergente basato su un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo a beneficio di alcune élite, come era avvenuto in passato con il “classico” colonialismo. C’è una continuità profonda nei metodi di acquisizione, negli atteggiamenti mentali, nelle forme di esclusione e di preservazione del potere. È incredibile come ciò sia a volte incastonato in qualche biografia emblematica: Elon Musk, ad esempio, ha un padre che è stato proprietario di una miniera di smeraldi in Zambia. In famiglia la forma di colonizzazione si è solo evoluta con i tempi e con le tecnologie, ma il marchio è lo stesso.

L’intelligenza artificiale, come un tempo il colonialismo, genera valore in modo iniquo e asimmetrico, impattando negativamente su molte persone, non importa se le definiamo in termini di razza, classe o genere, o tramite l’intersezione di tutte queste categorie.

E renderla più inclusiva non sarà una battaglia facile.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Crawford, K. (2021), Né intelligente né artificiale: il lato oscuro della IA, Il Mulino, Bologna.

Couldry, N., Mejias, U.A. (2022), il prezzo della connessione: Come i dati colonizzano la nostra vita e se ne appropriano per fare soldi, Il Mulino, Bologna.

Dastin, J. (2018), “Amazon Scraps Secret AI Recruiting Tool That Showed Bias against Women”, in Reuters, October 11.

Glantz, A., Martinez of Reveal, E. (2018), “Kept out: How Banks Block People of Color from Homeownership, APnews, February 15.

Hao, K. (2020), “We Read the Paper That Forced Timnit Gebru Out of Google. Here’s What It Says”, in MIT Technology Review, December 4.

Kassova, L. (2023) “Where are All the ‘Godmothers’ of AI? Women’s Voices are not being Heard”, The Guardian, November 25.

Li, F.F, (2024), Tutti i mondi che vedo, Luiss University Press, Roma.

Metz, C., Kang, C., Frenkel, S., Thompson, S.A., Grant, N. (2024), “How Tech Giants Cuts Corners to Harvest Data for A.I.”, The New York Times, April 6.

Telford, T. (2019), “Apple Card algorithm sparks gender bias allegations against Goldman Sachs”, Washington Post, November 11.

Wang, A., Liu, A., Zhang, R., Kleiman, A., Kim, L., Zhao, D., Shirai, I. Narayanan, A. Russakovsky, O., (2021,“A Tool for Misuring and Mitigating Bias in Visual Dataset”, arXiv: 2004.07999v4 [cs.CV] 23 Jul 2021.


Un fiume norvegese, il governo e dei pescatori tradizionali - La conoscenza scientifica come forma di colonialismo?

Noi occidentali abbiamo imparato a dare per scontato che la conoscenza scientifica abbia un primato epistemologico sulle altre forme di conoscenza. Ma esistono anche delle conoscenze tradizionali che non sono formalizzate in teorie, concetti specifici, ma che possono avere una forte presa sulla realtà.

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Nel saggio “Indigeneity, science and difference: notes on the politics of how”, John Law e Solveig Joks (2019) analizzano una controversia coloniale riguardante la regolamentazione della pesca del salmone nel fiume Deatnu.

Da un lato c’è il governo norvegese che, con i suoi ricercatori e biologi, vuole imporre delle norme per preservare le popolazioni di salmoni attraverso la riduzione delle attività di pesca. Secondo il governo e i ricercatori, gli obiettivi di stoccaggio non venivano raggiunti e il numero di salmoni stava diminuendo.

Questo gruppo di scienziati finlandesi e norvegesi aveva raccolto statistiche, modellato stock ittici ed eseguito proiezioni demografiche; sulla base di questi elementi aveva elaborato delle regole rigide su chi può e chi non può pescare in questo fiume scandinavo, con quali tecniche, in quali periodi e in quale ora del giorno. Queste norme sono il prodotto di statistiche e proiezioni biologiche sulla popolazione ittica.

Dall’altro lato ci sono le popolazioni indigene dei Sàmi che abitano sulle rive del fiume: i Sami conoscono come si comporta il livello dell'acqua nella sua loro parte di Deatnu, conoscono l'ora del giorno più propizia, il momento della stagione più favorevole per pescare, le predisposizioni dei vari tipi di salmone, e come incidono la temperatura, il sole, il vento, la pioggia e la neve sulla pesca.

