Tucidide e lo smartphone – Verità autoptica svelata dalle tecnologie quotidiane

TUCIDIDE E L’AUTOPSIA

In greco antico autopsia (αύτος, stesso + οψίς, vista) significa “vedere con i propri occhi” e, in senso esteso, “visione diretta” di un fenomeno.

Tucidide,  storico greco del V secolo A.C., nella sua narrazione della Guerra del Peloponneso, adottò il vedere con i propri occhi[1] come criterio di attendibilità storica: «la vista dello storico è infallibile» (I, 22, 2), «il risultato di quella degli altri va sottoposto al vaglio della comparazione critica» (cit., ibidem).

Per compiere opera di verità[2], Tucidide dava per vero solo ciò a cui aveva personalmente assistito o che era stato visto con i loro occhi da persone che considerava attendibili. Si fidava solo dell’αύτοψία, appunto.

EVIDENZA INCONTROVERTIBILE DI UN MASSACRO

Il 30 marzo 2025, nel distretto di al-Hashashin di Rafah, la città più a sud di Gaza, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA - Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) rinviene, sepolti sotto la sabbia in una fossa comune, i corpi di 14 paramedici e soccorritori della Protezione Civile, palestinesi, che operavano sotto le insegne della Mezzaluna Rossa e di un funzionario dell’ONU. (IFRC - International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies)

A breve distanza, vengono ritrovati i resti di 5 ambulanze della Croce Rossa e di un veicolo dei pompieri.

I morti presentano i segni di spari esplosi a brevissima distanza nella testa e nel torace. Sono ancora vestiti con le tute e i giubbotti con le strisce riflettenti di riconoscimento delle unità sanitarie e di soccorso.

Del convoglio di cui facevano parte si era perso il contatto radio il giorno 23 marzo.

Tucidide non avrebbe nulla da dire, su questi elementi storici: sono tutti – tristemente – visti con i propri occhi dal personale della IFRC e dell’OCHA intervenuto sul posto.

RICOSTRUZIONE DEI FATTI E CONTROVERSIA

L’OCHA ricostruisce che:

«I corpi […] e i veicoli di soccorso – chiaramente identificabili come ambulanze, camion dei pompieri e automobile delle Nazioni Unite – sono stati colpiti dalle forze israeliane e poi nascosti sotto la sabbia»[3]

Secondo J. Whittall, capo dell’OCHA nella Striscia di Gaza,

«le persone uccise domenica scorsa si trovavano a bordo di cinque ambulanze e di un camion dei pompieri e si stavano dirigendo verso una zona bombardata dall’esercito israeliano. I mezzi sono stati colpiti dal fuoco israeliano sebbene fossero visibilmente segnalati come veicoli di soccorso, e lo stesso è successo con un’automobile dell’ONU arrivata poco dopo»[4]

Dalle ferite trovate sui corpi, la ricostruzione suggerisce che i militari israeliani abbiano sparato ai soccorritori a distanza ravvicinata.

L’esercito israeliano ammette[5], dopo alcuni giorni, la propria responsabilità e diversi errori ma sostiene che:

  • gli errori siano dipesi dalla scarsa visibilità notturna (riportato in corsivo perché è rilevante);
  • distruggere le ambulanze e seppellire i corpi servisse a metterli al riparo e sgomberare la strada;
  • l’attacco fosse comunque giustificato dalla presenza di membri di Hamas.[6]

AUTOPSIA E VERITÀ: IL RUOLO DI UNA TECNOLOGIA QUOTIDIANA

Tucidide non ammetterebbe al rango di verità che nel convoglio ci fossero dei membri di Hamas: non l’ha visto né provato nessuno. Lo stesso vale per la necessità di distruggere le ambulanze al fine di metterle al riparo e a liberare il percorso: è un’opinione soggettiva, incontestabile ma – nello stesso tempo – inammissibile nella narrazione storica.

Invece, che ci fosse scarsa visibilità è una falsità evidenziata dal ritrovamento dello smartphone di una delle vittime.

Tra i documenti nello smartphone c’è - infatti - un filmato in cui si vede (e si sente) chiaramente che il convoglio si muoveva con i lampeggianti di segnalazione accesi e le sirene in funzione; che il personale vestiva – come, d’altra parte, è stato testimoniato dal ritrovamento dei corpi – l’abbigliamento di riconoscimento; che l’attacco è stato effettuato nonostante tutto questo; e che i colpi sono stati esplosi da vicino.[7]

Lo smartphone ha svolto, in questo caso il ruolo di agente autoptico: è stato il testimone oculare desiderato da Tucidide e il video è la vera e propria αύτοψία dell’accaduto.

L’ αύτοψία per mezzo di una tecnologia quotidiana ha permesso agli osservatori di compiere opera di verità e smentire le menzogne delle forze armate israeliane, che cercano di nascondere – come è, a questo punto, evidente anche dal tentativo di velare le prove fisiche sotto la sabbia – il massacro di persone intoccabili per statuto internazionale, quali sono gli operatori di soccorso e quali dovrebbero essere i civili.

D’altra parte, è anche grazie alle tecnologie della televisione con tutti i suoi apparati di comunicazione che siamo tutti testimoni oculari, agenti autoptici di una guerra combattuta soprattutto contro la popolazione civile.

Guerra di cui – senza queste tecnologie – con elevata probabilità, non conosceremmo nulla.

Tucidide sarebbe soddisfatto: la verità – termine a lui molto caro – emerge in virtù di una αύτοψία, tecnologica.

 

 

NOTE

[1] Erodoto, in realtà, fu il primo a pensare che “vedere con i propri occhi” fosse il principale criterio di verità storica.

[2] Cfr. L. Canfora, Prima lezione di storia greca, Laterza, 2023 e Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza, 2016

[3] Cfr. https://www.facebook.com/watch/?v=2189635674800875, traduzione mia

[4] Cfr.: Il Post, Lunedì 31 marzo 2025

[5] Cfr.: Il Post, 20 aprile 2025 e New York Times, 20 aprile 2025

[6] La presenza di membri di Hamas non è provata in alcun modo, come in molti altri casi di attacchi israeliani contro aree ed edifici civili. Non c’è traccia di testimonianza né oculare

[7] Cfr. ancora https://www.facebook.com/watch/?v=2189635674800875


Stabilizzare il farmaco, stabilizzare la biomedicina - Reciproche catture tra medici e vaccini

Se l’instabilità del pharmakon non è un nostro problema, quel che sembra distinguerci al contrario […] è l’intolleranza della nostra tradizione di fronte a questo tipo di situazione ambigua e l’angoscia che suscita. È necessario un punto fermo, un fondamento, una garanzia. È necessaria una differenza stabile tra il medicamento benefico e la droga malefica, tra la pedagogia razionale e il condizionamento suggestivo, tra la ragione e l’opinione” (Stengers, 2005: 40-41)

 

Se volessimo analizzare la farmacovigilanza tenendo in considerazione le parole di Stengers qui in epigrafe, potremmo ritenerla uno strumento volto a stabilizzare farmaci: distinguere vantaggi e pericoli sembra essere obiettivo precipuo di questa pratica. Ciò è ancor più evidente se ci riferiamo alla vaccinovigilanza. Scindere ciò che è benefico da ciò che risulta dannoso appare particolarmente opportuno nel caso dei vaccini: anche i documenti ufficiali rilevano che, in questo caso, “poiché la popolazione target è rappresentata prevalentemente da soggetti sani, per la maggior parte di età pediatrica, il livello accettabile di rischio è inferiore a quello degli altri prodotti medicinali. […] Queste peculiarità dei vaccini rendono necessarie attività di farmacovigilanza post-marketing che vadano oltre quelle routinarie, al fine di monitorare e valutare adeguatamente gli eventuali rischi” (AIFA, 2017:4). Tuttavia, nonostante i vaccini siano considerati tra i prodotti più controllati nel panorama farmacologico, abbiamo già avuto modo di esplorare come le pratiche di vaccinovigilanza siano dispositivi socio-culturali complessi (Lesmo, 2025).

Di fatto, i dubbi in merito a possibili correlazioni causali tra alcuni vaccini e determinati eventi avversi sembrano affiorare tra i professionisti. Nel corso della ricerca etnografica da me condotta sul tema tra il 2017 e il 2021, è emerso come diversi medici abbiano preso in considerazione in più occasioni questa ipotesi. Ciò è stato rilevato in vario modo. Non solo alcuni di essi hanno suggerito ai genitori di bambini con possibile danno da vaccino l’ipotesi di una correlazione, per poi spesso negarla dopo poco (secondo quanto i genitori mi hanno riferito).  La presenza di simili “dubbi” è stata poi esplicitata direttamente da alcuni medici da me intervistati, che ne hanno approfondito criticità e problematiche durante i colloqui. Oltre a queste testimonianze di prima mano,  alcuni libri,  pubblicazioni e lettere scritte da medici specialisti hanno proposto pubblicamente di re-interrogare la sicurezza e/o l’efficacia delle pratiche vaccinali in corso. Alcuni tra questi professionisti sono stati in seguito interpellati, richiamati, sospesi o finanche radiati dai rispettivi ordini, evidenziando una zona di tensione particolarmente evidente che intercorre tra il sapere vaccinale e la pratica medico-clinica. È dunque estremamente rilevante interrogare la relazione complessa che lega vaccinazioni, pratica biomedica e professionisti della cura. Come si costruiscono vicendevolmente questi rapporti? Quali obiettivi, più o meno consapevoli, essi si prefiggono?

“UNKNOWN KNOWNS”: CONOSCENZE SCONOSCIUTE

Bisogna però dire che attualmente le indicazioni della medicina occidentale accademica hanno una tendenza a non mettere in correlazione patologie avverse con la vaccinazione, proprio perché la tendenza è quella di dare un valore solo positivo alla vaccinazione escludendo tutti gli elementi negativi.

Questo è quanto afferma un medico da me intervistato quando riflettiamo insieme sul rapporto rischio/benefici associati ai vaccini. L’esclusione di alcuni elementi dalle pratiche di costruzione del sapere è un elemento intrinseco ad ogni epistemologia. Se già Foucault (2004) aveva illustrato come molteplici procedure di esclusione agissero nel dare consistenza a un discorso, conferendogli uno statuto di verità attraverso interdetti, evitamenti ed elisioni, questi temi sono stati ri-articolati successivamente da molti altri studiosi. Tra questi, l’antropologo Michael Taussig si è riferito al “lavoro del negativo” per evidenziare come “sapere che cosa non sapere” sia un passaggio fondamentale in molti processi socio-culturali oltre che epistemologici. Secondo quanto osserva Taussig, il “lavoro del negativo” nei singoli contesti di riferimento è così profondo che “pur riconoscendolo, pur nello sforzo di liberarci dal suo abbraccio vischioso cadiamo in trappole ancora più insidiose che ci siamo autocostruiti” (Taussig, 1999:6). Difficile è dunque acquisire consapevolezza in merito a talune esperienze note eppur sottese, che a volte fondano vere e proprie imprese epistemiche e sociali. Geissler, antropologo sociale, ha ripreso nei suoi studi il concetto ossimorico di “conoscenze sconosciute” [“unkwnown knowns”] (Geissler, 2013: 13) per evidenziare quanto queste possano talvolta aprire la strada a determinate pratiche di ricerca e/o di cura: il confine tra sapere e non-sapere risulta così estremamente labile.

Anche in ambito vaccinale sembra che alcune esperienze vengano talvolta “espulse” dall’orizzonte conoscitivo - quasi sulla soglia della consapevolezza - per rendere le pratiche di immunizzazione possibili. Una pediatra intervistata, con cui riflettiamo sulle posizioni discordanti sul tema in ambito biomedico, mi spiega:

Allora, ci sono secondo me alcuni vaccini su cui… effettivamente ci può essere una discussione, perché effettivamente non mettono a rischio la società, no? Ci sono dei vaccini invece per cui questa cosa qua si mette a maggior rischio e allora… […] Ci sono dei caposaldi che… che secondo me sono intoccabili.

In questo frammento di discussione, parte di uno scambio molto lungo e articolato, la pediatra evidenzia come certi dubbi non possano essere sollevati – a meno che non siano già sostanziati da studi scientifici solidi ed epidemiologicamente fondati. I dubbi così sommersi - questi sospetti silenziati - sembrano in qualche misura concretarsi anche nell’eliminazione simbolica, operata attraverso sanzioni disciplinari di vario genere, dei medici che tentano di palesarli. Quando interpellata in merito a tali sanzioni, un’altra pediatra intervistata ha ribadito come ciò fosse indispensabile, e finanche rassicurante, poiché la vaccinazione “è la base della medicina moderna” e “se un medico non crede ai vaccini, soprattutto un pediatra – e soprattutto alle vaccinazioni pediatriche… forse ha sbagliato campo”.

