Individuare il sesso, una storia infinita

Dopo aver notato che nella cosiddetta “natura” l’ermafroditismo e la transizione sessuale all’interno di un medesimo attante sono delle possibilità e che nell’antichità l’ermafroditismo non era considerato un errore di natura, vediamo ora come i criteri di individuazione sessuale (contrariamente a ciò che comunemente si pensa) siano cambiati nel corso del tempo, e più volte (almeno 5 – cfr. Montanari 2018).

1. IL FENOTIPO

Per secoli la determinazione del sesso (riconoscimento e assegnazione), e poi del genere, fu basata sul fenotipo, ovvero sui caratteri morfologici/fisici empiricamente accertabili come la barba, la distribuzione del grasso corporeo, il pomo d’Adamo, le ghiandole mammarie, ecc. Tuttavia, a parte (forse) il pomo d’Adamo, questi caratteri non sono sempre presenti in un uomo. Infatti, esistono persone glabre, con massa corporea che può essere simile a una donna ecc. Lo si nota sui mezzi pubblici o per strada, quando a volte (osservando alcune persone) non siamo certi delle nostre classificazioni.

2. I GENITALI

Successivamente si passò a inserire nel fenotipo anche caratteristiche fisiche meno visibili, come ad esempio i genitali. Tuttavia, siccome nella vita quotidiana i genitali sono quasi sempre coperti e nascosti, l’attribuzione del sesso diviene un ragionamento probabilistico, perché la prova mediante ispezione quasi sempre (e per fortuna) non ci è permessa. Inoltre, spesso non sappiamo qual è lo standard di un genitale per essere considerato tale. E nemmeno che forma hanno i genitali de* altr*, neanche de* nostr* più car* amic* se non abbiamo avuto con loro una relazione intima oppure non abbiamo praticato qualche sport collettivo che prevedeva il rituale delle docce (di adolescenziale memoria, per chi scrive).

Perciò si può anche parlare di genitali sociali, ovvero la forma di genitali che presumiamo che una persona abbia in base alla sua apparenza, ossia al suo genere sociale. 

Ma anche con i genitali le cose non sono così semplici come invece pensava l’onorevole Daniela Santanché, che in almeno un paio di occasioni (27 gennaio e 11 marzo 2019) ebbe a dire:

Con la replica di un’altra onorevole, Vladimir Luxuria, che prontamente rispose: «Non mi parli di natura proprio lei, che ha fatto molti più interventi chirurgici di me per motivi estetici. Sei più trans di me, Dany». Invocare la natura - l’abbiamo già visto in La costruzione di un’identità (Prima parte) - è sempre una pericolosa arma a doppio taglio…

Peraltro, l’apparato genitale è costituito sia da organi esterni (o visibili), ma anche organi interni (non visibili). Nel fenotipo maschile più comune, il pene e lo scroto formano gli organi esterni. La prostata, l’uretra, i testicoli, le vescicole seminali, le vie spermatiche (dotti eiaculatori) e il dotto deferente sono invece interne/non visibili. Nel fenotipo femminile più comune gli organi esterni/visibili sono il monte di Venere, il clitoride, le grandi labbra e le piccole labbra. Quelli interni/non visibili sono la vagina, l’utero, le tube o trombe di Falloppio, l’endometrio, la cervice e le ovaie.

Per dare un’idea di quante fusioni ci possano essere tra gli organi, ora sappiamo che il clitoride e il pene si sviluppano della stessa materia, anche se hanno diversi ruoli nella riproduzione e la vita sessuale. Oppure che nell’antichità si credeva che la vagina fosse un pene introflesso (ripiegato verso l'interno), un po’ simile a un capezzolo introflesso. 

Purtroppo, la forma e grandezza del genitale esterno è ancora tra i fattori primari nell’assegnazione del sesso… alla nascita. 

Tuttavia, ci chiediamo: in un neonato, quanti cm deve avere una protuberanza per essere considerata un pene oppure una clitoride?

Quando parliamo di genitali cosiddetti “ambigui” intendiamo una variazione di grandezza e forma proprio tra quello che consideriamo la clitoride e il pene. Anche perché essi sono (esternamente) molto simili:

3. LE GONADI

Tuttavia i due precedenti criteri risultarono ancora non sufficienti e si passò a un terzo criterio: le gonadi.

Infatti, nel 1876, il patologo tedesco E. Klebs inventò un nuovo sistema di classificazione basato sulla struttura delle gonadi (dal greco gone seme e aden ghiandola) organi anatomici che producono i gameti, ovvero le cellule riproduttive). Le gonadi femminili sono le ovaie (organi interni, situate nella pelvi) e producono gli ovociti. Quelle maschili sono i testicoli (organi interni, nello scroto) e producono gli spermatozoi. Come si può vedere, si procede sempre più verso l’interno e quindi sempre più verso il meno visibile.

Secondo questa classificazione, un individuo (uomo o donna che fosse) con i testicoli era indubitabilmente un uomo, non importa quali mascheramenti potessero avvenire a livello fenotipico; specularmente un individuo con le ovaie era indubitabilmente una donna. 

Dregen (1998) sostiene che la scoperta delle gonadi sessuali soppiantò il criterio di valutazione in base ai genitali esterni per la determinazione sessuale, fino a diventare l’unico attributo/metro per dirci a quale sesso si appartiene. Le cose piccole e nascoste (come le ghiandole) soppiantarono, quindi, le cose grandi e visibili. Il pene e la vagina non contavano più (qualcuno lo dica all’onorevole)… 

Tuttavia, nell’embrione (che per molte persone è già un essere umano) le gonadi si sviluppano partendo da una gonade indifferente, cioè un organo che ha la potenzialità di diventare sia testicolo che ovaio. La differenziazione avviene solo… al 2º mese di gravidanza. 

Infine, le gonadi sono anche il maggiore produttore di 3 ormoni sessuali nel corpo: estrogeni, progestinici e androgeni.

Ma perché concentrarsi sulle gonadi (l’apparato genitale interno)? 

Probabilmente perché sono organi riproduttivi e l’ideologia del tempo assegnava alla riproduzione il valore più alto. Tuttavia, anche questa classificazione scricchiolava. Infatti, una persona può: avere gli organi riproduttivi e decidere di non utilizzarli; non averli; o averli di un genere diverso rispetto al proprio corredo cromosomico… senza che questo impatti sulla propria identità di genere. Ad es. uno potrebbe dire “gli uomini non hanno l’endometrio: ecco la differenza tra maschi e femmine”!
Risposta: certo. Ma questa è solo in una prospettiva riproduttiva. Se a una donna tolgono l’endometrio, oppure subisce un’isterectomia totale (asportazione dell’utero intero e le strutture circostanti cervice, ovaie, tube di Falloppio ecc.) o parziale non è più una donna? 

4. I CROMOSOMI: IL GENOTIPO (O DNA)

Per ovviare la debolezza della classificazione gonadica, si passò allora (la faccio breve) ai cromosomi, che sono strutture all'interno del nucleo delle cellule. Essi contengono i geni di una persona. 

Il cromosoma contiene da centinaia a migliaia di geni. Ogni cellula umana normale contiene 23 coppie di cromosomi, per un totale di 46 cromosomi (23 del padre e 23 della madre), ovvero 22 coppie di autosomi (presenti in entrambi i sessi) e una (!!!) di eterosomi cosiddetti sessuali: XX per il sesso femminile e XY per il sesso maschile. 

Dall’epoca della “scoperta” scientifica dei cromosomi sessuali (prima metà del ‘900), le coppie cromosomiche XY e XX sono state rapidamente adottate come indicatori canonici del sesso biologico, mediante il cariotipo (o patrimonio o mappa cromosomica): se un individuo ha 1 cariotipo XY + i testicoli è un uomo; se possiede 1 cariotipo XX + le ovaie è una donna.

Cioè l’UNICO cariotipo diverso tra uomini e donne… sarà dirimente, e andrà a fare la differenza!!! E si chiamerà cariotipo femminile 46 XX e il cariotipo maschile 46XY. 

In altre parole, la minoranza (1 sola delle 23 coppie di cromosomi) ha vinto sulla maggioranza!

In politica questo creerebbe qualche problema…

4.1. PROBLEMI CON I CROMOSOMI

Questa distinzione però non regge il confronto con la fenomenicità del reale. Se la concezione ordinaria dell’anatomia e fisiologia umana immagina una concordanza tra i marcatori di genere chiaramente dimorfici (cromosomi, genitali, gonadi, ormoni), i biologi sanno che tale concordanza a volte non si manifesta. Come nel caso degli/lle intersessuali. E’ stato infatti riconosciuto che la differenziazione sessuale a livello biologico non agisce secondo una logica dicotomica e non produce solo due tipologie di corpi uniformi.

All’incirca una persona su 1000 sviluppa un corpo in cui NON tutti i componenti corrispondono al genere dei cromosomi di sesso e questo senza particolare complicazione in termini di salute fisica. Inoltre, la maggioranza degli/lle ermafrodit* con corredo cromosomico XX, ha materiale Y presente sui cromosomi X
in quantità sufficiente a produrre i tessuti di entrambi i sessi (cioè testicoli e ovaie). E ancora, ci sono anche ermafrodit* con presenza di cromosomi sessuali in parte maschili e in parte femminili nelle diverse cellule del corpo: 46,XX/46,XY oppure 46,XX/47,XXY. Alla base si trova uno “sbilanciamento” tra i geni che regolano lo sviluppo dell’ovaio piuttosto che del testicolo, molti dei quali sono stati identificati, mentre ne esistono altri probabilmente ancora non noti.

4.2. MARIA JOSÉ MARTÍNEZ-PATIÑO

In previsione delle Olimpiadi del 1988, all’atleta spagnola Maria José Martínez-Patiño il comitato olimpico aveva richiesto un test genetico, una procedura standard per verificare che non si presentassero in gara atleti uomini. Pur avendo un aspetto femminile convincente e una chiara identità di genere femminile, risultò tuttavia che Maria presentava un cariotipo XY maschile. In più non aveva né le ovaie né l’utero. Per i commissari lei era un uomo! La diagnosi fu di sindrome da insensibilità agli androgeni (AIS). Per cui fu esclusa dalla competizione e radiata dalla squadra olimpica spagnola. I commissari fecero prevalere l’autorità dei cromosomi sugli altri marcatori di genere. La sua, una vita completamente rovinata.

