Recensione di "Eppure non doveva affondare - Quando la scienza ha fatto male i conti"
Il saggio Eppure non doveva affondare - Quando la scienza ha fatto male i conti (Bellucci D., Bollati Boringhieri, 2024) offre una riflessione approfondita sugli errori scientifici, mettendo in evidenza come questi non siano da considerarsi come semplici fallimenti ma opportunità, fondamentali per il progresso della conoscenza. Attraverso una serie di casi emblematici, l’autore mostra l’importanza di un’analisi critica e della capacità di apprendere dagli errori per migliorare le tecnologie e il metodo scientifico.
Uno degli ambiti in cui gli errori hanno avuto conseguenze drammatiche è l’ingegneria. Bellucci analizza alcuni fallimenti progettuali clamorosi, come quello degli aerei con finestrini quadrati. Questo design, apparentemente banale, si rivelò fatale: la forma degli angoli causava una concentrazione eccessiva delle sollecitazioni meccaniche, portando alla rottura della fusoliera in volo. Un altro caso emblematico riguarda le navi che si spezzano in due a causa di calcoli errati sulla distribuzione del peso e delle forze strutturali. Questi esempi mostrano quanto sia essenziale un’analisi accurata nella progettazione, perché anche il minimo errore può trasformarsi in una catastrofe.
Il libro si sofferma poi sugli errori nel campo dell’hardware e dell’informatica, mostrando come difetti nei microchip possano compromettere operazioni matematiche fondamentali. Un singolo errore nella progettazione di un processore può avere ripercussioni enormi, rendendo necessarie operazioni costose di aggiornamento o sostituzione. Anche nel software gli sbagli possono avere conseguenze impreviste e pericolose: sistemi che perdono la cognizione del tempo possono causare problemi gravi, soprattutto in ambiti critici come il settore bancario o le telecomunicazioni. A volte, persino un dettaglio apparentemente insignificante—come un cavo allentato—può mandare in fumo esperimenti scientifici di grande importanza.
Un altro ambito in cui gli errori possono avere conseguenze drammatiche è la medicina. L’autore analizza i problemi legati alla ricerca farmaceutica e alla produzione di medicinali, evidenziando come piccole variazioni nella formulazione o nella fase di sperimentazione possano rendere un farmaco inefficace o addirittura pericoloso. Inoltre, Bellucci mette in luce le criticità legate ai trial clinici, spiegando come un’interpretazione errata dei dati possa compromettere l’affidabilità delle cure e generare rischi per i pazienti.
L’intelligenza artificiale è un altro settore in cui gli errori assumono un ruolo centrale. Bellucci evidenzia i pericoli legati ai modelli predittivi, che possono produrre risultati distorti o discriminatori se vengono addestrati su dati errati. Un ulteriore problema riguarda la trasparenza: la cosiddetta “scatola nera” delle reti neurali rende difficile comprendere i meccanismi decisionali degli algoritmi, complicando l’individuazione e la correzione degli errori. Questo solleva questioni cruciali non solo dal punto di vista tecnico, ma anche etico.
Ma come si possono prevenire questi errori? Il libro dedica una sezione alle strategie utilizzate dalla scienza per ridurre i rischi e migliorare l’affidabilità delle scoperte. Tra queste, l’autore cita la peer-review nella ricerca accademica, il debugging nel software, i trial clinici randomizzati in medicina e l’uso della ridondanza strutturale in ingegneria, ovvero l’inserimento di margini di sicurezza nei progetti per evitare cedimenti improvvisi. Questi metodi mostrano che, pur non potendo eliminare completamente gli errori, è possibile limitarne gli effetti attraverso un’attenta verifica e un approccio sistematico.
Infine, Bellucci sottolinea come la scienza sia un processo collettivo: gli errori sono inevitabili, ma è proprio grazie al metodo scientifico che possono essere individuati, corretti e trasformati in nuove conoscenze. Il progresso non è mai il risultato del lavoro di un singolo, ma della condivisione e della verifica incrociata tra esperti. In definitiva, Eppure non doveva affondare offre una panoramica affascinante su come anche i più clamorosi fallimenti possano diventare strumenti preziosi per migliorare la nostra comprensione del mondo e affinare le nostre tecnologie.
DEVIS BELLUCCI
Devis Bellucci, nato nel 1977, è un fisico, scrittore e divulgatore scientifico italiano. Ha conseguito la laurea in Fisica nel 2002 e il dottorato nel 2006 presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove attualmente ricopre il ruolo di ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali. La sua attività di ricerca si concentra principalmente sui biomateriali per applicazioni in ortopedia, odontoiatria e medicina rigenerativa.
Oltre alla carriera accademica, Bellucci è autore di numerosi romanzi e saggi. Tra le sue opere narrative si annoverano "La memoria al di là del mare" (2007), "L'inverno dell'alveare" (2010), "La ruggine" (2011), "La sete dei pesci" (2013) e "La cura" (2017). Nel campo della divulgazione scientifica, ha pubblicato "Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo" (2020) e "Eppure non doveva affondare" (2024), in cui esplora gli errori nella scienza e le loro conseguenze.
Come divulgatore, Bellucci ha collaborato con diverse testate, scrivendo di scienza, viaggi e cultura. È attivo anche sui social media, attraverso i quali condivide contenuti legati alla scienza e alla tecnologia.
Decalogo Latouriano – Il pensiero meno noto di Bruno Latour, Terza parte
La prima e la seconda parte del percorso latouriano hanno toccato:
- il legame profondo tra oggetti della scienza e società, in cui – secondo Latour – sono i primi a spiegare la seconda (il sociale, la società e la sociologia)
- la critica di Latour alle sociologie interpretative, all’empirismo storico, al riduzionismo e –ovviamente – al positivismo, dichiarandosi però “oggettivista”, “realista” e “relativista” nello stesso tempo.
- il costruzionismo
- il concetto di attante
In questa terza e ultima parte analizzeremo:
- i concetti di micro e macro, riferiti alla società e alla relazione tra locale e globale
- il metodo dell’Actor-Network Theory (ANT)
e proveremo a concludere il percorso.
Tracciando, prima, una serie di associazioni tra i diversi argomenti, da applicare a esempi reali, fino a dare qualche suggerimento su come studiare in modo innovativo anche i temi più controversi. Aggirando le banali e insensate distinzioni tra scientifico e anti-scientifico, scienza e pseudoscienza, ortodosso e eterodosso.
5. IL MICRO E IL MACRO
Anche su questo tema, Latour è stato (in parte) originale, profondo e contro-intuitivo. Perciò, praticamente inascoltato.
- “La società non è il grande tutto ‘in cui’ ogni cosa è incastonata. La società è ciò che viaggia ‘attraverso’ ogni cosa, calibrando le connessioni e offrendo alle entità che incontra un'occasione di commensurabilità”.
- “Né globale, né locale hanno di per sé un’esistenza concreta. Tranne che quando vengono connessi momentaneamente dai ‘connettori’”.
- Per cui, occorre combattere "il pregiudizio che le interazioni locali siano più concrete".
- Invece, “l'azione è dislocata. L'azione sempre imprestata, distribuita, suggerita, influenzata, dominata, tradita, tradotta (…) non appartiene a nessun luogo specifico”.
- Perciò, "l'interazione faccia-a-faccia non è un punto di partenza plausibile per tracciare le connessioni sociali”.
- “Non dobbiamo considerare che il macro inglobi il micro, ma che il micro sia composto di una proliferazione di entità incommensurabili — ciò che Tarde chiamava ‘monadi’ — che stanno semplicemente prestando uno dei loro attributi, una ‘facciata di se stessi’. Il piccolo regge il grande. O, piuttosto il grande potrebbe in qualsiasi momento sprofondare di nuovo nel piccolo da cui è emerso e a cui ritornerà”.
- Seguendo la lezione di Tarde, “il grande (Stati, organizzazioni, mercati) è un’amplificazione, ma anche una semplificazione del piccolo”.
- “Come dimostra la storia economica recente, le grandi decisioni sono meno razionali di quelle piccole”. E, sempre seguendo Tarde, “c’è generalmente più logica in una frase che in un discorso, più in un singolo discorso che in una successione o un gruppo di discorsi; ve n’è più in un rito speciale che in un intero credo, in un articolo di legge che in un intero codice, in una particolare teoria scientifica che nell'intero corpo della scienza; e ve n’è più in una singola opera eseguita da un operaio che nella somma della sua condotta”.
- "le cose, i quasi-oggetti e gli attaccamenti sono il vero centro del mondo sociale; non l’agente, la persona, il membro o il partecipante, né la società o i suoi simulacri (...) la società è la conseguenza dell'associazione e non la sua causa”.
- “Non fissatevi con il capitalismo, ma nemmeno rimanete bloccati sullo schermo della trading room: seguite le connessioni, seguite gli attori stessi”.
- Anche se non si può trascurare "l'importanza dei siti locali che fabbricano strutture globali, non si può dire che un luogo sia più grande di un altro luogo, ma si può affermare che alcuni beni beneficiano di connessioni molto più sicure con molti più luoghi".
- Le ‘grandi’ narrazioni possono essere prodotte in questi luoghi ‘locali’.
- Questo approccio laturiano, evoca molto il sociologo statunitense Randall Collins, con la sua teoria delle catene di interazione rituale (di ispirazione goffmaniana).
6. METODO ANT
- Secondo Latour, "lo studio delle innovazioni e delle controversie è uno dei luoghi privilegiati in cui gli oggetti possono essere mantenuti più a lungo nel loro ruolo di mediatori visibili, distribuiti e formalizzati nei resoconti, prima di diventare intermediari apparentemente invisibili e asociali”.
- Latour distingue tra “mediatori” e “intermediari”. Non è una distinzione ergonomicamente felice per la comprensione del suo pensiero, ma (in breve) significa che un mediatore è un ente che trasforma, fa far cose agli altri, che influenza (senza causarla) l’azione degli altri. Un intermediario, invece, un ente passivo. Tuttavia, questi non sono ruoli prestabiliti: un mediatore, in una certa occasione, può diventare intermediario; e viceversa. “Incidenti, guasti e scioperi: all'improvviso intermediari silenziosi diventano mediatori a tutti gli effetti; persino gli oggetti che un minuto prima sembravano del tutto automatici, autonomi e privi di agenti umani sono ora circondati da folle di umani pesantemente equipaggiati che si muovono freneticamente”. Così, “persino i più umili e antichi strumenti di pietra ritrovati nella Gola di Olduvai in Tanzania sono stati trasformati dai paleontologi in mediatori responsabili dell'evoluzione dell'uomo moderno”.
- Per cui il metodo ANT si focalizza sulla “traduzione”: una connessione che veicola trasformazioni, una relazione che non veicola causalità, ma induce la coesistenza di due mediatori.
- Latour confessa che actor-network theory è un’espressione goffa, fonte di enorme confusione. E ne propone diverse, che però hanno avuto scarso successo: ‘sociologia della traduzione’, ‘ontologia dell’attante-rizoma’, ‘sociologia dell’innovazione’, sociologia delle associazioni (o assologia). Tuttavia, è bene mai dimenticare, che “la rete è un concetto, non una cosa là fuori. E’ uno strumento” euristico.
- Per cui, “nutrirsi di controversie costituisce un metodo molto più sicuro” di molti altri usati dalle sociologie convenzionali, le quali “credono in un solo tipo di aggregati sociali, pochi mediatori e molti intermediari; per l’ANT, non esiste un tipo privilegiato di aggregato sociale, bensì un numero infinito di mediatori e la loro trasformazione in intermediari fedeli non è la regola, ma un'eccezione rara”. Questo è uno dei motivi per cui l’ANT “è chiaramente in contrasto con il programma esplicitamente asimmetrico di Weber, che segue una definizione dei mezzi e fini completamente in contrasto con la nozione di mediatori”.
- Inoltre, sempre a differenza delle sociologie convenzionali, “la presenza del sociale deve essere dimostrata di volta in volta, non può mai essere semplicemente postulata”. Le categorie sociologiche tradizionali (potere, società, capitalismo, cultura, identità, genere, classi ecc.) sono “il risultato finale di un processo, e non un serbatoio, una scorta o un capitale che automaticamente fornirà una spiegazione”.
