L’orologio del Giorno del Giudizio 

Novanta secondi alla mezzanotte, ovvero all’Apocalisse. L’orologio del Giorno del Giudizio, meglio noto come «Doomsday Clock», è un’iniziativa ideata nel 1947 dal gruppo di scienziati – tra i quali ex-membri del «Progetto Manhattan» – facente capo al Bulletin of the Atomic Scientists della Università di Chicago. Si tratta di un orologio «metaforico» atto a misurare il pericolo di un’ipotetica fine del mondo – o, per meglio dire, di un’eventuale fine dell’umanità – dovuta, in primis, a cause di natura «atomico-bellica» ma anche relativamente a fenomeni antropici di lungo periodo, ad esempio il riscaldamento globale e la cosiddetta «emergenza climatica». Ogni anno il team di scienziati internazionali del bollettino è chiamato formalmente a riaggiornare le lancette del timer apocalittico, a seconda degli avvenimenti e delle circostanze contingenti. Il pericolo di un’imminente fine viene quantificato indicando simbolicamente la mezzanotte come orizzonte temporale limite, e, in questo senso, i minuti che separano le lancette dallo scoccare dell’ora finale rappresenterebbero la distanza ipotizzata da quell’evento. Se è vero che, dal 2007, l’orologio prende in considerazione ogni variabile che possa provocare danni irrevocabili all’umanità, è vero anche che, al momento della sua creazione, la mezzanotte rappresentava unicamente l’eventualità della guerra atomica e, in sintesi, lo scenario apocalittico della cosiddetta «M.A.D.» o «Mutual Assured Destruction». Per intenderci, è quello che ha messo in scena molto bene Kubrick nel suo celebre Dottor Stranamore, ovvero la «distruzione mutua assicurata» tra due super-potenze nucleari che decidessero, per scelta o per sbaglio, di «aprire il fuoco» del bombardamento atomico, reciprocamente e senza freni, l’una nei confronti dell’altra.

Al momento della sua creazione, durante la guerra fredda, l’orologio fu impostato alle 23:53, ovvero sette minuti prima della mezzanotte. Da allora, le lancette sono state spostate ventitré volte, e la massima vicinanza alla mezzanotte è stata raggiunta nel 2023, in piena tensione internazionale tra Russia e USA durante il conflitto ucraino, ma anche – come se ciò non bastasse – per l’innalzarsi significativo delle temperature globali dell’anno precedente. Il 2024 ha confermato il trend dell’anno prima, ribadendo la distanza simbolica di 90 secondi dal Giudizio Universale. Un tale countdown è, dunque, pericolosamente vicino alla sua conclusione, ad un livello storicamente mai visto prima. La massima lontananza registrata, invece, è stata di 17 minuti, tra il 1991 e il 1995 – significativamente coincidente con i cosiddetti accordi «ST.A.R.T.», ovvero «Strategic Arms Reduction Tready», e, in tal senso, tangente anche al crollo dell’URSS e all’implosione dell’universo sovietico.

Il fattore umano

Non è del tutto privo di pertinenza, a questo proposito, citare l’evento emblematico che vide protagonista Stanisláv Evgráfovič Petróv, tenente colonnello dell’esercito sovietico, il 26 settembre 1983, quando il sistema radar di rilevamento precoce di attacco nucleare dell’URSS registrò un lancio di missili da basi statunitensi. Interpretando correttamente questa segnalazione come un «falso allarme» in quello che, appunto, è passato alla storia come l’«incidente dell’equinozio d’autunno», il tenente Petróv è stato ribattezzato come l’«uomo che fermò l’Apocalisse»: il suo gesto  ha mostrato meglio di ogni «strategia della deterrenza» quali sono i rischi dell’implementazione degli arsenali nucleari e – oggi più di ieri – quali i possibili vantaggi della cosiddetta «agency» del fattore umano, spesso sacrificato nel nome della presunta oggettività della macchina. Oggi, dati anche i più recenti sviluppi dell’A.I.,  si tende a delegare il più possibile agli algoritmi decisioni di qualsiasi tipo – dalle più banali come la scelta della playlist su Spotify, a quelle più rilevanti in termini di globalità.  La mancanza di fattore umano – per meglio dire, il suo occultamento sotto le mentite spoglie dell’emulatore macchinico, che potenzia le nostre capacità, pregi e difetti compresi – non ci deve  rassicurare: dovrebbe piuttosto ulteriormente inquietarci l’immagine riflessa che ci viene restituita, mediante l’intelligenza amplificata dalle macchine, non tanto delle nostre potenzialità in positivo, quanto in negativo della nostra «piena impotenza» in senso apocalittico.

Già nel 1958, nelle sue Tesi sull’età atomica, il filosofo Günther Anders rifletteva sulla data spartiacque del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki come il vero punto di «non-ritorno» per la vita umana su questa terra: l’avvento di quell’«era atomica» intesa come il «tempo finale» (Endzeit) dell’umanità – scrive appunto Anders (1961, Tesi sull’era atomica, p. 201):

«

Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo; ma potendo essere distrutti in ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti.