Oggi, però, il comitato Olimpico non utilizza più come criterio di controllo il test genetico (cfr. Fausto-Sterling 2000: 1-3). Magra consolazione per lei…

5. GLI ORMONI

Si passò così (la faccio nuovamente breve e lineare) agli ormoni. L’ormone (dal greco όρμάω “mettere in movimento”) è un messaggero chimico che trasmette segnali da una cellula o un tessuto a un’altra cellula o altro tessuto. Gli ormoni sono stati concepiti e poi scoperti a inizio ‘900. 

Gli ormoni sessuali sono divisi in tre macro categorie: 

  1. Androgeni, come il testosterone, prodotto in maggior parte dal gonadi e dalle ghiandole surrenali; 
  2. Estrogeni, tra i più importanti c’è l’estradiolo; 
  3. Progestìnici, tra i più noto il progesterone prodotto dalle gonadi. 

Gli estrogeni ed androgeni sono ormoni presenti in tutt*, ma in quantità diverse nei maschi o nelle femmine. Gli estrogeni sono presenti in quantità superiori nelle donne, gli androgeni sono presenti maggiormente negli uomini. I progestinici (pro-gestazione), invece, sono ormoni sessuali femminili che stimolano la secrezione dell’endometrio, favorendo così le condizioni adatte alla fecondazione dell’uovo e al suo annidamento nella mucosa uterina.

Per cui, a parte i progestinici, non abbiamo ormoni specificatamente femminili o maschili… 

E qui nascono ancora problemi classificatori…

5.1. CASTER SEMENYA

Caster Semenya è una mezzo-fondista. Nel 2009 a soli 18 anni fece molto parlare di sé, fino a diventare un caso internazionale, dopo aver vinto la medaglia d’oro negli 800 metri femminili ai Mondiali di atletica leggera di Berlino, distanziando la seconda classificata di oltre 2 secondi. 

La vittoria però è stata subito messa in discussione a causa dei suoi tratti mascolini, uniti all’impressionante potenza con la quale ha demolito le sue rivali. Caster Semenya fu così accusata di essere un uomo. Dopo aver effettuato dei test di DNA (mai rivelati al pubblico per rispetto della sua privacy) è stata poi riammessa alle competizioni e, nel 2012, ha vinto la medaglia l’oro alle Olimpiadi di Londra (800 metri femminili). 

Lei è affetta da iperandrogenismo: il suo corpo produce naturalmente una eccessiva quantità di ormoni androgeni, come il testosterone, rispetto alla media. La IAAF – l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera, oggi World Athletics – per tutelare ogni atleta e rendere le competizioni sportive il più possibile “ad armi pari”, nel 2011 ha imposto una regola che obbliga le donne con iperandrogenismo a sottoporsi a una terapia ormonale per abbassare la produzione di ormoni androgeni, che ritengono possano falsificare le competizioni sportive.

Con la Federazione sudafricana, Caster Semenya ha però fatto ricorso al TAS – il Tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna. Il TAS ha respinto il ricorso dell’atleta sudafricana. Per cui l’atleta sudafricana non poté difendere il titolo mondiale ai Mondiali di Doha nel settembre 2019. L’atleta era stata esclusa da alcune competizioni sportive per essersi rifiutata di assumere farmaci che riducessero il suo alto livello di testosterone. Lei dice: "Alla fine, so di essere diversa. Non mi interessano i termini medici e quello che mi dicono. Essere nata senza utero o con testicoli interni. Non sono meno una donna. Queste sono le differenze con cui sono nata e le accetto. Non mi vergognerò perché sono diversa”. 

L’11 luglio 2023, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) di Strasburgo ha sentenziato che il TAS e la World Athletics hanno violato i diritti dell’atleta sudafricana Caster Semenya.

Tuttavia, la decisione di Strasburgo non invalida le regole dettate dalla IAAF e, quindi, non ha permesso a Semenya di poter gareggiare gli 800m (senza alcun trattamento sanitario) alle olimpiadi di Parigi 2024.

5.2. BARBRA BANDA

Barbra Banda è una calciatrice zambiana, a cui sono stati rilevati livelli di testosterone più alti del consentito dopo il suo exploit alle Olimpiadi 2020 (tenutesi nel 2021). Il testosterone porta un vantaggio in termini di prestazioni, rendendo gli atleti più veloci e più forti. Banda ha rifiutato una cura ormonale poiché temeva i potenziali effetti indesiderati. Alle Olimpiadi ha avuto ottime prestazioni ed è stata la prima donna a segnare due triplette in un torneo olimpico. L’attaccante dello Zambia è stata ritenuta da più parti un uomo. La Confederazione Africana di Calcio (CAF) non le ha permesso di giocare alla Coppa d’Africa del 2022. Il CAF ha regole molto più stringenti rispetto a quelle delle Olimpiadi. Invece, la massima istanza calcistica (la FIFA), si è pronunciata sul “caso Barbra Banda”, permettendo la sua partecipare ai Mondiali in Australia e Nuova Zelanda del 2023. E alle Olimpiadi di Parigi 2024 ha segnato un’altra tripletta (4 goal in totale). Insomma, nemmeno ricorrendo agli ormoni si riesce a risolvere la questione…

Comunque, non sarebbe il caso che CIO, FIFA, CAF, World Athletics e tutte le altre federazioni sportive utilizzassero gli stessi parametri per giudicare se un’atleta possa o meno gareggiare o giocare con le donne?

Ma soprattutto, è possibile trovare questi parametri?

Ne parliamo la prossima volta, trattando anche di Imane Khelif, la pugile algerina il cui caso tanto ha fatto discutere la scorsa estate.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dreger, Alive (1998), Hermaphrodites and the medical invention of sex, Harvard University Press, Cambridge, Mass.

Fausto-Sterling, Anne (2000), Sexing the body: Gender politics and the construction of sexuality, New York: Basic Books.

Montanari, Enrico (2018), La permeazione felice. Stati intersessuali e nuove prospettive, Tesi di laura in Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Milano.


Il mito della specie e della sua evoluzione

1. PARLARE DI SPECIE E DI EVOLUZIONE

I concetti di selezione, di evoluzione e di conservazione delle specie sono entrati, dalla formulazione che ne fece C. Darwin nel 1872[1], nel linguaggio corrente e scientifico ma, a volte, vengono usati in modo improprio, distorcendone il senso originale.

Una distorsione frequente dell’idea darwiniana è quella secondo selezione e evoluzione sono soggetti che agiscono con l’obiettivo di migliorare la specie per renderla più resistente ed adeguata al contesto in cui vive.

Ad esempio, Donald Hoffmann[2], stimato cognitivista americano, nel suo libro sulla percezione e sulla conoscenza della realtà, L’illusione della realtà – come l’evoluzione ci inganna sul mondo che vediamo (Bollati Boringhieri, 2020) sostiene noi e gli altri animali percepiamo la realtà in modo distorto, che vediamo[3] quello che ci conviene vedere per avere maggiori possibilità di sopravvivere e di riprodurci – di perpetuare la nostra specie.

È un punto di vista interessante dal lato filosofico e cognitivo e ripropone – in termini e linguaggio scientifici attuali – il concetto cartesiano di “grande illusione”[4], affinandolo e arricchendolo di esempi anche divertenti e appassionanti. È verosimile pensare che in alcune occasioni percepiamo[5] le cose in modo tale da metterci in guardia contro i pericoli, che ci orientiamo in modo immediato, senza ragionare, verso comportamenti che aumentano la nostra possibilità di sopravvivere, che ci nutriamo con alimenti che ci danno maggiore energia se dobbiamo fare sforzi o fatiche, e così via, che la nostra cognizione sia modulata in modo tale da garantire il massimo risultato.

Tuttavia, Hoffman suggerisce che - al centro di questa distorsione percettiva - sia proprio l’evoluzione[6] ad agire come soggetto, ad ingannarci per garantire la sopravvivenza del singolo individuo e la conservazione, la perpetuazione e il progressivo miglioramento della sua specie attraverso la riproduzione.

In questa visione la specie è un oggetto coerente, con confini ben definiti, in cui si ascrivono categorie di animali con caratteri omogenei, in cui questi animali si potrebbero riconoscere; e, l’evoluzione ha il carattere di soggetto, agisce con un fine, riconosce la specie, i suoi punti di forza e di debolezza, e ne orienta i meccanismi adattativi.

Questa concezione, ancora, si trova in alcuni schemi ecologisti e ambientalisti, in cui la specie è oggettivizzata ed elevata a valore da preservare, la natura è un soggetto che agisce, l’evoluzione, di nuovo, è un soggetto e ha un fine, quello di affinare e preservare le specie.[7]

2. DARWIN NON SAREBBE D’ACCORDO

Una prima sorpresa, per chi legge il trattato di C. Darwin sulla origine e selezione delle specie, è che - effettivamente - utilizza il termine specie e lo fa “come se” la specie fosse un unicum coerente e ben definito ma – nello stesso tempo – mette in guardia esplicitamente sul fatto che usa

«il termine di specie come applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza, a gruppi di individui molto somiglianti fra loro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termine varietà, il quale è riferito a forme meno distinte e più variabili. Anche il termine di varietà, per quanto riguarda le semplici differenze individuali, è applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza.» (Darwin C., L’origine delle specie, 2019, Bollati Boringhieri)

Ancora più sorprendente può risultare che Darwin non intendesse affatto la “selezione naturale”, la “lotta per l’esistenza”, l’”evoluzione”, la “natura” come soggetti che agiscono ma – al contrario – come «azione combinata e risultato di numerose leggi[8]» (Cit., p. 154), e scrivesse che «nel senso letterale della parola, il termine selezione naturale è erroneo» (Cit., p. 154), lo ritenesse una espressione metaforica (cfr. ibidem):

«Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono» (Cit. p. 157).

Allo stesso modo, Darwin annota (cit. p. 154) che per alcuni «il termine selezione naturale implica una scelta cosciente da parte degli animali che vengono modificati», sottolinea il senso metaforico di questa espressione e – di fatto – anticipa una interpretazione che diventerà corrente, quella della personificazione delle forze selettive.

E quando (cit., p. 157), tratta metaforicamente la selezione come un soggetto,

«silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l'opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita»,

evidenzia che il fenomeno selettivo riguarda il miglioramento delle capacità di sopravvivenza del singolo individuo nel contesto in cui vive.