- E, contro un facile determinismo sociologico, esemplifica: “sì, Einstein ha conosciuto una gioventù turbolenta e ha definito la sua teoria ‘rivoluzionaria’ e ‘relativista’, ma ciò non vi conduce fino in fondo al suo uso dell'equazione di Maxwell, solo nei suoi pressi; sì, Pasteur era in qualche modo reazionario e adorava l'imperatrice Eugenia, ma ciò non vi porta molto lontano nella comprensione della sua batteriologia, anche se questi fattori non sono privi di legami col suo rifiuto, per esempio della teoria della generazione spontanea".
- E, facendo sobbalzare sulla sedia il nuovo materialismo, afferma che "la metafisica empirica è ciò a cui conducono le controversie sulla agency, poiché esse popolano incessantemente il mondo di nuove forze e, altrettanto senza sosta, contestano l'esistenza di altre. Questione cruciale diviene allora come esplorare la metafisica degli attori”.
7. TRACCIARE ASSOCIAZIONI
Proviamo, allora, a raccogliere le tessere del puzzle laturiano e a ricomporlo, per individuare una procedura, un percorso, un tragitto metodologico per fare ricerca à la Latour:
- individuare i luoghi delle controversie, dove avviene la fabbricazione dei fatti e la presenza al contempo di proto-fatti;
- seguire i fatti nel corso della loro produzione e “moltiplicare i siti in cui non sono ancora divenuti freddi e abitudinari matters of fact”;
- “esiste soltanto scienza del particolare (...) più dettagli, voglio più dettagli. Dio è nei dettagli, come tutto il resto, compreso il diavolo, diceva Tarde”;
- “si creano gruppi, si esplorano agency e gli oggetti ricoprono un ruolo. Queste sono le tre prime fonti di indeterminazione su cui ci basiamo, se vogliamo seguire il fluido sociale nelle sue forme sempre mutevoli e provvisorie”;
- lo shuttle della Columbia in un istante si è trasformato “dal più complicato dispositivo umano mai assemblato a una pioggia di detriti che si abbatteva sul Texas”; ci si renderà conto della rapidità con cui gli oggetti ribaltano la loro modalità di esistenza”;
- la definizione di ogni gruppo implica anche la compilazione di una lista di anti-gruppi, all’interno di forme di amicizia e inimicizia;
- "non c'è gruppo senza un qualche addetto al reclutamento (…) Nessun gregge di pecore senza un pastore e il suo cane, il suo bastone, le sue pile di certificati di vaccinazione, la sua montagna di scartoffie per ottenere le sovvenzioni dell'UE”;
- occorre “non definire in anticipo il tipo di aggregati sociali che potrebbero fornire il contesto di tutte queste mappe”;
- “gli aggregati sociali non sono oggetto di una definizione ostensiva - come lo sono per esempio tazze, gatti e sedie che si possono additare con l'indice –, ma soltanto di una definizione performativa. Esisterebbero in virtù dei differenti modi in cui si asserisce che esistano”;
- per definizione performativa si intendono "pratiche necessarie per mantenere costanti i gruppi e i contributi fondamentali delle risorse di cui dispone l’osservatore stesso (...) non si può fare a meno di cercare veicoli, attrezzi, strumenti e materiali in grado di produrre una tale stabilità ";
- “se un ballerino smette di danzare, la danza è finita. Nessuna inerzia porterà avanti lo spettacolo. Ecco perché ho dovuto introdurre la distinzione tra ostensivo e performativo”;
- ricercare i mediatori e intermediari, secondo la definizione sopra riportata, concependo l'esistenza di relazioni (ad es.) tra pescatori oceanografi, satelliti e capesante, relazioni tali da far fare agli altri cose inaspettate…
- “le capesante fanno fare cose ai pescatori così come le reti immerse nell'oceano offrono alle capesante l'occasione di attaccarsi alle reti o l'oceanografo mette insieme pescatori e capesante raccogliendo dati (...) il sociale torna sotto forma di associazione (...) seguendo il principio secondo cui tutti gli attori che stiamo per schierare potrebbero essere associati in modo tale da far agire gli altri (...) generando trasformazioni manifestate dai numerosi eventi inattesi innescati negli altri mediatori che li seguono lungo la catena. È ciò che ho chiamato il ‘principio di irriduzione’;
- “un pastore e il suo cane vi ricordano le relazioni sociali ma, quando vedete il suo gregge dietro un recinto di filo spinato, vi chiedete dove siano finiti il pastore e il suo cane — tuttavia, se le pecore rimangono a pascolare nel prato, e perché il filo spinato sostiene l'abbaiare del cane. Non v'è dubbio che siate divenuti pantofolai piantati davanti alla tv grazie soprattutto al telecomando che vi permette di fare zapping da un canale all'altro (…) Provate voi stessi: buttatelo via e vedrete quanto tempo passerete andando avanti e indietro dal divano alla tv”.
- “non c’è nessuno strumento, nessun mezzo, solo mediatori e intermediari;
- evitare “una subitanea accelerazione della descrizione” ricorrendo a parole quali “società”, “potere”, “struttura”, “contesto”;
- l’ANT è una scienza lenta, “come la molteplicità di obiezioni e oggetti di cui bisogna rendere conto seguendo: le catene di associazioni, i mediatori che brulicano a ogni passo, le quattro fonti di incertezza (o indeterminazione)”.
- Per cui: “1) non gruppi, ma raggruppamenti; 2) l’azione è superata; 3) anche gli oggetti possiedono agency; 4) matter of concerns.
Queste quattro fonti devono essere affrontate coraggiosamente, una dopo l'altra; se ne manca una, l'intero progetto crolla”; - “si comincia con assemblaggi, che sembrano vagamente familiari, e si finisce con altrettanti assemblaggi completamente inediti. Il tracciamento delle connessioni sociali è particolarmente complesso”;
- “occorre sempre ampliare la gamma di attori all'opera”;
- “l’ANT non ha semplicemente il compito di stabilizzare il sociale per conto degli attori, ma ‘scoprire’ i nuovi attori inattesi emersi più di recente;
- “il relativismo è un modo di galleggiare sui dati, non di affogarci dentro”;
- “le controversie non sono semplicemente una seccatura da tenere a bada”;
- “la soluzione alle crisi del relativismo e spingersi sempre più lontano nella relatività”;
- “definirei un buon resoconto sociologico, un resoconto che traccia una rete, una catena di azioni in cui ogni partecipante è trattato come mediatore a tutti gli effetti, in cui tutti gli attori fanno qualcosa”;
- quando facciamo le interviste, ascoltiamo le persone che parlano, osserviamo i loro commenti, occorre evitare di “ascoltare distrattamente queste produzioni contorte e ignorare i termini più strani, barocchi e idiosincratici offerti dagli attori. Quando un criminale dice ‘non è colpa mia, ho avuto pessimi genitori’, i sociologici dicono che ‘la società ha lo reso un criminale’ o che ‘sta cercando di sfuggire alla colpevolezza personale, diluendola nell'anonimato della società’. Tuttavia, il criminale non ha detto nulla di simile. Ha semplicemente detto ‘ho avuto pessimi genitori’”;
- “non dobbiamo sostituire a un'espressione sorprendente, ma precisa, il ben noto repertorio della sociologia convenzionale”;
- “Avremo il coraggio di non sostituire un'espressione sconosciuta con una ben nota?”.
Se un pellegrino dice “sono giunto in questo monastero perché la Vergine Maria mi ha chiamato”, dobbiamo prenderlo sul serio e non sostituire subito “l'agency della Vergine con l’illusione”, il pretesto, l’infatuazione ecc. come farebbero i sociologi tradizionali; - parlando di amore, i poemi sono pieni del "corteo ininterrotto di angeli, cherubini, putti e frecce, la cui esistenza oggettiva, sì oggettiva, dovrebbe anche essere presa in considerazione";
- dobbiamo “rispettare la metafisica di un mugnaio”, così sorprendentemente ben descritta dallo storico italiano Carlo Ginzburg ne Il formaggio e i vermi…
- “l’ANT è semplicemente la teoria sociale che ha scelto di affidarsi agli indigeni, ai locali, non importa in quali bizzarri imbrogli metafisici essi ci conducono”;
- “sebbene non sappiamo mai con certezza chi e cosa ci faccia agire, le ragioni le possiamo trovare nei resoconti degli attori. Le agency sono sempre presentate in un resoconto (account).
8. CON LATOUR, OLTRE LATOUR
Ora, a mio avviso, con queste indicazioni metodologiche, si possono studiare in modo innovativo, serio e documentato tutti i temi che si vogliono, anche quelli più controversi, come (ad es.) l’esitazione vaccinale, i movimenti no TAV o no 5G, le pazienti che si affidano a cura omeopatiche, coloro che credono nelle scie chimiche, le persone critiche nei confronti delle cause antropiche dei cambiamenti climatici ecc.
Evitando di emulare le giornaliste e le esperte di tutto, lasciando alle sociologhe convenzionali (la “sociologia del sociale”, la chiamerebbe Latour) il pesante bagaglio di termini e concetti stucchevoli come ‘populismo’, anti-scientifico’, ‘pseudoscienza’, ‘destra e sinistra’, ‘vero/falso’ ecc. che poco hanno di empirico e molto pregiudizio.
Come ricorda Latour, “non spetta agli scienziati sociali risolvere le controversie”, dire chi ha ragione o torto, chi sono le babbee che credono alle fake news e chi sono le intelligenti che, invece, si fidano del parere delle esperte che decorano i talk show. Perché, la sociologa ANT non è una intellettuale organica o, come scrive Latour, “un intellectuel engage”.
Peccato, però, che egli non abbia avuto il coraggio o la voglia di dirle quelle cose, prima di morire…
BIBLIOGRAFIA
Berger, Peter L. (1963), trad. it. Invito alla sociologia, Venezia: Marsilio.
Descola, Philippe (2005), trad. it. Oltre natura e cultura, Milano: Cortina, 2014.
Fleck, Ludwik (1935), trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Bologna: Il Mulino
Ginzburg, Carlo (1976), Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Torino, Einaudi.
James, William (1890), trad. it. Principi di Psicologia, Milano: Società Editrice Libraria, 1909.
Latour, Bruno (2005), tr. Riassemblare il sociale, Milano: Meltemi, 2022.
Sloterdijk, Peter (1998), trad. it. Sfere / Bolle vol. 1, Milano: Meltemi 2009.
Sloterdijk, Peter (1999), trad. it. Sfere / Globi vol. 2., Milano Cortina, 2014.
Sloterdijk, Peter (2004), trad. it. Sfere / Schiume vol. 3., Milano: Cortina, 2015.
Tarde, Gabriel (1894), La logique sociale, Paris: Alcan.
Decalogo Latouriano – Il pensiero meno noto di Bruno Latour, Seconda parte
Nella prima parte di questo percorso attraverso le parti meno note e utilizzata dell’approccio di Bruno Latour al sociale, alle scienze e alle tecnologie, ho affrontato:
- il legame profondo tra oggetti della scienza e società, in cui – secondo Latour – sono i primi a spiegare la seconda (Il sociale, la società e la sociologia) e
- la critica di Latour alle sociologie interpretative, all’empirismo storico, al riduzionismo e – pare fin troppo ovvio – al positivismo, dichiarandosi “oggettivista”, “realista” e “relativista” nello stesso tempo.
Questa seconda parte del percorso è dedicata al costruzionismo di Latour e al concetto di attanti.
3. IL COSTRUZIONISMO
- Secondo Latour, le espressioni “costruttivismo sociale” e “costruzione sociale dei fatti scientifici” sono state infelici, un’autentica sciagura. Infatti il termine ‘sociale’ (che come abbiamo visto sopra, lui vuole abolire) si è prestato a tanti malintesi e la parola ‘costruzione’ ha scatenato una confusione ancor più grande.
- Egli confessa: “ci siamo resi conto che, per altri colleghi delle scienze sociali e naturali, la parola ‘costruzione’ significava qualcosa di completamente diverso da ciò che il senso comune aveva considerato fino ad allora. Dire che qualcosa era ‘costruito’ significava, nella loro mente, che qualcosa non era vero".
- Ma, "nessun scienziato di laboratorio si è mai confrontato con un oggetto ‘dato’ indipendentemente dal lavoro necessario per ‘renderlo visibile’; quindi perché comportarsi come se l’alternativa tra ‘realismo’ e ‘costruttivismo’ fosse interessante?”.