STABILIZZARE IL SAPERE BIOMEDICO

Per molti professionisti della cura, dunque, la fiducia nella vaccinazione sembra essere precondizione della stessa professione medica. Ciò è stato spesso attribuito al particolare statuto che le vaccinazioni risultano avere in biomedicina: per riprendere le espressioni qui proposte, esse sarebbero un “caposaldo”, se non “la base della medicina stessa”. Sembra così adeguato riprendere quanto asserito da Isabelle Stengers (2005) in relazione alla stabilizzazione di un sapere, che si intreccia saldamente con ciò che la studiosa definisce “reciproca cattura”, o “inter-presa”. La “reciproca cattura” è quel legame che vincola due entità attraverso la creazione di un valore reciproco. Secondo Stengers, tale cattura si attiva nel momento in cui due identità si costruiscono e si legittimano vicendevolmente. In questo caso il ruolo del medico sembra consolidarsi anche in base alle considerazioni che egli associa ai vaccini: sostenere sicurezza ed efficacia delle vaccinazioni in uso – “credere” nei vaccini come asserito più sopra – dimostra la competenza e la credibilità dei professionisti. Nel contempo, tuttavia, le pratiche vaccinali sono rinsaldate proprio dalla fiducia accordata loro dai medici, le cui competenze ne garantiscono l’affidabilità. Ciò produce un’ulteriore antinomia: i medici – ossia gli specialisti competenti che potrebbero eventualmente porre dubbi sui vaccini - non riescono a farlo, pena la perdita della propria credibilità sul campo. Questa circolarità non è però priva di uno scopo: come si può desumere dalle considerazioni sopra proposte, essa assolve un compito ben preciso, ossia la stabilizzazione del ruolo dei vaccini, attraverso la rimozione dell’ambivalenza ad essi intrinseca: scindendo, cioè, il potere di proteggere da quello di ferire. Se poi il vaccino diviene espressione del successo biomedico, allora è la biomedicina tutta che viene in questo modo rinsaldandosi. Come osserva Stengers, tuttavia, proprio l’“ossessione di differenziazione che ci contraddistingue” (ivi:43) può divenire pericolosa: essa rischia di conferire a certi oggetti epistemici “un potere che non hanno” (ibidem). Rilevare ed esplorare il “lavoro del negativo” in opera diviene dunque cruciale per cogliere le forme di “instabilità” esistenti e trovare modi alternativi di relazionarvisi.

 

 

BIBLIOGRAFIA

AIFA, 2017, “La vaccinovigilanza in Italia: ruolo e obiettivi”, https://www.aifa.gov.it/sites/default/files/La_Vaccinovigilanza_in_Italia_18.04.2017.pdf

Foucault M., 2004, L'ordine del discorso e altri interventi, Torino: Einaudi.

Geissler P. W., 2013, Public Secrets in Public Health: Knowing not to Know while Making Scientific Knowledge, “American Ethnologist”, Vol. 40 (1):13-34.

Lesmo I, 2025, “Ecologie delle evidenze in vaccinovigilanza: quali esperienze (non) si trasformano in conoscenza?”, Controversie-Ripensare le scienze e le tecnologie, 2025,4, https://www.controversie.blog/vaccinovigilanza/

Stengers, I., 2005, Cosmopolitiche, Roma: Luca Sossella Editore.

Taussig M., 1999, Defacement: Public Secrecy and the Labor of the Negative, Stanford University Press, Stanford.


Cloud di guerra - Militarizzazione dell’intelligenza artificiale e implicazioni etiche

Lo scorso 10-11 febbraio 2025, al Grand Palais di Parigi, si è svolta la terza edizione dell'Artificial Intelligence Action Summit, che ha riunito capi di Stato, leader di organizzazioni internazionali, CEO di aziende, accademici e rappresentanti della società civile per discutere delle sfide e opportunità legate all'intelligenza artificiale. Tuttavia, dietro il clamore di questa ‘tempesta di cervelli’, emerge il ritratto frammentato di un mondo sospeso tra promesse di innovazione e ombre inquietanti. I temi centrali? Il declino economico dell'Occidente, la crescente competizione con il modello cinese e la corsa dell'Europa a recuperare terreno.

Le iniziative proposte sono ambiziose, ma, a un’analisi più approfondita, si rivelano spesso incomplete o rischiano di sostenere progetti che, se non adeguatamente controllati, potrebbero alimentare il controllo centralizzato e accentuare la disuguaglianza globale. Con un fondo di 2,5 miliardi di euro destinato ad accelerare la crescita dell’IA open-source nei paesi in via di sviluppo e il lancio di 35 sfide globali legate agli obiettivi di sviluppo sostenibile, il summit ha fatto appello alla cooperazione internazionale. Tuttavia, dietro queste dichiarazioni, si nasconde il rischio di un vuoto di responsabilità, che la crisi economica che sta colpendo l’Europa amplifica, mettendo in dubbio l’effettivo impegno di Bruxelles. Nel frattempo, Donald Trump, con il suo progetto Stargate da 500 miliardi di dollari, si propone come un attore già consapevole di come l’IA possa essere utilizzata per il dominio economico e militare.

La realtà dell’intelligenza artificiale, tuttavia, non coincide con la visione futuristica di progresso che viene presentata, ma con le sue applicazioni concrete. Già adesso, l’IA non si limita più a gestire dati: li manipola. È questo il paradosso: quella che viene definita “Intelligenza Artificiale” è, in realtà, un inganno semantico che maschera la nostra ignoranza sull’intelligenza naturale, la nostra. Eppure, questa ‘non-intelligenza’ sta già scrivendo la storia di intere generazioni presenti e future.

I GIGANTI DEL TEC

Un’assenza allarmante ha contraddistinto il Summit: nessun accenno al vero volto dell'IA, quello che alimenta la macchina da guerra. Due inchieste del Washington Post (https://www.washingtonpost.com/technology/2025/01/21/google-ai-israel-war-hamas-attack-gaza/) e di The Guardian (https://www.theguardian.com/world/2025/jan/23/israeli-military-gaza-war-microsoft), hanno rivelato il coinvolgimento diretto di giganti tecnologici come Google, Amazon e Microsoft nella fornitura di tecnologie IA all’esercito israeliano durante l'offensiva a Gaza. Non si tratta più di semplici contratti commerciali, ma di un sostegno diretto alla macchina da guerra, che ha contribuito alla morte di migliaia di civili. L'accordo sul Progetto Nimbus, da 1,2 miliardi di dollari, firmato nel 2021, nasconde un collasso etico: Microsoft, pur avendo inizialmente perso la gara, si è successivamente integrata nel progetto, rafforzando la rete di sorveglianza e targeting.

Le inchieste raccontano come i prodotti di Google e Microsoft siano stati impiegati a partire dal 7 ottobre 2023 e come il loro utilizzo sia stato direttamente coinvolto nello sterminio dei palestinesi e nei crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza. Lanciato da Israele nel 2019 come un innocuo cloud computing destinato a modernizzare le infrastrutture digitali del paese, il Progetto Nimbus ha invece fornito all’esercito israeliano capacità avanzate di intelligenza artificiale. "Ampliare lo schema israeliano di sorveglianza, profilazione razziale e altre forme di violazione dei diritti umani assistite dalla tecnologia", così lo descriveva Ariel Koren, ex marketing manager di Google, nel 2022, che ha preferito dimettersi piuttosto che accettare la deriva immorale dell’azienda.

Google sostiene che "non è rivolto a carichi di lavoro altamente sensibili, classificati o militari rilevanti per armi o servizi segreti". Le inchieste dimostrano il contrario: Google e Amazon hanno accettato di personalizzare i loro strumenti su richiesta delle forze armate israeliane, potenziando la loro capacità di sorveglianza e identificazione degli obiettivi. Durante l’offensiva di Gaza dell'ottobre 2023, la piattaforma di intelligenza artificiale Vertex di Google è stata utilizzata per elaborare enormi set di dati per "previsioni", in cui gli algoritmi analizzano modelli comportamentali e metadati per identificare potenziali minacce.

A sostegno delle inchieste si aggiungono le dichiarazioni di Gaby Portnoy, capo della Direzione informatica nazionale israeliana fino al 19 febbraio 2025. Secondo lui, Nimbus è destinato a rinsaldare il profondo legame tra Amazon, Google e l’apparato di sicurezza nazionale israeliano. In una conferenza del 29 febbraio 2024, Portnoy ha dichiarato che “Le aziende sono state partner per lo sviluppo di un nuovo progetto che crea un framework per la difesa nazionale”, con strumenti di sicurezza basati sul cloud che hanno “favorito la rappresaglia militare del paese contro Hamas”. A lui si deve anche l'istituzione di nuove infrastrutture di difesa avanzate, note come Cyber Dome, evoluzione dell’Iron Dome.

LAVENDER, IL LATO OSCURO DELLA GUERRA A GAZA

Un tempo la guerra era fatta da uomini. Oggi, ai tempi dei cloud, non più. Un'inchiesta di +972 Magazine e Local Call, pubblicata il 3 aprile 2024, ha svelato un altro lato oscuro della guerra a Gaza: quello dei software progettati per uccidere. È stata la prima a rivelare l’esistenza di "Lavender", un sistema utilizzato dall’esercito israeliano per identificare e colpire obiettivi palestinesi, con supervisione umana limitata. “Un programma di omicidi di massa senza precedenti che combina il targeting algoritmico con un'elevata tolleranza per la morte e il ferimento dei civili circostanti”. E che tiene traccia di quasi tutti gli abitanti di Gaza, raccogliendo input di intelligence da videoclip, messaggi provenienti da social network e analisi delle reti di comunicazione.

Sulla base dei dati raccolti, l’algoritmo è in grado di determinare se una persona è un combattente di Hamas o appartiene ad altri gruppi armati palestinesi. Dopo aver identificato gli obiettivi, con un margine di errore del 10%, i nominativi vengono inviati a una squadra operativa di analisti, i quali verificano l’identità “in un tempo massimo di 20 secondi, che di solito serve a determinare se il nome è maschile o femminile, presupponendo che le donne non siano combattenti". Nella maggior parte dei casi, a quanto pare, “quegli analisti consigliano un attacco aereo”, ritenendo il margine di errore “accettabile, date le circostanze”. Durante le prime settimane di guerra, il sistema ha segnalato oltre 37.000 individui come potenziali obiettivi.

WHERE’S DADDY?

Un altro sistema, “Where’s daddy?”, è in grado di determinare se le persone prese di mira sono a casa o fuori grazie ai loro smartphone, consentendo attacchi aerei che spesso colpiscono intere famiglie. Secondo Local Call, l’esercito israeliano preferisce colpire le persone nelle loro case, perché raggiungerle è più facile rispetto a identificarle durante l’attacco. Le famiglie degli obiettivi e i loro vicini, considerati potenziali membri di Hamas, sono visti come danni collaterali di scarsa importanza.

Un ufficiale dell’intelligence israeliana ha descritto la maggior parte delle persone prese di mira come "individui non importanti", membri di basso rango di Hamas, ma comunque considerati “obiettivi legittimi” poiché classificati come combattenti, “anche se non di grande rilievo”. Eppure, come possiamo definire “legittimi” gli oltre 18.000 bambini trucidati durante questi mesi, la maggior parte di età inferiore ai 10 anni, e le decine di migliaia di donne rimaste uccise negli attacchi? Erano anche loro membri di basso rango di Hamas?

HABSORA: L’ALGORITMO CHE DECIDE CHI VIVE E CHI MUORE

L’intelligenza artificiale sta determinando chi vive e chi muore. Un sistema AI interno, usato dall’esercito israeliano, decide chi deve essere bombardato, con margini d’errore inquietanti e una logica che trasforma i civili in numeri. Si chiama “Habsora” e ha un funzionamento semplice e spietato: il sistema monitora i volti dei palestinesi per decidere chi è “buono” e chi “cattivo”, si basa su un insieme di modelli predittivi basati sull’analisi di immagini e metadati. Risultato? Migliaia di obiettivi individuati in tempi rapidissimi, bombardamenti mirati che spesso si trasformano in carneficine. Fonti interne allo stesso esercito israeliano, intervistate da +972, hanno ammesso che il sistema non è infallibile e che il tasso di errore è alto. L’algoritmo, così, assume il ruolo di decidere chi vive e chi muore. La guerra del futuro è già iniziata.

LA CATENA DI MORTE ACCELERATA

Un’indagine di Middle East Eye ha rivelato un ulteriore aspetto inquietante: l’automazione della guerra ha abbassato le soglie di tolleranza per le vittime civili. Secondo il Washington Post, l’IDF è passato da attacchi mirati a una logica di saturazione: eliminare cento obiettivi con un solo colpo è preferibile a rischiare di perdere anche uno solo. Questi strumenti mostrano come l'intelligenza artificiale venga usata come arma contro i civili, sollevando dubbi sul rispetto del diritto umanitario internazionale. Dopo il 7 ottobre, l’esercito israeliano ha adottato strumenti innovativi per selezionare obiettivi, distogliendosi dai leader armati. Una scelta che “rappresenta un pericoloso nuovo orizzonte nell’interazione uomo-macchina nei conflitti”

La militarizzazione dell’IA non è confinata ai conflitti: molte delle tecnologie impiegate a Gaza, come i sistemi di identificazione biometrica, sono stati inizialmente sviluppati in Occidente, e continuano a essere impiegati globalmente per "scopi di sicurezza". Mentre colossi come Google, Amazon e Microsoft rafforzano il loro legame con il settore militare, esistono realtà come Palantir – fondata da Peter Thiel – che già da anni operano nell’ombra con contratti miliardari nel settore della sorveglianza e dell’intelligence predittiva. Israele ha creato un gigantesco database su ogni palestinese sotto occupazione, raccogliendo informazioni su movimenti, contatti sociali, e attività online, limitando la libertà di espressione e movimento. Un “Grande fratello” al quale nulla sfugge.