In sintesi, appare chiaro che - nella accezione darwiniana originale – la specie non è né un soggetto né un oggetto coerente e ben delimitato, e che la selezione, l’evoluzione e la conservazione delle specie non sono soggetti che agiscono ma processi risultato di condizioni di vita e – in definitiva – di fenomeni guidati dal caso, dal contesto e senza finalismi

«si può dire che le condizioni di vita non soltanto causano la variabilità, o direttamente o indirettamente, ma altresì includono la selezione naturale, poiché le condizioni determinano se questa o quella varietà sopravviverà» (Cit., p. 203).

Il ruolo del caso nel processo evolutivo può essere reso in modo chiaro con questo esempio: tra due individui qualunque, quello più adatto all'ambiente in cui si trova – cioè, quello che ha sviluppato in modo maggiore, nel corso della sua breve vita, le competenze e capacità più efficaci per quell'ambiente - ha più probabilità dell’altro di vivere abbastanza a lungo; vivendo abbastanza a lungo ha anche più probabilità di avere rapporti sessuali con individui che hanno sviluppato altrettante caratteristiche adeguate all'ambiente, se, casualmente, ne incontra.

Come conseguenza di questa casualità di vita lunga e di occasioni di rapporti sessuali, questo individuo ha maggiore probabilità di riprodursi e i nuovi nati hanno (o, perlomeno, potrebbero avere) le stesse caratteristiche di adeguatezza all'ambiente dei genitori.

Allo stesso modo si può proporre una riflessione sulla presenza di organi sessuali complementari che, per chi pensa a meccanismi finalistici nella selezione, sono "dedicati" all'accoppiamento a fini riproduttivi: proviamo a fare un esperimento mentale collocato nella notte dei tempi, in cui ipotizziamo un gruppo di 40 individui della stessa varietà, di cui 10 senza organi sessuali, 10 con organi sessuali senza capacità riproduttiva, 10 con organi sessuali con capacità riproduttiva e forma complementare e 10 con organi sessuali con capacità riproduttiva ma con forma non complementare, dopo qualche anno che tipo di individui ritroviamo? Certamente quelli che – casualmente – sono nati con organi sessuali complementari e che – sempre casualmente – si sono incontrati.

In estrema sintesi: in un ampio gruppo di individui diversi, quelli che sono, casualmente, più adeguati al contesto hanno più opportunità di vivere a lungo e riprodursi. La generazione successiva vedrà più individui con quelle caratteristiche di adeguatezza e meno di quelli meno adeguati. E, dopo alcune generazioni, troveremo solo individui del tipo "più adeguato".[9]

3. LA SELEZIONE NON È TELEOLOGICA E LA SPECIE NON ESISTE

Quando parliamo di selezione, di evoluzione e di conservazione delle specie è opportuno ricordare che questi concetti sono esenti da personificazione e da suggestioni finalistiche, che essi sono metafore per rappresentare il risultato di occorrenze casuali per cui gli individui che si trovavano al posto giusto, nel momento giusto e con le caratteristiche giuste sono sopravvissuti più a lungo e hanno avuto l’occasione di generare discendenti.

Al contrario, indulgere nella personificazione di questi concetti comporta il rischio di distorsioni socialmente pericolose, come, ad esempio, la giustificazione della “legge del più forte” e l’uso della selezione naturale per legittimare il carattere naturale di discriminazioni sociali, sessuali e razziali.

Allo stesso modo, considerare le specie come oggetti internamente coerenti o – addirittura – come soggetti, può essere il fondamento di pericolosi ragionamenti specisti o di atteggiamenti ecologisti i cui risultati sono discutibili, come la reintroduzione[10] di una varietà di animali in un territorio, oppure – ne ho già scritto recentemente – uccidere un grosso carnivoro “problematico” sia moralmente accettabile poiché quella morte non incide sulla conservazione della specie nel territorio in cui essa vive.

 

 

NOTE

[1] L’edizione di On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favoured races in the struggle for life che C. Darwin considerava definitiva è la sesta, pubblicata – appunto – nel 1872

[2] Cfr. Wikipedia - Donald Hoffman

[3] E sentiamo, e odoriamo, in sostanza percepiamo con i sensi

[4] Secondo Descartes l’immagine della realtà esterna che viene proposta dai sensi alla mente potrebbe essere del tutto illusoria, con poco o senza attinenza con la realtà com’è veramente; l’unica garanzia che abbiamo che questa percezione è veridica risiede in Dio, che non ci inganna, che è garante della veridicità della percezione.

[5] Uso qui il “noi” esteso a tutte le specie animali senzienti, dotate di sensi e di percezione.

[6] Uso evoluzione e specie in corsivo per sottolinearne la soggettivazione

[7] Di questo – e delle distorsioni morali sul tema delle specie - ne parlerò in un prossimo articolo

[8] Per C. Darwin, molto sull’onda humiana, le leggi sono «la sequenza di fatti da noi accertati» (Cit. p. 154)

[9] Se proprio vogliamo parlare di specie come oggetto coerente, è bene evitare di dire "la specie ha sviluppato quelle caratteristiche" e – invece –dire "la specie si è trovata con quelle caratteristiche" come risultato di singole storie di singoli individui che hanno, singolarmente, sviluppato quelle caratteristiche; dire: la specie "è " quelle caratteristiche. Questo perché la "specie" non esiste. Similmente la "selezione" non opera, "l'evoluzione" non seleziona; non fanno nulla perché non esistono, non sono soggetti che agiscono, sono solo fenomeni che sono accaduti. Così ci salviamo dall'equivoco finalista, teleologico, dell'evoluzione.

[10] Presto un articolo sulla discutibilità, sia scientifica che morale, della reintroduzione degli orsi bruni in Trentino


La costruzione di un’identità (Seconda parte) - Il sesso nell’antichità

Nell'articolo precedente, La costruzione di un’identità (Prima parte), abbiamo visto come l’ermafroditismo e la transizione sessuale (cioè cambiare sesso nel corso della vita) siano fenomeni naturali. Sia nel mondo vegetale (piante e fiori) che animale (vermi, molluschi, pesci).

E gli esseri umani? Come è stato considerato l’ermafroditismo in passato? Un errore di natura? Non sempre.

Nell’antichità l’ermafroditismo (l’ambi-sesso) fu considerato uno stato originario, un’essenza divina, completa, irraggiungibile, la perfezione perché nell’uno c’erano tutte le possibilità.

Chi era rimasto ermafrodita, anche dopo la scissione primordiale, era quindi un essere ritenuto semi-dio, un umano non umano, un umano che sfuggiva alla razionalità del dualismo imposto dalla cultura e dalla società (cfr. Fausto-Sterling, A., 2000: 32). L’ermafrodito era definibile in un genere altro rispetto a quello maschile e femminile, definito dagli Dei appunto neutrum.

Ermafrodito è il figlio di Hermes (messaggero degli Dei) e di Afrodite (dea dell’amore e della bellezza). Il suo nome è la crasi dei nomi dei suoi genitori. Secondo il mito, la ninfa Salmace – perdutamente innamorata del giovane – chiese a suo padre (Poseidone) di poter essere fusa per sempre con il ragazzo. Fu così che la ninfa-donna si fuse con il semidio-uomo: ne nacque l’ermafrodita/o.

 Platone

Nel Simposio di Platone, il commediografo Aristofane sostiene che a uno stadio originario dell’umanità,
(precedente alla divisione dei sessi) esisteva solo un terzo genere, un po’ come il numero 1 (parimpari) che genera tutti gli altri numeri:

«Innanzitutto, i generi degli uomini erano tre e non due come ora, ossia maschio e femmina,
ma c’era anche un terzo che accomunava i due, e del quale ora è rimasto il nome, mentre esso è scomparso. L’androgino era, allora, una unità per figura e per nome, costituito dalla natura maschile e da quella femminile accomunate insieme, e nella forma e nel nome, mentre ora non ne resta che il nome, usato in senso spregiativo. […] Per questo i generi erano tre, perché il maschio aveva tratto la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il terzo sesso, che partecipava di entrambi, dalla Luna, la quale partecipa della natura del Sole e della Terra» (
Platone, Simposio, 189 e/190 b, Mondadori, Milano 2001, pp. 55-57, trad. di Giovanni Reale).

Platone nel IV sec. a.C. sembra utilizzare (erroneamente) il termine androgino [composto da ἀνήρ «uomo» e γυνή «donna»] come sinonimo di ermafrodita.

Non solo nel mondo greco antico, ma anche in altre culture, l’ermafroditismo era visto positivamente. Ad esempio, secondo alcuni interpreti biblici, Adamo in origine nacque ermafrodita (Adamo-Eva) e venne successivamente scisso in maschio e femmina (cfr. Eliade 1989: 89). Inoltre, sono ermafroditi tutti gli Dei più importanti della mitologia scandinava (Odino, Loki, Tuisto, Nerthus), le divinità egizie Hapi, Atum e Neith di Sais, e quelle indiane Shiva e Vishnù, oltre ad Aditi. Pure l’azteco Ometeotl, la divinità doppia composta dai due aspetti Ometecuthli/Omecihuatl, è ermafrodita[1].

Aristotele

Come abbiamo visto nel Simposio, le cose cominciano a cambiare già ai tempi di Platone: l’ermafroditismo tra gli umani diviene una condizione molto controversa, spesso considerata un’aberrazione, un fenomeno infausto e turpe. Per Aristotele l’ermafrodita è un individuo sovrabbondante, in cui l’eccesso di materia sbilancia l’equilibrio tra maschile e femminile. Il pregiudizio aristotelico però si ferma al piano fisico: l’ermafroditismo è una condizione che interessa solo i genitali e non l’intera persona.

Questa visione ‘mostruosa’ dell’ermafrodita successivamente si accresce: neonat* che presentavano caratteristiche ambigue e difficilmente definibili venivano respint* come affratellat* al diavolo, emanazioni del peccato, messagger* di verità ingannatrici. Si profila in epoca medievale una lettura nuova dell’ermafroditismo, che non viene valutato soltanto nelle sue implicazioni fisiche, bensì inizia a essere giudicato come una devianza morale. Avviene cioè una transizione, storicamente fondamentale, dal pregiudizio fisico a quello morale: essere ermafrodit* non significava più possedere due attributi al posto di uno, ma significava essere individui ingannevoli a causa di una devianza fisica.

Per cui, fino agli inizi del ‘600 gli ermafroditi vengono considerati mostri, giustiziati e bruciati, e le loro ceneri sparse nel vento (cfr. Foucault 2004: 67).