- “Sebbene il costruttivismo fosse per noi sinonimo di più realismo, siamo stati acclamati dai nostri colleghi come se avessimo finalmente dimostrato che ‘persino la scienza è una balla’! (...) Senza volerlo, il costruttivismo era divenuto sinonimo del suo opposto: la decostruzione”.
- Latour ha sempre voluto evitare l’espressione ‘costruttivismo sociale’: “come una repubblica socialista o islamica è l'opposto di una repubblica, aggiungere l'aggettivo ‘sociale’ a ‘costruttivismo’ snatura completamente il suo significato. In altre parole, il ‘costruttivismo’ non deve essere confuso con il ‘costruttivismo sociale’ che ne è l'opposto (…) Il ‘costruttivismo sociale’ implica sostituire ciò di cui è fatta questa realtà con qualche altra cosa, il sociale di cui sarebbe ‘realmente’ composta”.
4. GLI ATTANTI
- Secondo Latour occorre dire addio alla nozione di ‘attore’, come soggetto in carne ed ossa. Infatti, “bisogna assemblare un gran numero di agency affinché un attore diventi un individuo”.
- Usando un parallelo (che però Latour non fa nel suo libro, ma che mi sembra in linea con il suo pensiero) potremmo dire che mentre le genetiste affermano che ognuna di noi è unica grazie al suo DNA, le sociologhe invece potrebbero sostenere che ciascuna di noi è diversa perché nessuna ha avuto le stesse interazioni sociali.
- William James potrebbe essere d’accordo, perché secondo Latour egli “ha magnificamente dimostrato, che è moltiplicando le connessioni con l'esterno che c'è qualche possibilità di comprendere come la nostra interiorità sia stata composta. Bisogna sottoscrivere un gran numero di soggettivatori per divenire un soggetto. Per cui nessuno sa quante persone sono simultaneamente all'opera in un dato individuo”.
- Inoltre, Latour ammette che “usiamo il termine ‘non-umani’ in mancanza di un termine migliore; ma in realtà questa espressione è priva di senso perché dobbiamo elevare gli oggetti al rango di attori a pieno titolo”.
- E indispettito, puntualizza: “L’ANT non è - ripeto, non è – l’istituzione di qualche assurda simmetria tra umani e non umani (…) l’ANT non è interessata soltanto a liberare gli attori umani dalla prigione del sociale, ma a offrire anche agli oggetti naturali l'occasione di sfuggire all’angusto isolamento a cui il primo empirismo condanna le matters of fact (cioè quelle che vengono considerate cose, condizioni o stati permanenti). Infatti, in accordo con l’antropologo francese Philippe Descola, egli insiste: "dobbiamo ricordare che essere una matter of fact non è un modo di esistenza ‘naturale’, ma, stranamente, un antropomorfismo. Cose, sedie, gatti, tappeti e buchi neri non si comportano mai come matters of fact”.
- Il positivismo è sbagliato politicamente, perché ha ridotto troppo in fretta le matters of concerns (processi, stati transitori, movimenti) a matters of facts, e senza un giusto processo”. E, come ANT, "il nostro tocco distintivo consiste semplicemente nel sottolineare i meccanismi di stabilizzazione, al fine di contrastare la trasformazione prematura di matters of concern in matters of fact”.
- Anche se lui, l’ha più volte ripetuto, non ha alcuna simpatia per le sociologie interpretative, tuttavia si oppone a una atteggiamento naturalista perché “gli oggetti potrebbero sembrare un po’ più complicati, multipli, complessi e intricati di quanto gli ‘oggettivisti’ vorrebbero farci credere”.
- Gli oggetti sono fatti di strati multipli, esattamente come sono le persone. Per cui “tutta questa opposizione tra ‘punto di vista’ e ‘nessun luogo’ la si può completamente dimenticare. E pure questa differenza tra ‘interpretativo’ [ermeneutica] e ‘oggettivista’. Se si possono avere punti differenti su una statua, è perché la statua stessa è in tre dimensioni e ci permette di muoversi intorno a essa”. Infatti, “nessun edificio è mai visibile in toto, in qualsiasi punto della sua costruzione e del suo utilizzo”.
- “E’ la cosa stessa che può dispiegare la sua molteplicità, il che consente di apprenderla a partire da diversi punti di vista prima di essere eventualmente unificata in una fase successiva a seconda delle capacità del collettivo”.
- “Questa è anche la linea di demarcazione tra il postmodernismo e l’ANT, che considera la molteplicità una proprietà delle cose, e non solo degli umani che interpretano le cose”.
- A tal proposito, Latour critica i sociologi che “per ritagliarsi una piccola nicchia, hanno abbandonato all’inizio del XIX secolo, le cose e gli oggetti agli scienziati e agli ingegneri”.
BIBLIOGRAFIA
Berger, Peter L. (1963), trad. it. Invito alla sociologia, Venezia: Marsilio.
Descola, Philippe (2005), trad. it. Oltre natura e cultura, Milano: Cortina, 2014.
Fleck, Ludwik (1935), trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Bologna: Il Mulino
Ginzburg, Carlo (1976), Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Torino, Einaudi.
James, William (1890), trad. it. Principi di Psicologia, Milano: Società Editrice Libraria, 1909.
Latour, Bruno (2005), tr. Riassemblare il sociale, Milano: Meltemi, 2022.
Sloterdijk, Peter (1998), trad. it. Sfere / Bolle vol. 1, Milano: Meltemi 2009.
Sloterdijk, Peter (1999), trad. it. Sfere / Globi vol. 2., Milano Cortina, 2014.
Sloterdijk, Peter (2004), trad. it. Sfere / Schiume vol. 3., Milano: Cortina, 2015.
Tarde, Gabriel (1894), La logique sociale, Paris: Alcan.
Decalogo Latouriano - Il pensiero meno noto di Bruno Latour, Prima parte
Questo è un dono alle tante laturiane[1] superficiali e distratte, che hanno preso di Bruno Latour (1947-2022) solo gli aspetti più eclatanti (come mettere sullo stesso piano umani e non-umani, l’agency degli oggetti, il messaggio apparentemente post-moderno ecc.), affinché diventino laturiane profonde, meticolose e convinte. Tirato per la giacca da tante (postmoderniste, sociologhe interpretative, nuove materialiste, decostruzioniste ecc.), Latour è stato infatti un personaggio poliedrico, contraddittorio, escapologico. Per cui, è lui a essere il primo responsabile dei tanti fraintendimenti della sua opera.
Al fine di recuperare la parte meno utilizzata del suo messaggio e del suo metodo, propongo una collezione del suo pensiero, così come delineato ne Riassemblare il sociale (2005), diviso in sette sezioni:
- Il sociale, la società e la sociologia
- Una critica agli altri approcci e tradizioni di ricerca
- Il costruzionismo
- Gli attanti
- Il micro e il macro
- Il metodo ANT: come tracciare associazioni
- Con Latour, oltre Latour
In questo primo post affronteremo i primi due.
1. IL SOCIALE, LA SOCIETÀ E LA SOCIOLOGIA
- Il “sociale” non è un dominio particolare. Per cui di un fenomeno non esiste una spiegazione sociale, accanto a quella psicologica, economica, culturale ecc.
- Per questo motivo, la scienza (o meglio, un contenuto scientifico) non può essere spiegata dal suo contesto sociale. Anzi, è proprio il contrario: è il contenuto scientifico che spiega la società. Sono gli oggetti della Scienza che possono spiegare il sociale.
Non bisogna, però, essere deterministi, e convenire che nemmeno il contenuto scientifico deve essere usato per spiegare i componenti delle relazioni sociali. Il tema è quindi molto più complesso: possiamo dire che la scienza lega le varie entità in modo scientifico.
- Per cui il “sociale”, agli occhi dell'Actor-Network Theory (ANT), è un movimento assai peculiare, di riassociazione e riassemblaggio di tutte le entità che attraversano un campo d’azione. Cogliere questo movimento è compito dello studioso. Tuttavia, per farlo, egli deve sviluppare una sensibilità particolare, che consiste nel potenziare il nostro “senso del movimento”, ovvero nell’acquisire “il senso del sociale”. Infatti, i fisiologi hanno mostrato che, perché una percezione abbia luogo sono necessari continui movimenti e aggiustamenti: se non c'è movimento, non c'è sensazione. Con l'assenza di movimenti sopraggiunge un offuscamento dei sensi. Lo stesso vale per il ‘senso del sociale’: se lo studioso non è capace di vedere nuove associazioni, non sarà nemmeno in grado di vedere il sociale.
- Il compito dello studioso è quindi il tracciamento di nuove associazioni (configurazioni), fra forze sino ad allora inassociate.
- Nel fare questo, occorre quindi tener ben presente che la società non esiste. Esistono solo i raggruppamenti, il collettivo, che è il progetto di assemblaggio di entità nuove non ancora riunite; inoltre bisogna mettere in luce l’eterogeneità di attanti molto diversi fra loro, i quali si mescolano come “una squadra di operai che costruisce un muro di mattoni: le loro strade si separano di nuovo solo dopo che il muro è stato completato. Tuttavia, mentre lo si costruisce, non c'è dubbio che siano collegate. Come? Sarà la ricerca di determinarlo”
- Bisogna riconoscere appieno chi e che cosa partecipa all’azione, includendo anche le “masse mancanti” di entità non-umane. Infatti, gli aggregati (associazioni che hanno una forma, seppur momentanea) si muovono all'interno di fenomeni non formattati. Questo sfondo Latour lo chiama "plasma": esso è astronomicamente enorme per dimensioni e portata, un immenso repertorio di masse
- A tal fine, i termini e i concetti di “sociale” e “naturale” devono perciò essere accantonati. Perché i pesci e pescatori non si fronteggiano come ‘naturale’ e ‘sociale’, ‘oggetto’ e ‘soggetto’, ‘materiale’ e ‘simbolico’. Per Gabriel Tarde (1843-1904), ricorda Latour, non c’era alcuna ragione per separare il “sociale” umano da altre associazioni come gli organismi biologici o persino gli atomi. Il sociale, per Tarde, era un fluido in circolazione, e non organismo. Ogni cosa era una società e ogni fenomeno era un fatto sociale: società cellulari, società atomiche, società di astri. Tutte le scienze, pronosticava Tarde, sembrano destinate a divenire rami della sociologia.
2. UNA CRITICA AGLI ALTRI APPROCCI E TRADIZIONI DI RICERCA
- Latour si definisce “oggettivista”, dicendo di non avere alcuna simpatia per le “sociologie interpretative”, perché l'ANT non apprezza l’eccessiva enfasi data dai fenomenologi alle fonti umane dell’azione, e ignora completamente la lunga battaglia tra oggetto e soggetto. E invita alla lettura del filosofo tedesco Peter Sloterdijk che, con i tre volumi sui diversi tipi di sfere, ha offerto una nuova e potente metafora per uscire dalla dicotomia interno/esterno.
- Ciò non significa che dovremmo privarci del ricco vocabolario descrittivo della fenomenologia; semplicemente che dobbiamo estenderlo alle entità ‘non intenzionali’.
- Per cui bisogna ritornare all’oggetto. Nel rivendicare il proprio “realismo”, Latour però ne dà un’interpretazione diversa da quella tradizionale. Egli ritiene che l’oggettività non sia una proprietà privata dei positivisti. Anzi, condivide l’affermazione del microbiologoe filosofo polacco Ludwik Fleck (1896-1961): “più sociale c'è, più realismo c'è”.
- Latour accetta anche l’etichetta di “relativista”: “ma certo, cos'altro potrei essere?”, dice. In linea con quanto scriveva Peter L. Berger (1963) sul progetto di “alternanza”, ma senza mai citarlo, Latour sostiene che “per raggiungere l'oggettività, devo essere in grado di navigare da un quadro di riferimento all'altro, da un punto di vista all'altro. Senza questi spostamenti, sarai limitato al mio ristretto punto di vista per sempre”. La “relatività”, più che il relativismo, è la bussola dello studioso.
- Latour è quindi “oggettivista”, “realista” e “relativista” nello stesso tempo; una miscela originale che attribuisce nuovi significati a vecchi termini, che tuona contro l’empirismo tradizionale a favore di un nuovo empirismo.