LA PALESTINA COME LABORATORIO PER L’AI

Antony Loewenstein, giornalista investigativo australiano di origini ebraiche, autore di The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World, ha definito l’uso dell’AI da parte di Israele a Gaza “un modello terrificante”. Dal 7 ottobre 2023, “Tel Aviv usa la guerra e l'occupazione per testare le ultime forme di uccisione e sorveglianza di massa, mentre le forze di estrema destra in tutto il mondo osservano e imparano”. E aggiunge: “Israele non potrebbe combattere le sue guerre di conquista senza una schiera di attori stranieri che lo sostengono, armano e finanziano”.

Durante le ricerche per il suo libro, Loewenstein ha scoperto che il complesso militare-industriale di Israele considera l'occupazione dei Territori Palestinesi come un banco di prova fondamentale per le nuove tecnologie di morte e sorveglianza. I palestinesi “sono cavie in un esperimento di portata globale”, che non si ferma ai confini della Palestina. La Silicon Valley ha preso nota, e la nuova era Trump sta sancendo un'alleanza sempre più stretta tra le grandi aziende tecnologiche, Israele e il settore della difesa.

LA GUERRA NELL’ERA DELL’AI

La guerra non è mai stata pulita, ma oggi è diventata un gioco senza responsabilità, sempre più simile a un videogame. Tuttavia, la Cloud War non è virtuale: è letale, impersonale, automatizzata. Il software decide, l’uomo approva con un clic, il drone esegue. Il massacro diventa un output, i civili puntini su una mappa digitale. Un algoritmo calcola quante vite sacrificare per raggiungere l’obiettivo.

Questa non è fantascienza. È realtà. La tecnologia corre più veloce di noi, e Israele ha mostrato come devastare una popolazione senza conseguenze (per ora). Presto, l’intelligenza artificiale di Google, Microsoft e Amazon potrebbe essere usata ovunque. Pensate a quanti stati ambirebbero a raccogliere informazioni così complete su ogni cittadino, rendendo più facile colpire critici, dissidenti e oppositori.

Come in Terminator, la macchina non fa prigionieri. È solo questione di tempo prima che l'IA prenda il sopravvento, riducendo l'umanità a una variabile da ottimizzare. La nostra sopravvivenza non è questione di tecnologia, ma di coscienza. E la vera domanda non è se possiamo fermarla, ma se siamo davvero pronti per il giorno in cui non saremo più noi a decidere.


Il luddismo, ieri e oggi – Paralleli, rischi e opportunità

LUDDISMO

Alla fine del XVIII secolo – in termini molto semplificati – l’introduzione, nel sistema produttivo inglese, di tecnologie come la macchina a vapore e il telaio meccanico furono gli elementi catalizzatori di una profonda trasformazione del sistema socioeconomico britannico.

Al timone di questa trasformazione – sempre semplificando al massimo – ci fu la nuova borghesia capitalista inglese che comprese l’enorme potenzialità produttiva delle nuove tecnologie, che potevano: affrancare il sistema produttivo dalla dipendenza dalle competenze artigianali; permettere la concentrazione industriale in “nuovi” luoghi in cui controllare in modo pervasivo i lavoratori e obbligarli a mantenere alti tassi di produttività; abbattere il costo della manodopera grazie ad migliore (per gli industriali) rapporto tra domanda e offerta di lavoro. In definitiva, moltiplicare in modo geometrico la produzione con costi altrettanto ridotti.

Il punto di vista dei lavoratori tessili – che in buona parte lavorava manualmente, a cottimo, in piccole fabbriche oppure a casa propria, controllando di fatto i mezzi di produzione e valorizzando le proprie competenze artigianali – era esattamente speculare a quello degli industriali: riduzione dei salari e della domanda di lavoro, annullamento del valore delle competenze, scelta tra disoccupazione e lavoro malpagato nelle nuove grandi fabbriche.

Una delle forme di reazione alla drammatica trasformazione fu una serie di rivolte, iniziate nel 1811, ispirate alla figura – forse leggendaria – di Ned Ludd, un operaio che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio meccanico in segno di protesta contro la nascita di questa nuova forma di produzione: il fenomeno del “luddismo”.

Il movimento luddista durò fino verso il 1824, tra leggi repressive – come la Frame Breaking Bill che prevedeva la condanna a morte per chi avesse danneggiato i telai per calze o pizzi, o altre macchine per la produzione tessile – tumulti, ondate di distruzione delle macchine, appoggio di massa da parte della popolazione, soprattutto nello Yorkshire, sostegno di alcuni parlamentari illuminati e scontri violenti con la polizia e l’esercito.

I cambiamenti sociali e politici che seguirono il crollo dell’impero napoleonico, la promulgazione delle Corn Laws, con i relativi dazi protezionistici e l’ulteriore gravissimo impatto sulle condizioni economiche dei ceti popolari, uniti alla nascita delle Trade Unions, primi sindacati operai, decretarono la fine della protesta luddista.

IERI E OGGI

Sembra possibile trovare un parallelismo tra la percezione dei ceti operai del XIX secolo che fu alla base del luddismo e l'attuale preoccupazione nei confronti delle radicali trasformazioni del tessuto produttivo delineate dallo sviluppo e della adozione di tecnologie di Intelligenza Artificiale.

Oggi come allora, l'innovazione tecnologica suscita timori, resistenze e opposizione al “nuovo progresso”.

Tra chi progetta e sviluppa – singoli individui o grandi imprese che siano - le tecnologie di Intelligenza Artificiale sembrano pochi a porsi il problema delle conseguenze sull’occupazione, sui salari, sul benessere dei lavoratori “tradizionali”; si procede con entusiasmo, in nome del progresso tecnologico, del superamento di ostacoli e di barriere fino a ieri considerati impossibili, dell’avvicinamento della macchina alle performance umane.

Anche tra gli studiosi di I.A. sensibili a questi problemi, l’eccitazione per i risultati sembra appannare la visione umanista. Un esempio è quello di Nello Cristianini, studioso e professore di intelligenza artificiale a Bath, che – nonostante l’impegno a rappresentare i rischi legati ad una massiva adozione di tecnologie I.A. – sembra farsi trascinare dall’entusiasmo per i nuovi sviluppi: «Dopo essere eguagliati, potremmo essere superati? E come? O la macchina diventa più brava a fare ciò che già facciamo, oppure la macchina impara a svolgere compiti che non sappiamo fare. A me interessa l’idea che riesca a capire cose che io non posso» (A. Capocci, Nello Cristianini, il ragionamento delle macchine, Il Manifesto, 14/03/2025).

I timori sembrano giustificati dal fatto che, in altri settori produttivi – come quello della realizzazione del software – si sta già generando uno scenario di sostituzione del lavoro dei programmatori con sistemi automatici basati sull'Intelligenza Artificiale, con una conseguente ondata di licenziamenti.

E, nei media e nelle discussioni pubbliche, viene dato grande risalto al rischio che il ruolo centrale dell'uomo in molte fasi della vita collettiva cui siamo abituati venga meno.

D’altra parte, però, per alcune occupazioni, l’utilizzo di strumenti di Intelligenza Artificiale permette a molti lavoratori e professionisti di delegare “alle macchine” compiti di basso profilo competenziale che richiedevano molto impegno di tempo, oppure attività ad elevato rischio fisico, migliorando le condizioni di lavoro.

POSSIBILITÀ

Ora, il fenomeno del luddismo e delle tensioni tra lavoratori, industriali e governo, come si verificò nel XIX secolo in Inghilterra, non sembra essere una possibilità, anche solo perché - nel caso dell’Intelligenza Artificiale - è difficile trovare qualcosa da distruggere.

E, tutto sommato, il fenomeno luddista sembra aver solo spostato avanti di qualche anno la trasformazione industriale e il suo correlato di cambiamento sociale, di inurbazione, di povertà e degrado nelle periferie, e di successiva - nel XX secolo - “normalizzazione” del lavoro in fabbrica.

Oggi, i punti da dibattere, in modo serio e puntuale, sono:

  • come governare la I.A., anche facendo leva sulla sensibilità del problema anche a livello istituzionale, sensibilità da preservare e non lasciar catturare dagli intenti delle grandi industrie digitali [1]
  • come capire quali reali opportunità di benessere potrà offrire ai viventi,
  • come identificare i rischi dello sviluppo della tecnologia
  • come evitare lo sviluppo in nome del solo “progresso tecnologico” e della sola remunerazione delle grandi aziende digitali.

Per farlo sono necessari: ● una difesa istituzionale che si metta rigorosamente dalla parte dei cittadini, ● attenzione e coraggio da parte di tutti - lavoratori, professionisti, manager e imprenditori - per identificare sul nascere le reali opportunità e i reali rischi e per infondere una coscienza morale tra chi queste tecnologie promuove e intende utilizzare.

 

NOTE

[1] Cfr.: A. Saltelli, D. J. Dankel, M. Di Fiore, N. Holland, M. Pigeon, Science, the endless frontier of regulatory capture, Science Direct, Futures, Volume 135, January 2022, 102860

 


Le teorie del complotto, quinta parte – Complottismo, positivismo, disincanto

È un caso che si giunga oggi a una demonizzazione – costruita a suon di meme così come di dibattito colto – della stessa capacità di esprimere un pensiero autonomo, senza delegare agli esperti di turno? Oppure questa demonizzazione ha una qualche attinenza, e coerenza, con processi storici ben più lunghi, che attengono alla storia stessa del capitalismo?

Da qui parte la quinta e ultima puntata del nostro viaggio, per arrivare a riflettere sulle strettoie in cui noi stessi rischiamo di ingabbiare la nostra capacità di pensiero critico quando la costringiamo nel solo solco del razionalismo scientifico. E, da qui, proviamo ad esplorare qualche nesso con il tema del disincanto del mondo, per come ne ha scritto S. Consigliere (in “Favole del reincanto”, DeriveApprodi 2020, da cui sono tratte le brevi citazioni seguenti). Quel disincanto che “ci fa preferire un uragano scientifico a un rifugio magico”, una frase che ogni volta mi fa venire in mente istintivamente la famosa scienziata (e senatrice a vita) che attacca duramente l’agricoltura biodinamica salvando però la scientificissima agroindustria a base di monoculture, pesticidi e manipolazioni genetiche. Quel disincanto che ci ha resi, come Occidentali, “i terminatori di un numero altissimo di mondi umani, di modi della conoscenza e forme della presenza”.

Eppure, segni di una nuova consapevolezza affiorano nelle battaglie contro l’estrattivismo, dai Salar dell’America Latina devastati dall’estrazione dei minerali per la transizione green, ai nostri Appennini, alla Sardegna intera, che resistono contro l’assalto delle speculazioni sull’eolico. Il nostro viaggio si chiude così proprio con un pensiero, che vuole essere anche una dedica, accorato e solidale con queste battaglie. Che se certo sanno parlare (giustamente) il linguaggio esperto/scientifico dei danni “quantificabili” apportati dai progetti estrattivi, dall’altra riescono a dare voce anche a dimensioni non quantificabili e però non meno cruciali, incarnando la difesa di territori che, più ancora che marginali e sacrificabili, vengono colpiti forse proprio perché rappresentano gli ultimi scogli da cui è possibile immaginare una vita non del tutto colonizzata dai tristi, disincantati miti della modernità egemone.


Chissà cosa si prova a liberare
La fiducia nelle proprie tentazioni
Allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni
Allontanarli in tempo e prima di trovarsi solo
con la paura di non tornare al lavoro
F.
de André, La bomba in testa, 1973

 

Quest’ultimo punto – l’enfasi sugli aspetti quantificabili che mette in ombra tutto il resto – a mio avviso è cruciale. E si allaccia all’ultima questione dirimente: il complottismo è, in fin dei conti, qualcosa da rivendicare (come fanno gli autori del Manifeste) o da problematizzare? Ognuno darà la sua risposta.

Personalmente, posti tutti i distinguo e le cautele di cui sopra – chi definisce cosa sia complottismo e cosa no, l’uso del complottismo come arma politica, il classismo, le bugie delle élite come terreno di coltura, etc. – tendo a pensare che l’anticomplottismo sia, a conti fatti, più nefasto del complottismo. Perché l’anticomplottismo si traduce in una difesa dell’indifendibile, mentre il complottismo porta in sé una salutare sfiducia e diffidenza verso le narrazioni del potere. E rappresenta il rifiuto di abdicare al tentativo di capire e darsi una ragione.

