Storie segrete della scienza è il titolo intrigante di una raccolta di saggi pubblicata da Mimesis il mese scorso. Al suo interno si trovano tradotti saggi di Jonathan Miller, Stephen Jay Gould, Daniel J. Kevles, Oliver Sacks, e Richard C. Lewontin, originariamente pubblicati a metà anni ‘90. Il lettore viene accompagnato dai racconti lungo la storia più o meno accidentata di alcune importanti scoperte della scienza contemporanea.

Gli autori, capaci narratori, coinvolgono nei percorsi personali delle figure che si sono scontrate nel dibattito delle idee. Ancora più interessante è però la capacità di questi scritti di inoltrarsi sempre più nella complessità dei rapporti tra umano, società e mondo.

 

Così, Miller racconta la storia del magnetismo e di Franz Anton Mesmer che lo scoprì nel XVIII secolo. Le mani imposte sul corpo dei pazienti di Mesmer inducevano in loro trances e convulsioni a cui seguiva la guarigione da vari disturbi mentali e non solo. Da Mesmer si aprono diverse strade. Esoterismo, ricerca, spettacolo e scoperta. Dallo spettacolo delle convulsioni magnetiche nasce come per gemmazione il “sonno nervoso”, l’ipnosi. Si aprono così possibilità di ricerca nella direzione dell’inconscio umano, sotterraneo e pieno di implicazioni politiche. Non solo la scienza è in gioco, ma piuttosto tutto il mondo: i nazionalismi dell’epoca e quelli odierni, le teorie politiche liberali o meno, la libertà dell’umano e Miller nel raccontare mantiene sempre dritta la rotta della scoperta (anche se quella rotta forse l’ha tracciata la storia per lui).

 

La rotta: stupenda metafora per l’esploratore che è in noi. Attenzione però alle metafore, al potere delle immagini, perché se in un primo momento possono aiutare a delineare la strada, a volte chiudono il mondo in quella rappresentazione. È ciò che racconta Gould riguardo alla figura della scala evolutiva. L’idea del progresso, idea potente e schiacciasassi, si è annidata nella storia della rappresentazione dell’evoluzione. Ecco, là in cima, l’uomo. Eretto, bianco, maschio (a volte la donna lo accompagna). Domina su tutte le specie prima di lui e le sovrasta: compimento dell’evoluzione. Gould si oppone. Senza accusare di mala fede chi illustra queste splendide metafore, rimane il fatto che esse non rappresentino adeguatamente quello che sappiamo sull’evoluzione. E il discorso non vale solo per la vita di tutti i giorni e le verità comuni. La comunità accademica e scientifica ha appena appena migliorato l’immagine dell’evoluzione raffigurandola nei manuali come un cono. Ma la diversità conseguente a una delle più importanti esplosioni della vita – quella Cambriana – ancora oggi non viene compresa nell’iconografia tradizionale. I mammiferi classificati in 4000 specie hanno ancora i rami più alti dell’albero e lo spazio più grande del cono, la cima, mentre alle più di 10.000 specie di insetti resta solo l’angusto sottobosco.

 

Che fare della rotta? Andiamo a vedere come si costruisce. Kevles, storico della scienza, racconta con molti e accurati particolari – sempre mantenendo uno stile piacevole – il difficile espandersi della ricerca sugli oncovirusDall’inizio del XX secolo con le osservazioni di un virus che scatena i tumori nei polli, la storia si articola in modo tortuoso, anche se non privo di progresso, scrive Kevles. I fattori in gioco sono tanti e spesso la ricerca si rannicchia nei laboratori di biologia di base, lontano da pressioni indiscrete. Esistono infatti preoccupazioni sociali, questioni “interne” alla struttura della disciplina o importanti influenze politiche. Tutte queste e altre – la sociologia delle scienze ce lo insegna – partecipano all’emergere o meno di una scoperta. 

Così questi studi sui virus vennero osteggiati quando implicavano la possibilità di rendere pericoloso il latte materno. Si pensava infatti potesse essere un vettore di trasmissione e si indagava per riconoscere il “fattore latte”, ma le conseguenze di questa ipotesi erano pericolose per la società. O ancora quando i ricercatori si devono confrontare con il dogma della biologia dell’epoca: non si torna indietro dall’RNA al DNA. Verrà scoperta la transcriptasi inversa e i retrovirus. Kevles osserva come proprio in quei piccoli laboratori la ricerca prosegue. La libertà che è concessa loro permette di sbagliare, di vagare per alcuni anni alla cieca e infine (magari grazie a scoperte concomitanti) riuscire davvero nell’osservazione di qualcosa di importante. 