    » 

Per Anders, infatti, oggi non manca tanto la capacità di realizzare effettivamente la fine della umanità sulla Terra e, quindi, l’Apocalisse intesa come avvento del «mondo-senza-uomo», quanto la effettiva «non-capacità» dell’umanità di frenare il compimento dell’età atomica. Insomma, l’umanità è divenuta «antiquata» (Antiquiertheit), ovvero «obsoleta» a sé stessa, in quanto non è più in grado di salvare sé stessa attraverso l’impiego di una “forza catecontica” che ne freni la deriva apocalittica, cioè non tanto attraverso l’impiego di un potere, quanto piuttosto di un «non-potere» reale. Va anche detto, a scanso di equivoci, che la vita nell’era atomica, per Anders, si colloca ambiguamente in una sorta di «limbo» votato alla «dilazione» (Cit.), e cioè a ritardare il più possibile l’inevitabile. Non, perciò, una passiva accettazione della «fine dei tempi» (Zeitenende), quanto piuttosto una poco compiaciuta e assolutamente inquieta vita «sotto la bomba» nel segno del «tempo della fine» (Endzeit).

La minaccia atomica, oggi

Paradossalmente, dunque, per Anders è proprio l’epoca che massimamente ha visto l’umanità padrona del proprio destino – tanto che, anche se recentemente è stato «bocciato» dagli specialisti, è ormai uso comune riferirsi alla nostra era geologica attuale come «antropocene» – è anche quell’«età atomica» esiziale che di tale destino lo spossessa, fino all’inevitabile auto-estinzione. Attualmente, è lo spettro della «minaccia atomica» che torna prepotentemente a farsi largo tra i titoli di giornale: si pensi, per esempio, alle recenti affermazioni di Amihai Eliyahu, ministro del governo Netanyahu, il quale considerava un’opzione papabile l’utilizzo dell’atomica su Gaza, oppure anche le dichiarazioni di Trump che, da presidente, definì l’atomica appunto l’«arma della fine dei tempi». Recentemente, è stato il deputato Tim Walberg del Michigan a suggerire l’utilizzo dell’atomica su Gaza.

Ovviamente, ciò che oggi fa concretamente paura è l’impiego di armi nucleari tattiche nel conflitto in Ucraina, spesso seriamente paventate da parte di Putin. La «minaccia atomica» oggi è dunque il tema tornato inaspettatamente in primo piano e non solo per la cronaca. Anche la proposta filosofica di Anders, infatti, trova oggi un’inaspettata – o forse no – rifioritura, tanto che alcuni interpreti già si sono espressi nei termini di una vera e propria «Anders reinassaince». In Italia, è significativamente stato dedicato un importante numero della nota rivista «Aut-Aut» (397/2023) proprio all’attualità del pensiero di  Anders per il dibattito. Inoltre, l’apertura di una nuova collana «Andersiana» per la casa editrice milanese «Mimesis» ribadisce il ruolo centrale che Anders va acquisendo sulla scena, anche considerando l’interesse che la teoria andersiana è tornata a suscitare all’estero e, significativamente, oltreoceano – dove Anders è sempre stato considerato, a suo stesso dire, un pensatore ostico e di difficile digestione, a differenza per esempio di un Marcuse o della stessa Arendt.

Le centrali atomiche come polveriere nucleari

Il confronto sull’impiego dell’energia nucleare è oggi all’ordine del giorno, corollario del triste ma necessario dibattito sull’autosufficienza energetica che vede le nazioni europee tutte – ma l’Italia in particolare – sempre maggiormente coinvolte. Le riflessioni andersiane su Černobyl, dal punto di vista critico, rivelano un’importante elemento, spesso trascurato: infatti, le centrali nucleari che, in tempo di pace, producono energia – diciamo in modo sicuro, efficiente e pulito – sono le stesse che, in tempo di guerra, si trasformano in potenziali strumenti bellici. Ancora una volta, lo abbiamo visto nel recente scontro russo-ucraino. Oltre all’impiego effettivo di arsenali atomici, anche le centrali nucleari si trasformano letteralmente in “polveriere nucleari” ad elevato tasso di rischio, veri e propri «punti caldi» nelle escalation dei conflitti bellici tra potenze.

In questo senso, l’attualità di Günther Anders sta anche nel ricordarci che, come provocatoriamente sosteneva lui stesso con una celebre battuta: «non ci si può fermare ad insegnare l’Etica Nicomachea, mentre le testate atomiche si accumulano». Per Anders, non c’è effettivamente una grande differenza tra una bomba nucleare progettata esplicitamente per esplodere e una centrale nucleare che, eventualmente, può farlo, se non il fatto che, in effetti, quest’ultima è una bomba atomica in potenza, laddove invece la prima è un ordigno in atto: un dispositivo che esercita attivamente la propria minacciosa presenza sull’umanità in maniera meno subdola o, se vogliamo, necessitando di un «camuffamento mediatico» adeguato. Il fine dell’energia nucleare, sembra dire Anders, è forse appunto quello di far sembrare un’opzione più appetibile, green e innocua, quella stessa potenza atomica che, tuttavia, potrebbe spazzare via l’uomo dalla faccia della terra letteralmente nel tempo di un lampo incandescente.

Anders invita pertanto ad avere il coraggio di avere paura; o, come anche dice in una celebre intervista, tradotta in italiano come Opinioni di un eretico e recentemente ripubblicata (Anders, 2023, p. 70):

«

Coraggio? Non ne so nulla. Non ne ho quasi mai bisogno per il mio agire. Fiducia? Non mi serve. Speranza? Posso solo risponderle: in linea di principio non la conosco. Il mio principio è: anche se nell’orrenda situazione in cui ci siamo messi ci fosse una pur minima possibilità di poter intervenire, si dovrebbe comunque farlo. I miei Comandamenti dell’era atomica, che lei ha ricordato, si chiudono con il mio principio. Esso dice: ”se sono disperato, ciò non mi riguarda!”

» 

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