- Infatti l'empirismo storico è stato “una resa piuttosto povera all'esperienza. Questa povertà, tuttavia non si supera allontanandosi dall'esperienza materiale per esempio in direzione della ‘ricca soggettività umana’, ma avvicinandosi alle forme di resistenza variegate che la materia ha da offrire”. Perché “artificialità totale e oggettività totale si muovono in parallelo”.
- “Non siamo più obbligati a combattere il riduzionismo aggiungendo alla descrizione qualche ‘aspetto’ umano, simbolico, soggettivo o sociale, perché il riduzionismo, tanto per cominciare, non rende giustizia ai fatti oggettivi. Quel che si potrebbe chiamare il primo empirismo è riuscito, per ragioni politiche, a oscurare i numerosi percorsi e deviazioni dell'oggettività e a ridurre in umani all'ombra di se stessi”, scrive Latour.
- Lungi dal ‘possedere oggettività’, “i positivisti somigliano piuttosto proprietari terrieri assenteisti, che sembrano non sapere cosa farsene dei loro latifondi”. Per cui, “il riduzionismo è un'impossibilità pratica, nella misura in cui gli elementi a cui si riduce un ‘livello superiore’ saranno tanto complessi quanto il ‘livello inferiore’. Se solo gli umani nelle mani di sociologi critici potessero essere trattati al pari delle balene in zoologia…” termina sconsolato Latour.
- E alla fine, uccide il padre: “devo finalmente congedarmi da Tarde (...) Egli ha mantenuto una definizione sostanziale e non relativista della sociologia”.
NOTE
[1] Uso il femminile sovraesteso.
BIBLIOGRAFIA
Berger, Peter L. (1963), trad. it. Invito alla sociologia, Venezia: Marsilio.
Descola, Philippe (2005), trad. it. Oltre natura e cultura, Milano: Cortina, 2014.
Fleck, Ludwik (1935), trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Bologna: Il Mulino
Ginzburg, Carlo (1976), Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Torino, Einaudi.
James, William (1890), trad. it. Principi di Psicologia, Milano: Società Editrice Libraria, 1909.
Latour, Bruno (2005), tr. Riassemblare il sociale, Milano: Meltemi, 2022.
Sloterdijk, Peter (1998), trad. it. Sfere / Bolle vol. 1, Milano: Meltemi 2009.
Sloterdijk, Peter (1999), trad. it. Sfere / Globi vol. 2., Milano Cortina, 2014.
Sloterdijk, Peter (2004), trad. it. Sfere / Schiume vol. 3., Milano: Cortina, 2015.
Tarde, Gabriel (1894), La logique sociale, Paris: Alcan.
Scienza maggioritaria e scienza minoritaria
La maggior parte degli scienziati delinea un confine tra scienza e pseudo-scienza, tra teorie ufficiali e teorie eterodosse, senza esaminare approfonditamente ciò che le teorie marginali hanno da dire e senza valutare se possono essere un elemento di arricchimento per la ricerca. Vi è quindi, spesso, un rifiuto “a prescindere”, come diceva Totò. Al contrario, noi proponiamo di oltrepassare questo confine a favore di un modello di classificazione più aperto e permeabile.
Nelle scorse settimane, a proposito dei premi Nobel, un nostro Autore – parlando del “principio di autorità” nella comunicazione scientifica - ha scritto che «alcuni eccellenti scienziati, dopo aver ricevuto il premio, abbiano iniziato a sostenere posizioni discutibili dal punto di vista della fondatezza e – spesso – poco attinenti con il loro campo di studi». A tal fine ha citato alcuni casi – Kary Mullis, Luc Montagnier e Linus Pauling – in cui i premiati hanno abbracciato posizioni considerate poco ortodosse e – sicuramente – ancor meno condivise dalla comunità scientifica, fino a diventare emblemi dello pseudo-scientifico e dell’anti-scientifico.
È effettivamente difficile negare che, sull’onda della celebrità conferita dal premio Nobel, i media di massa e divulgativi chiedono ai premiati di commentare e di esprimere opinioni su qualunque evento e problema, e che i premiati difficilmente si negano: Carlo Rubbia, che abbiamo ascoltato alla radio, visto in televisione e letto su tutti i giornali su argomenti di tipo diverso, dice di essere trattato come un oracolo; Kary Mullis scrive che il premio ha messo lui e la sua tavola da surf sulle copertine di tutto il mondo[1].
È, invece, opportuno fare qualche breve e semplice considerazione sul tema delle cosiddette teorie pseudo o anti-scientifiche e di come queste sono viste dalla comunità scientifica e dal pubblico di massa. Con le relative ambiguità, dubbi interpretativi e influenze sociali.
Contrariamente a quanto ci possiamo aspettare, si possono spesso trovare delle specularità e affinità tra
- le posizioni di chi crede in teorie considerate - dalla scienza ufficiale e dalla narrazione mediatica - pseudo-scientifiche, scientificamente confutate o non verificate,
- e quelle di alcuni scienziati autorevoli che osteggiano le teorie marginali ed emergenti.
PRIMA POSIZIONE: CREDENTI NELLE TEORIE ETERODOSSE
Seguendo il senso comune, sembra accettabile pensare che alcune persone continuino a credere in teorie scientifiche di cui si dice che sono state confutate o che non sono state verificate per almeno una di queste ragioni: la mancanza di alfabetizzazione scientifica o la scarsa capacità di pensiero critico che fanno percepire come familiari teorie ormai superate; la ricerca di conferma delle proprie posizioni che porta a ignorare le evoluzioni scientifiche più recenti e teorie diverse dalla proprie; l’attaccamento emotivo, per ragioni religiosi, politici o di vissuto personale, che fanno rifiutare e contrastare le prove che sfidano la loro visione del mondo; la diffidenza verso l’establishment scientifico, considerato corrotto, di parte o conservatore; la disinformazione diffusa – ad esempio attraverso i social media – che mette in dubbio le teorie valide ed accreditate; in ultimo, la malafede: la volontà di sostenere una teoria difficilmente sostenibile per interesse, o per non dover affrontare il confronto con la realtà.
SECONDA POSIZIONE: SCIENZIATI AUTOREVOLI E TEORIE MARGINALI
Tuttavia, ci sono casi in cui anche scienziati quotati, accreditati e considerati affidabili si comportano esattamente come chi crede nelle teorie chiamate pseudo-scientifiche: con attaccamento emotivo; per non mettere in dubbio la teoria mainstream; per interesse, legato alla propria posizione all’interno della comunità scientifica, se le teorie offstream la possono scalfire; per eccesso di familiarità delle teorie dominanti la cui forma paradigmatica è particolarmente rassicurante; raramente, ma non mancano i casi, per malafede, se le teorie altre possono evidenziare errori nelle proprie posizioni.
Tra le vittime di questi casi possiamo ricordare:
- il dottor Semelweiss, nel XIX secolo, i cui colleghi che rifiutarono la teoria della sepsi come causa della morte puerperale per ragioni emotive, che riguardavano il presunto decoro dei medici – perché lavarsi le mani? non siamo puliti? – e per ragioni di interesse, cambiare spesso le lenzuola comportava spese onerose
- Kary Mullis, premio Nobel per la Chimica nel 1993, che ha messo in dubbio il nesso causale tra il virus HIV e la Sindrome da immunodeficienza acquisita, l’AIDS: l’ipotesi offstream di Mullis oggi è rifiutata.
- Peter Duesberg, citologo e biologo molecolare statunitense, che propone una combinazione di concause come fattori scatenanti la malattia, ipotesi anch’essa marginalizzata.
citare Robert Gallo, che nel 1984 non dice nulla sul nesso causale tra HIV e AIDS, nel 1993 sostiene – sulla base degli stessi esperimenti e studi – che «questa specie di virus [il HIV] è la causa dell'Aids» e attribuisce la prova inconfutabile di questo nesso a sé e al proprio Team; e più avanti nel tempo, quando gli chiedono quale sia la prova definitiva che l’HIV è LA causa dell’AIDS si rifiuta di rispondere (L. Rossi, Sex virus, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 319) ed è uno degli autori della marginalizzazione delle teorie alternative di Mullis e di Duesberg.
È possibile che la posizione della comunità scientifica e, ad esempio, di Gallo che marginalizzano il punto di vista di Mullis e di Duesberg – oltre che tutte le altre ipotesi alternative sulle cause dell’AIDS – siano influenzate da attaccamento emotivo o da questioni di interesse legate alle montagne di finanziamenti che sostengono quel ramo della ricerca sull’AIDS? O, forse, anche dalla consapevolezza, come sostengono alcuni autori come V. Turner e Zolla Pazner, che i test di isolamento del virus potrebbero essere stati sbagliati o interpretati convenientemente per confermare la teoria? E che nei lavori di Gallo e del suo team c'erano «differenze tra quanto venne descritto e quanto venne fatto»? Che Gallo «come capo di laboratorio creò e favorì condizioni che diedero origine a dati falsi/inventati e a relazioni falsificate»[2]?
D’altra parte, è significativo che il nesso tra HIV e AIDS sia ancora oggi oggetto di una controversia tra teorie mainstream e teorie alternative – per forza di cose offstream – di cui si trova una traccia ampia e diffusa in un articolo pubblicato nel 2014 dal PMC – Pub Med Central del U.S. National Institute of Health - Questioning the HIV-AIDS Hypothesis: 30 Years of Dissent, di Patricia Goodson. Articolo che appare equidistante e con approccio storiografico, poi fatto ritirare perché considerato «di parte» e «a supporto delle fringe theories on HIV-AIDS».[3]
CONCLUSIONE E PROPOSTA DI UNA CLASSIFICAZIONE ALTERNATIVA
Sembra evidente che ci siano scienziati e comunità scientifiche che non hanno desiderio di mettersi in discussione e di dialogare con scienziati latori di teorie alternative, non allineate con il flusso della scienza mainstream.
Scienziati e comunità che cadono nel “riflesso di Semmelweis”[4] e che impoveriscono la ricerca con un atteggiamento poco aperto e tollerante verso ipotesi o teorie alternative.
Forse, per contribuire a questo dialogo sarebbe opportuno rinunciare a disegnare un confine – che ormai sappiamo essere labile, illusorio, socialmente determinato, storicamente variabile – tra scienza e pseudo-scienza, tra scienza ufficiale e anti-scienza, adottando una classificazione più permeabile di teorie maggioritarie – che godono del seguito di una parte più rilevante della comunità scientifica – e teorie minoritarie, che – seguite da meno o da pochi - si occupano di minare le certezze a volte non così solide delle teorie maggioritarie.
NOTE
[1] Cfr, ad esempio, lo studio di Lorenzo Beltrame Ipse dixit: i premi Nobel come argomento di autorità nella comunicazione pubblica della scienza, in Studi di Sociologia, 45:1 (Gennaio-Marzo 2007).
[2] Cfr.: Franchi F., Marrone P., Sex virus? Implicazioni etiche e politiche della ricerca sull’Aids, https://www.openstarts.units.it/handle/10077/5546, che citano i risultati della commissione governativa statunitense nominata dall'OSI, Office of Scientific Integrity dell'NIH sulle presunte irregolarità negli studi del laboratorio di R. Gallo
[3] Cfr.: https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC4172096/ e https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC6830318/
[4] Riluttanza o resistenza ad accettare una scoperta in campo scientifico o medico che contraddica norme, credenze o paradigmi stabiliti. Un fenomeno a cui, dagli anni Cinquanta in poi, molti filosofi, storici e sociologi della scienza hanno dedicato molta attenzione. Cfr. Gobo G., Quando lavarsi le mani era considerato anti-scientifico, Controversie 31/10/2023
Latour, la stampa e gli immutable mobiles - Scienze, iscrizioni, cultura visiva
Come si è affermata la cultura scientifica moderna? Quali sono le sue origini? Quali caratteristiche possiede? Secondo alcuni studiosi di stampo cognitivista l’emergere della scienza e le sue attuali conquiste sono riconducili a dei cambiamenti nella mente o nella coscienza umana, nella struttura del cervello, mentre secondo alcuni economisti la causa è lo sviluppo dell’infrastruttura economica.