In altre parole, hanno pratiche e concezioni diverse del fiume e del salmone.

Inoltre, la cautela e il rispetto per il fiume e per il salmone, il senso del luogo, la modestia, sono valori fondamentali che orientano la loro pratica di pesca; ad esempio, non pescano più salmone del necessario, non contano i pesci che catturano (farlo sarebbe irrispettoso) e non pescano quando i salmoni stanno per riprodursi. Fanno affidamento su un tipo di conoscenza caratterizzata da un'avversione per le statistiche. Anche i pescatori Sàmi si preoccupano per il salmone, solo che non lavorano con i numeri, ma si chiedono: arriverà il salmone? Continueranno ad arrivare? E, se ne arrivano meno, perché?

Nonostante ciò, il governo norvegese ha adottato le norme prodotte dal gruppo di scienziati riducendo i periodi di pesca da 11 (nel 2016) a 4 (nel 2017).

Queste regole - però -  impedivano ai Sami di pescare quando le condizioni erano giuste, oppure glielo impedivano in un’altra parte del fiume anche se lì le condizioni sono giuste ma non in quella dove loro abitavano; impedivano di pescare anche se lo stato del tempo e del fiume sono ottimali, o le attività degli altri pescatori e l’ottima pesca dell’ultimo periodo hanno fatto capire loro che quello è un buon momento per pescare.

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Il punto è che queste regole ignorano le competenze delle popolazioni locali e la loro più profonda preparazione perché le costringe a pescare in orari predeterminati e, a volte, inappropriati; oppure permettono di pescare quando invece non si può perché non c’è nessuno che ti può aiutare con le reti, oppure perchè l’acqua è troppo bassa o alta.

Gli autori dello studio mettono in luce l’asimmetria di potere tra le pratiche della biologia e le conoscenze ecologiche tradizionali dei Sami. La scienza dei biologi e ricercatori si basa sulla raccolta e l’elaborazione rigorosa di dati sistematici all'interno di un modello o ipotesi di ricerca, in grado di produrre un tipo di conoscenza oggettiva.

Quella dei Sàmi, invece, è un tipo di conoscenza in gran parte basata sull’esperienza, orale e visiva, intuitiva, e altamente qualitativa. Proprio per questo motivo viene marginalizzata.

Questo produce degli effetti più ampi.

In primo luogo, con la pesca limitata a quattro periodi all’anno, diventerà quasi impossibile per i giovani Sami imparare l’arte della pesca tradizionale, e questo la farà piano piano scomparire, insieme a quell’insieme di saperi e conoscenze sul come controllare una barca e maneggiare una rete, ma anche su come funziona il fiume, dove scorrono i canali profondi, dove è probabile che nuotino i salmoni. Tutto ciò richiede tempo, pazienza e pratica, ma con l’introduzione di queste regole tutto ciò viene loro tolto.

In secondo luogo, la scelta di adottare quelle norme ha una forte dimensione politica. Siamo di fronte a due modi differenti di assemblare la realtà. La modellazione scientifica della pesca mette in scena un modello fatto di meccanismi causali standard per  spiegare le specificità di particolari fiumi, popolazioni e tassi di sfruttamento. In questo mondo non c’è spazio per le pratiche di pesca Sámi.

Gli autori parlano di un “soffocamento ontologico”, da parte del mondo delle regole che ignora le contingenze tradizionali dei locali e mette in atto un altro tipo di realtà. I modelli degli scienziati mettono in pratica una logica di colonizzazione perché presumono che esista un unico mondo “scopribile” attraverso meccanismi e/o correlazioni.

Ma questo tipo di rappresentazione non lascia spazi per storie, realtà e conoscenza alternative.

Sembra evidente che, a volte, la conoscenza scientifica ha lo stesso effetto del colonialismo sui Paesi che sono diventati colonie, cioè l’imposizione di un modo di pensare alla realtà in aperto contrasto e incompatibile con gli stili di vita tradizionali.

L’idea dell’oggettività, dello sguardo da nessun luogo non è realistica, I laboratory studies (Latour e Woolgar 1979; Knorr Cetina 1997) hanno mostrato come l’oggettività venga prodotta attraverso una continua manipolazione degli oggetti.

In questo caso abbiamo una ontologia, quella degli scienziati e biologi, che viene sovrapposta all’ontologia dei Sàmi.