Nel 1970 quindi viene dimostrata l’esistenza dei retrovirus. 5 anni dopo, per la scoperta, Renato Dulbecco, Howard Temin e David Baltimore riceveranno il Nobel (figura importante sarà anche Marguerite Vogt, che lavorava con Dulbecco). Ma nel frattempo la comunità medica stenta a riconoscere l’importanza di questa linea di ricerca. L’aiuto arriva per altra strada. Alcuni medici, Solomon Garb tra questi, spingono perché si dedichino finanziamenti alla ricerca sul cancro. Scoprire una cura per il cancro potrebbe avere importanti conseguenze nel confronto con l’Unione Sovietica. Nasce l’idea di un grande programma federale per la cura al cancro. Una Guerra al Cancro, che Nixon ha paragonato al Progetto Manhattan e al Programma Apollo. Tutta la società statunitense è movimentata e la ricerca esce dai piccoli laboratori. Lascio al lettore proseguire il racconto, nella speranza di averlo incuriosito. 

 

Come lettori veniamo accompagnati, io credo, non troppo bruscamente a comprendere quanto il sociale (e il personale) si intrecci con lo “scientifico”. La rotta non è mai stata persa però. Come sulle montagne russe ci spaventa pensare alla contingenza della scienza, ma sappiamo di essere assicurati alla linea del progresso e ci divertiamo.

Il saggio di Lewontin è un’affascinante storia della biologia contemporanea e della ridefinizione del ruolo tra vivente e ambiente. Ridimensionato il ruolo dell’adattamento, si riapre la porta alle potenzialità dell’organismo di plasmare il mondo. Le conseguenze pratiche per l’umano sono quelle di una visione ecologica che accetti il suo ruolo, vicina a quella di Timothy Morton che ho raccontato in un altro articolo. Ribaltato il ruolo dell’umano non resta che dare un ultimo colpo alla percezione della scienza come progresso necessario e cercare di capire che cosa rimane in piedi.

 

Nel saggio di Oliver Sacks sono raccolti diversi casi di teorie, scoperte e osservazioni cadute nel dimenticatoio. “Scotoma”, scrive Sacks, è il termine neurologico per queste rimozioni sociali. Qualcosa viene osservato e per motivi che non riusciamo a comprendere ritorna un giorno, in altre condizioni, modificato. Credere che esista una necessità all’emergere di queste idee è semplicistico. Le scienze e le persone che le compongono si incontrano e scontrano in modo “pulito”, nel dibattito delle idee e nella libertà. Ma altrettanto in modo “sporco”, come nel caso di Chandrasekhar che fu osteggiato dagli interessi personali del suo mentore. Non solo. Le due letture sono semplicistiche e permettono di mantenere una divisione ideale tra un campo da gioco con le sue regole e un mondo sporco di interessi personali che non dovrebbe entrarvi. Distinzione che nel quotidiano tende a confondersi, complicarsi, influendo negativamente sulla ricostruzione di una storia della scoperta.

La rotta non è mai scritta. Gli esploratori hanno delle indicazioni dalla realtà, da qualche collega, dai loro sogni. Il grande ruolo della contingenza sta proprio qui. Se si arriva alla scoperta e si torna indietro, alla società, si potrà disegnare una mappa. Al mondo resta la mappa e le nuove rotte di quelli che sono tornati. Di quelli che si sono persi e dei luoghi che avranno scoperto, sapremo forse qualcosa un giorno. In questo senso Sacks ha una visione positiva. Le scienze nell’ultimo secolo si sono spente nella capacità di descrivere il mondo. La medicina, a esempio, è passata dalle dettagliate ed estese descrizioni dei pazienti al tracciare spunte su cartelle cliniche già scritte. Tornare a quelle osservazioni permette di riprendere un’eredità della ricerca con uno sguardo nuovo, in un mondo nuovo e con tecnologie che permettono pratiche nuove. E la medicina non è l’unica a cercare nuove strade.

«Un nuovo tipo di teorizzazione, o di visione del mondo, è apparso un po’ dovunque negli ultimi quarant’anni, dalla nozione di auto-organizzazione in semplici sistemi fisici e biologici all’idea di complessi sistemi adattivi nella natura e nella società, dal concetto di proprietà emergenti nelle reti neurali a quello di selezione dei gruppi neuronali nel cervello. Sta emergendo una nuova “macro”-visione, non solo del carattere integrale della natura ma della natura come innovativa, emergente, creativa».

 

Autore

  • Jacopo Gibertini

    Laureando in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, è il Libraio della redazione. Filosofo che non riesce a separarsi dalla narrativa. Oggi studia soprattutto filosofia della medicina, con un taglio innovativo.