Anche perché, in fondo, i limiti del complottismo solo in parte sono responsabilità dei “complottisti” stessi. Non dovremmo scordarci che derivano, in buona misura, dal fatto che li abbiamo lasciati da soli a misurarsi con questioni di enorme complessità e rilevanza. Mentre chi avrebbe strumenti ed expertise – e responsabilità… – per scandagliare questi temi troppo spesso preferisce utilizzare quelle risorse per indagare campi meno controversi. Dove non si rischia di passare per complottisti e anzi è più semplice accordarsi alle sensibilità in voga nel clima di opinione del momento. Alimentando, però, la sensazione di autoreferenzialità e irrilevanza del sapere esperto e quindi la delegittimazione di cui poi ci si lamenta.

Questo non significa, però, non riconoscere – e anche qui l’autore di questo libro si muove in modo molto intelligente – le criticità e i problemi che il “complottismo”, come particolare modo di incanalare una potenziale opposizione al potere, pone, e che possono fargli mancare il bersaglio, o persino sviare e curvare il dissenso verso posizioni in fondo comode al potere. Che possono portare a non prendere consapevolezza del rapporto tra mezzi e fini, come testimoniato dall’abuso di tecnologia. A sopravvalutare personaggi che diventano incarnazioni di ogni male e d’altra parte a non vedere dove invece ci sono i veri nemici. Per questo è importante l’operazione che compie M. Amiech in questo libro, cioè superare narrazioni incentrate sulla drammatizzazione di casi o personaggi interpretati nella loro singolarità/straordinarietà per leggere e collocare invece i fatti contemporanei in continuità con processi storici più lunghi. Perché è solo lavorando in questa direzione che possiamo cercare di colmare quel vuoto e produrre interpretazioni teoriche capaci di orientare l’azione collettiva lungo direzioni credibili.

Particolarmente convincente, da questo punto di vista, è la riflessione, negli ultimi capitoli, sulla digitalizzazione come progetto industriale che va collocato in piena continuità con una storia del capitalismo che può e deve essere raccontata anche – sulla scorta di autori come Luxembourg, Illich, Lasch – come una storia di progressiva divisione e specializzazione del lavoro, crescente delega agli esperti e quindi crescente perdita di fiducia nelle proprie competenze: competenze nel costruirsi gli strumenti di lavoro, nel costruire una casa, nella manutenzione degli oggetti, fino al prepararsi il cibo e al prendersi cura della propria salute. Come una storia di progressiva perdita di autonomia e, di converso, di crescita della dipendenza degli individui dal mercato e dagli esperti per rispondere a ogni bisogno della vita. Ma se pensiamo al nostro punto di partenza possiamo vedere come quella spirale di sfiducia/ delega/dipendenza arrivi a coinvolgere, oggi, persino il bisogno di pensare: meglio evitare di farlo, ci sono gli esperti a cui delegare. In fondo, è proprio questo che si teorizza, quando l’idea che sia possibile pensare con la propria testa diventa hybris, e si arriva, come abbiamo visto, a sostenere la necessità di rinunciare a esercitare le proprie facoltà critiche – diventate ingannevoli e pericolose – per affidarci, proprio in nome della divisione del lavoro (scientifico e cognitivo), agli esperti semplicemente perché sono esperti, a scatola chiusa. E più non dimandare.

Ma forse la perdita di autonomia si spinge ancora più in là del pensare: arrivando a coinvolgere la sfera del sentire, la fiducia nelle proprie percezioni, l’ancoramento del soggetto alla realtà. Affascinanti, a questo proposito, le riflessioni del Manifeste (p. 22-25) a proposito dell’adozione di politiche, durante il Covid-19, che hanno costretto le persone a sospendere le loro attività e a chiudersi nell’isolamento, ma che le hanno anche precipitate in un regno dell’assurdo e del nonsense quotidiano con le mille regole, restrizioni e raccomandazioni che si contraddicevano tra loro giorno dopo giorno, evidenziando in questo qualcosa di più di mera casualità/ disordine legati alla circostanza, il cui effetto è farci perdere il filo di ogni certezza, farci dubitare della nostra presa sulla realtà, delle nostre percezioni elementari.[1] La stessa direzione cui ha condotto il chiederci di adottare uno sguardo statistico per guidare i nostri comportamenti (Ivi, p. 241-246). Il che è un nonsense in sé, visto che la statistica si basa necessariamente sulla distruzione della soggettività per costruire aggregati fittizi che hanno finalità di gestione e governo, e da quel livello non è dato tornare indietro, alla soggettività: che, all’opposto, è sempre incontro sensoriale del particolare col particolare, del soggettivo con il soggettivo, cioè esattamente quello che la statistica deve depurare per poter essere rappresentativa e generalizzabile. Solo individui deprivati di soggettività, intercambiabili, possono essere guidati dalla statistica. Ma in fondo, quando ci è stato chiesto di diventare insensibili di fronte agli anziani lasciati a morire da soli, senza congedo dai propri cari, e in alcuni momenti/Paesi senza nemmeno i riti dell’inumazione, mentre ci si estorceva un sentimento di compassione verso le cifre dei decessi riportate nei bollettini quotidiani, proprio questo ci è stato chiesto di fare: lasciare che altro si intrudesse tra noi e le nostre percezioni, fino ad adottare, al loro posto, uno sguardo statistico.

Un tema, questo, che si collega con un’ultima immagine particolarmente stimolante evocata da M. Amiech, che ci riporta ai limiti del complottismo: quest’ultimo visto come feticismo dei fatti e delle cifre portato all’estremo, come “positivismo impazzito”. Una critica, cioè, che si perde nello sparare disperato ed estenuante di dati e documenti da fonti sempre più difficilmente verificabili che, in fondo, deriva dal nostro stesso – “nostro” come movimenti, come sinistra antagonista nelle sue diverse anime, come studiosi più o meno militanti e prima ancora, semplicemente, come persone – aver idolatrato il razionalismo tanto da non saper vedere i pericoli derivanti dal porre la scienza al centro della politica. Ancora di più, tanto da non renderci conto della misura in cui abbiamo lasciato che la nostra capacità di critica venisse fagocitata dalle strettoie della degenerazione positivista dell’Illuminismo già individuata da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo (1966), giustamente ripresa dall’autore.

Dovremmo allora imparare a motivare le nostre opposizioni – agli OGM/TEA, al nucleare, all’estrattivismo, alla digitalizzazione di tutto, all’ibridazione uomo/macchina… – uscendo dalla logica dei dati, e ribadendo che anche qualora non ci fossero evidenze scientifiche di danni e nocività accertate o accertabili per la salute o l’ambiente, quelle innovazioni non le vogliamo ugualmente. E non le vogliamo perché rifiutiamo quel sistema economico che le rende necessarie allo stesso modo in cui rifiutiamo i valori e la visione del mondo che quel sistema economico innervano e legittimano. E che ce lo fanno apparire, come ci spiega Stefania Consigliere nelle Favole del reincanto, come l’unico possibile e ancor prima desiderabile, in una dinamica totalizzante, di sbarramento persino delle porte dell’immaginario, che è necessaria alla sua stessa esistenza.

Si tratta di riconoscere come la reductio ad unum da una pluralità o ecologia dei regimi conoscitivi esistenti ed esistiti nel mondo alla monocultura della scienza occidentale faccia parte di quella stessa dinamica totalizzante che ha fatto dei moderni i «terminatori di un numero altissimo di mondi umani, di modi della conoscenza e forme della presenza» (Ivi, p. 28); tanto da darci l’illusione che solo il nostro modo di essere al mondo è il punto di arrivo universale, a cui gli altri non sono ancora pervenuti, e a cui non è quindi dato, neppure a noi, immaginare alternative. È la stessa reductio ad unum che ha ridotto la pluralità dei regimi ontologici al naturalismo, dei regimi economici al plus-valore, dei regimi terapeutici alla medicina di stato (Ivi, p. 23).

Eppure, questa pretesa superiorità della modernità occidentale e della forma di conoscenza ad essa propria è esattamente ciò che ci ha portati al limite del collasso. Di fronte alla distruzione del vivente e al dominio dei pochissimi sulle moltitudini resi entrambi possibili in una portata inedita nella storia umana proprio dalla scienza e dalla tecnologia, ma di fronte anche ai vicoli ciechi in cui si è lasciata ingabbiare la nostra capacità di pensiero e di critica rendendoci tanto consapevoli quanto impotenti, quello che dovremmo problematizzare è il disincanto del mondo. Il disincanto indagato, in un passaggio bellissimo del libro, come precipitato etimologico in cui il silenziamento del mondo non umano e la sua riduzione a cieca meccanica si incontrano e si fondono con quelle passioni tristi – avidità, egoismo, sopraffazione, il leggere del mondo solo la grettezza – che devono esautorare la natura umana affinché l’organizzazione capitalista possa continuare la sua corsa (Ivi, p. 46-47).

Si tratta, dunque, di problematizzare quell’inganno che ci porta a preferire «un uragano scientifico a un rifugio magico» (Ivi, 15-16), di riaccogliere l’irrazionale e il sacro.[2] Riammettere anche le «presenze non umane», che in culture differenti dalla nostra rappresentano presenze con cui negoziare, limiti che demarcano orizzonti di non appropriabilità (Ivi, p. 28-29). Riconoscere, nella visione per cui fuori dalla socialità umana non ci sono senso o intenzionalità possibili ma solo cieco movimento meccanico, precisamente ciò che fa di noi esseri speciali autorizzati a qualunque forma di violenza sul non umano: è il disincanto che «rende accettabili le spoliazioni che incrementano i godimenti fungibili» (Ivi, 38), spazzando via ogni limite alla piena appropriabilità del reale.

Si tratta, anche, di considerare con distacco, e per fare questo di prendere atto delle vicende storiche e politiche, più che scientifiche, che hanno portato al suo affermarsi, la visione molecolare della vita basata su una biologia meccanicistica, combinazione in fondo ottimale – come ricostruiscono gli autori del Manifeste (p. 247-257) – tra visione tecnocratica della manipolazione tecnologica della vita e controllo sociale finalizzato all’estirpazione di quei “vizi” che rischiavano di frenare l’espansione capitalistica; terreno di incontro tra ingegneria genetica e sociale.

Se, come ci ricorda l’autore riprendendo Rosa Luxembourg, il capitale ha incessantemente bisogno di un ambiente non capitalistico per proseguire la sua necessaria espansione, dovendo colonizzare nuovi spazi geografici e sociali, mercificare ciò che merce non era, imporre la logica mercantile dove la produzione di beni e servizi avveniva fuori dal mercato, è utile anche ricordare, con le parole non parafrasabili di Stefania, che

Lo sbarramento dell’immaginario è indispensabile alla dinamica della totalizzazione. Le frontiere da superare e le terre da recintare non sono solo quelle geografiche: partite altrettanto rilevanti si giocano intorno a quelle psichiche, simboliche, oniriche e narrative. Nell’assoggettamento integrale niente deve arrivare, da fuori, a spezzare la continuità tra individui e mercato […]. Del mercato, infatti, sentiamo ogni sussulto, i suoi fremiti riverberano in noi: desideriamo ciò che desidera, temiamo ciò che teme. Per contro, alberi, lupi, fonti, fantasmi, mulini a vento, stelle, dèi e demoni hanno smesso di parlare. Nei sogni e nell’ebbrezza non c’è conoscenza ma solo sragione. Nel destino del mondo non ne va più di noi, nel destino nostro non ne va del mondo. È il disincanto. (Ivi., p. 33)

Forse è per questo che nelle battaglie contemporanee contro l’estrattivismo – dai Salars dell’America Latina devastati dalle estrazioni di minerali e terre rare alle periferie europee che iniziano a fare i conti con lo stesso assalto, fino, in Italia, alle proteste che nelle campagne del meridione, lungo tutto l’Appennino e in Sardegna si oppongono alle speculazioni sulle rinnovabili – mi sembra di cogliere voci che si assomigliano tanto da potersi vicendevolmente riconoscere. Sensibilità che giustamente denunciano i danni quantificabili e reclamano ricerca indipendente che possa metterli in luce, ma che imparano a parlare anche altri linguaggi. Linguaggi con cui cercare di dare parole ed espressione all’identità, alla storia, alla dimensione spirituale, ai simboli in cui ci si riconosce e in cui si riflette la propria appartenenza; alla scelta di un mo(n)do di vita nei suoi aspetti non solo materiali; alla difesa del paesaggio, e non solo per farne un prodotto da immettere nel mercato del turismo. Linguaggi capaci di riconoscere il senso di un attaccamento non quantificabile a una montagna, a un fiume, a una fonte; o al muro a secco, al complesso nuragico, alla Domus de Janas che rischiano di venire coperti dal cemento della piattaforma su cui verrà installata la prossima megapala.