Questo breve (e incompleto) excursus storico ci fa capire (al di là di ogni pretesa essenzialista) che i modi con cui indentifichiamo l’altro sono basati su categorizzazioni (culturali) che possono cambiare (e spesso lo fanno) nel tempo. E appellarsi alla “natura” non è sempre un buon modo di affrontare un tema. Anche perché la supposta “natura” (pensata come entità autonoma dall’agire umano), proprio in questo caso ci dice che esistono molteplici possibilità di identificazione sessuale e ridurle alle (o farle forzatamente rientrare nelle) nostre classificazioni non è sempre cosa saggia.

Ma allora, quali sono i criteri di individuazione sessuale? Lo vedremo la prossima volta.

 

 

NOTE

[1] Cfr. https://win.storiain.net/arret/num197/artic1.asp

BIBLIOGRAFIA

Eliade, Mircea (1989), Il mito della reintegrazione, Milano: Jaca Book.

Fausto-Sterling, Anne (2000), Sexing the Body: Gender Politics and the Construction of Sexuality, New York: Basic Books.

Foucault, M. (2004), Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Milano: Feltrinelli.

 

 


La costruzione di un’identità (Prima parte) - Sesso (biologico), genere (sociale) e orientamento sessuale: 3 concetti non sovrapponibili

Si è molto parlato, lo scorso mese durante le Olimpiadi di Parigi, del caso della pugile algerina Imane Khelif, che poi ha vinto la medaglia d’oro: è una donna? Un uomo? Un ibrido? Una chimera?

Contrariamente alle opinioni e giudizi prêt-à-porter, che esperte di tutto inondano giornali, blog e social, la risposta a queste domande non è così semplice e richiede un’attenta riflessione.

Di una cosa, però, siamo sicuri: Khelif non è stato il primo caso e non sarà certamente l’ultimo.

Per cui vale la pena approfondirlo.

Anche perché la storia delle caratteristiche (o determinanti) della distinzione tra uomo e donna è molto lunga e complessa. E interseca i concetti di ‘natura’ e ‘cultura’, gli sviluppi della ‘tecnologia’, i cambiamenti nella ‘scienza’. Partiamo allora (se così si può impropriamente dire) dalla ‘natura’.

INTERSESSUAL*

Attualmente, almeno in Italia, il 2% de* nascitur* è intersessuale. Sono persone che “naturalmente” hanno organi genitali poco pronunciati, per cui non si sa se sono uomini o donne. Infatti, possiedono un misto di tratti biologici maschili e femminili, in un rapporto di permeazione (letteralmente l’atto di passare attraverso la dicotomia). Questo fenomeno “naturale” mette in crisi il dimorfismo sessuale (dal greco "due forme"), una visione dualistica, polarizzata, dicotomica che scricchiola.

Anziché lasciarl* crescere e sviluppare liberamente e, magari, differire a una età di maggior consapevolezza una LORO decisione se essere uomini, donne o restare così come sono (perché la loro biologia non glielo dice), invece a queste persone, solitamente, viene IMPOSTO chirurgicamente (appena nate o nell’infanzia) un sesso da parte del/la medico e/o dai genitori (che si devono confrontare con stereotipi e pregiudizi). Quindi nei confronti di neonat* e bambin* si opera un intervento artificiale sulla loro NATURALITÀ: infatti sono persone nate così, indeterminate. Attualmente in Italia sono circa 900.000 persone quelle nate intersessuali.

LE PIANTE

E non parliamo di “errore di natura”, perché l’ermafroditismo o monoicismo (dal greco antico mόνος unico e οἶκος casa) è ben presente in natura.

Ad esempio nelle piante, il termine ‘monoico’ si utilizza parlando di spermatofite (ovvero piante a seme). Le angiosperme e gimnosperme presentano delle strutture riproduttive (fiori e strobili) che possono contenere le parti fertili maschili e femminili, insieme o separatamente. Se le due parti coesistono
i fiori sono detti ermafroditi. I termini monoico e dioico non si utilizzano riferiti alla singola pianta (maschile o femminile) ma alla specie intesa come entità (es. l'ontano è una specie monoica). Il larice è una conifera monoica: i coni maschili (gialli) e quelli femminili (rosa), sono portati dallo stesso individuo.

LA FLUIDITÀ SESSUALE NELLE PIANTE

Recentemente, però, è stata identificata in Australia (il 19 giugno 2019, ricerca pubblicata sulla rivista PhytoKeys) una pianta (un pomodoro selvatico) esistente da migliaia di anni, appartenente alla famiglia delle Solanacee (un gruppo di angiosperme di cui fanno parte specie molto note come patate, pomodori, peperoni, peperoncini e melanzane) che presenta caratteristiche uniche nel suo fenotipo (cioè morfologia) riproduttivo, che le hanno fatto guadagnare il nome scientifico Solanum Plastisexum o "sesso fluido”.

In altre parole, questa specie fa qualcosa di più del solito ermafroditismo: può presentare contemporaneamente tutti i possibili fenotipi sessuali su un singolo esemplare. Per cui, la pianta possiede una caratteristica praticamente unica tra le solanacee: lo stesso esemplare può mostrare fiori maschili, fiori femminili, e anche fiori ermafroditi che presentano contemporaneamente le caratteristiche sessuali di ambo i sessi (stami e pistilli), in combinazioni variabili e mai osservate prima in questa famiglia di piante.

Una caratteristica del sistema riproduttivo che sfugge a qualunque classificazione; il primo, vero, vegetale "gender fluid" mai catalogato e che secondo le ricercatrici mostra quanto sia impossibile stabilire una norma nella sessualità del vegetale[1].

LA TRANSIZIONE SPONTANEA DA UN SESSO ALL’ALTRO NEL MONDO ANIMALE

Anche il mondo animale non è da meno. Infatti, in diverse specie animali avviene un cambio di sesso in modo spontaneo e naturale, in particolare nei pesci. Diversamente dall’ermafroditismo istantaneo (degli esseri umani), nei pesci abbiamo un ermafroditismo sequenziale, cioè un cambiamento nel tempo,
ma “soltanto a una certa età” (come canterebbe Lucio Dalla).

Nei pesci l’ermafroditismo sequenziale si suddivide in:

  • proteràndrico (dal greco próterosanteriore e andròs uomo), in cui il pesce (es. il mollusco bivalvo, l’orata, molte specie di vermi) passa una prima fase della sua vita sessuale come maschio e la termina come femmina;
    • quindi i gameti maschili maturano prima dei gameti femminili;
  • proterogìnico (ghynḗfemmina), in cui il pesce (es. i pesci del genere Anthias, pesce pappagallo, pesce napoleone, cernia, ostriche) passa una prima fase della sua vita sessuale come femmina e la termina come maschio (es. i pesci del genere Anthias)
    • quindi i gameti femminili maturano prima dei gameti maschili;
  • alternante, in cui i pesci di una certa specie cambiano sesso più di una volta, durante il loro ciclo vitale.

Insomma, il mondo è molto più complesso e articolato di quanto stereotipi e pregiudizi vorrebbero farci credere.

E negli esseri umani cosa succede? Lo vediamo nella prossima puntata.

 

NOTE

[1] Cfr. https://www.repubblica.it/scienze/2019/06/19/news/ecco_il_solanum_plastisexum_il_pomodoro_gender_fluid_-229170346/


La valutazione oggettiva non esiste - È sempre guidata da una teoria (soggettiva) sottostante…

Si sente spesso pronunciare l’espressione “valutazione oggettiva”. Essa viene commissionata e richiesta a studiose, consulenti e valutatrici. In realtà tale espressione è un ossimoro. Perché la valutazione è sempre soggettiva. Forse, il vero pericolo è che diventi soltanto arbitraria. Ma a questo ci sono rimedi.

Le esperte e studiose serie di valutazione (non le praticone) lo sanno bene. E da molto tempo, ormai.

Cito solo tre approcci di importanti autori e autrici, che fin dagli anni ’80 hanno tematizzato questo aspetto, in polemica con la valutazione di impianto positivista e sperimentale:

  • la valutazione realistica (Realistic Evaluation) di Ray Pawson e Nick Tilley
  • la valutazione guidata dalla teoria (Theory-Driven Evaluation) di Chen e Rossi
  • la valutazione basata sulla teoria (Theory Based Evaluation) di Carol Weiss

Il tratto comune a questi tre approcci è mostrare (e teorizzare) come la valutazione sia sempre guidata da una teoria sottostante, e quindi basata sia su assunti epistemologici ma anche di conoscenze di senso comune.

Vediamo un esempio illuminante che ci proviene dall’economia 

Il valore di una professione

La New economics foundation (Nef) è un istituto di ricerca, consulenza e idee innovative (think tank) composto da una cinquantina di economiste, famose per aver portato nell'agenda del G7 e G8 (a fine anni duemila) temi quali il debito internazionale.

Nel 2009 si proposero di condurre una ricerca sul valore delle professioni, che adottasse però una prospettiva diversa (da quelle tradizionali). Tale prospettiva aveva lo scopo di “collegare gli stipendi al contributo di benessere che un lavoro porta alla comunità".

Come spiegarono nella stessa introduzione della ricerca, "abbiamo scelto un nuovo approccio per valutare il reale valore del lavoro. Siamo andati oltre la considerazione di quanto una professione viene valutata economicamente e abbiamo verificato quanto chi la esercita contribuisce al benessere della società. I principi di valutazione ai quali ci siamo ispirati quantificano il valore sociale, ambientale ed economico del lavoro svolto dalle diverse figure".

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In altre parole, se si modificano i criteri teorici, culturali, ideologici (ma questa è una scelta, una decisione, un atto soggettivo), avremmo risultati di ricerca molto diversi.

Il Nef calcolò così il valore economico di sei diversi lavori, tre pagati molto bene e tre molto poco, introducendo nuovi criteri e abbandonando i vecchi (soggettivi anche loro, ovviamente).

Il risultato fu sorprendente e rovesciava le gerarchie tradizionali. 

Ad esempio, comparando un operatore ecologico e un fiscalista, il Nef concludeva che il primo contribuisce con il suo lavoro alla salute dell'ambiente grazie al riciclo delle immondizie, mentre il secondo danneggia la società perché studia in che modo far versare ai contribuenti meno tasse. Quindi il primo dovrebbe essere pagato molto di più e il secondo molto di meno (per usare un eufemismo).

Lo stesso vale, dicono al Nef, per i banchieri che prosciugano la società e causano danni all'economia globale.

In generale, esaminando “il contributo sociale del loro valore, abbiamo scoperto che i lavori pagati meno sono quelli più utili al benessere collettivo".