I Sami hanno, infatti, una visione di cos’è oggettivo, ma la scienza impone una realtà divergente, che poi propone alla politica e pretende che sia implementata.

CONCLUSIONE

Nel momento in cui le norme vengono implementate si genera un circolo vizioso, in cui alcuni scienziati possono giustificare le proprie pratiche con frasi del tipo “eh ma sono scelte politiche”.  Allo stesso tempo, la politica, implementando quel tipo di decisioni può deresponsabilizzarsi, attraverso il famoso mantra “lo dice la scienza”. La scienza fornisce una importante legittimazione alle scelte politiche a causa della sua autorità epistemica sulle altre forme di sapere, ma proprio per questo motivo non può rivendicare una neutralità perchè le decisioni prese producono degli effetti.

La scienza è una pratica sociale che crea un tipo di realtà e, spesso attraverso la politica, la mette in atto. Non c’è spazio per altre versioni. La natura viene rappresentata come un'unica realtà modellata da meccanismi generali che possono essere individuati dai ricercatori, mentre la cultura viene vista come multipla, soggettiva e normativa.

La sfida non è convincere le popolazioni Sami che la conoscenza scientifica è epistemicamente superiore, ma piuttosto fare in modo  che la conoscenza dei Sami venga integrata nella scienza. La necessità è quella di creare pratiche materiali concrete che avvicinino gli uffici, i laboratori, i modelli biologici dei coloni” alle pratiche locali dei Sámi.

Nel caso specifico la direzione potrebbe essere quella di “ammorbidire” il realismo della biologia.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Knorr-Cetina K. (1997), Sociality with Objects. Theory, Culture and Society 14 (4):1-30. 

Latour B. e Woolgar S. (1979), Laboratory life: The construction of scientific facts, Princeton University Press, Princeton.

Law, J., & Joks, S. (2019). Indigeneity, Science, and Difference: Notes on the Politics of How. Science, Technology, & Human Values44(3), 424-447. 

 


Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (seconda parte)

Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per questa opera, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda.

I primi quattro soggetti menzionati possono essere definiti serial killer, ricordando che serialità è la terza parola chiave del titolo della mia opera, poiché un serial killer è un soggetto che compie almeno tre omicidi tra i quali intercorre un periodo di raffreddamento emozionale, il cui agire sottende un insieme ampio e variegato di pulsioni sessuali devianti, tali da indurre, soventemente, durante l’omicidio, anche il coito. Poiché sono soggetti che agiscono sotto l’influsso del desiderio sessuale, sono incapaci di smettere di uccidere, a meno che non sopraggiunga un evento esterno alla loro volontà: l’arresto o la morte. Armin Meiwes, invece non è un serial killer avendo ucciso una sola vittima.

Vediamo alcune principali caratteristiche.

Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, uccise 3 donne, le fece a pezzi per poi ricavarne del sapone, mentre il sangue lo raccolse, lo essiccò per poi farne biscotti che mangiò lei stessa con diversi conoscenti. Nel caso di questa donna, per esempio vi sono elementi tipicamente maschili: l’utilizzo di armi come un martello e una scure, l’atto di sezionare i corpi, ecc. A suo dire fece tutto ciò per annullare una maledizione che le aveva lanciato sua madre, e avendo perso molti figli temeva che gli unici in vita potessero fare la stessa fine.

Andrej Romanovič Čikatilo, il Mostro di Rostov, uccise tra 53 e 56 vittime tra bambini, disabili e giovani donne, cibandosi di diverse parti dei loro corpi, con modalità omicidiarie tra le più brutali ed efferate nella storia della criminologia del cannibalismo. Era solito accanirsi sui polmoni, il cuore e gli organi sessuali; in particolare, asportava e divorava i genitali delle vittime ancora in vita; sembrerebbe aver strappato a morsi e masticato la lingua, il labbro, il naso e i capezzoli di alcune sue vittime. Inoltre, si cibò dell’utero di una donna dove aveva precedentemente rilasciato il suo seme. Dunque, nel suo caso vi sono elementi tipicamente maschili nel modus operandi.

Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva, la Coppia cannibale, il loro caso è uno dei più recenti. Dalle dichiarazioni rilasciate, avrebbero non solo cannibalizzato più di 30 persone, ma anche parte di queste per delle ricette utilizzate per dar da mangiare ai militari nella mensa in cui lavorava Natalia. Nella strutturazione di questa coppia, le questioni di genere sono interessanti. Il loro modo di agire rientra nel disturbo psichiatrico noto disturbo psicotico condiviso. Questa sindrome venne descritta, sotto il nome di Folie à deux, per la prima volta da Lasègue e Falret. Si tratta di un quadro clinico peculiare in cui un soggetto dominante, denominato induttore o caso primario, influenza un soggetto più debole, denominato indotto, arrivando ad imporgli il suo sistema delirante. Normalmente l’uomo è l’induttore e la donna l’indotto, mentre in questo caso Dmitry ha ucciso una donna, Elena Vakhrusheva, su richiesta di Natalia in preda alla gelosia.

Jeffrey Lionel Dahmer, il Mostro di Milwaukee, ha ucciso e cannibalizzato 17 ragazzi. La sua ossessione era quella di trovare qualcuno che non lo abbandonasse, tanto è vero che tentò di realizzare un vero e proprio zombie iniettando varie sostanze nel cranio di una vittima. In Dahmer sono state riscontrare varie peculiarità criminologiche, una fra tutte: la splancnofilia, una tipologia di disturbo parafilico individuato in tutta la storia del serial killer sono in Dahmer appunto, e consiste nell’attrazione sessuale provata per l’involucro esterno degli organi interni. Dahmer infatti ha dichiarato di avere avuto rapporti sessuali non solo con i cadaveri delle vittime, praticando quindi necrofilia, ma a volte con parti di essi come crani, organi ecc. Nel modus operandi di questo serial killer si rilevano elementi tipici della serialità femminile come l’uso di sostanze per avvelenare e/o addormentare le proprie vittime.

Armin Meiwes, il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, si è cibato di un solo soggetto, che si consegnò volontariamente, perché desiderava essere mangiato vivo. Meiwes tagliò il pene della vittima e lo consumarono insieme per poi ucciderlo e mangiarsi la sua carne per diversi mesi. Ha dichiarato che la carne umana ha un gusto simile a quello della carne di maiale ma un po’ più amara.

In realtà molte di queste pratiche fino ad ora descritte si ritrovano nei culti di diverse divinità cannibali come il demone Asmodeo definito come il distruttore, capace di cibarsi delle sue vittime; Lamaštu, divinità di origine mesopotamica; secondo diversi miti, a differenza delle altre divinità mesopotamiche, ella attaccava le sue vittime autonomamente e non per ordine di altre divinità. Le sue vittime predilette erano le donne prossime al parto e i neonati, che venivano rapiti durante l’allattamento per cibarsi delle loro ossa e del loro sangue; Crono, nella denominazione greca, o Saturno, nella denominazione romana, dopo aver sposato sua sorella Rea, la quale partorì i suoi figli, a divorarli uno per uno. Il suo atto antropofagico è stato reso celebre, nel mondo dell’arte, da Francisco Goya e la sua opera Saturno devorando a su hijo.

Nel saggio però, ho dato molto spazio ad una divinità che ha un rapporto peculiare con il cannibalismo ossia Śiva, dio ermafrodito degli umili, i śūdra. Nel culto di questa divinità i sacrifici umani rispecchiano certe credenze dell’essere umano, certi aspetti della natura del mondo che sarebbe imprudente ignorare. Sono parte dell’inconscio collettivo e rischiano di manifestarsi in forme perverse se non osiamo affrontarli. “Esistere vuol dire mangiare ed essere mangiato. L’uomo è ciò che mangia. Ogni essere vivente si nutre di altri esseri e diverrà nutrimento di altri esseri in un ciclo interminabile”. Śiva viene così considerato sia come divorato che come divoratore; Śiva stesso afferma: “Io sono il cibo, io sono il cibo, io sono il cibo! Io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo!… Dal cibo le creature nascono, per opera del cibo una volta generate si mantengono in vita, nel cibo morendo ritornano”. È indubbia la correlazione con le concezioni socio-psicoanalitiche sul cannibalismo seriale, come se negli antropofagi seriali vi fossero delle sopravvivenze inconsce, ovvero una sorta di esternazione di queste concezioni sedimentate nel proprio inconscio, un istinto primitivo e śivaista che si slatentizza.