Bruno Latour nel saggio “Visualisation and Cognition: Drawing Things Together” (2012, in H. Kuklick (editor) Knowledge and Society Studies in the Sociology of Culture Past and Present, Jai Press vol. 6) da una risposta diversa:
«Nessun “uomo nuovo” è emerso improvvisamente nel sedicesimo secolo, e non esistono mutanti con cervelli più grandi che lavorano nei laboratori moderni e che possano pensare diversamente dal resto di noi. L'idea che una mente più razionale o un metodo scientifico più vincolante sia emerso dall'oscurità e dal caos è un'ipotesi troppo complicata» (cit. p.1)
Latour evita ogni distinzione tra società prescientifiche e scientifiche, in quanto ciò che le divide è semplicemente un confine che viene applicato arbitrariamente, ma non rappresenta alcun confine naturale.
Secondo il sociologo francese i vasti effetti della scienza e della tecnologia sono in parte riconducibili a semplici cambiamenti nel modo in cui gruppi di persone discutono tra loro usando carta, stampe, grafici e diagrammi. Ma non basta. Bisogna spostare l’attenzione su quegli aspetti che aiutano gli scienziati nella raccolta e nella presentazione credibile dei propri risultati, volta a convincere gli altri scienziati della loro validità (in termini ANT “arruolarli” nella propria rete):
«Chi vincerà in un incontro agonistico tra due autori, e tra loro e tutti gli altri che devono costruire un'affermazione? Risposta: quello in grado di raccogliere sul posto il maggior numero di alleati ben allineati e fedeli» (cit. p.5)
Il punto sta nel chiedersi in che modo qualcuno convince qualcun altro a riprendere un'affermazione, a condividerla, a renderla un fatto?
Bisogna fare in modo che i nostri risultati, grafici, diagrammi (Latour le chiama iscrizioni) siano in grado di sopportare continui viaggi attraverso altri laboratori, università, centri di ricerca e scienziati, senza subire cambiamenti. Le iscrizioni devono diventare oggetti che abbiano la proprietà di essere mobili ma anche immutabili.
Secondo Latour, la chiave per far coincidere carattere mobile con quello immutabile sta nella coerenza ottica, che permette all'iscrizione di mantenere relazioni stabili con l'intera rete (laboratori, università, centri di ricerca, scienziati ecc.) tramite un linguaggio omogeneo, rendendo omogenei vari elementi e combinabili nel momento in cui vengono raccolte diverse iscrizioni provenienti da più fonti.
Oltre alla coerenza attiva è necessaria una cultura visiva, ovvero un modo di guardare il mondo e renderlo visibile, stabilendo cosa sia vedere e cosa ci sia da vedere. Lettere, inventari, lenti, microscopi, telescopi, specchi, libri fanno parte di una cultura fisica; sono oggetti che permettono di vedere ciò che viene fatto in altri luoghi. Le iscrizioni non sono interessanti di per sé ma perchè rappresentano un nuovo modo di accumulare tempo e spazio, aumentando la mobilità o l'immutabilità delle tracce.
Com’è possibile tutto ciò?
Grazie all’invenzione e allo sviluppo della stampa che ha consentito di raccogliere simultaneamente iscrizioni da diverse località e periodi in un unico luogo. Il processo di stampa permette di pubblicare molte copie identiche, che grazie alla loro mobilità circolano e creano legami tra diversi luoghi nel tempo e nello spazio. Allo stesso tempo permette agli scienziati di esaminare i materiali in modo diverso. I libri diventano un luogo che può accumulare altri luoghi lontani nello spazio e nel tempo e presentarli sinotticamente all'occhio; tale presentazione però può essere rielaborata e modificata e resa disponibile in altri luoghi e in altri tempi.
Ad esempio, grazie alla stampa anche i testi antichi si diffondono in modo ampio e possono essere facilmente raccolti in un unico luogo, rendendo così più evidenti le varie contraddizioni, errori e controversie; questi ultimi possono essere aggiunti ai vecchi testi e, a loro volta, diffusi senza modifiche in tutti gli altri contesti in cui si può applicare lo stesso processo di confronto.
«La stampa non aggiunge nulla alla mente, al metodo scientifico, al cervello. Semplicemente conserva e diffonde tutto, non importa quanto sbagliato, strano o selvaggio. Rende tutto mobile (…). I nuovi scienziati, i nuovi chierici, i nuovi mercanti e i nuovi principi, (…) non sono diversi da quelli vecchi, ma ora guardano a nuovo materiale che tiene traccia di numerosi luoghi e tempi. Non importa quanto queste tracce possano essere imprecise all'inizio, diventeranno tutte accurate proprio come conseguenza di una maggiore mobilitazione e di una maggiore immutabilità.» (cit. p.12)
Le immagini e le iscrizioni hanno un ruolo centrale. Gli scienziati infatti passono molto tempo a produrre, disegnare, ispezionare, calcolare e discutere su documenti, risultati, valori numerici, stampe, diagrammi, perchè possono essere dispiegati come prove davanti agli occhi di altri scienziati.
La rivoluzione della medicina delineata da Michel Foucault non è stata il risultato di un cambiamento nelle menti degli scienziati, ma piuttosto nell'utilizzo di vecchie menti e vecchi occhi per interpretare nuove informazioni all'interno di nuove strutture sanitarie, come l’ospedale. Si tratta di una conoscenza radicalmente diversa, che non si basava solamente sull’analisi ventri, febbri, gole e pelli di pochi pazienti, ma piuttosto su centinaia di casi documentati, raccolti in cartelle cliniche in modo uniforme.
«la “Verità” non deriva da una nuova visione, ma dalla stessa vecchia visione che si applica a nuovi oggetti visibili che mobilitano spazio e tempo in modo diverso» (cit. p.11)
In questo senso, i ricercatori iniziano a vedere quando smettono di osservare direttamente la natura e si concentrano solo sullo studio dettagliato di stampe e iscrizioni. Documenti, teorie, indici, bibliografie, procedure, tabelle, colonne, fotografie, picchi, macchie, sono mobili perchè si spostano all'interno di comunità scientifiche, riviste accademiche, programmi universitari, centri di ricerca ecc. ; ma rimangono immutabili poiché i ricercatori lavorano per mantenerli tali mentre circolano sotto diversi sguardi, senza subire modifiche. La relazione che lega l’iscrizione e la mobilitazione è di co- costruzione:
«Non è l’iscrizione di per sé che dovrebbe portare il peso di spiegare il potere della scienza; è l'iscrizione come limite sottile e stadio finale di un intero processo di mobilitazione, che modifica la scala della retorica. Senza lo spostamento l'iscrizione non ha valore; senza la scritta lo spostamento è sprecato. Questo è il motivo per cui la mobilitazione non si limita alla carta, ma la carta appare sempre alla fine quando si vuole aumentare la portata di questa mobilitazione.» (cit. p. 16)
Se un risultato, prodotto situazionalmente in un laboratorio, riesce a viaggiare lungo tutta la rete (composta da comunità scientifiche, riviste accademiche, editors, syllabus, centri di ricerca ecc.) senza subire modifiche diventa un immutable mobile. Se invece, la circolazione del risultato all’interno della rete si inceppa, l’oggetto o la procedura vengono modificati a seconda del contesto e perdendo così la loro immutabilità. La circolazione degli immutable mobiles all’interno di una rete consente la riproduzione e la standardizzazione di teorie scientifiche e tecnologie generate istituzionalmente in altri contesti.
BIBLIOGRAFIA
Bruno Latour (2012), “Visualisation and Cognition: Drawing Things Together” in H. Kuklick (editor) Knowledge and Society Studies in the Sociology of Culture Past and Present, Jai Press vol. 6, pp. 1-40
Ossessione per il nuovo e cura delle cose - Riparare e manutenere
“Innovare”, in senso letterale, significa semplicemente introdurre qualcosa di nuovo. Tuttavia, sappiamo bene quanto questa sia in realtà un’espressione assiologicamente carica; rimanda, cioè, a una precisa idea di valore per cui tendiamo a pensare un’innovazione come a qualcosa di per sé positivo.
Infatti, espressioni che si richiamano al “nuovo” e all’innovazione, in particolare tecnologica, infestano la retorica dei programmi politici di ogni sorta e negli ultimi anni sono sistematicamente associati al digitale. Con il declino delle grandi narrazioni del Novecento, l’ideologia del digitale, l’ultima almeno in ordine di tempo (Balbi 2023), ha contribuito a rafforzare il mito dell’innovazione tecnologica come obiettivo prioritario e in sé desiderabile. Come problematizzare quella che secondo alcuni assume la forma di una vera e propria ossessione collettiva? Le possibilità sono molteplici. Tra queste, una consiste nel mettere al centro dell’interesse pubblico alcune attività che sembrano avere finalità sostanzialmente opposte rispetto all’innovazione: mentre innovare è un atto straordinario che, nell’introdurre una novità, rende allo stesso tempo qualcosa come obsoleto, riparare e manutenere invece sono pratiche che mirano a far durare le cose un po’ di più.
Un’inversione infrastrutturale
Per molto tempo, la storia delle tecnologie ha pensato l’innovazione come il motore del progresso e ha così alimentato una narrazione lineare dello sviluppo storico. Questo viene dunque rappresentato come un succedersi di grandi invenzioni che si affermano in forza della loro superiorità funzionale e che, di conseguenza, rendono superati gli apparati precedenti, relegandoli nell’ambito delle cose invecchiate.
Un apparato concettuale che rinforza l’idea della storia come fatta da grandi uomini dalle caratteristiche eccezionali. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta gli studi sulla scienza e la tecnologia (Science and Technology Studies, STS) hanno puntato l’attenzione verso ciò che, in questi racconti, era di fatto rimosso, o perché spiacevole o perché pensato come ordinario e dunque banale. Sia le ricerche sulle infrastrutture sia quelle dedicati alla attività di riparazione e manutenzione (infrastructural studies e maintenance and repair studies) avevano sin dall’inizio l’ambizione di provocare una sorta di inversione figura-sfondo. In altri termini, l’obiettivo è spostare sullo sfondo ciò che normalmente attira l’attenzione (l’ultimo ritrovato tecnologico) e mettere in primo piano gli aspetti meno appariscenti del discorso comune – il fallimento, il rimosso oppure ciò che si ripete ma che permette al singolo apparato di esistere. Mentre “l'infrastruttura” può essere così ordinaria da sembrare noiosa, la ‘tecnologia’, al contrario, è un concetto orientato verso la novità [...].
Abbiamo la deleteria abitudine di isolare le parti più luminose, brillanti, nuove o spaventose del nostro ambiente e chiamarle ‘tecnologia’, trascurando le parti più vecchie e apparentemente più noiose”, nonostante sia “lì che si svolge gran parte del duro lavoro” (Peters 2015, p. 36).
Per “infrastruttura” di norma si intende un complesso di elementi materiali e immateriali costruiti dagli esseri umani che soddisfano bisogni e forniscono un servizio percepito come basilare. Basti pensare all’infrastruttura energetica che alimenta buona parte delle cose che usiamo quotidianamente o all’infrastruttura viaria o idrica. Da questo angolo visuale, la storia della tecnologia si delinea meno come una sequela di cambiamenti rivoluzionari e più come un processo di lunga durata, di ampia scala e di continuità ma anche di fallimenti, rotture, falle. La storia dell’infrastruttura ferroviaria, ad esempio, implica anche il disastro ferroviario.
Le rotture e i fallimenti hanno quindi un valore epistemico.
Sono operatori di problematizzazione e di visibilizzazione: richiedono di affrontare – ovvero di intervenire, prendere scelte sul futuro, individuare responsabilità, comprendere e ricostruire i processi – quello che nel processo normale di funzionamento può essere dato per scontato.
Durante una rottura viene messo in questione sia il singolo oggetto che si è inceppato sia il complesso sistema di interdipendenze in cui è inserito. Se ad esempio ci si rompe l’auto, siamo costretti a interrogarci sul suo funzionamento interno: una cosa che prima non era problematica, che funzionava come un tutto organico, emerge come un assemblaggio di parti che hanno anche una loro dinamica e temporalità propria (cos’è quel rumore? Si sarà logorata la cinghia di distribuzione? Ho cambiato l’olio di recente?). Ma siamo costretti anche a interrogarci su altre questioni che non erano in apparenza legate all’auto: non possiamo andare a prendere i nostri figli da scuola o i nostri cari dall’ospedale e non ci sono mezzi pubblici in quelle zone; così magari ci rendiamo conto della riduzione dei servizi pubblici che in precedenza non ci interessavano.