Conclusione che certamente approverebbero i due uomini in giallo, ma anche Wim Wenders, visto che con il suo ultimo film Perfect Days (2023) fa un biopic di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Shibuya (uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo), quasi un eroe dei nostri tempi.

Le economiste del Nef sono molto chiare: “il nostro studio vuole sottolineare un punto fondamentale e cioè che dovrebbe esserci una corrispondenza diretta tra quanto siamo pagati e il valore che il nostro lavoro genera per la società. Abbiamo trovato un modo per calcolarlo e questo strumento dovrebbe essere usato per determinare i compensi". 

Per cui, la valutazione è primariamente un problema teorico

Solo secondariamente diventa un problema tecnico. 

Proprio l’opposto di quello che molte scienziate ci dicono, e continueranno a (men)dire…

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Chen H. T. (1990), Theory driven Evaluation, Thousand Oaks: Sage.

Chen H. T. e Rossi P. H. (1981), The multi-goal, theory-driven approach to evaluation. A model linking basic and applied social science, in “Social Forces”, 59, pp. 106-22.

Pawson R. e Tilley N. (1997), Realistic evaluation, London: Sage.

Weiss C. H. (1995), Nothing as Practical as Good Theory: Exploring Theory-Based Evaluation for Comprehensive Community Initiatives for Children and Families, in Connell J. P., Kubisch A. C., Schorr L. B. e Weiss C. H. (a cura di), New Approaches to Evaluating Community Initiatives. Vol. 1 Concepts, Methods, and Contexts, The Aspen Institute, Washington (DC), pp. 65-92.

Weiss C. H. (1997a), How can Theory-Based Evaluation make greater headway? in “Evaluation Review”, 4, pp. 501-524.

Weiss C. H. (1997ab), Theory-based evaluation: past, present, and future, in “New Directions for Evaluation”, 76, pp. 41-55, 

Weiss C. H. (1998), Evaluation. Methods for studying programs and policies, Upper Saddle River (NJ): Prentice Hall, 1998.


La fisiologia dualista di Cartesio si regge sull’uso improprio degli animali?

Quando si parla di Cartesio (1596 - 1650) non va dimenticato che è uno scienziato (si direbbe oggi), un filosofo naturale (si diceva ai suoi tempi) che lavora per anni in modo moderno basandosi sul dubbio, rifuggendo il dogmatismo, osservando e costruendo le teorie sull’osservazione e sulla confutazione, discutendo con i suoi pari e antagonisti sulla fisiologia dei viventi, e che da questa fisiologia prende forma la sua teoria dualista del corpo e della mente.

Fisiologia dei viventi, sì; ma con al centro di tutto l’uomo[1]. Infatti, nella prima parte della sua opera, Descartes non considera gli animali se non di sfuggita e in modo conformista: l’animale è quello della tradizione aristotelico-scolastica, con qualche facoltà psichica ma senza intelligenza.

quanto alla ragione o buon senso, essendo questa la sola cosa che ci fa uomini e ci distingue dalle bestie” (Descartes, R, Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche, Universale Laterza, 1978, p. 4)

Probabilmente a Descartes importava poco, degli animali, e non poteva essere collocato in modo netto su nessun versante della controversia naturalista e filosofica, tra teriofili e non-teriofili che si sviluppò  in Francia nella modernità [2] – cioè tra filosofi naturali e pensatori che sostengono che tra umano e animale non ci sia una grande distanza, in termini di fisiologia di capacità morali, di sensibilità e di intelligenza e, al contrario che ritengono gli animali inferiori all’umano secondo tutti questi aspetti.

La fisiologia dell’umano è, invece, al centro de L’Homme, che Descartes inizia nel 1630 e continua a scrivere per un decennio ma che non pubblica in vita [3].

Ne L’Homme, Cartesio sviluppa una fisiologia ponderosa, ampia, dettagliata, in parte sostenuta da osservazioni naturaliste, in parte congetturale o basata su teorie della tradizione, in cui il corpo, la res estensa, ha un ruolo molto ampio, acquista mano a mano sempre più potere, invade le aree della sensibilità, dell’adattamento, del pensiero e del giudizio.

Per Descartes, però, si delinea un rischio: perseguire la strada intrapresa con L’Homme, in cui le facoltà dell’adattamento all’ambiente, il pensiero e il giudizio sono funzioni del corpo, significa puntare verso il materialismo e il determinismo.

E, come se non bastasse, questo mette a repentaglio anche una serie di punti importanti del suo stesso pensiero e vitali per il contesto in cui vive e lavora il fisiologo Cartesio: la preminenza della ragione, la mente, la libertà di scelta e, addirittura, l’esistenza e immortalità dell’anima.

Come può fare, Descartes a salvare capra e cavoli, a mantenere, cioè, la fisiologia potente del corpo e, nello stesso tempo non mettere in crisi il potere della ragione, la scelta, l’anima immortale, e – in definitiva – il giudizio come parte della componente spirituale dell’umano, della sua mente?

Un modo valido per coniugare queste due esigenze sembra essere la separazione di corpo e mente, il dualismo. Cioè,  la divisione della fisiologia del vivente, con il corpo sede di funzioni della sensibilità, meccaniche, operative, di senso, e la mente che raccoglie, decodifica, decide e imposta valutazione, pensiero e azione.

Tuttavia, per non sminuire il lavoro fatto ne L’Homme, il “corpo-da-solo” deve poter essere autonomo, deve poter vivere senza pensiero, senza emozioni, senza anima, senza valutazione e giudizio.

Facile a dirsi ma difficile, però, a dimostrarsi; non sembrano esserci umani viventi che possono impersonare la mente senza corpo (certo, c’è l’anima immortale una volta separata dal corpo; ma questa è materia religiosa) né, tantomeno, un corpo ben funzionante senza la mente[4]

In soccorso di Descartes arrivano gli animali! Corpi e solo corpi, ottimamente funzionanti – in molti casi meglio degli umani: reattivi, efficaci e, nello stesso tempo, non senzienti, non pensanti, senza giudizio, senza scelta. Quindi, autonomi e automatici!

“molti animali, pur dimostrando maggiore abilità di noi in alcune loro azioni, non ne dimostrano affatto in molte altre: di modo che, quel ch'essi fanno meglio di noi, non prova affatto che abbiano ingegno, perché, se così fosse, ne avrebbero più di noi e anche nel resto farebbero meglio; ma prova piuttosto che non ne hanno punto, e ch'è la natura quella che opera in essi secondo la disposizione dei loro organi: a quel modo che un orologio, composto solo di ruote e di molle, conta le ore e misura il tempo più esattamente di noi con tutta la nostra intelligenza”. (Descartes, R, Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche, Universale Laterza, 1978, p. 42)

Questa degli animali automatici è una soluzione, tutto sommato, molto a buon mercato; perché gli animali non possono lamentarsi e perché c’è già una ampia letteratura anti-teriofila, tra scienze naturali e fisiologia, che non attribuisce funzioni “superiori” ai non umani.

E non è una soluzione qualunque perché, se da un punto di vista epistemologico, Descartes mette al sicuro la veracità della conoscenza con il lumen naturale, con il cogito e – alla fine – con la garanzia della rappresentazione garantita da Dio, dal punto di vista ontologico, l’animale-macchina “salva” l’autonomia delle due res, cogitans e estensa, l’anima immortale, tutta la fisiologia.

E, da allora, gli animali non umani sono sempre più macchine, bruti, senza sentimenti, senza patimenti, oggetti. Fruibili a fini filosofici e “buoni da usare” (non solo da mangiare).

 

 

NOTE

[1] Inteso come essere umano. Cartesio non avrebbe, però, mai detto ‘essere umano’, e certamente non pensava alla parità di genere.

[2] A partire da Montaigne fino a Rousseau; per approfondimenti, cfr. Boas, The Happy Beast in French Thought of the Seventeenth Century, John Hopkins Press, 1933 e Singer P., La nuova rivoluzione animale, Il saggiatore, 2024, pagg. 61 e segg.

[3] Cfr.: Corpus Descartes, Édition en ligne des œuvres et de la correspondance de Descartes, https://www.unicaen.fr/puc/sources/prodescartes/accueil.html

[4] I tentativi di considerare corpo senza mente diverse forme di disabilità mentali non sembrano dare risultati validi: l’osservazione e la fisiologia mettono sempre in luce scampoli di mente sensibile


Nello specchio dell’Intelligenza Artificiale - The Eye of the Master

Specchi

Con consueta indiscrezione Oscar Wilde rivela che Dorian Gray si è immunizzato dai sintomi dell’invecchiamento e del degrado morale della sua condotta, proiettandone i sintomi su un ritratto che custodisce in soffitta. Solo puntando lo sguardo sul dipinto è possibile scorgere la verità che l’aspetto del personaggio sta mascherando. Cosa vediamo quando fissiamo gli occhi sull’intelligenza artificiale, che in qualche modo abbiamo costruito come un ritratto tecnologico della nostra umanità? Le scienze cognitive e gran parte delle pubblicazioni divulgative affermano che i dispositivi informatici riflettono la forma della nostra mente, anche se ancora in modo parziale e talvolta alterato. Nei computer riverbera la verità dello spirito, anche se ancora solo per speculum et in aenigmate, un po’ come secondo Agostino di Ippona e Paolo di Tarso la nostra esperienza ci permette di scorgere il volto di Dio in uno specchio, non ancora faccia a faccia – con tutte le contraffazioni che ai tempi dell’impero romano le superfici riflettenti praticavano sulle immagini.

Ma è possibile che nell’intelligenza artificiale si mostri quello che il lavoro collettivo della storia della tecnologia vi ha introdotto in fase di progetto e di sviluppo, più che la struttura o le funzioni della mente nella loro presunta universalità e immutabilità. La tesi che Matteo Pasquinelli dimostra in The Eye of the Master rende omaggio all’evidenza che nei dispositivi informatici troviamo quello che ci abbiamo messo più che quello che siamo, in una prospettiva che ha il pregio di muoversi in direzione opposta all’opinione comune, e con una strategia di argomentazione tutt’altro che triviale. I passaggi focali della sua ricostruzione sono due.