Primitivo perché l’atto di uccidere e cannibalizzare era tipico delle popolazioni primitive, o meglio ancora del passato, perché spesso in periodi più recenti caratterizzati da grave carestia sono stati praticati atti antropofagi per garantire la propria sopravvivenza. E questo aspetto è abbastanza noto e trattato nella letteratura in generale, soprattutto lombrosiano-freudiana di cui si è fornita una breve panoramica.

Sul secondo aggettivo, ossia śivaista, a oggi non vi è alcun riferimento e legame, se non per gli atti antropofagici, al campo della criminologia. È necessario precisare che non si sta sostenendo che gli śivaisti siano dei serial killer, ma che in questi ultimi sembrerebbe riaffiorare un’attitudine che ricorda la ritualità, i principi, e alcuni aspetti tipici di questo culto; una vera e propria forma di regressione, o forse la dimostrazione del fatto che tutti siano accomunati da un unico grande inconscio collettivo. Una prima prova legata a questa ipotesi potrebbe essere rappresentata da una delle poche popolazioni inclini al cannibalismo ancora in vita, ossia gli Aghori.

Dunque, il gusto del cannibalismo ha molte sfumature perché mette a nudo pensieri e desideri che fanno paura, e ci mettono innanzi ad una domanda difficile da porsi: chi è un mostro? Forse potremmo rispondere con il titolo di un’opera dello psichiatra forense, Robert Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno.


Mundus patet - Ernesto De Martino e l’informe atomico

E la fine di “un mondo” non significherà la fine “del mondo” ma, semplicemente, “il mondo di domani”

Ernesto De Martino

Risale ai miti fondativi dell’antica Roma la comparsa del termine mundus, con cui si indicava il perimetro della città. Terra già esistente, diviene cosmo creato in virtù di un gesto collettivo. Il rito di fondazione prevedeva la partecipazione di un gruppo o, secondo uno sguardo diacronico, di una comunità. Ovidio racconta che venne scavato un fosso in cui riporre beni di vario genere. In seguito questo venne riempito di terra. Fu Romolo stesso, secondo l’autore, a tracciare con l’aratro «il solco su cui costruire le mura»[1]. Non solo un perimetro, bensì un’intera superficie. Catone spiega la derivazione del senso terreno del mundus dal mondo che sta «sopra di noi: la sua forma infatti […] è simile alla forma di quello»[2]. Alla forma a volta dell’universo corrisponde la forma a fossa, a “U”, del mondo sotto di noi, chiamato anche mundus Cereris: il mondo dei defunti. Il mondo degli inferi è cautamente sigillato con un apposito coperchio apribile, oppure è sovrastato dall’altare di Romolo. Mundus è dunque l’insediamento, il centro fissato, ma anche il limine tra mondo celeste e inferi. In quanto soglia esso assume un significato aggiuntivo, inserendosi in un’articolazione di senso e di operazioni ulteriori. Insieme al bue nero e alla giumenta bianca[3], Romolo si mette alla guida della sua aratro per tracciare il confine, il limen, del nuovo insediamento. È a partire dalla centralità delle tecniche agricole nella società romana “delle origini” che è possibile individuare il terzo senso del termine mundus che, secondo Herbert J. Rose, «poteva essere destinato a determinati riti agrari, poteva contenere per esempio piccole quantità di grano non tanto come primizie bensì per essere benedette dalle potenze del mondo infero»[4]. Si istituisce uno scambio tra mondo dei vivi e mondo dei morti cui segue la rigenerazione della terra. Nel capitolo di Morte e pianto rituale dedicato alla “Messe del dolore”, l’etnologo napoletano Ernesto De Martino (1908-1965) analizza la configurazione del rapporto dell’uomo del mondo antico con l’esperienza di morte. L’autore sostiene che «veder fiorire» e «veder scomparire» sono accadimenti che dipendevano «in larga misura da potenze che sfuggivano al controllo umano»[5], ma che nondimeno venivano integrati in un «ordine di lavori agricoli» che – come l’arare, il seminare e il raccogliere – istituivano un rapporto speculare con quelle forze indomabili, per cui l’uomo «si fa procuratore di morte secondo una regola umana»[6]. Così come, attraverso il raccolto, l’uomo decide per la morte della spiga, così attraverso il seminare l’uomo opera in direzione della propagazione della vita, della sua ripetizione. L’autore riconosce che questo rapporto organico non risolve, non evita, il rischio di una crisi[7]. Occorre fissare un primo interrogativo: in che senso non è sufficiente osservare e domesticare la natura – imitandola – per essere certi che «domani ci sarà un mondo»[8]?