Del resto, è vero che il nuovo assalto green del capitalismo ricalca e approfondisce diseguaglianze geografiche consolidate, svelando il suo volto più famelico nei territori marginalizzati, impoveriti, nelle green sacrifice zones (zone di sacrificio verdi, cfr. Zografos e Robbins 2020). Dove il ricatto della disoccupazione e della mancanza di futuro, unito alla mancanza di voce e rappresentanza, rende plausibile (e spesso, ma per fortuna non sempre, veritiera) l’ipotesi che si possano incontrare meno resistenze.

Tuttavia, se proviamo a rovesciare la prospettiva, vediamo altro. Perché non sempre, e comunque non solo, si tratta di luoghi marginalizzati e impoveriti. Anzi, a volte quella della marginalità e della mancanza di futuro diventa una retorica cavalcata da governi e investitori perché funzionale alla logica del “sacrificio”. Quegli stessi luoghi, prima che marginali – o meglio, proprio perché marginali nella prospettiva della modernità egemone – sono anche gli ultimi avamposti di biodiversità, ma soprattutto sono gli ultimi luoghi dove la modernità fa ancora i conti con qualcosa di pre-esistente e duro a morire; dove è ancora possibile dialogare con quelle parti dell’umano che non si lasciano ridurre al ciclo di produzione e consumo; e dove più attenuato arriva l’eco delle sirene dell’attivismo urbano più spettacolarizzato. Gli ultimi scogli da cui sarebbe forse possibile immaginare una vita diversa, al riparo dall’inferno tardocapitalista che ci avvolge, e che forse proprio qui, non potendo tollerare alternative che possano anche solo prefigurare resistenze al suo dover tutto ingoiare, mostra il suo volto più feroce. Ma proprio qui è anche dove incontra e suscita resistenze che ancora accendono una speranza.

 

 

NOTE

[1] Ne hanno trattato Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni, riprendendo in particolare Micheal Taussig (1986): La cognizione del terrore. Ritrovarci tra noi, ritrovare la fiducia che l’Emergenza pandemica ha distrutto, 22 settembre 2021, <www.wumingfoundation.com/giap>.

[2] Su questo, decisivo è il rifiuto di una necessaria, automatica associazione tra incanto/irrazionale e fascismo. Su questo rimando al testo di S. Consigliere, in cui l’autrice chiarisce in modo assai convincente come l’incanto possa essere, ma non sia necessariamente, strumento di dominio; e come, d’altra parte, la modernità non ha certo cessato di farne uso, a sua volta in modo malevolo (Ivi, p. 37 e, in particolare, p. 62-72).

 

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Scienza Post Normale – Due casi concreti di applicazione delle prescrizioni

Un paio di settimane fa abbiamo parlato – in linea molto generale – del concetto di Scienza Post Normale, che abbiamo definito un “approccio normativo per la complessità e l’incertezza”. Un approccio che può guidare il lavoro di scienze e scienziati quando vengono chiamati in soccorso dalle istituzioni in condizioni, appunto, di incertezza, di rischio elevato, di conflitti valoriali e di urgenza.

Funtowicz e Ravetz sostengono che questo approccio – normativo, ricordiamolo - è utile quando la scienza normale, quella della soluzione di rompicapo all’interno di un paradigma stabile e consolidato[1] non può essere applicata perché le condizioni sfuggono alle classificazioni standard; e quando nemmeno le esperienze anche tacite, maturate dagli esperti nel corso della loro pratica, l’area della Professional Consultancy, non trovano un terreno solido su cui poggiare, a causa – soprattutto - delle condizioni di incertezza e della complessità ed intreccio delle poste in gioco.

Diagramma della scienza post-normale. Fonte: Scienza, politica e società, 2022

Può essere interessante, per comprendere la portata e l’applicabilità di questo approccio, di vedere due casi pratici, uno in cui le raccomandazioni sono state applicate in modo consapevole e uno in cui – rileggendone la storia a posteriori – si riscontrano le tracce di un utilizzo inconsapevole delle norme PNS.

L’INCONTRO PERSONALE DI ANDREA SALTELLI CON LA SCIENZA POST NORMALE

Nella sua vita “pre-post-normal-science”, Andrea Saltelli lavorava per la Commissione Europea, sullo sviluppo e sul controllo della qualità di modelli quantitativi da utilizzare nello studio e nella valutazione delle politiche comunitarie, in particolare, sull’educazione. Stimolato dal dibattito sull’approccio fondato da Funtowicz e Ravetz – comprese che il suo lavoro di controllo dei modelli “presupponeva” i modelli stessi, come se questi fossero scontati, naturali e la loro genesi non fosse affatto problematica.

C’erano domande sulla genesi dei modelli, racconta Saltelli, che fino allora non si era posto erano di questo tenore: “Perché è stato sviluppato questo modello? Chi l’ha richiesto? Con quali obiettivi e aspettative?”; e, ancora: “Quali voci sono state ascoltate nella costruzione del modello? Qual è la nozione di progresso che lo anima?”.

Tutte domande che lo spingevano a situare il focus del suo lavoro in un contesto socio-politico e in una visione del mondo, a cercare di comprenderne le distorsioni, le influenze e – soprattutto a valutarne gli effetti positivi e negativi sui programmi educativi e sui rapporti di forza tra stati o fra regioni.

In poche parole, l’approccio della PNS ha suggerito a Saltelli che i modelli quantitativi  sviluppati per simulare lo sviluppo delle politiche, controllarne e monitorarne l’applicazione, a volte già contenevano quelle stesse politiche e il loro sviluppo era una forma di legittimazione delle politiche stesse. In poche parole, l’obiettivo silente dei modelli poteva in certi casi risultare nella riduzione delle politiche nelle loro dimensioni quantitative e – in questo modo – farne risaltare l’immagine oggettiva e neutrale: “lo dicono i numeri”[2].

Numeri che, volutamente, per evitare la proliferazione di scenari alternativi - con i relativi impatti socio-politici – e garantire la linearità, tralasciano i fattori di incertezza e le potenziali condizioni di deviazione. Di tanti possibili scenari, ne “scelgono” uno, quello che legittima e conferma le scelte iniziali e le assunzioni di valore della politica che descrivono.

Applicare alcune delle raccomandazioni della PNS quali, ad esempio, la ricerca del pedigree dei dati e delle assunzioni preliminari di valore, contaminando la modellistica “ufficiale” non trovò un terreno fertile ma, al contrario, incomprensione e ostilità. Questo genere di contaminazione, racconta Saltelli, significava mettere in discussione il candido positivismo e la convinzione nella neutralità della scienza verso cui inclinano la maggior parte delle istituzioni comunitarie.

Le linee di ricerca che si sono aperte dopo questa presa di coscienza, tuttavia, si sono rivelate costruttive e produttive: è iniziato per questo ricercatore un periodo di “cooperazione con statistici che guardavano con interesse alla crisi della riproducibilità in termini di problemi epistemologici e normativi, che provavano diversi approcci all’interpretazione dei legami tra scienze, tecnologie e nuovi mezzi di comunicazione, che correlavano questi approcci alla cosiddetta post-verità e alle istanze dell’integrità delle scienze”

Oggi non sembra possibile, per questi ricercatori, sviluppare e adottare modelli statistici che non prendano in considerazione le incertezze, l’origine dei dati, le diversità valoriali e la molteplicità delle voci coinvolte.

IL CASO DELLA PANDEMIA DI H1N1 NEL 2009

Nel caso della pandemia influenzale del 2009-2010, causata dal virus H1N1[3], possiamo rintracciare alcuni elementi caratteristici delle prescrizioni della Scienza Post Normale, probabilmente messe in atto in modo non consapevole.

Vediamo qualche elemento chiave che delinea questa storia[4] come esempio di applicazione della PNS. Come prima cosa va ricordato che 1) solo la WHO (World Health Organisation) può dichiarare che la diffusione di una malattia è una pandemia e 2) che la dichiarazione dovrebbe seguire un percorso quasi meccanico, in cui i fatti sono stabili e chiari, il processo e le nozioni che lo delineano sono ben definiti e le risposte sono nette, quasi da manuale.
Nel caso della diffusione del H1N1, invece, i fatti scientifici emersi – come la ampiezza della diffusione della malattia, la sua velocità di riproduzione e il suo grado di gravità - furono tutt’altro che chiari e stabili, e la nozione stessa di pandemia venne messa in discussione nel corso del processo di studio del fenomeno.

Quello che accadde nel primo periodo epidemico fu che la diffusione - apparentemente ampia e veloce - e la gravità della malattia furono difficilmente misurabile a causa dell’incertezza dei dati sul numero di persone infette nelle diverse nazioni o regioni colpite e sul numero di morti, e della evidente divergenza di percezione che si verificò tra area ed area.

In questa situazione di incertezza, il processo che portò – nel giugno 2009 - alla dichiarazione di pandemia da parte della WHO, porse il fianco a una serie di critiche, sia da parte di numerosi scienziati che non riscontrarono nel fenomeno i caratteri epidemiologici necessari per chiamarlo pandemia; che da parte del Consiglio d’Europa, il quale  ritenne non giustificabile l’effetto di paura collettiva generato per una malattia che – dopo alcune settimane – si rivelò molto più lieve di quanto prospettato ; sia, infine, da parte di molti altri osservatori, per l’approccio ondivago della WHO[5]

Nel corso del processo, infatti, la WHO dovette rivedere più volte – sotto la pressione delle critiche di numerose nazioni e istituzioni, e di fronte al grado di incertezza sull’andamanto quantitativo e qualitativo della diffusione – sia la nozione di pandemia, che progressivamente incluse i fattori di novità, mutazione, diffusione, attività della malattia, e quello di imprevedibilità. Il fattore gravità fu anch’esso oggetto di discussione: prima fu escluso, a favore della dimensione della diffusione[6], poi fu reintrodotto tra i parametri di valutazione.

Ora, questa vicenda sembra avere tutte le caratteristiche di una situazione di scienza post normale: l’incertezza sui dati e sul fenomeno, la rilevanza della posta in gioco, quella della salute di grandi parti della popolazione mondiale, i conflitti tra attori e istanze valoriali, e l’urgenza di prendere decisioni.

Se, in un primo momento, la WHO si appellò al principio di precauzionalità, dando priorità al fattore urgenza, in un secondo momento diede ascolto alla pluralità di voci che si manifestarono a favore e contro la controversa dichiarazione di pandemia e, progressivamente, de-costruì e ricostruì la nozione di pandemia, includendo – tra gli altri - i fattori critici della imprevedibilità e le istanze delle istituzioni delle aree colpite.

Si tratta, quindi e con evidenza, di una costruzione sociale di un concetto che – secondo il mito della scienza intonsa (ne parla Elisa Lello qui) – dovrebbe avere confini scientifici chiari e ben definiti ma che, in realtà, è facile che non li abbia affatto e debba essere oggetto di negoziazione e di decisioni pluraliste.

QUALCOSA DI NUOVO SOTTO IL CIELO DELLA SCIENZA?

Forse no, forse l’analisi delle problematiche scientifiche proposta da Funtowicz e Ravetz non è nulla di nuovo, né di eccezionale;  i critici della PNS sostengono – infatti - che la PNS non ha scoperto nulla, ma ricalca temi noti da sempre alla sociologia della scienza.

Però, posto che sia così, senza la traduzione intelligente di questi temi proposta dalla Scienza Post Normale, il messaggio – quello della necessità di organizzarsi con una nuova e più variegata cassetta degli attrezzi per affrontare i grandi temi scientifici - non sarebbe arrivato né agli scienziati naturali, che non hanno una formazione sociologica o filosofica, né alla sfera politica.

 

 

NOTE

[1] Cfr.: Kuhn H., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 2009

[2] “I formed the opinion that there is a political economy of quantification whereby epistemic authority is purchased via recourse to models whose role is to objectify—and possibly sterilize—political issues making them appear determined and solvable through impersonal objectivity” Saltelli, A. What is Post-normal Science? A Personal Encounter. Found Sci 29, 945–954 (2024). https://doi.org/10.1007/s10699-023-09932-x

[3] Fu chiamata, erroneamente, influenza o febbre suina poiché «il virus sembra essere un nuovo ceppo di H1N1, che risulta da un precedente riassortimento triplo tra virus influenzali di maiale, uccello e umano, successivamente ulteriormente combinato con l'influenza euro-asiatica dei maiali,[4] da cui deriva il nome "influenza suina"» (Wikipedia, Pandemia influenzale del 2009-2010)

[4] La vicenda della dichiarazione della pandemia da H1N1 è analizzata dettagliatamente da Sudeepa Abeysinghe, in Global Health Governance and Pandemics: Uncertainty and Institutional Decision-Making,

[5] Oltre a questi fatti, fu ampiamente criticato il rilievo che – sembra di leggere una storia più recente – la WHO diede alla prevenzione vaccinale, ignorando altre misure di contenimento come – ad esempio - lavarsi frequentemente le mani, controllare le frontiere, utilizzare degli antivirali, che fu interpretata come un tentativo di favorire le grandi case farmaceutiche.