Prendersi cura delle cose
Un guasto alla macchina ci costringe a interrompere la nostra quotidianità ed andare dal meccanico per farla riparare. Certo: di fronte a questo imprevisto potremmo prendercela con noi stessi, magari rimproverandoci per non essercene occupati abbastanza.
Eppure, nonostante riparazione e manutenzione siano termini spesso associati, essi rimandano ad attività molto diverse. A giudizio dei sociologi francesi Jérôme Denis e David Pontille (2022), ad esempio, è proprio la manutenzione a lanciare la sfida più radicale alla ideologia dell’innovazione. Entrambe hanno in comune un obiettivo di fondo: allungare la vita delle cose. Ma ci sono alcuni elementi che avvicinano chi ripara a chi innova: i primi, infatti, devono restituire la cosa al suo funzionamento originario e, spesso, vi riescono in forza di una conoscenza tecnica specifica. Riparare, dunque, può anche avere un aspetto eroico-salvifico e, agli occhi dei profani, anche un po’ magico. Molto diverso è invece il caso della manutenzione: pensiamo ai servizi di pulizia degli spazi pubblici e privati, che sembrano essere portati avanti da donne e uomini senza qualità. Insomma, innovare e riparare rientrano comunque in una temporalità stra-ordinaria, mentre la manutenzione è necessariamente una pratica routinaria, ripetitiva, ordinaria e, come spesso accade in questi casi, tende a far sparire dalla vista le persone che se ne occupano.
Hirayama (Kōji Yakusho), il personaggio principale di Perfect Days di Wim Wenders, lavora alla manutenzione dei bagni di Tokio e non viene degnato di uno sguardo se qualcuno entra nel bagno mentre lui lo sta pulendo. E non si tratta solo della tipica discrezione giapponese: il sociologo cognitivo Eviatar Zerubavel (2024, 52) menziona una scena del tutto simile che si trova in Maid in Manhattan per sostenere che le persone che si occupano di lavori di pulizia sono spesso considerate come “di sfondo […]. Essi subiscono un’emarginazione attentiva […] solitamente associata all’essere di status inferiore”. A questa invisibilità e misconoscimento sociale della manutenzione e delle persone a essa associate corrisponde però sia una grande diffusione sociale sia, soprattutto, un’enorme rilevanza collettiva.
In primo luogo, tutte le cose sono di per sé fragili – hanno bisogno di una manutenzione di qualche tipo – e dunque siamo tutti coinvolti a vario titolo in questa attività. Inoltre, è possibile addirittura sostenere, come fanno Denis e Pontille, che la manutenzione sia addirittura più importante per la nostra vita rispetto all’innovazione, poiché attiene più al registro della riproduzione che a quello della produzione.
Proviamo a immaginare, ad esempio, un futuro del tutto privo di innovazioni nell’ambito dello spazio urbano in senso lato (nessun cambiamento nell’edilizia, nei trasporti, nei sistemi fognari o idrici, ecc.). Anche in questo scenario fittizio, potremmo comunque continuare a costruire, al netto del consumo di risorse, per millenni.
Al contrario, basta una sospensione delle attività di manutenzione di poche settimane per mandare qualunque città in crisi. Anche la realizzazione del miglior progetto possibile, partorito dalla mente della più creativa archistar, senza lavori di manutenzione, finirebbe in rovina in pochissimo tempo (mentre anche con un progetto mediocre, ad esempio di un complesso urbanistico, è possibile ottenere buoni risultati se è ben curato nel tempo).
Per una politica della manutenzione
Eppure, tutta l’attenzione e il riconoscimento sociale ed economico vanno in direzione del gesto creativo e innovativo[1]. Possiamo fare qualcosa per mettere in discussione questa tendenza apparentemente ineludibile? Qual è la rilevanza politica del nostro modo di misurarci con il tema della manutenzione?
Il sottotitolo del già citato libro di Denis e Pontille è, appunto, Politique de la maintenance e secondo i due autori guardare alla manutenzione permette di sottoporre a critica la visione molto ristretta di economia circolare che si concentra sul circuito produzione-consumo-riciclo lasciando intatta la struttura del sistema e le sue disuguaglianze. Inoltre, chiarire mettere in primo piano i lavori di manutenzione permette di dare ulteriore forza a due lotte politiche molto significative. La prima è contro l’obsolescenza programmata e tutti i processi di chiusura informativa e tecnologica (“blackboxing”). La seconda richiama la necessità di un maggiore riconoscimento, simbolico ed economico, per i lavori di manutenzione, essenziali per la tenuta del sistema sociale. Infine, a un livello più astratto ma non per questo meno importante, guardare alla manutenzione permette di cambiare il nostro sguardo sulle cose, il nostro rapporto con loro e quindi, in definitiva, noi stessi. Le ricerche sociologiche che hanno studiato i lavoratori della manutenzione (sia che si tratti della metropolitana di Parigi, di un sistema idrico o di un museo) hanno molto da insegnarci: si tratta di sviluppare una diversa sensibilità alle cose, più attenta alle dinamiche della materia, alla sua fragilità, all’invecchiamento e alla degradazione. Un rapporto che è l’esatto contrario del consumo delle merci: non si tratta solo di usare le cose, ma di occuparcene e dunque di riconoscere che il nostro benessere dipende anche dalla loro tenuta.
Avere cura delle cose ha molto a che fare con l’avere cura delle persone e dei sistemi viventi (Jackson 2017), anzi a volte ci prendiamo cura degli altri attraverso la manutenzione delle cose da cui dipendiamo. La politica della manutenzione esprime anche un invito a riconoscere e prendersi carico delle nostre reti di dipendenza reciproca. Perché noi dipendiamo gli uni dagli altri, ma anche – perché no? – dalle cose.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Balbi, G. (2022), L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale, Laterza, Bari.
Denis, J., Pontille D. (2022), Le soin des choses. Politiques de la maintenance, La Découverte, Parigi.
Jackson, S.J. (2017), Speed, Time, Infrastructure Temporalities of Breakdown, Maintenance, and Repair, in J. Wajcman e N. Dodd (a cura di), The Sociology of Speed: Digital, Organizational, and Social Temporalities, Oxford University Press, New York, pp. 169–85.
Peters, J.D. (2015), The Marvelous Clouds: Toward a Philosophy of Elemental Media, University of Chicago Press, Chicago.
Zerubavel, E. (2024), Nascosto alla luce del sole. La struttura sociale dell’irrilevanza, PM edizioni, Varazze.
NOTE
[1] In ambito specificamente artistico si vedano i lavori di Mierle Laderman Ukeles e il suo “Manifesto For Maintenance Art, 1969!” (a tal proposito si veda inoltre Denis e Pontille 2022, 28-33).
Il doppio click – Seconda parte: il complottismo come scientismo pop, un confronto fra il modello a diffusione e quello a traduzione
Nella prima parte di questa riflessione sul tema del doppio click come atteggiamento blasé nei confronti del mondo, abbiamo associato lo scientismo, ovvero la forma mentis che assegna alla scienza il monopolio della verità, a quanto di più frivolo possa esserci, la pratica del turismo, con il suo portato inevitabilmente classista ed essenzialista[1].
In questa seconda parte, tenteremo di completare questa prima argomentazionecon la pars construens: ovvero, ora che sappiamo distinguere lo scienziato dal sacerdote e dalla guida turistica, come possiamo prendere le distanze da un modo di fare scienza in maniera indifferente e ingenua, e invece affermarne uno responsabile?
Per rispondere possiamo seguire ancora Latour, nel suo confronto fra il modello a diffusione, tipico dello scientismo, a cui oppone quello a traduzione[2].
Il modello a diffusione
Questo modello ci è molto familiare e definisce il sapere e la cultura basandosi sul concetto di scoperta. In breve, si ritiene che le discipline scientifiche accrescano di un certo quantitativo le cose conosciute sui fatti del mondo, e quanto più si sarà in possesso di nuove scoperte a proposito della natura di questi fatti, quanto più sarà possibile divulgarli, ovvero diffonderli, presso il pubblico più allargato.
Attraverso la diffusione, questo pubblico può prendere atto e venire a patti col nuovo stato di cose. Stato che, in fondo, potrebbe parlare da sé, mentre basta che sia semplicemente rivelato dagli esperti, di modo che «quando un fatto non viene creduto, quando un’innovazione non viene recepita, quando una teoria viene impiegata in modo del tutto diverso, il modello a diffusione si limita a dire ‘alcuni gruppi fanno resistenza’ … [Quindi] i diffusionisti non fanno altro che aggiungere al ritratto nuovi gruppi sociali passivi che possono rallentare con la loro inerzia la diffusione dell'idea o smorzare gli effetti della tecnica. In altre parole, il modello a diffusione inventa una società per spiegare l'ineguale diffusione di idee e di macchine» (Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, p. 183).
Questa, a dire il vero, e l’idea più comune che abbiamo dell’attività del sapere istituzionalizzato, a cui affidiamo un ruolo emancipatorio. Ovvero, pensiamo che al multiculturalismo tipico dei gruppi sociali vada sempre comunque opposto il mononaturalismo offerto dalla ricerca scientifica. L’unica dimensione capace di far convergere le disposizioni delle intelligenze umane su una base di accordo universale, a scapito dei turbamenti politici, sociali, e degli interessi di parte.
Il modello a diffusione è quindi inevitabilmente asimmetrico (sì, classista), perché ogni nuova “scoperta” prevede qualcuno che ancora non la conosce, ma a cui presto deve perentoriamente adeguarsi, pena la sua arretratezza e ignoranza: pensiamo, ad esempio, alla frase-comando «ormai viviamo nell’epoca dell’IA…».
Il progressismo, o l’attitudine al pensiero critico[3] , in realtà, non appartiene solamente agli scienziati col camice bianco, ma è un atteggiamento diffuso trasversalmente, per esempio anche dai complottisti, gli “acerrimi avversari” degli scienziati. «Vi ricordate i bei vecchi tempi, quando i professori universitari potevano guardare dall’alto in basso le persone comuni perché quei buzzurri credevano ingenuamente alla chiesa, la famiglia e la torta di mele? Le cose sono cambiate un sacco, almeno nel mio paese. Adesso sono io quello che crede ingenuamente in alcuni fatti perché sono istruito, mentre gli altri tizi sono troppo poco sofisticati per essere dei creduloni: che cosa è accaduto alla critica quando il mio vicino mi giudica come uno irrimediabilmente ingenuo perché credo che gli Stati Uniti siano stati attaccati dai terroristi? ‘Ma dove vivi? Non lo sai che sono stati il Mossad e la CIA?’» (Latour B. (2004), Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in «Critical Inquiry», 30, University of Chicago, p. 228)
Il modello a traduzione
Così, per cercare di appianare le divergenze fra esperti e profani che nascono da un fraintendimento comune, Latour propone il modello a traduzione, per il quale invece, come dice il nome, l’attività della ricerca non ha niente a che vedere con la scoperta. Secondo questo approccio infatti, che si tratti di una nuova interpretazione di un’opera letteraria a partire da un manoscritto, del conteggio della popolazione di microorganismi in una coltura, della somministrazione di un questionario o della rivelazione di particelle subatomiche in un acceleratore, quello che noi facciamo, e che finisce nei nostri articoli scientifici, sono sempre trasformazioni di un determinato contenuto di realtà, sotto forma di testo, grafici, immagini, simboli o diagrammi. Per Latour, la ricerca consiste in un’attività di manipolazione continua delle informazioni, in quanto esse stesse sono il frutto di mediazioni precedenti.
Questo – chiedo scusa per il gioco di parole – cambia tutto. In altre parole, «dire è dire altrimenti. Altrimenti detto è tradurre» (Latour B. (2021), Politiche del design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità, Mimesis, Milano, cfr. il capitolo Irriduzioni, p. 254): ogni calcolo, etichettamento, definizione, campionamento, riassunto, misurazione, è un modo per représenter[4]una certa entità in maniera diversa, e secondo il linguaggio proprio dello strumento con cui è rappresentata, in modo da renderla così comparabile, gestibile, associabile, predittiva o vincolante rispetto alle altre entità con cui è messa a confronto.