Che cosa è “mondo”? È una sfera? Oppure è una volta, cui corrisponde una fossa, separate da un coperchio che noi uomini calpestiamo? Lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha tentato di descrivere il tipo di spazio che viene in essere nell’esperienza dell’uomo religioso. Così come il coperchio serve ad un tempo da membrana e da limite invalicabile del mundus Cereris, così le Colonne d’Ercole sono il limite ultimo oltre cui non spingersi, pena cadere nel nulla e ritrovarsi faccia a faccia con Atlante. Allo strapiombo dell’Inferno dantesco corrisponde, secondo una simmetria longitudinale, la verticalità del Purgatorio alla cui somma sta l’Eden[9]. In queste tre rappresentazioni ricorre un carattere osservato da Eliade: «per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo»[10]. Esistono spazi consacrati, con una loro forza, un loro preciso significato; ed esistono spazi «non consacrati […] amorfi»[11]. I primi sono «l’unica cosa reale», mentre i secondi costituiscono una mera «informe distesa» che circonda i primi[12]. Lo spazio sacro diviene tale in virtù di una ierofania, di una manifestazione delle forze sacre che sancisce una separazione ontologica tra lo spazio sacro e lo spazio profano[13]. Da questa cesura nasce il templum come perimetro e indice che questo posto, questo cerchio di terra, è sede delle potenze sacre. Il tempio si costituisce come centro di orientamento, come centro di irradiamento: qui il sacro si concentra, il fedele vi si dirige, il sacro ne emana e viene sigillato in una forma – coperchio o montagna. Il mondo sembra essere, stando a Eliade e De Martino, il “reale” che si dispiega in quanto tale in forza di una significazione. Più che un villaggio, un bosco o un pianeta, il mondo è un prodotto – da producere, portare avanti – derivante e continuamente costruito nel rinnovamento di un legame agonistico dell’uomo con sé stesso e con le forze su cui non può nulla. Il mondo è il risultato di una tessitura faticosa che ricorda quella di Penelope: potenzialmente infinita. Se il mondo non è qualcosa di stabile bensì di stabilizzato che cosa succede quando l’uomo cessa di essere religioso? Religio, rilegare, cucire insieme l’uomo e il mondo, inserire l’esteriorità entro una trama ordinata, un disegno. Secondo Eliade non è possibile trovare un uomo che non sia religioso in toto, «anche la vita più desacralizzata conserva tuttavia le tracce di una valoristica religiosa del Mondo»[14]. Siamo meno religiosi, ossia siamo meno adeguati ad una religione istituzionalizzata, e il nostro rapporto con la natura è per molti aspetti meno sacralizzante che un tempo. Eppure la religione intesa come rapporto non riguarda solo le relazioni uomo-divinità e uomo-natura, bensì anche quella dell’uomo a sé e al suo simile. La religione è quel comportamento umano che continuamente sancisce la validità di determinati valori che divengono condivisi in quanto universalizzabili, ossia: traduce quotidianamente in pratiche le regole di un comportamento dello stare insieme in uno spazio collettivo. La comunità non è una sommatoria di individui, bensì un insieme organico orientato verso un modo del vivere in comune che costituisce la base per la formulazione delle regole – tacite o meno – di questo stesso vivere in comune. La religione, come la politica; il mundus, come lo Stato. Cosa hanno in comune queste forme di rapporto? Arrischiamo una risposta provvisoria: la religione e la politica, il mundus e lo Stato, costituiscono le forme – dunque i mondi? – entro cui si regolano le attività umane attraverso l’istituzione di regole e di valori che, differentemente da quanto oggigiorno si predica, non sono indefinitamente rinegoziabili. Se viviamo nell’epoca di crisi dei valori non è perché siamo meno religiosi o perché ci muoviamo in un mondo in cui le scienze “dure” insegnano la prevedibilità dei fenomeni, mostrandoci contemporaneamente la loro fallibilità intrinseca e dunque inducendoci a un certo scetticismo. La crisi dei valori deriva in primo luogo dalla friabilità della postura di chi ritiene che questi siano tutti, indipendentemente, sempre di nuovo rinegoziabili. L’apparente marmoreità di questa posizione vacilla nel momento in cui ne si considera il rovescio, il risvolto pratico: l’equivalenza potenziale di ogni futuro possibile.