[6] Questa scelta fu il risultato di un tentativo di neutralizzare le critiche dello European Centre for Disease Control (ECDC) che non conveniva sulla gravità della malattia.


Le teorie del complotto, quarta parte – I miti della scienza intonsa e della politica senza bias

Questa è la quarta puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parteseconda parte, terza parte). Qui ci parliamo del fatto che una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non è altro che un mito, alimentato anche dalla credenza che possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.

IL MITO DELLA SCIENZA INTONSA

Se quella appena vista – la scienza può venire corrotta e strumentalizzata – è la ragione in fondo più facile da individuare tra quelle che dovrebbero indurci alla prudenza nel mettere la scienza al centro della politica, il problema è però decisamente più complesso. Perché il punto è che non è solo quando è corrotta, o volutamente strumentalizzata, che la scienza è influenzata da valori, interessi economici o politici, condizionamenti di tipo culturale, sociale o religioso. Anzi, in ogni sua fase – dalla scelta del tema, a quella dei metodi e della prospettiva, fino alla produzione e interpretazione dell’evidenza empirica – la produzione di conoscenza scientifica è condizionata da fattori altri, extra-scientifici. Molte/i colleghe/i all’interno delle scienze sociali, per parlare del mio campo disciplinare, rivendicano la propria identità di ricercatrici/tori militanti partendo proprio dalla consapevolezza che la posizione di chi fa ricerca non possa essere neutrale e dall’acquisizione che ogni sapere non possa che essere “situato”. Anche e forse soprattutto quello che si pretende oggettivo. Quello di una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non sarebbe che un mito, come fa notare Sarewitz (1996), sulla scia di lunghe tradizioni di ricerca in diverse discipline.

Un mito pericoloso, tra l’altro: perché mentre certi tipi di condizionamento vengono stigmatizzati e destano scandalo (per esempio, le ricerche che dimostrano l’innocuità del fumo passivo o di certi pesticidi, di cui risulti la sponsorizzazione a opera delle lobby dei rispettivi settori), altre forme di influenza non meno importanti non destano alcun allarme, anzi sono naturalizzate come parte del normale così vanno le cose. Per esempio, il fatto che gli investimenti per la ricerca si concentrino nelle direzioni dove si addensano importanti interessi del complesso militare-industriale (per esempio, la costruzione di armi, la digitalizzazione, l’IA) lasciando sprovvisti aree e filoni di indagine che pure sarebbero più rispondenti alle esigenze di vita di ampi settori della popolazione mondiale; o la sproporzione di investimenti nella ricerca medica a favore di patologie che colpiscono i paesi più ricchi e bianchi rispetto a quelli più poveri e abitati da maggioranze con altre gradazioni del colore della pelle. Ecco: proprio il mito di una scienza intonsa, non condizionata, “pura”, impedirebbe, sottolinea ancora Dotson (2021), l’avviarsi di un dibattito circa le misure che potrebbero continuare a condizionare, ma questa volta in modo più democratico, equo ed emancipativo, la produzione della conoscenza scientifica. Per esempio, aprendo una discussione su quali aree e filoni di ricerca serve effettivamente privilegiare, e su chi sia chiamato a prendere decisioni in merito; o favorendo la partecipazione di scienziati e cittadini di paesi del Sud del mondo nell’elaborazione dell’agenda di ricerca. E molti altri esempi potrebbero seguire.

I BIAS INTRODOTTI DALLA PRETESA DI UNA POLITICA SENZA BIAS (SCIENTIZZATA)

La credenza fasulla e insidiosa che dovremmo aggredire è dunque quella secondo cui ci sarebbe una netta separazione tra scienza e politica, laddove è vero piuttosto il contrario, cioè che è difficile capire dove l’una finisca e l’altra inizi. Anche perché proprio questa falsa credenza costituisce il presupposto della crescente scientizzazione della politica (Pielke 2005) – da qui discendono le aporie e contraddizioni che questa pone.

Con scientizzazione della politica si intende la tendenza che si va affermando sempre più a descrivere controversie che contemplano aspetti sociali, etici e politici in termini esclusivamente scientifici; pretendendo che una scienza suppostamente oggettiva possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi (unbiased): meglio, dunque, di quanto farebbe quel vecchio e screditato arnese della politica, ambito della ricerca di sintesi e compromessi.

Se è vero che la ricerca scientifica può essere di utilità nell’elaborazione delle politiche, il punto è mettere a fuoco le criticità che si aprono qualora si decida di mettere la scienza al centro della politica e dei processi decisionali. Per iniziare, se è facile dire che è la scienza che deve decidere, le cose si complicano quando ci chiediamo quali expertise mobilitare, o quali discipline. È evidente come la controversia legata agli OGM – di vecchia o di nuova generazione che siano – venga letta in modo differente, e dia quindi risposte sempre scientifiche ma diverse e contrapposte, a seconda se utilizziamo le lenti dell’ingegneria genetica o quelle dell’ecologia (Dotson 2021). Altro effetto nefasto della scientizzazione della politica è la tendenza a marginalizzare conoscenze differenti da quelle degli esperti. Il non tenere conto, per esempio, che persone che non hanno titoli di studio specifici in un determinato campo detengano conoscenze, expertise, informazioni che possono essere non visibili alla disciplina scientifica degli esperti di turno, eppure decisamente rilevanti. Nella storia dei disastri e delle nocività industriali è una costante la denuncia, da parte delle popolazioni colpite, del diffondersi anomalo di patologie che vengono a lungo screditate come mera “aneddotica” (o isteria e fobia, dalla “radiofobia” dei cittadini di Černobyl, alle patologie delle vittime del piombo e dell’amianto… e che dire della mancanza di sorveglianza attiva e quindi di dati affidabili sull’epidemia di “nessuna correlazione” recente?)[1] dagli esperti di turno, e che saranno poi riconosciute come fondate e reali solo molto più tardi, solitamente quando è troppo tardi.

Infine, la scientizzazione in sé introduce a sua volta bias e distorsioni. Perché induce a dare importanza solo agli aspetti che più facilmente possono essere analizzati, misurati e tradotti in numeri e grafici.[2] Un punto, questo, di cui dovremmo essere consapevoli sia per imparare a maneggiare le narrative del potere, sia – e questo forse è ancora più cruciale, e meno evidente, ci torno in chiusura – nel mettere a punto le nostre risposte e resistenze.

Per esempio, basare le decisioni politiche sugli OGM (o sui TEA) su una valutazione puramente scientifica della loro pericolosità accertata per la salute umana o per l’ambiente significa far slittare verso i margini altre questioni che non sono certo meno importanti. Significa, per esempio, non vedere né prendere in considerazione i diritti dei coltivatori biologici, o delle società tradizionali o indigene, a coltivazioni non contaminate e alla conservazione, trasmissione e scambio non monetario di sementi tradizionali. Significa preferire la via del soluzionismo tecnologico – manteniamo il modello agroindustriale che mina la biodiversità e impone abuso di diserbanti e pesticidi e poi tamponiamo (forse) il problema creando varietà che ne richiedano minori quantità – anziché mettere in discussione il modello di agricoltura che è all’origine di quei problemi. Significa marginalizzare valutazioni circa la perdita di autonomia – e quindi la dipendenza sempre più forte dalle multinazionali, la diminuzione del numero di aziende e la concentrazione della proprietà etc. – che queste tecnologie impongono al settore, assestando l’ennesimo colpo ferale all’agricoltura contadina, che poi è la stessa direzione verso cui spinge la digitalizzazione dell’agricoltura 4.0.[3] E significa escludere qualunque possibilità di discutere circa la desiderabilità della visione del mondo che è sottesa a quelle tecnologie.

Ma anche il riduzionismo climatico può essere individuato come esempio. Se quella che attraversiamo è una crisi ecologica estremamente complessa, data dall’intrecciarsi di più dimensioni dell’inquinamento – dell’aria, delle acque superficiali e delle falde, del suolo, luminoso, elettromagnetico… – con i cambiamenti climatici, con la perdita di biodiversità e con questioni come il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo, le nocività industriali, le servitù e l’industria militari, l’agroindustria, il sistema della logistica e della distribuzione (eccetera), è arduo mettere a punto strumenti di misurazione così come è politicamente scomodo e complicato elaborare risposte: perché queste, per essere efficaci, non possono eludere l’intreccio con la dimensione sociale né evitare di mettere al centro della critica il modello di sviluppo e quindi l’idea stessa di crescita.

Di fronte a tutto questo, isolare invece il cambiamento climatico dal suo contesto ambientale e sociale è una strategia che, se da una parte si presta meglio all’elaborazione di indicatori quantitativi, parametri e scenari predittivi che possano fungere da base per politiche evidence-based, dall’altra supporta una narrativa utile a un capitalismo che sussume nella sua logica di espansione perpetua la crisi ecologica stessa. Non solo la crisi ecologica non basta a mettere in discussione l’espansione capitalista: essa diventa un pretesto per la creazione di nuovi mercati e per dare nuovo slancio all’estrattivismo dipinto di green.

 

NOTE

[1] Un aspetto rilevante di questa vicenda è relativo ai cambiamenti nelle procedure e negli algoritmi utilizzati in seno all’OMS per rilevare il nesso di causalità tra vaccini ed effetti avversi, un tema trattato da Osimani e Ilardo (2022).

[2] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).

[3] Si veda il contributo de l’Atelier Paysan, Agricoltura 4.0 e nuovi OGM: la tecnoscienza all'assalto del vivente, 1 novembre 2023, <www.laterratrema.org>.

 

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La legge di Huang - Recensione di Geopolitica dell’intelligenza artificiale di A. Aresu

«Non abbiamo alcuna meta né qualità spirituali. Tutto quel che vogliamo sono le cose materiali. L'unica cosa che ci importa.» 

«Dagny,» mormorò, «qualsiasi cosa possiamo essere, siamo noi che muoviamo il mondo, siamo noi che lo facciamo camminare.»

Ayn Rand, La rivolta di Atlante

1 RITRATTI

Alcuni libri imprimono sul volto del lettore una maschera di ansia e di malinconia che resta insensibile alle transizioni di tono e di argomento, come quella con cui Buster Keaton affronta qualunque evento nei film di cui è protagonista. Geopolitica dell’intelligenza artificiale di Alessandro Aresu irradia disagio ad ogni ogni pagina accumulata dalla sua movenza narrativa, che si articola sui personaggi dell’attualità tecnologica, più che sui temi economici, sui blocchi continentali e sui confini delle tensioni militari e politiche. Dopo quasi 600 pagine a stampa il lettore sa tutto sulla giacca di pelle del CEO e fondatore di NVIDIA Jensen Huang, sul talento per la falegnameria del premio Nobel Geoffrey Hinton, sull’orologio al polso dell’ex ministro del Commercio USA Gina Raimondo, sul fastidio per il multiculturalismo di Peter Thiel: più che ad una galleria di ritratti, il lettore viene esposto all’apologia delle gesta degli imprenditori e dei computer scientist che hano costruito l’industria contemporanea dell’intelligenza artificiale.

Aresu adotta l’armatura concettuale del Cacciari del Lavoro dello spirito per definire il ruolo che i protagonisti della saga rivestono sullo scenario internazionale. L’essenza del sistema della scienza coincide con una rivoluzione continua, resa possibile dalla tecnica, quindi dalla potenza di calcolo che viene sviluppata dai processori con cui si elaborano i modelli di intelligenza artificiale più avanzati – che a loro volta permettono di progettare e realizzare hardware ancora più potente. L’accelerazione del progresso viene scandita dalla Legge di Moore e dalle formulazioni più recenti del principio, che Aresu etichetta come Legge di Kurzweil e Legge di Huang. In nessun caso si tratta di necessità fisiche, ma di evidenze emergenti dal ritmo di aggiornamento dei prodotti della manifattura tecnologica. Quello più antico risale a Moore, uno dei fondatori di Intel, e fissa il periodo di raddoppio della potenza di calcolo per chip ogni 18 mesi; Kurzweil ha osservato che l’introduzione dell’intelligenza del software modifica la curva di crescita – secondo la regola dei «ritorni accelerati» – convertendola da lineare ad esponenziale. Jensen Huang fissa la misura della nuova curva, che ha andamento logaritmico e che si fonda sulle GPU di NVIDIA, con un miglioramento di 25 volte ogni 5 anni. 