Perciò, poiché permette di mobilitare risorse, raggruppare alleati e avversari, e definire i campi di lotta, ogni forma di sapere, è prima di tutto una tecnica di governo. Anziché un modo per “osservare” in modo “neutrale” la “natura”.
Prendiamo un esempio, quale i rapporti del IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sui cambiamenti climatici: essi non riportano banalmente le prove che il cambiamento climatico è causato dall’attività umana, ma con le loro conclusioni, a cui hanno fatto seguito azioni politiche, questi agiscono come portavoce – come il deputato del nostro collegio o il rappresentante sindacale nel CDA dell’azienda per cui lavoriamo – parlando a nome di tutti i dispositivi che sono serviti come strumenti mediatori del vasto repertorio di capta (presi, anziché dati) per produrre grafici, tabelle e indicazioni testuali, come satelliti, boe oceanografiche, stazioni di rilevamento dell’anidride carbonica, e così, via; tutti finanziati e implementati dagli Stati. Se si tolgono questi ultimi, se si toglie l’organizzazione sociale che foraggia il lavoro di ricerca, esterno all’accademia e agli altri istituti, le prove svaniscono. O meglio, non hanno più di che distinguersi dalle presunte contro-deduzioni degli scettici del clima, che solitamente non dispongono di un paragonabile apparato strumentale. Ma ciononostante, seguendo il positivismo, hanno capito benissimo come servirsi dell’argomento dell’impossibilità di ottenere evidenze verificate per sollevare dubbi e polemiche, con una certa efficacia.
Perciò, quello che cambia di sostanziale nel modello a traduzione è che il mondo scientifico e quello politico non possono più essere visti come due dimensioni in conflitto, da mantenere distinte.
Anzi, più l’istituzione scientifica dispone di mezzi, più essi vengono discussi pubblicamente e definiti nei loro obbiettivi, più l’attività di ricerca sarà presentata come una pratica come le altre, che lavora e costruisce i propri “fatti” (anziché fornici l’accesso diretto a questi fatti), e più sarà in grado di tradurre le nostre volontà con enunciati solidi e legittimati.
Per cui, infine, «se vogliamo che le persone comprendano la scienza, bisogna mostrare come è prodotta» (Intervista rilasciata al Guardian il 06/06/20)
NOTE
[1] Con essenzialismo, nelle scienze sociali, si indica quel presupposto erroneo per il quale una certa entità possiede una natura – immodificabile, inevitabile e inopinabile – che ne determina il comportamento. Fra gli esempi più celebri in questo senso possiamo citare la teoria della razza di De Gobinau, quella del delinquente nato di Lombroso, e la frenologia di Gall (che pure, in un certo senso è tornata di moda con il pericolosissimo film Pixar Inside Out). Il turismo sarebbe essenzialista perché si basa precisamente sul fatto che «da qualche parte» esistano popolazioni e territori che conservano un’identità “autentica”, cioè naturale e immutabile, venendo così trasformata in un loro destino. Cfr. Barthes R., Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2016. In particolare, il capitolo La Guida Blu.
[2] Cfr Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea
[3] Con “pensiero critico”, che ereditiamo da Kant, in senso lato intendiamo la concezione per cui esista una verità oggettiva e naturale che ci può essere più o meno evidente in base alla nostra rappresentazione soggettiva e culturale di essa. Si pensi ad esempio, all’enorme successo del grande classico 1984 di George Orwell e della sua importanza per il pensiero politico progressista, in cui il protagonista Winston Smith alla fine si arrende al bipensiero imposto dal Grande Fratello, il quale può imporre a suo piacimento che 2+2 faccia 5. Per un superamento di questa sorta di riduzionismo matematico prêt-à-porter, confronta l’articolo di Benoit Mandelbrot How Long Is the Coast of Britain? Statistical Self-Similarity and Fractional Dimension: https://it.wikipedia.org/wiki/How_Long_Is_the_Coast_of_Britain%3F_Statistical_Self-Similarity_and_Fractional_Dimension
[4] In italiano, a differenza dell’inglese o il francese, abbiamo due sostantivi diversi per indicare la rappresentanza e la rappresentazione, finendo per pensare che si tratti di due attività differenti e separate, dove una ha a che vedere con la mobilitazione politica, e l’altra con la produzione di immagini mentali. Si può dire che l’intera opera di Latour è incentrata precisamente sul rifiuto di questo dualismo.
La costruzione sociale della bicicletta - Ovvero, le tecnologie non sono neutrali

Provate ad immaginare una di quelle volte in cui avete deciso di fare un giro in bicicletta, magari in una bella giornata di primavera. Dopo esservi preparati e aver preso quello che vi serve, entrate finalmente in garage per prendere la bici ed uscire. Tuttavia, invece di trovare la bici che usate di solito trovate una di quelle bici con la ruota anteriore molto grande (figura 1) e diffuse alla fine dell’Ottocento. Pensate ad un mondo in cui tutto è uguale ad oggi, ma invece che utilizzare la bici moderna tutti usano queste bici. Partire da questa immagine strampalata e apparentemente senza senso permette di porre in rilievo una questione: le cose potrebbero essere andate diversamente da come le conosciamo? Oggi potremmo avere una bici diversa da quella che ci risulta apparentemente come normale? Infatti, come vedremo, “non c’è un solo modo possibile o un solo modo migliore di progettare un artefatto” (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p.40 trad. mia), come nel caso della bici. È da questi interrogativi che parte anche l’approccio SCOT (Social Construction of Technology) allo studio della tecnologia, e attraverso cui Wiebe Bijker (1995) ricostruisce la traiettoria di sviluppo che ha portato alla bici moderna.


Un primo prototipo risale ad un disegno del 1493, attribuibile a Leonardo Da Vinci, in cui viene rappresentato un biciclo con due ruote delle stesse dimensioni, pedali e manubrio. Dunque, Bijker (ibidem) si chiede: perché si è dovuto aspettare fino al XIX secolo per l’affermazione della bici moderna? Questo mostra come per avere un’innovazione tecnologica non basta che ci sia un inventore isolato dal mondo e con una buona idea (Magaudda e Neresini 2020). Infatti, si è dovuto attendere fino al Settecento per la costruzione del primo célerifère (figura 2), un biciclo con una struttura di legno e due ruote della stesse dimensioni, e senza la possibilità di sterzo. Per spostarsi era necessario spingere a terra con i piedi, il più della volte infangandosi. Per questo motivo, iniziarono ad emergere una serie di varianti, tra le quali ebbe particolare successo il vélocipède (figura 3): aveva una struttura di ferro, il manubrio, la sella e i pedali regolabili. In questo caso, i problemi erano principalmente legati alle troppe vibrazioni e allo slittamento laterale del mezzo. In seguito, con l’ordinary bicycle (figura 1) venne introdotta una posizione di guida rialzata sopra la grande ruota anteriore, la quale permise di attenuare i colpi e di non infangarsi, evitando il contatto diretto con il terreno. Inoltre, questo biciclo fu reso più leggero con l’impiego di raggi di filo metallico per la struttura delle ruote.
L’ordinary bicycle fu pubblicizzata dai suoi ideatori attraverso un’impresa ciclistica in cui venne percorsa la tratta che va da Londra a Coventry in un solo giorno. Questo evento contribuì alla costruzione dell’immagine della bici a ruota alta come mezzo sportivo, veloce ed efficiente. Non a caso, in un primo momento i principali utilizzatori di questo biciclo furono i “giovani atletici e danarosi” (Bijker 1995), per i quali era un mezzo sportivo per andare veloce e per manifestare la propria virilità e machismo. Infatti, viste le grandi dimensioni, l’ordinary bicycle richiedeva una serie di doti fisiche e atletiche per essere utilizzata, non era un mezzo sicuro e accessibile a tutti.
Se da un lato i giovani atletici erano i principali utilizzatori dell’ordinary, dall’altro lato, diversi individui rimanevano esclusi dalla possibilità d’impiego del biciclo, per cui si può parlare anche di una serie di gruppi di non-utilizzatori. Nello specifico, per le persone anziane e per chi non aveva una certa prestanza fisica l’ordinary non era un mezzo sicuro con cui potersi muovere: c’era un forte rischio di cadute ed infortuni. Inoltre, veniva escluso dall’utilizzo del biciclo anche chi non aveva la disponibilità economica per acquistarlo. Infine, alle donne non era consentito utilizzare questo mezzo perché entrava in netto contrasto con i codici di abbigliamento femminile dell’epoca. In relazione a ciò, in quel periodo si sviluppò la Rational Dress Society, una società di donne che rivendicava il diritto di vestirsi in maniera più libera evitando corsetti, tacchi e gonne pesanti, in modo da poter accedere anche all’utilizzo della bici.

Se da un lato i giovani atletici erano i principali utilizzatori dell’ordinary, dall’altro lato, diversi individui rimanevano esclusi dalla possibilità d’impiego del biciclo, per cui si può parlare anche di una serie di gruppi di non-utilizzatori. Nello specifico, per le persone anziane e per chi non aveva una certa prestanza fisica l’ordinary non era un mezzo sicuro con cui potersi muovere: c’era un forte rischio di cadute ed infortuni. Inoltre, veniva escluso dall’utilizzo del biciclo anche chi non aveva la disponibilità economica per acquistarlo. Infine, alle donne non era consentito utilizzare questo mezzo perché entrava in netto contrasto con i codici di abbigliamento femminile dell’epoca. In relazione a ciò, in quel periodo si sviluppò la Rational Dress Society, una società di donne che rivendicava il diritto di vestirsi in maniera più libera evitando corsetti, tacchi e gonne pesanti, in modo da poter accedere anche all’utilizzo della bici.
Come sottolinea Bijker (1995), questa prima fase di sviluppo della bicicletta si caratterizzata per la presenza di diversi “gruppi sociali rilevanti” (giovani atletici e danarosi, donne, anziani); ovvero, gruppi di attori che condividono al loro interno la medesima interpretazione di un artefatto tecnologico come la bici. In tal senso, si parla di una “flessibilità interpretativa” tra i vari gruppi: se per i giovani atletici l’ordinary è un mezzo sportivo e virile, per il gruppo degli anziani rappresenta qualcosa di poco sicuro, mentre, per il gruppo delle donne diventa un campo di rivendicazione dei diritti alla libertà di abbigliamento e all’utilizzo della bici. Queste diverse interpretazioni riguardano una serie di problemi e soluzioni che vengono poste dai vari gruppi rispetto al funzionamento di un particolare artefatto tecnologico e che lo rendono utilizzabile. Va precisato che questa flessibilità non riguarda solo il “modo in cui le persone pensano o interpretano gli artefatti, ma anche la flessibilità nel modo in cui gli artefatti sono progettati” (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 40 trad. mia). Dunque, è in relazione alle interpretazioni dei diversi gruppi social che prendono materialmente forma differenti modelli di bici. Ad esempio, per rispondere al problema del codice di abbigliamento femminile vennero sviluppate delle bici con la pedalata laterale (figura 4); mentre, per rispondere al problema della sicurezza vennero progettati modelli come la Lawson bicycle (figura 6) e la xtraordinary (figura 5), delle varianti della Ordinary in cui venne ridotta la grandezza della ruota anteriore e la trazione venne spostata sulla ruota posteriore. In questo senso, si vede bene come la tecnologia incorpori una serie di aspettative sociali da parte di chi la progetta e, al contempo, essa contribuisca a stabilizzare e dare forma alle relazioni tra i vari gruppi di utilizzatori.



Quindi, com’è stato poi possibile passare da questa molteplicità e varietà di bicicli differenti a quella che noi riteniamo essere la bici moderna? Per Bijker (1995) la risposta è da trovare nello pneumatico ad aria. Quest’ultimo inizialmente era visto come qualcosa di esteticamente ridicolo e poco funzionale. Tuttavia, la situazione cambiò nel maggio del 1889, quando il ciclista W. Hume vinse una gara dimostrando la validità degli pneumatici ad aria e della Safety bicycle (figura 7). È in questo momento che per Bijker (ibidem) c’è il momento di “stabilizzazione e chiusura” nella traiettoria di sviluppo tecnologico della bici: c’è una soluzione tecnica che permette di far convergere le interpretazioni dei vari gruppi sociali, rispondendo ai diversi problemi che essi pongono. In questo senso, la safety bicycle permette di rispondere sia alla necessità di andare veloce del gruppo dei giovani atletici, sia all’esigenza di una certa guida in sicurezza da parte di persone anziane e meno prestanti fisicamente, inoltre, permette un allineamento dei codici di abbigliamento femminile con l’utilizzo della bicicletta. Con la fase di stabilizzazione e chiusura la bici diventa quello che gli STS (Science and Technology Studies) definiscono una “scatola nera”; ovvero, una tecnologia pronta all’uso, disponibile per essere impiegata e che non è necessario problematizzare ulteriormente. Per questa ragione, quando ci riferiamo alla bicicletta nella vita di tutti i giorni non dobbiamo specificare che ha due ruote della stessa misura, i pedali, il manubrio, la catena; questi sono degli elementi che assumiamo come certi.