Ci siamo domandati in che senso non è sufficiente osservare e domesticare la natura per essere certi che domani ci sarà un mondo. Se il mondo sorge come effetto di un procedimento di tessitura del reale che pone l’uomo al livello di Aracne, non stiamo dando troppo potere all’uomo? Se questo rimane religioso in quanto tessitore, possiamo accettare che il mondo finisca? Eppure, prima di domandarci questo, dobbiamo chiederci, insieme a De Martino, che cosa significa pensare la fine del mondo. Secondo l’etnologo il mondo è primariamente culturale. Il problema della fine sorge anticamente[15]: culture differenti rappresentano secondo le relative divinità, concezioni dello spazio e del tempo, della morte, la loro fine del mondo[16]. Il rischio della fine del mondo è ricorsivo e va affrontato in quanto, secondo l’etnologo, «se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’umanità»[17]. Nel suo contributo De Martino declina gli assi portanti della sua riflessione alla luce dei «200 000 di Hiroshima»[18]. Il 6 agosto 1945, alle otto del mattino, un mondo è finito. Eppure, qualcuno ha preparato questa fine, la ha calcolata scrupolosamente sottomettendola a sperimentazioni, approvazioni e registri; ne ha osservato gli effetti dopo averli previsti più o meno approssimativamente. Il mondo è finito quel giorno per chi ignorava lo spesso tessuto di preparazioni, ma è finito anche per chi pazientemente preparava questo avvenimento, per chi lo ha curato. Un decadimento annoso dunque, le cui manifestazioni terminali indicano che la krisis è già trapassata nell’epoca in cui «l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la possibilità stessa della cultura»[19].

Come armarci contro questo scacco? Una fine senza escaton, in cui alla vastità del mondo sopra e sotto di noi corrisponde la puntuale e calcolata localizzazione di una promessa di salvezza o di condanna. Il mondo non è forse mai stato così aperto.

 


NOTE

[1] Ovidio, Fasti e frammenti, in Opere, materiali a c. di F. Stok, UTET, Torino 1999.

[2] Catone, Commentari, in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), materiali a c. di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Giulio Einaudi editore, Torino 2019, pp. 119-120.

[3] Ovidio, cit., p. 337.

[4] H. J. Rose, “The Mundus”, in Studi e materiali di storia delle religioni, XII, 1931, pp. 115-127, qui p. 121. Traduzione italiana parziale in E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), materiali a c. di M. Massenzio, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021, p. 125.

[5] E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit., p. 225.

[6] Ibid.

[7] Ippocrate di Coo e la sua scuola medica impiegavano il termine krisis per indicare quella fase del decorso della malattia che si impone come discrimine all’interno del percorso di guarigione del paziente. I due esiti possibili che potevano configurarsi anche contraddicendo le previsioni del medico e repentinamente consistevano nel decadimento nella morte o nella risoluzione dell’equilibrio organico nella guarigione. Più che l’alternativa del decorso ci interessa il carattere di imprevedibilità, di sorpresa, che comunque accompagna l’osservazione e la ricerca.

[8] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 65. Corsivo nostro.

[9] Giorgio Agamben ne Il regno e il giardino dedica un capitolo al cosmo dantesco ricostruendone alcune interpretazioni teologiche e reinterpretandone il ruolo alla luce della sua percorribilità da parte di Dante, in forza della quale l’Eden si configurerebbe come “la figura della beatitudine terrena”, cui l’uomo può accedere. G. Agamben, Il regno e il giardino, Neri Pozza, Vicenza 2019, p. 71. Corsivo nostro.

[10] M. Eliade, Il sacro e il profano (1957), tr. it. E. Fadini, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 19.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] L’Inferno dantesco nasce dall’urto di Lucifero sulla terra in seguito alla sua cacciata dal Paradiso. La terra risponde all’urto e alla forza ritirandosi. A questo movimento corrisponde l’emergere della forma conversa: il monte del Purgatorio.

[14] M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., p. 20.