2 LA GRANDE TRASFORMAZIONE

L’I.A. comporta un rinnovamento di tutti i processi industriali, della gestione dell’agricoltura, del consumo di energia, della mobilità, dell’infrastruttura militare. Negli impianti di TSMC, il principale fornitore di NVIDIA, le filiere di produzione sono manovrate da robot e l’intervento degli esseri umani è concentrato sulla progettazione e sul controllo del buon funzionamento delle macchine. Gli stabilimenti principali si trovano a Taiwan, e rappresentano il modello della Grande Trasformazione che ha investito l’Asia negli ultimi decenni – a giudizio di Aresu, più ampia e più radicale di quella che Polanyi ha descritto nell’Europa del XVIII-XIX secolo. La manifattura rappresenta ancora l’asse portante del sistema culturale, scientifico e politico del mondo; ma i settori strategici sono cambiati, così come le modalità di organizzazione del lavoro e la distribuzione geografica delle aree più avanzate. L’Europa ha abdicato da tempo a qualunque ruolo di primo piano: non è in grado di interpretare lo spirito del tempo, di identificare le industry su cui investire e i volumi di capitale necessari per la competizione su terreni come transistor, robotica, I.A. – e non è nemmeno capace di regolarle, dal momento che non ne ha alcuna comprensione reale. Il tentativo eroico di Angelo Dalle Molle e del suo istituto IDSIA a Lugano, o la permanenza di DeepMind a Londra, sono eccezioni da cui si evince solo che, senza l’intervento dei capitali americani, le poche operazioni di eccellenza del Vecchio Continente sono destinate alla marginalità.

Taiwan si trova al centro della rivoluzione tecnologica dell’Asia Orientale: il modello di organizzazione delle fabbriche allestite sull’isola non è riproducibile negli USA, dove tempi di messa a punto e di tassi di produttività non riescono a tenere il passo della madrepatria. Dai chip stampati a Formosa dipende lo sviluppo dell’automazione sia americana, sia cinese: l’interruzione del processo di globalizzazione, e l’introduzione delle logiche di friendshoring da parte di Washington e di Pechino, collocano le imprese taiwanesi sul tracciato del confine geopolitico, con l’obbligo di rinuncia a quasi metà del fatturato per schierarsi dalla parte della sicurezza nazionale di cui sono tributari i clienti maggiori. 

La stessa linea di confine, e le stesse criticità, attraversano società nate e cresciute in pieno territorio americano, come NVIDIA, Intel o AMD, che realizzano l’hardware indispensabile per lo sviluppo di tutti i settori, dai videogame alla ricerca sulle molecole proteiche. Il comparto privato dell’industria, la ricerca avanzata in campo fisico, chimico, biologico, sono il teatro stesso della storia politica successiva all’interruzione del processo di globalizzazione, con l’incertezza sugli ambiti decisivi in uno scenario bellico – ora che la guerra si può manifestare anche come sabotaggio nei sistemi di controllo delle centrali nucleari, negli apparati informatici di funzionamento delle borse, delle transazioni commerciali di ogni genere, degli archivi pubblici, delle infrastrutture, della mobilità, persino delle lampadine e dei termostati nelle case «intelligenti». Secondo Carl Schmitt la dimensione della politica si può riassumere nella decisione su chi è il nemico; quella della tecnologia stabilisce se l’amico può godersi il caldo del divano nelle sere di inverno, e con cosa può distrarsi sul suo cellulare o con la smart TV. Ma anche nella quotidianità estranea alla deflagrazioni militari, la capacità del blocco cinese di riversare sul mercato prodotti di tutti i settori industriali, con un livello qualitativo paragonabile a quello occidentale (se non migliore, come nel caso delle automobili della BYD), e ad un prezzo inferiore, equivale ad un sovvertimento degli equilibri commerciali e di potere ereditati dalla seconda metà del XX secolo: sul divano di casa, quando l’amico scorre le notizie del giorno le compulsa con la maschera di smarrimento alla Buster Keaton.

3 LA RIVOLTA DI ATLANTE

Morris Chang sottolinea nelle interviste che la crescita di TSMC è stata resa possibile dalle politiche di gestione del personale umano negli impianti di Taiwan. Ingegneri e tecnici non possono iscriversi ad alcun sindacato, accedono agli spazi di lavoro il lunedì mattina, vivono e pernottano nelle aree aziendali fino al venerdì sera, quando possono rientare a casa per il fine settimana – purché non sia sopraggiunta qualche emergenza, la cui soluzione richieda la loro presenza in ufficio anche il sabato e la domenica. In ogni caso, la loro disponibilità a raggiungere la sede della fabbrica non prevede limiti di tempo e di orario, perché se una crisi dovesse verificarsi alle due di notte del sabato, l’ingegnere TSMC risponde al telefono, saluta la moglie e parte per la sua missione salvifica all’interno delle pareti della fabbrica.

Solo con questi metodi di devozione medievale all’impresa è possibile obbedire ai ritmi di crescita della Legge di Huang; ed è per questo che anche NVIDIA, Tesla e gli altri stabilimenti di Musk, non ammettono la sindacalizzazione dei dipendenti. Alla maschera di sconcerto di Buster Keaton con cui il lettore accoglie queste informazioni, Aresu aggiunge altri motivi di turbamento, approvando la denuncia di Morris Chang contro il freno allo sviluppo che si deve scontare negli USA, per le limitazioni imposte allo sfruttamento della manodopera, e per il favore accordato all’inseguimento del modello taiwanese da parte dei fondatori delle società nella Silicon Valley. Dalla (giusta) critica nei confronti dell’ignoranza con cui i politici affrontano le questioni del progresso tecnologico e della civiltà digitale, alla giustificazione del turbine insensato del capitalismo contemporaneo e della sua tirannia sociale, il passo è breve. Anche i lettori di Cacciari accolgono questo slittamento nel testo di Aresu con lo smarrimento di Buster Keaton, perché per il filosofo la tensione tra tecnica e politica non può mai risolversi in un lavoro di amministrazione burocratica delle esigenze del profitto economico. 

In Aresu la constatazione che la corsa verso l’incremento della potenza di calcolo è sempre più forsennata in tutto il mondo, e che la sfida tra blocco occidentale e blocco cinese si recita sulla scena dell’avanzamento tecnologico, non viene bilanciata dalla domanda: a quale scopo? La fuga in avanti degli eroi che Aresu glorifica nel suo testo, con un peana che è un tributo ad Ayn Rand più che a Cacciari, finisce per precipitare il mondo in un divenire senza avvenire, nella corsa senza fine di un futuro senza un fine. Geoffrey Hinton si è ritirato da Google nel 2023 sottoponendo a dure critiche il modello di intelligenza artificiale che lui stesso ha contribuito a sviluppare, con la delusione di aver mancato l’obiettivo di conoscere il funzionamento del cervello umano; Demis Hassabis ha vinto il Premio Nobel per la chimica rimanendo in Europa, e utilizzando qui l’I.A. sviluppata in DeepMind. L’emergenza di un significato, o il fallimento della sua ricerca, non obbediscono alla geografia di Aresu, e per la verità non sembrano obbedire ad alcuna regola. L’Autore rimprovera i politici di impedire la libera circolazione dei capitali, dei cervelli e delle idee, frammentando il mondo lungo i confini della sicurezza nazionale; e in effetti senza le GPU di Huang è impossibile avviare progetti di ricerca scientifica o di progettazione tecnologica che aspirino ad un interesse universale. Ma la pressione dell’utilità commerciale conduce a risultati che sono davvero interessanti? Il mondo con l’onnipervasività degli smartphone, del cloud, e ora dell’I.A. – che solo pochi anni fa non è stata in grado di evitare la terapia medievale del lockdown contro un virus che ha contribuito a smistare per i quattro angoli del pianeta – è davvero il luogo in cui vorremmo vivere? L’abrogazione della separazione tra lavoro e tempo libero, la proibizione delle pause nella reperibilità, l’esposizione allo scivolamento nella depressione che è endemica nella «società della stanchezza», sono un prezzo che siamo disposti ad accettare per conversare con ChatGPT?

Non dovrebbe la politica poter decidere su questo

 

 

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Robert F. Kennedy Jr ministro della Sanità USA. Perché non è necessariamente una brutta notizia

Il 13 febbraio 2025, Robert F. Kennedy Jr è stato nominato ministro della sanità. Avrà anche la supervisione della Food and Drug Administration, la potente agenzia federale che vigila su cibo e farmaci, e il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), che si occupa espressamente anche di vaccinazioni.  Il suo intento sarebbe quello di rendere l’America più sana (MAHA – Make America Healthy Again https://www.maha.vote/), combattendo il cibo-spazzatura e lo strapotere delle Big Pharmas.

Sì è molto parlato di lui, nei media mainstream. Generalmente male.

71 anni compiuti, avvocato di molte cause ambientaliste (ne ha vinte alcune contro importanti industrie accusate di inquinamento) e dei diritti delle tribù native, è figlio di Robert Francis Kennedy (candidato alla Casa Bianca mentre fu ucciso a 43 anni) e nipote di John Fitzgerald Kennedy (che invece Presidente era riuscito a diventarlo, ma anche lui fu ucciso, a 46 anni).

Contro la sua nomina si sono scagliate più di 80 organizzazioni, numerose scienziate (sempre usando il femminile sovraesteso), 25.000 professioniste dell’American Public Health Association, 15.000 mediche.

Il (risicatissimo – 14 a favore e 13 contrarie) parere favorevole alla sua nomina da parte della commissione Finanze del Senato, è coinciso con un vistoso calo del titolo Pfizer (-2,3%) e Moderna (6,2%) sulla borsa di Wall-Street. E anche in Senato la sua conferma è passata per soli 4 voti: 52 senatori/trici repubblicani/e a suo favore (di cui 2 incerti fino all’ultimo), e 48 contrari (di cui 45 democratici/che, 2 indipendenti e Mitch McConnell, senatore repubblicano, per decenni alla guida dei repubblicani del Senato, in forte contrasto con Trump e che si definisce “un sopravvissuto alla poliomielite”.

 Le accuse, tutte vere, nei confronti di Kennedy sono di:

  • essere un traditore del Partito Democratico (il quale però ostacolò fortemente la sua corsa alle primarie nel partito);
  • essere stato un consumatore di droghe per molti anni (sembra però che ora abbia smesso, mentre molte altre politiche continuano…)
  • aver avuto una relazione extraconiugale con una nota reporter di sinistra (ma noi di queste cose non ci scandalizziamo, avendo avuto un Presidente del Consiglio sicuramente molto più esperto in materia)
  • aver confessato di aver ucciso un orso per poi abbandonarne il cadavere a Central Park (almeno in Trentino queste cose le fanno dopo una delibera)
  • essere un nemico dell’industria agroalimentare e farmaceutica (cosa però stranamente apprezzata sia a destra che a sinistra, e in particolare da giovani, ambientaliste radicali, salutiste, new age, ultras dell’anti-capitalismo tipo Occupy Wall Street)
  • voler contrastare la diffusione di prodotti chimici inquinanti e pesticidi (che idea balzana)
  • voler abolire le pubblicità dei farmaci, danneggiando così le TV (non lo sa che sono soltanto dei “consigli per gli acquisti”, come li chiamava Maurizio Costanzo?)
  • voler imporre normative per la messa al bando di vari additivi alimentari tossici o di organismi geneticamente modificati (direttive peraltro già adottate nell’Unione Europea e nella California, governata dai democratici).
  • abbracciare teorie complottiste senza fondamento (tra cui gli assassinii del padre e dello zio, da lui attribuiti alla Cia, agenzia che mai ha commissionato omicidi o organizzato colpi di stato da quanto è stata costituita nel lontano 1947).
  • essere un anti-vaccinista e di credere che alcuni vaccini possano causare (indirettamente) l’autismo nelle bambine. Con queste convinzioni, numerose scienziate prevedono il ritorno negli Usa di malattie scomparse o fortemente ridimensionate proprio per merito delle vaccinazioni. Non tutte le scienziate però la pensano così e il tema è molto più complesso delle semplificazioni proposte da molte scienziate e giornaliste (vedi Gobo e Sena 2019).

Complessivamente, però, se Kennedy riuscisse a mettere in pratica solo metà del suo programma (almeno quella metà che trova d’accordo tutte le persone di buon senso), ne vedremo delle belle.

Ma le vere domande sono: lui è in grado di farlo? Ha le competenze necessarie?

Alla prima è difficile rispondere. Per quanto motivata e decisa, una persona sola non è in grado di imprimere tutti questi cambiamenti. C’è bisogno della collaborazione di molte altre persone e istituzioni. Occorrono quindi capacità manageriali oltre che vision.

Veniamo quindi alla seconda domanda. Che competenze dovrebbe avere una ministra della sanità? Essere un’esperta di sanità? E chi è un’esperta di sanità: una medica? Una paziente? Una manager della sanità? Forse nessuna di queste.

La prima laurea di Sergio Marchionne era in filosofia. Poi si laureò in giurisprudenza. Successivamente in Discipline Commerciali e poi ottenne un Master in business administration. È stato, nell’ordine: direttore finanziario al Lawson Group, società di consulenza su salute e sicurezza (1992); amministratore delegato si Lonza Group Ltd, azienda operante nel settore della chimica farmaceutica e biofarmaceutica (2000); amministratore delegato della SGS, azienda attiva nei servizi di ispezione, verifica e certificazione (2002); nel CdA del gruppo biotecnologico Serono; nel 2008 vicepresidente non esecutivo e direttore indipendente senior di UBS (banche) e amministratore delegato FIAT.
Marchionne era forse un esperto dei settori dove operavano le “sue” aziende? No.
Eppure non pare abbia fatto peggio (anzi…) di Carlos Tavares, che è un ingegnere e ha fatto tutta la sua carriera nel settore automobilistico.