Ragazze che contano

Il primo si colloca all’origine della storia dell’informatica, o comunque in uno dei momenti considerati come essenziali per la nascita della disciplina: qui Pasquinelli sfida il presagio di noia dei lettori esperti, soffermandosi sugli studi condotti nella prima metà dell’Ottocento dal matematico Charles Babbage per la realizzazione della «Macchina Differenziale» (ed esponendo me ora allo stesso rischio). Il dispositivo non è mai stato portato a compimento, e si distingue dai computer progettati e costruiti nel Novecento per il fatto che non prevede una distinzione tra hardware e software: la macchina, anche nella sua veste definitiva, sarebbe stata in grado di processare un solo programma – quello del calcolo delle tavole logaritmiche. Babbage ha anche elaborato i piani per una «Macchina Analitica», che avrebbe potuto eseguire una pluralità di compiti diversi, ricorrendo a schede meccaniche paragonabili a quelle utilizzate nei telai Jacquard per l’esecuzione dei ricami. In questo caso però la pianificazione non ha condotto nemmeno al prototipo con azionamento manuale, che invece è stato messo a punto per la Macchina Differenziale. 

Il primo progetto è stato sollecitato da esigenze commerciali e militari, ottenendo anche un finanziamento pubblico di 1.500 sterline: le tavole logaritmiche sono essenziali per il tracciamento delle rotte, e sono state quindi uno strumento fondamentale per la solidità dell’impero coloniale costruito dagli inglesi fino dal Settecento. Il procedimento seguito da Babbage, da cui discende la tecnica moderna della programmazione, si fonda sulla nozione di divisione del lavoro divulgata da Adam Smith cinquant’anni prima e approfondita in due direzioni. 

La prima è quella della riduzione delle operazioni di calcolo ai passaggi meccanici di cui sono composte. Turing ripete lo stesso esercizio più di un secolo dopo, quando in piena Seconda Guerra Mondiale elabora il modello matematico per decrittare i messaggi in codice della marina tedesca. Computer ai tempi di Babbage, e ancora ai tempi di Turing, non è il nome di una macchina, ma l’etichetta di una professione esercitata per lo più da ragazze, che eseguono lunghe sequenze di calcoli meccanici in cui sono stati segmentati algoritmi predisposti da ingegneri e da matematici, per la misurazione di rotte, di distribuzioni statistiche, ecc. La riduzione di questa varietà di competenze a singoli passaggi automatici permette di organizzarli in una macchina, che quindi non è un oggetto ma la cristallizzazione di una configurazione di relazioni sociali e della divisione del lavoro che la governa.

La seconda direzione proviene dagli studi di Babbage in ambito di management aziendale, e dalla sua conapevolezza che la divisione del lavoro permette di calcolare il costo di ogni fase della produzione, e di abbatterlo attraverso l’assegnazione dei compiti più semplici a personale non qualificato, o a macchine che lo rimpiazzino. Babbage non coincide con l’immagine di apostolo dalla purezza della curiosità scientifica che l’agiografia dipinge da sempre, né è stato una figura isolata nella sua austerità accademica – né la sua invenzione è neutrale da un punto di vista morale e politico. Il computer cristallizza la piramide di competenze e le prestazioni dei matematici, degli ingegneri, delle signorine calcolatrici, riflettendo le gerarchie sociali e le strutture etiche che ne governano la divisione del lavoro: la macchina non è moralmente meno compromessa del ritratto di Dorian Gray. 

Autonomia, parzialità e fallibilismo

L’ordinamento gerarchico piramidale della cultura industriale si rispecchia nella tecnica di programmazione inaugurata da Babbage, che implementa una struttura di comando verticale in cui l’ingegnere del software definisce tutte le fasi di elaborazione, e i processi le eseguono in modo automatico. La società contemporanea non può essere controllata nello stesso modo, a causa della complessità delle interazioni, e del livello di distribuzione e di autonomia degli agenti coinvolti. I freelance che lavorano con il coordinamento delle imprese della gig economy, come gli autisti di Uber o i rider di Glovo, i creatori di contenuti che pubblicano sui social media, i webmaster che producono le pagine digitali indicizzate da Google, gli attori e i prodotti del mercato finanziario globale, sono alcune espressioni della mereologia tra organicità e frammentazione locale del mondo contemporaneo. I soggetti che lo abitano dispongono sempre di una conoscenza parziale dell’ambiente in cui operano, e sviluppano una comprensione della realtà che è stimata per congettura, con rappresentazioni che devono essere aggiornate o rivoluzionate sulla base dell’esperienza. 

Pur senza approfondire il modo in cui funzionano le intelligenza artificiali costruite con reti neurali, è possibile osservare che, dai primi esperimenti del Perceptron di Frank Rosenblatt nel 1957 alle attuali AI generative trasformative, i principi essenziali rimangono due: ogni unità di calcolo, ogni «neurone», accede ad una quantità di informazione limitata, che può essere persino sbagliata; il software nella sua totalità dispone di una rappresentazione statistica complessiva del fenomeno processato, in cui si bilanciano gli output di ogni «cellula» di calcolo. La natura probabilistica del risultato deriva dall’autonomia delle singole unità di processamento, e dall’adeguamento per tentativi ed errori con cui la macchina interagisce con l’ambiente: se la risposta esterna è negativa, il sistema rimodella la propria configurazione per migliorare l’output. Il secondo passaggio strategico dell’argomentazione di Pasquinelli consiste nella ricostruzione del debito che lega il progetto di Rosenblatt a The Sensory Order (1952) di Friedrich von Hayek. In questo testo l’autore proietta le tesi economiche e sociali del neoliberalismo – di cui è uno dei padri fondatori, insieme a von Mises e a Schumpeter – sul dominio della psicologia connessionista: il modello di apprendimento fondato sui principi di collegamento in rete dei neuroni corrisponde all’autonomia degli individui economici come agenti dotati di conoscenza limitata del mercato, e del sistema sociale come equilibrio tra le rappresentazioni probabilistiche e congetturali dei soggetti. L’assunto di una conoscenza completa delle necessità e delle transazioni sociali non è reputato solo impossibile, ma condannato come moralmente deprecabile. Il ritratto insegna a Dorian Gray non solo cos’è diventato, ma anche che è giusto che sia così.

Pasquinelli riprende il metodo e l’orientamento della scuola del Max Planck Institute di Berlino, con la capacità di rendere perspicuo il radicamento dei paradigmi tecnologici e di quelli scientifici nelle condizioni politiche e sociali in cui hanno visto la luce. Sarebbe stato interessante un approfondimento del modo in cui l’intelligenza artificiale di ultima generazione sta riplasmando l’ambiente materiale in cui è attiva, e la società che la circonda. Se c’è qualcosa di vero nel fatto che nella tecnologia possiamo osservare anche ciò che siamo, oltre a quello che ci abbiamo messo, è perché noi stessi siamo rimodellati dagli artefatti che produciamo: nella tecnica ritrattiamo in continuazione ciò che l’essenza della nostra umanità è stata per i nostri predecessori: eroismo aristocratico, telescopio eidetico, anima immortale, monade rappresentativa, macchina a stati finiti, rete connettiva. E ora?


Scoperte giuste, spiegazioni sbagliate: il caso del telegrafo senza fili

Una visione ingenua della scienza, che questo blog cerca di mettere in discussione, è convinta che ci sia sempre coerenza tra scoperte e spiegazioni. In altri termini, quando si scopre qualcosa è perché c’è dietro una corretta individuazione delle cause.

Ma non sempre è così, e una scienza aperta dovrebbe essere tollerante con le scoperte che non hanno (ancora) spiegazioni e non emarginarle soltanto perché non sono in grado di fornirle in modo adeguato o convincente. O sono contrarie alle credenze consolidate in un settore scientifico. E’ il caso del telegrafo senza fili di Marconi.

Nel 1894 Guglielmo Marconi, studente di fisica a Bologna, andò dal suo docente Augusto Righi, famoso per lo studio delle radiazioni elettromagnetiche. Marconi annunciò: “Professore, con le onde elettromagnetiche che lei ha scoperto, faccio il telegrafo senza fili da qui all’America”. Righi rispose: “Ma che stupidaggini. Esca fuori di qui prima che io la prenda a calci!”. Poco dopo un giornale di Parigi intervistò, sullo stesso argomento, Henri Poincarè, il massimo fisico teorico dell’epoca. Egli rispose ironicamente: “Marconi lo sa che la terrà è tonda o pensa ancora che la terra sia piatta?”. 

Infatti le onde elettromagnetiche si propagano in linea retta. Per cui, se forse potevano superare una collina, certamente non la curvatura terrestre.

Incurante di questa impossibilità teorica, Marconi installò un’antenna in Cornovaglia (UK) e una a Terranova (Canada). Il 12 dicembre del 1901, fece l’esperimento e il segnale raggiunse Terranova. Come mai? 

Perché esiste la ionosfera (una fascia dell'atmosfera terrestre, composta da gas), che agisce come uno specchio. Per cui l’onda emessa dalla Cornovaglia andava effettivamente in linea retta (conformemente alla teoria di Righi), ma poi raggiunta la ionosfera veniva rimbalzata nuovamente verso la terra. Ma né Righi né Marconi erano a conoscenza dell’esistenza della ionosfera, che fu attestata solo nel 1924.

Ma allora come faceva Marconi a prevedere il fenomeno della diffrazione delle onde elettromagnetiche? Perché era… ignorante! Nel senso che lui credeva (erroneamente) che le onde elettromagnetiche si propagassero parallelamente alla superficie terrestre. Infatti Marconi la laurea in fisica non la prese mai. Prese solo… il Nobel per la fisica (nel 1909).

Per cui non sempre accade che chi sa le cose vede giusto e chi non le sa vede sbagliato.

 

NOTA

Da una conferenza https://www.youtube.com/watch?v=46iHx2ydTdw di Emilio del Giudice (1940-2014), grande fisico (emarginato) ed eccellente divulgatore. https://it.wikipedia.org/wiki/Emilio_Del_Giudice


Il “doppio click”, ovvero l’atteggiamento blasé nel turismo e nella scienza

«Si riscosse sentendosi quasi chiamato e interrogato dalle ultime parole di Settembrini, ma, come quando quest’ultimo aveva voluto costringerlo solennemente a decidersi fra “Oriente e Occidente”, atteggiò il viso all’espressione di chi pone riserve e non si vuole arrendere, e tacque. Spingevano tutto all’estremo, quei due, come è forse necessario quando si viene ai ferri corti, e litigavano accaniti per un’alternativa suprema, mentre a lui sembrava che nel mezzo, tra le esagerazioni contestate, tra il retorico umanesimo e la barbarie analfabeta, ci doveva pur essere quello che si potrebbe chiamare l’umano». (Mann T. (1924), La montagna incantata, Corbaccio, Milano, 2015, p. 500)

Fra i personaggi più straordinari della letteratura possiamo annoverare sicuramente Lodovico Settembrini e Leo Naphta, i due precettori di Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann.