[15] “Il problema della fine del mondo” è il titolo del contributo di De Martino al convegno internazionale organizzato dal filosofo cristiano Pietro Prini nel 1964. Il convegno “Il mondo di domani” ebbe luogo a Perugia tra il maggio e il luglio 1964. Stando a Giordana Charuty al convegno parteciparono anche, tra altri, Paul Ricœur, Gabriel Marcel e Umberto Eco. Il contributo di De Martino venne inserito nel testo che seguì al convegno, dall’omonimo titolo, pubblicato da Prini a Roma nello stesso anno.

[16] Nel testo del 1977 De Martino analizza una varietà di modi di intendere, prevedere e interpretare, il tema della fine del mondo. Possiamo indicare, tra i numerosi indagati dall’autore, i casi della schizofrenia, del marxismo e della decolonizzazione. Nondimeno, si potrebbe considerare lo studio su Morte e pianto rituale come una propedeutica al testo del 1977: il lutto sancisce la fine di un mondo culturale, necessita la restaurazione di un ordine che può essere riarticolato e riassunto solo entro una dinamica collettiva che si esplica attraverso operazioni e tecniche intersoggettive.

[17] E. De Martino, “Il problema della fine del mondo”, in La fine del mondo, cit., pp. 69-76, qui p. 69.

[18] Ivi, p. 71.

[19] Ivi, p. 70.


Ciò che nasce con buone intenzioni muore di cattive

Il processo di fissione nucleare fu definito con esattezza nel 1939. Probabilmente la vigilia della seconda guerra mondiale non offrì il contesto psicologico e sociale migliore per condurre quella scoperta rivoluzionaria su una strada pacifica, ma questa non deve essere una scusa.

La scelta di progettare la bomba atomica è stata appunto una scelta.

Nessun topo costruirebbe una trappola per topi. Gli esseri umani hanno da sempre concentrato i loro uomini migliori e i loro sforzi più importanti nell'inventare, costruire e far funzionare trappole per altri esseri umani.

Perché?

Ogni specie naturale vive un equilibrio che sarebbe immutabile se non per eventi naturali estremi e comunque esterni alla specie. Una parte in causa dell'equilibrio che lo rompe e lo ripristina, uguale o diverso.

L'uomo ignora qualsiasi forma di equilibrio esterno alla propria specie e rompe qualsiasi equilibrio sociale costruito dalla sua specie dopo un certo tempo.

Perché?

Le altre specie cosiddette dominanti hanno perso il proprio privilegio per cause esterne. Dalla notte dei tempi fino alla comparsa dell'uomo. Noi corrompiamo qualsiasi sistema naturale e sociale forse per darci un futuro. Ci vogliamo mettere in cima a qualsiasi piramide naturale o sociale perché è il posto più sicuro che possiamo immaginare.

Da lì sentiamo il controllo e vediamo il futuro. Finché le buone intenzioni dell'inizio ci suggeriscono qualcosa di diverso. Improvvisamente sentiamo che quella sicurezza non è abbastanza. Qualcosa ci supera, o soltanto ci sembra. E scatta inesorabile l'ennesima trappola per esseri umani costruita da esseri umani.

Il fenomeno che abbiamo innescato a quel punto ci supera. Diventa troppo grande per essere in possesso del singolo e ogni singolo inizia a sentirlo necessario nonostante estraneo a sé. Quindi estraneo a tutti e necessario per ciascuno. L'esigenza specifica e contingente oscura le conseguenze possibili di cui eravamo consapevoli fin dall'inizio. Ma è ormai un moto irrefrenabile, al punto in cui lo mettiamo in discussione già non ci rendiamo più conto o non siamo più in grado di connotare le forze che avevamo evocato e lo stanno conducendo.

Quando la trappola è pronta l'unica opzione è usarla. Ci mettiamo davanti alla valanga e pronunciamo la fatidica frase: Cosa Abbiamo Fatto Stavolta.

Stavolta finora ha sempre avuto un'altra volta. Viviamo un paradosso che ha bisogno di rinnovarsi costantemente per restare valido, e perpetriamo questo paradosso di cui sembra non possiamo più fare a meno. Lo rinnoviamo ogni volta come fosse l'unico futuro che siamo in grado di immaginare.

Achille cercava le battaglie per la gloria che lo attendeva inesorabile. Morì per una flebile lancia.