In Italia, come ministre delle sanità abbiamo avuto di tutto e di più. Nell’ordine: Nicola Perrotti (psicoanalista), Mario Cotellessa (medico), Tiziano Tessitori (avvocato), Angelo Giacomo Mott (medico), Vincenzo Monaldi (medico), Camillo Giardina (giurista), Angelo Raffaele Jervolino (avvocato e giurista), Giacomo Mancini (avvocato penalista), Luigi Mariotti (commercialista), Ennio Zelioli-Lanzini (avvocato), Camillo Ripamonti (Ingegnere), Athos Valsecchi (insegnante di scuola media), Remo Gaspari (avvocato), Luigi Gui (insegnante di filosofia), Vittorino Colombo (dirigente d’azienda), Antonino Pietro Gullotti (avvocato), Luciano Dal Falco (giornalista), Tina Anselmi (insegnante elementare e sindcalista), Renato Altissimo (dirigente d’azienda), Aldo Aniasi (pubblicista), Costante Degan (ingegnere), Carlo Donat-Cattin (giornalista e sindacalista), Francesco De Lorenzo (medico e accademico), Raffaele Costa (avvocato e giornalista); Mariapia Garavaglia (insegnante di lettere e giornalista), Elio Guzzanti (medico), Rosy Bindi (giurista), Umberto Veronesi (oncologo), Girolamo Sirchia (medico accademico), Francesco Storace (giornalista), Livia Turco (insegnante elementare), Maurizio Sacconi (funzionario), Ferruccio Fazio (medico e accademico), Renato Balduzzi (giurista), Beatrice Lorenzin (giornalista), Giulia Grillo (medico legale), Roberto Speranza (laureato in scienze politiche) e Orazio Schillaci (medico e accademico).

Eppure, almeno fino a poco tempo fa, il sistema sanitario italiano era considerato un’eccellenza mondiale.

Ma allora, che competenze servono per fare la ministra della sanità (o di un altro dicastero)? Non competenze specifiche, bensì trasversali come la capacità di: scegliersi le collaboratrici (queste sì) competenti nel settore, leadership, gestire i gruppi, mediare tra le diverse istituzioni, gestire i conflitti, motivare le collaboratrici e farle lavorare ecc. Insomma capacità gestionali, relazionali e comunicative.

Kennedy le ha? Molte persone lo dubitano…

Vedremo se riuscirà davvero a rendere l’America più sana.

Sempre che non lo uccidano prima…

  

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Le teorie del complotto, terza parte - Che si tratti di ossessione per la verità?

Questa è la terza puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte). Qui ci interroghiamo sulla corrente, ed epidemica, ossessione per la verità scientifica e per i (presunti) deficit cognitivi dei rispettivi oppositori politici, malattia che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.

ROVESCIANDO LA PROSPETTIVA: E SE IL PROBLEMA FOSSE INVECE L'OSSESSIONE PER LA VERITÀ?

Un rovesciamento di prospettiva dalle potenzialità decisamente più fertili ci viene indicato da Dotson (2021), quando, rifiutando l’intera lettura basata sull’avvento dell’era della post-verità, suggerisce che il problema non sia tanto che le persone trascurerebbero i fatti privilegiando pregiudizi e opinioni soggettive, ma consista proprio nella corrente, epidemica, ossessione per la verità scientifica.

La malattia contemporanea da cui ben pochi di noi possono sinceramente dirsi immuni, che provoca polarizzazioni estreme e mette a repentaglio ogni possibilità di confronto democratico, consisterebbe, nella sua prospettiva, proprio nell’abitudine a dare per scontato che solo una fazione – la propria, ovviamente – sia quella in grado di pensare razionalmente e con la scienza a supporto delle proprie tesi. Quindi l’altra, inevitabilmente, è in errore, s-ragiona, è in preda a deliri, allucinazioni e alle “buche” del complottismo. È così che siamo diventati ossessionati dai (presunti) deficit cognitivi dei nostri oppositori politici.

Una malattia, questa, che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici: come le persone preoccupate per i cambiamenti climatici accusano i cosiddetti “negazionisti” di ignoranza e anti-scienza, specularmente chi contesta la matrice umana o l’emergenzialità della questione climatica si richiama a ricerche scientifiche ritenute più affidabili per dimostrare che la scienza mainstream sarebbe prona a interessi politici/economici e rea di soffocare il dissenso interno alla comunità scientifica. Tuttavia, questo atteggiamento così sprezzante e liquidatorio è particolarmente prevalente nelle retoriche liberal nei confronti dei conservatori, perché si sa, «the facts have a liberal bias» (Dotson 2021, p. 42): i fatti tenderebbero cioè per loro stessa natura a dare ragione ai progressisti.

Questo atteggiamento mentale, che viene indicato come scientismo politico, ha come corollario il diagnostic style of politics di cui parla lo storico Ted Steinberg (2006, cit. in Dotson 2021, p. 43), ovvero la tendenza a liquidare il dissenso politico come conseguenza di deficit cognitivi o problemi psicologici. In questo modo, il dissenso non è più dissenso: non più posizioni differenti e contrapposte con cui cercare un dialogo o esplorare, almeno, margini di compromesso. Anzi, la possibilità stessa del compromesso diventa un anatema. Perché con quella gente non si può, né si deve, ragionare. In questo modo il fanatismo scientista mina la democrazia, o almeno – suggerirei, ritenendo la democrazia già ampiamente minata di suo – compromette ulteriormente qualunque possibilità di confronto democratico e pure di trattazione con un’ambizione minima di approfondimento dei temi di cui si parla.

Nel trattare quindi in modo meno superficiale e sbrigativo del rapporto complesso tra scienza, “ignoranza” e politica, al cui interno inevitabilmente il tema del complottismo si inserisce, occorre tenere presente almeno tre questioni principali.

LA CORRUZIONE DELLA SCIENZA

La prima, per certi versi la più evidente – anche se tutt’altro che evidente è la portata delle sue conseguenze – ragione per cui dovremmo essere cauti di fronte al “l’ha detto la scienza, e quindi se non sei d’accordo sei ignorante”, riguarda la possibile strumentalizzazione della scienza a opera di interessi industriali e politici. Matthieu Amiech vi dedica opportuno spazio, riferendosi in particolare al bel libro di Foucart, Horel e Laurens, Les guardiens de la raison (2020). Ciò che mi preme mettere a fuoco qui è come sono cambiate le strategie di lobbismo politico: la fase dei “mercanti del dubbio”, quando le multinazionali reclutavano ricercatori e scienziati per produrre conoscenza scientifica solida, cioè capace di mettere in dubbio la credibilità delle ricerche che dimostravano la pericolosità dei loro prodotti, è ampiamente superata.[1] Oggi, infatti, gli interessi dell’industria, e in particolare quelli delle industrie maggiormente nocive, sono sostenuti in nome della scienza e della sostenibilità; come, cioè, se fossero non i desiderata delle corporations, ma verdetti oggettivi della scienza che finalmente ci permettono di superare le parzialità dell’opinione e le fallacie della politica. La professionalizzazione dell’influenza digitale fa poi sì che, grazie a raffinate tecniche di inbound marketing, a ribadire le ragioni dell’industria camuffate da verità scientifiche inattaccabili non siano solo scienziati, politici o celebrità, bensì persone (quasi) comuni, che ci appaiono più credibili perché disinteressate, cioè sinceramente interessate solo a difendere e valorizzare il ruolo della scienza nel dibattito pubblico. È un gioco di specchi, che fa sì che al green/pink/ethics-washing oggi si aggiunga l’insidia del participatory-washing: la sottile arte di far passare gli interessi del settore industriale come se fossero verità scientifiche e per giunta sostenute dal basso, un tappeto di erba sintetica (in inglese astroturf, il termine tecnico per designare questa strategia) a simulare l’erba vera (grassroots, cioè le rivendicazioni popolari, di movimento, genuinamente dal basso).[2]

Credo che non abbiamo ancora preso consapevolezza della portata del problema: della potenza, cioè, con cui il combinato disposto di questi meccanismi consolida ulteriormente il potere delle élite tecnocratiche e parallelamente indebolisce i movimenti e le proteste dal basso, delegittimandoli e sottraendo loro le loro stesse parole.

Perché nel momento in cui movimenti genuinamente emancipativi, grassroots, si battono contro ciò che veste i panni di una scienza addirittura legittimata e richiesta dal basso, le loro parole ancora più facilmente potranno venire negate come forme di partecipazione e invece fraintese, e liquidate, come semplice fatto di ignoranza e complottismo. Siamo consapevoli, giustamente, della repressione sempre più feroce che si abbatte contro chi protesta: fatichiamo invece a scorgere come il dissenso sempre più spesso venga prima ancora sterilizzato a monte, delegittimato sul piano semantico, e quindi non visto, scambiato per altro. Ma la delegittimazione semantica rafforza e giustifica la repressione legislativa e giudiziaria: perché, in fondo, se non è dissenso ma solo odiosa ignoranza, perché scomodarsi a denunciare la sproporzionalità di idranti, misure di privazione della libertà, sanzioni o se a chi protesta viene negato l’accesso al proprio conto bancario (come accaduto con il Freedom Convoy canadese)…?

«Qual è la differenza tra la verità e una teoria del complotto? Tra gli otto e i nove mesi». Questa battuta, che secondo gli estensori del Manifeste circolava all’interno dell’OMS (p. 34), richiama causticamente l’intervallo di tempo che troppe volte è intercorso tra la dismissione di posizioni minoritarie o critiche come mero complottismo e la constatazione che forse queste contenevano qualcosa di più di qualche «nucleo di verità», per riprendere l’espressione coniata da Wu Ming 1 (2021). Peccato che quegli otto-nove mesi siano anche l’intervallo di tempo fatale, quello in cui si sarebbe potuto discutere e agire, e chissà forse anche imprimere un diverso corso agli eventi. Se solo l’etichettamento delle critiche come “complottismo”, e spesso dell’intera controversia come “roba da complottisti”, non avesse reso impraticabile il terreno – troppo alto il rischio di essere scambiati per complottisti, meglio parlare d’altro – minando ogni possibilità di critica e dibattito. Così che la consapevolezza, se arriva, arriva troppo tardi. Quando ormai l’ennesima “innovazione” è diventata elemento del paesaggio del new normal, e indietro non si torna.

Un esempio emblematico è quello della protesta contro i TEA (Tecniche di evoluzione assistita), culminata nel recente episodio di Mezzana Bigli (Pavia), dove il gesto dei falciatori notturni di una coltura sperimentale di riso promossa dall’Università di Milano è stato oggetto di un coro unanime di attacchi dal mondo politico, scientifico e “ambientalista”, che l’hanno dipinto come esito di oscurantismo anti-scientifico, ignoranza e addirittura terrorismo. Impedendo così non solo il riconoscimento della dignità di azione politica a quel gesto, ma sbarrando anche la strada allo svilupparsi di un dibattito intorno a un tema che infatti oggi non mobilita che uno sparuto gruppo di coraggiose/i attiviste/i, laddove non più di vent’anni fa intorno agli OGM una certa compattezza del mondo ambientalista era stata capace di imprimere una svolta significativa sul corso degli eventi.[3]

Ma molti altri esempi possono essere individuati, nel Sud globale, dove i saperi contadini e le resistenze ai programmi di modernizzazione ecologica – targati Monsanto e sostenuti dai filantrocapitalisti alla Bill Gates – diventano superstizioni anti-moderne da estirpare. Nel Sud come nel Nord del mondo, le resistenze contro gli impatti devastanti della corsa ai minerali necessari per la transizione green e digitale, così come le proteste contro le speculazioni legate alle rinnovabili, devono oggi vedersela non più solo con la vecchia accusa di egoismo Nimby, ma anche con lo stigma di essere contro la scienza, negazionisti, ignoranti. Infine, come non evocare l’occasione persa conseguente all’incapacità di cogliere l’importanza (e di rispondere alla domanda di tematizzazione pubblica, prima che sia troppo tardi) di alcune questioni sollevate dalle proteste contro la gestione pandemica – dai rischi dell’ipermedicalizzazione a quelli dell’identità digitale e della sorveglianza tecnologica. Un’occasione persa che è difficile non attribuire all’ansia di non provare nemmeno a parlare di ciò di cui parlano “i complottisti”.

 

 

NOTE

[1] È salutare ricordare che è proprio così che nasce la nozione di sound science: introdotta dall’industria del tabacco, per screditare la trash science (scienza spazzatura) prodotta dalla ricerca indipendente e accademica che metteva in luce la pericolosità del fumo passivo.

[2] Ne abbiamo parlato in modo più articolato in Lello e Saltelli (2022).

[3] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).

 

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