Da questa storia può essere fatto emergere quello che è il modello analitico dell’approccio SCOT per guardare allo sviluppo e all’innovazione tecnologica, il quale si articola principalmente in tre fasi (Bijker, Hughes e Pinch 1987; Bijker 1995): inizialmente c’è una “flessibilità interpretativa” di quelli che possono essere particolari dispositivi tecnologici, i quali vengono progettati con forme e caratteristiche diverse per rispondere ai problemi posti dai vari gruppi sociali; in una seconda fase avviene la “chiusura interpretativa”, l’artefatto tecnologico e le interpretazioni dei gruppi si stabilizzano arrivando a convergere tra loro; infine, questa chiusura va ricollegata e spiegata in un contesto sociale più ampio.
In conclusione, riprendendo gli interrogativi da cui siamo partiti, le cose potrebbero essere andate effettivamente in modo diverso? Gli STS, e in particolare l’approccio SCOT, ci insegnano che la traiettoria dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico è qualcosa di aperto, incerto, e non deciso a priori. Come nel caso della bici, le tecnologie vengono progettate in relazione alle aspettative dei gruppi sociali e, al contempo, contribuiscono a dare forma alle stesse relazioni tra gruppi e individui. In altri termini, tecnologia e società co-evolvono e si danno forma a vicenda in un tessuto unico e senza cuciture, un saemless web (Bijker 1995). Per questa ragione, il percorso che porta all’affermazione di una tecnologia non è qualcosa di lineare e già scritto: non è sufficiente che ci sia un inventore o una scoperta scientifica per sviluppare automaticamente una tecnologia più sofisticata, la quale finirebbe per impattare sulla vita quotidiana delle persone. In tal senso, le tecnologie che si affermano non sono quelle “più efficienti” o che “funzionano meglio”, ma quelle che si configurano come tali in particolari contesti d’uso. Per questa ragione, la bici moderna non si è affermata perché era la migliore da un punto di vista tecnico e di costruzione rispetto alle concorrenti, ma perché ha permesso di far convergere le interpretazioni dei vari gruppi sociali rispondendo ai loro problemi d’uso. Questo discorso può essere esteso per l’analisi di altre tecnologie e mostra come il processo di sviluppo tecnologico sia un processo non lineare e mai dato per scontato, in cui gruppi di attori e artefatti tecnologici si costruiscono reciprocamente.
BIBLIOGRAFIA
Bijker, W. E. (1995). Of Bicycles, Bakelites, and Bulbs. Toward a Theory of Sociotechnical Change. The MIT Press.
Bijker, W. E., Hughes, T. P., Pinch, T. J. (1987). The social Construction of Technological Systems. New Directions in the Sociology and History of Technology. The MIT Press.
Magaudda, P., Neresini, F. (2020). Gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia. Il Mulino.
Quando è nata la Scienza? - Dall'antica Grecia all'epoca dei lumi
Fino a qualche decennio fa, quando la scienza era considerata un corpus di idee sul mondo naturale, i suoi albori venivano collocati nel contesto del pensiero filosofico della Grecia Antica (Popper 1972). È ragionevole? Vediamo.
Partendo da Platone…
Platone nel Teeteto usa il termine epistêmê con il significato (ampio) di conoscenza: epistêmê non sarebbe altro che sensazione (151 E). Un concetto quindi non sovrapponibile all’attuale concetto di scienza, solitamente esibito come alternativo alla (semplice) conoscenza. Infatti, nel Teeteto la conoscenza scientifica sarebbe una specie particolare della conoscenza più generale, non una conoscenza alternativa. Per cui non sarebbe corretto tradurre epistêmê con ‘scienza’.
Invece, alla fine del Libro VI della Repubblica, nella celebre immagine della linea divisa (509 D-511 E), Platone parla di due tipi di conoscenza: chiara (saphenêia) e oscura/indeterminata (asapheia). Per Platone, però, ‘chiara’ non vuol dire ‘certa’. La conoscenza chiara pertiene al mondo intellettuale (anima); quella oscura deriva dai sensi e riguarda il mondo sensibile. Per Platone abbiamo sapere o scienza solo nel mondo intellettuale, non di quello sensibile perché le osservazioni empiriche non aggiungono nulla alla conoscenza piena (o conoscenza in senso stretto). Viene così introdotta una distinzione netta tra ‘epistêmê’ (che diviene la conoscenza chiara, basata sulla logica, che sta in piedi da sola, da epi + istemi) e doxa (le credenze, che possono essere dogmatiche perché poggianti sull’autorità, oppure basate sulle opinioni, sia vere che false, credibili o meno). Infine, Platone distingue anche due tipi diversi di ‘epistêmê’ o conoscenza chiara: quella (come la matematica e la geometria) che si sviluppa a partire da ipotesi e deduce attenendosi alle conseguenze che ne derivano; e quella (la dialettica) che si interroga e spiega anche i fondamenti delle ipotesi stesse. Per cui, anche se le scienze matematiche sono epistemai, tuttavia solo la dialettica è in grado di raggiungere la conoscenza piena, perché si interroga sulle ipotesi di partenza.
Aristotele: un passo avanti…
Aristotele, nel libro Analitici Secondi (II 2, 71b9-15), compie un ulteriore passo, sviluppando una teoria della "conoscenza scientifica", che chiama… epistêmê. Questo diverso significato della parola epistêmê l’avvicinerebbe maggiormente al concetto di scienza. In questo testo, Aristotele sostiene che abbiamo episteme (cioè, conoscenza scientifica) di X quando si danno le seguenti condizioni: conosciamo Y, sappiamo che Y è la ragione/causa (aitìa) di X, e questa relazione tra X e Y è necessaria. Per Aristotele epistêmê implica quindi dare spiegazioni, trovare le cause/ragioni. Necessità e spiegazione causale sono i due ingredienti fondamentali della conoscenza scientifica, che è una forma molto precisa di conoscenza.
Per cui la nostra domanda iniziale (quando è nata la scienza?) sembrerebbe trovare risposta nella proposta di Popper. Ma non è così.
Dal Medioevo al 1600
La tradizione latina medievale ha poi tradotto epistêmê in ‘scientia’. In questo senso c’è una dipendenza diretta tra il testo degli Analitici Secondi e l’epistemologia medievale. Tuttavia, il termine ‘scientia’ significava solo conoscenza, sapere, notizia; almeno fino al XVII secolo. Ciò non di meno, il termine ‘scientia’ ha significato cose molto diverse in epoche diverse e culture diverse. Perciò le cose si complicano nuovamente.
Infatti, a quel tempo, lo studio della natura cadeva invece sotto l'espressione "filosofia naturale". Essa comprendeva al suo interno tutti quei campi di ricerca che noi oggi chiamiamo geologia, astronomia, chimica, ottica, biologia e botanica, ma anche la filosofia e la teologia. Inoltre, a differenza della scienza contemporanea, la filosofia naturale non si basava sulla sperimentazione (ritenuta invece successivamente l’elemento centrale della scienza), ma sulla speculazione intellettuale e la tradizione. Infine, tutti coloro che investigavano la natura si identificavano comunemente con l'espressione "filosofo naturale".
Il "metodo scientifico" - sperimentale e quantitativo - che diede origine alla scienza sperimentale, venne sistematizzato solo tra il XVI e XVII secolo, durante il periodo della cosiddetta Rivoluzione Scientifica. Secondo alcuni (per esempio Whitehead 1920) il merito di questo cambiamento andrebbe attribuito a poche illustri figure come quella di Francis Bacon o Galileo Galilei; secondo altri, invece, il processo di formalizzazione del metodo scientifico richiese ancora diversi decenni e il contributo di molte scoperte in molti campi differenti, dall'astronomia alla geologia.
Il padre di tutti i fraintendimenti: l’essenzialismo
Entrambe le prospettive, però, partono da un presupposto essenzialista, cioè che possano essere identificate delle caratteristiche costitutive della scienza come categoria di pensiero, e che queste rimangano immutate nel tempo. Tuttavia, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, la scienza non ha caratteristiche fisse e immutabili ma, in quanto istituzione, essa coincide con la comunità che ne riproduce le convenzioni e così facendo la pone in essere. Se così non fosse non si potrebbero spiegare molte figure ‘ibride’, se viste con gli occhi di oggi: ad esempio Newton, da alcuni considerato il fondatore della fisica classica e la figura con la quale la rivoluzione scientifica raggiunse il culmine, non solo intitolò la sua opera più celebre Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (1687) (e non utilizzò quindi la parola “scienza”) ma benché oggi poco ricordato, scrisse copiosamente anche di teologia, occultismo e soprattutto di alchimia.
Invece il termine ‘scienziato’ (scientist) è stato introdotto solo nel primo Ottocento. Tant’è che personaggi come Galileo o Newton erano ancora chiamati ‘filosofi naturali’ (natural philosophers). Il termine ‘scienziato’ fu coniato per la prima volta dallo studioso inglese William Whewell nel 1834, in una sua recensione all’opera di Mary Somerville On the Connexion of the Physical Sciences. Ma la diffusione di questo termine non fu immediata. Infatti, il britannico Lord Kelvin (1824-1907), più di tre decenni dopo, nel 1867, intitolava ancora la propria opera Trattato sulla Filosofia Naturale.
Infine, il termine platonico epistêmê non ha avuto fortuna nei secoli ed è stato reintrodotto come ‘epistemologia’ soltanto a metà dell’Ottocento, a opera dello studioso scozzese James Frederick Ferrier nel suo libro Institutes of Metaphysics (1854), con il significato (però) di teoria della conoscenza (che oggi chiameremmo gnoseologia). Peraltro, il termine epistemologia ha oggi significati un po’ diversi nei paesi anglosassoni e nell’Europa continentale.
Concludendo…
Come si può vedere, da questa breve disamina, la domanda iniziale è destinata a rimanere inevasa.
Se invece adottiamo la strategia costruttivista del boundary work, possiamo dire che la scienza, in quanto istituzione, nasce quando comincia a venire riconosciuta come un campo a sé stante, distinto, e quando gli scienziati cominciano a identificarsi come tali e quindi a rivendicare autorità a partire dalla categoria di scienza. A questo si aggiunga il fatto che oggi si tende a privilegiare una diversa prospettiva, che considera la scienza come un insieme di pratiche (anziché di idee). Per cui le attività dei filosofi della Grecia Antica, così lontane dalle pratiche scientifiche odierne, non sarebbero rubricabili sotto il concetto di ‘scienza’ (Bowler e Morus 2005). L'istituzione della scienza moderna viene invece fatta coincidere con l'emergere di una certa organizzazione istituzionale, di pratiche, di strumenti. In base a questa diversa prospettiva, la scienza avrebbe inizio all'epoca dei lumi, quando il metodo scientifico venne sistematizzato e la scienza istituzionalizzata in organizzazioni come l’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma (1603), l’Academie des Sciences di Parigi (1666), La Real Academia de Ciencias y Artes di Barcellona (1764), la Royal Society di Londra (1768) o l’Academia das Ciências di Lisbona (1779).
NOTE
Articolo tratto da: Gobo, G. e Marcheselli, V. (2021), Sociologia della scienza e della tecnologia, Roma: Carocci, pp. 149-151.
BIBLIOGRAFIA
Bowler P. J. e Rhys Morus I. (2005), Making Modern Science. A Historical Survey, University of Chicago Press, Chicago, London.
Popper, K. (1972), Objective Knowledge: An Evolutionary Approach, Oxford University Press, New York (trad. it. Conoscenza Oggettiva, Armando Editore, Roma 1972).
Whitehead A. N. (1920), The Concept of Nature, Cambridge University Press, Cambridge.