In questo romanzo di formazione infatti, il giovane ingegnere tedesco è costantemente sollecitato sul profilo intellettuale da queste due figure che – con fenomenale, e a tratti assurda, coerenza – lo invitano a scegliere fra visioni del mondo radicalmente contrapposte: da un lato, il massone italiano lo esorta ad abbracciare i valori illuministici del progresso, il culto della ragione, l’universalismo cosmopolita, l’arte classica e il liberalismo; dall’altro, il gesuita est-europeo lo spinge verso il socialismo, la relatività esistenziale del sapere e la sintesi idealista del corpo e della mente, sulla falsariga delle dottrine radicali teocratiche del medioevo.

La ricostruzione degli elementi e dei valori culturali propri di questi due personaggi, e dei loro partiti idealtipici, è talmente precisa e dettagliata, così completa nella presentazione fattane dall’autore, da far nascere costantemente dubbi nel lettore a proposito delle proprie convinzioni personali, una volta che queste vengono adeguatamente ricondotte a quello che Fleck[1] chiamerebbe il loro “stile di pensiero” originario.

Non solo, ma lo portano anche a dissociarsi dall’integralismo con cui i due personaggi difendono le proprie posizioni, talmente esasperato da sfidarsi a duello per affermarle nei confronti del rispettivo avversario.

La genialità e l’attualità dell’opera di Mann, a 100 anni dalla pubblicazione del libro, sta nel fatto che Settembrini e Naphta sono personaggi di fantasia, assolutamente improbabili, pur essendo caratterizzati ciascuno come un insieme di elementi di dettaglio estremamente reali e storicamente ben definiti. Altro che il Signore degli Anelli!

Piuttosto, suggerisce l’autore, è secondo un’ambigua convivenza di “ragione” e “sentimento” che l’uomo moderno, l’ingegnere - e noi che ci impersoniamo in lui - verosimilmente costruisce il proprio percorso di vita: come un coacervo di idee eterogenee, e talvolta in conflitto.

Per esempio, un accostamento inusuale è quello che associa la formazione della cosmologia moderna – nel senso antropologico di insieme di codici che definiscono e regolano l’ordine sociale – alla nascita del turismo, avvenuta fra il XVIII e il XIX secolo.

Infatti, nelle scienze sociali e nel senso comune si tende, generalmente, a derubricare superficialmente l’argomento, come se fosse meno rilevante della razionalizzazione, dell’individualizzazione e di altri cambiamenti di natura politica ed economica avvenuti nello stesso periodo (del resto, abbiamo giusto un paio di settimane di ferie l’anno purtroppo).

Eppure, come mostra lo storico Alain Corbin, nel suo libro L’invenzione del mare (Corbin A. (1988), Le territoire du vide. L’Occident et le désir de rivage, 1750-1840, Flammarion, Paris), all’emergere della prassi del turismo deve essere assegnato un ruolo di primaria importanza, poiché essa istituisce ex abrupto il movimento di ricerca verso l’ignoto, e lo consolida come consuetudine sociale che poi va sempre più generalizzandosi nel corso del tempo.

Il mare, dice appunto provocatoriamente, è stato inventato nel periodo contemporaneo, poiché precedentemente non esisteva, come, ad esempio, secondo il Verbo, esso non è nemmeno previsto nel giardino dell’Eden.

La società “pre-moderna” (qualunque cosa voglia dire questo ambiguo concetto) è una società esclusivamente di pianura, che acquisisce il “desiderio di riva”, la volontà di esplorare i territoires du vide, come un fatto inedito, saldato alla pratica di distinzione sociale dei rampolli dei ceti emergenti di quel periodo che, un po’ come Darwin alle Galapagos, Malinowski nelle Trobriand o Booth negli slum della Londra vittoriana, tenevano dei diari a proposito delle loro “robinsonate”, le gite esplorative delle coste e delle isole ignote che visitavano nel tempo libero.

Quello turistico è quindi, per prendere in prestito un’espressione bourdieusiana, un principio di visione e divisione sociale, un modo di vedere e organizzare la società, un tipo di sguardo sulle cose, una maniera di arrangiarle da un punto di vista materiale, che certamente è concomitante all’industrializzazione, ai processi di democratizzazione e secolarizzazione.

All’affermarsi del turismo possono essere quindi ricondotte tutta una serie di biforcazioni di cui ancora oggi ci avvaliamo: come quella fra natura e cultura, che rispecchia la suddivisione dello spazio in luoghi antropizzati e incontaminati; come la ripartizione economicista fra l’utile (il lavoro) e l’inutile (lo svago); e come la suddivisione dei ruoli sociali in essenze che appartengono, da un lato, ad un tempo passato - quello della campagna, o delle terre esotiche[2], immobili e unicamente da conservare e visitare come reliquie (è sempre, maledettamente, vietato toccare!), e dall’altro ad un futuro appropriabile, ma già ipotecato, quello della città - che chiede di essere imitata, stabilendo la direzione, ma senza offrire reali speranze.

Ma soprattutto[3] al turismo deve essere associato il nuovo modo in cui determiniamo ciò che è vero e ciò che è falso: tutti sanno benissimo che, quando un qualcosa è “per turisti”, significa che è “inautentico, fasullo, o ingannevole”, e che solo i “veri viaggiatori” sanno distinguere e apprezzare ciò che invece è “autentico”.

Come dice Goffman, nel mondo moderno -  in cui la struttura della società supera in estensione e per differenziazione quella familiare e comunitaria, dove la verità rimane nettamente distinta dalla menzogna, come il giorno dalla notte - è attraverso un’ipertrofia di apparati di intermediazione, tutta una serie di dispositivi e costruzioni, che viene assemblato l’ordine sociale.

Nella società contemporanea, la verità è una messa in scena, che deve essere costantemente performata, ed è sempre esposta al rischio di fallire[4] .

Le verità di cui ci avvaliamo sono sempre artefatte, ma, ciononostante, questo ci suona come un paradosso.

Il palcoscenico dove avvengono le rappresentazioni, infatti, lo consideriamo come un piano sostanzialmente illusorio e sovrastrutturale rispetto al retroscena che nasconde (con buona pace dei cuochi che non possono più tirarsi le padelle, visto che ora tutte le cucine sono a vista). La mediazione implica quindi l’istituzione di due dimensioni, una front region e una back region, dove la prima sarebbe come un manto di apparenze che avvolge la vera essenza delle cose nascoste della seconda: «hai finito con le chiacchiere e i sofismi? Vai al sodo, lascia parlare i fatti!».

Come epitomato dal flâneur di Baudelaire, il turismo ha affermato un modo di esistenza che ci spinge ad assegnare un valore al disinteresse, ad apprezzare il mondo e a considerarlo tanto più veritiero quanto più è libero ed irresponsabile nei confronti di un sistema di media, come se questi non operassero altro che distorsioni: si dimentica così della sua massima più famosa, perché ciò che vediamo nelle immagini da cartolina è sempre la meta, e mai la strada per arrivarci.

Mentre solo l’accesso diretto, come quello che pare procurarci il “doppio click” del mouse, consentirebbe una vera esperienza delle cose; poco importa poi che una ricerca scientifica disponga di strumenti e finanziamenti e un'altra solo della buona volontà, la natura è lì in ogni caso!

Come sentenzia Latour, noi moderni siamo incapaci di pronunciare con una sola emissione di voce la frase “è costruito, perciò deve essere vero”[5] .

Tuttavia, dice Cézanne, «guarda la montagna, una volta era fuoco!», troppo concentrati dalla vetta, ci dimentichiamo infatti che la strada per arrivarci dipende dalla nostra formazione, e il sentiero che sapremo aprirci sarà molto diverso se siamo guide alpine attrezzate o escursionisti domenicali, ma non necessariamente uno sarà più vero dell’altro. Piuttosto, essi differiranno nel grado di realtà che saranno in grado di mobilitare e trasformare a proprio vantaggio.

Così, conclude ironicamente Latour: «L’etnologo trova sempre comica l’eterna lamentela inventata dalla critica: “poiché accediamo alle cose conosciute tramite un percorso, questo significa che queste cose sono inaccessibili e inconoscibili di per sé”. Vorrebbe rispondere: “ma di cosa ti lamenti, visto che comunque puoi accedere ad esse?” “Sì” – continuano a piagnucolare – “ma ciò significa che non le cogliamo ‘in sé stesse’, non vediamo come sarebbero ‘senza di noi’. “Bene, ma visto che vuoi approcciarle, se vuoi che siano come sono ‘senza di te’, perché non smettere semplicemente di provare a raggiungerle?” Ancora in modo più lagnoso; “perché così non avremmo alcuna speranza di conoscerle”. Sospira esasperato l’etnologo: “è come se vi congratulaste con voi stessi che c’è un percorso per il monte Aiguille, ma poi vi lamentaste che vi ha permesso di arrampicarvi fino in cima…” La critica si comporta sempre come i turisti blasé, che vorrebbero sempre raggiungere i territori più incontaminati senza difficoltà, e senza incappare in altri turisti». (Latour B. (2013), An Inquiry into Modes of Existence. An Anthropology of the Moderns, Harvard University Press, p. 85)

 

 

NOTE

[1] Cfr. Fleck L. (1935), Genesis and Development of a Scientific Fact, Foreword by T. S. Kuhn, The University of Chicago Press.

[2] Cfr.: Said E. W. (1978), Orientalism, Pantheon Books, New York

[3] MacCannell D. (1976), The Tourist: A New Theory of the Leisure Class, Schocken Books, New York.

[4] Oltre alla ripartizione fra il mondo della pianura e il clima dell’altitudine, per dirla con Mann -  come ha intuito Dean MacCannell, in uno dei più importanti saggi di antropologia del secolo scorso ; Cfr.: Goffman E. (1959), The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, Garden City

[5] Cfr. Latour B. (2013), An Inquiry into Modes of Existence. An Anthropology of the Moderns, Harvard University Press.


Le mani e la techne - Storia di un’origine mancata, da Platone a Latour

1. TECHNE E PREGIUDIZIO

Una delle eredità più durature di Platone è il sospetto nei confronti della techne. La necessità di separare il vero sapere dall’arte dei sofisti è il movente di questo pregiudizio: Protagora, Gorgia, Lisia, e i loro colleghi, inventano tecniche di persuasione di cui vendono la padronanza, o i prodotti, al miglior offerente, senza mostrare alcun interesse per la verità. La manipolazione persegue il vantaggio egoistico di chi la pratica, mentre il logos della filosofia (della scienza) è guidato dalla physis, segue la forma e le prescrizioni di ciò che rimane stabile nell’Essere. L’atteggiamento con cui si pretende di mostrare l’appartenenza all’aristocrazia del gusto e del senno attraverso il rifiuto dell’innovazione tecnologica, e tramite l’ostentazione di disorientamento tra le pratiche e i prodotti digitali, ancora oggi è un atto di accusa contro la corruzione sofistica della techne, e una proclamazione di fedeltà alla purezza dello spirito.

2. MANCANZA DI ESSENZA

Platone proponeva lo scavo interiore per partecipare alla natura inalterabile della verità: l’anamnesi riporta alla luce le idee, la cui eternità si rispecchia in quella dei cieli che insegnano al sapiente la via per la disciplina del sapere e del decidere. La metafisica ha fissato nell’opposizione tra physis e techne, o tra logos e doxa (ma questo significa anche tra trascendentale ed empirico, tra origine e decadenza) il criterio di separazione tra il filosofo e il sofista, anche quando la tesi dell’accesso ad una sfera di universali eterni ha perso la sua presa sulla comunità scientifica, e la moda ha imposto a tutti un atto di fede nell’empirismo. Come insegna Stiegler (1994), il dibattito seguito all’atto di nascita dell’antropologia moderna, con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau, avrebbe dovuto mettere in guardia da tempo sulla validità di questa disgiunzione, introducendo almeno un nuovo genere di sospetto, che colpisce l’autonomia della natura da un lato, la strumentalità reificante della techne dall’altro lato, e la loro opposizione reciproca.

L’uomo delle origini viene descritto da Rousseau come quello moderno: ha mani e piedi e cammina eretto. Leroi-Gourhan (1964-65) dimostra con la paleontologia che la deambulazione bipede permette la liberazione della mano per la costruzione di utensili e strumenti. E l’affrancamento della mano per la tecnica stabilisce un nuovo rapporto tra la mano, il volto e la parola. Quindi Rousseau immagina un uomo delle origini che ha già le caratteristiche di quello tecnicizzato; ma nel suo errore (molto istruttivo) lo descrive come un quasi-animale che non pensa e non si sposta, usa le mani per afferrare e non per produrre, cogliendo tutto ciò che la natura gli offre in modo spontaneo. Nell’origine il tempo (lo spazio, il mondo) non esiste, proprio perché l’uomo non frequenta alcun presagio cosciente della morte, e in generale nessuna forma di programma: non ha desideri né preoccupazioni, ma solo bisogni soddisfatti immediatamente da ciò che è a portata di mano. Il pensiero e il lavoro non vengono alla luce se non per placare passioni e paura – che a loro volta irrompono nella vita dell’uomo solo se la previsione ha aperto un mondo dove gli strumenti materializzati dalla tecnica sono programmati per proteggere dall’incombenza della morte. 

L’istinto è costrittivo per gli animali: il gatto non mangia i tuberi o la frutta, in assenza di carne, e l’oca non mangia la carne in assenza di tuberi. L’uomo invece è libero di imitare il comportamento di qualunque animale, aprendosi la via alla soddisfazione del bisogno con la carne o con i tuberi, secondo la disponibilità. La libertà è una potenzialità dell’origine che annienta l’origine stessa nel momento in cui passa all’atto, perché la ragione che la realizza innesca quel mondo di tecnica e passioni che allontanano dall’immobilità e indifferenza originari. La libertà è la seconda origine dell’uomo, o la sua assenza di origine, la scomparsa o la mancanza di un’essenza. Le conclusioni speculative di Rousseau finiscono comunque per coincidere con quelle della paleontologia di Leroi-Gourhan.

Le passioni di Nietzsche, le pulsioni di Freud, la ragione di Hegel, la società di Hobbes, il lavoro di Marx non possono aspirare a descrivere la condizione essenziale dell’uomo, la sua origine, che invece è sempre già annullata nel momento stesso in cui l’ominazione viene messa in moto da progettazione e tecnica, e che procede con la storia del loro sviluppo: l’interiorità è un ripiegamento del programma di gesti con cui le mani fabbricano utensili, dello schema della loro applicazione per gli usi futuri, del piano per la loro disponibilità contro gli agguati della morte. Ma questa stessa filogenesi precipita nell’oblio (persa di vista da Rousseau e persino da Heidegger), dimenticata nell’eccesso di prossimità degli oggetti tecnici, resa invisibile nella disponibilità con cui i dispositivi sono sempre sottomano, cancellata nell’esperienza che in ogni epoca essi pongono in essere. Eppure, affinché intellettuali, politici e artisti possano ostentare il loro distacco dall’innovazione digitale e dalle tendenze delle comunità virtuali, affinché la spiritualità che effonde dal loro intimo possa segnalare a tutti la loro nobiltà d’animo, è necessaria tutta la storia delle tecniche, dalle tradizioni della coltivazione di tuberi e alberi da frutta, fino all’impaginazione di libri e riviste con InDesign e alla programmazione delle ALI che sviluppano testi e immagini pubblicati sui giornali internazionali. No techne, no party.

3. DISASTRI E SFERE

Sloterdijk (1998 e 1999) ricostruisce il processo con cui Copernico ha scoperchiato la Terra lasciandola esposta al freddo del cosmo, senza più l’involucro delle stelle fisse, e l’impegno con cui gli uomini hanno progettato sfere che tornassero ad avvolgerla e a riscaldarla. Eliminare la stabilità degli astri equivale a rimuovere l’architettura stessa della physis, il primo grande schema di design del mondo, che Platone ha posto come senso dell’universo, e come sistema di orientamento del saggio e della comunità: un vero e proprio disastro, cui è stato necessario rimediare attraverso la pianificazione di nuovi globi che hanno a più riprese protetto e dissolto i territori dei regni dell’Occidente, fino alla globalizzazione del mondo contemporaneo. 

L’uomo non esce mai in una natura spontanea che si dispiega in un «fuori» dalle sfere in cui agiscono le tecniche di immunità e comunità programmate dalla tecnica. Nell’universo di Platone le stelle fisse sono attori della strategia politica che salda la società ateniese, almeno quanto lo è l’istituto degli arconti o quello della bulè: a loro è assegnata la regìa ideologica della forma di vita nella città e l’ontologia dell’uomo greco. Latour (1984) mostra come i miasmi siano attori della struttura civile che compie la trasformazione sei-settecentesca dello Stato dalla configurazione feudale a quella burocratica moderna: la nascita degli uffici di igiene pubblica, l’educazione della famiglia e la cura dei figli, la nuova morale borghese, la ristrutturazione urbanistica delle grandi città, la modellazione della rete dei servizi fognari e idraulici, sono le mosse della costruzione di più sfere immunitarie contro la diffusione di peste e colera, e il contesto di formazione delle metropoli della rivoluzione industriale e del primo capitalismo. La vittoria del movimento di Pasteur coincide con l’introduzione di un nuovo attore sociale, il microbo, che in parte prende il posto dei miasmi, ma che di fatto sviluppa un nuovo mondo di istituzioni mediche e di welfare, quella che conduce all’antropologia occidentale moderna e postmoderna, dove alla cura dell’individuo si sostituisce il presidio di un’intera tassonomia di agenti patogeni. 

Il contributo sui Comunelli di Ferriere su Controversie mostra come un bosco non sia il «fuori» del villaggio, ma sia l’attore che ne consolida la comunità, arrestando il suo processo di disgregazione; quello su Gagliano Aterno evidenzia come la sfera di appartenenza alla comunità sia inscritta nella ripresa della tradizione della coltivazione dei tuberi e nell’innovazione della posa dei pannelli solari. Tuberi e alberi da frutto possono incrociare il programma genetico di alcune specie di animali, ed essere obbligati ad una simbiosi da cui non possono svincolarsi; per gli uomini il programma è tecnico, non è costrittivo ma deliberato, e come ogni gramma si iscrive negli attori coinvolti e viene regolato da una grammatica. Latour (2005) la tratteggia sul modello della grammatica attanziale di Greimas (1966), mostrando che ogni forma di vita si istanzia in una rete di relazioni tra ruoli registrati in attanti (malati, contadini, miasmi, batteri, canali fognari, tuberi – a pari diritto umani o non umani), il cui grado di integrazione nella sintassi del programma misura il livello di tenuta o di dissoluzione della società in cui esso si esprime. La struttura di rapporti da cui è disegnata la rete manifesta un significato, come le isotopie narrative di Greimas, che può essere tradotto nel programma di comportamento di altri sistemi: a loro volta, questi possono essere intercettati e arruolati – l’interazione dei turisti con la foresta di Ferriere si traduce nell’inserimento in una sfera di appartenenza territoriale, il contatto tra la nuova urbanistica del Settecento e la privatizzazione dei terreni agricoli (Enclosure Act 1773) alimenta la prima rivoluzione capitalistica, l’incontro tra il movimento della «pastorizzazione» e l’espansionismo coloniale apre la globalizzazione moderna.

Ora che il cielo non è più la cupola delle stelle fisse e delle scorribande degli dèi iperurani con le loro bighe, ma una sfera della quale ci dobbiamo prendere cura rammendando i buchi nella maglia di ozono – l’Actor Network Theory di Latour invita ad abbandonare la ricerca della verità in una psyché che, comunque interpretata, continua a macinare la metafisica delle idee di Platone: chiede di imparare a osservare un mondo dove l’uomo non esce mai in spazi non pianificati, ma progetta ambienti e tempi che sono sottoposti a revisioni continue. Rivendica la necessità di rendere questa attività di design finalmente consapevole e condivisa.

 

BIBLIOGRAFIA

Greimas, Algirdas Julien, Sémantique structurale: recherche de méthode, Larousse, Paris 1966.

Latour, Bruno, Les Microbes. Guerre et paix, suivi de Irréductions, Métailié, «Pandore», Paris 1984.

Latour, Bruno, Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, Oxford 2005.

Leroi-Gourhan, André, Le Geste et la Parole, Albin Michel,Parigi 1964-65.

Sloterdijk, Peter, Sphären I – Blasen, Mikrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998.

Sloterdijk, Peter, Sphären II – Globen, Makrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999.

Stiegler, Bernard, La Technique et le temps, volume 1: La Faute d’Épiméthée, Galilée, Paris 1994.