Si discute da decenni di omeopatia (dal greco omeios, simile e pathos, malattia). Un approccio alla cura, basato sulla legge dei simili, che prevede l’utilizzo di un rimedio (omeopatico) che produce nella persona sana gli stessi effetti (sintomi) della malattia che si vuole curare. Pertanto, il rimedio è simile alla malattia nella manifestazione dei sintomi che produce, ma di specie od origine diversa, cioè non è derivato o composto dello stesso agente che causa la malattia.
È certamente un’idea contro-intuitiva; e quindi non facile da accettare.
Ma anche il principio su cui sono nate le vaccinazioni era fortemente contro-intuitivo: inoculare un agente patogeno in un corpo, al fine di prevenire la malattia causata dallo stesso agente patogeno, all’inizio era considerata un’assurdità. Di solito se voglio non ammalarmi, cerco di stare a distanza dall’agente patogeno; non certamente lo introduco intenzionalmente nel mio corpo. Eppure sappiamo che con le vaccinazioni si fa proprio questo.

Le origini

Il medico tedesco Samuel C.F. Hahnemann (1755 – 1843) arrivò alla definizione di questo metodo di cura attraverso l’intuizione, la sperimentazione (dapprima della corteccia di China, da cui si estrae il chinino con cui si curava la malaria, e poi di altri rimedi su sé stesso, i suoi familiari e i suoi allievi, e raccogliendo una grande quantità di esempi clinici) e l’osservazione dei meccanismi della biologia, analizzando ciò che accade quando nello stesso soggetto si incontrano due malattie che hanno sintomi completamente diversi (malattie dissimili), oppure malattie con sintomi comuni (malattie simili).

Per evitare gli effetti collaterali delle medicine o rimedi omeopatici, Hahnemann ridusse sempre di più il loro dosaggio, arrivando così a dosi estremamente basse. Di fronte all’obiezione che dosi così piccole non potevano più essere efficaci, egli ribatté che l’efficacia curativa delle sostanze poteva essere enormemente aumentata tramite un processo chiamato “dinamizzazione”, consistente nello scuotere (succussione) ripetutamente il prodotto.

Esistono oggi numerosi studi fisico-chimici che spiegano il meccanismo d’azione di tali diluizioni. Il problema rimane la riproducibilità di tali esperimenti, data l’instabilità di queste diluizioni (si veda Associazione Lycopodium 2019, Introduzione all’omeopatia).

Ai giorni nostri

Nel 1988 venne per la prima volta avanzata l’ipotesi della memoria elettromagnetica dell’acqua da parte dell’immunologo francese Jacques Benveniste (1935-2004). Quella che allora sembrava un’eresia, oggi è documentata da diversi gruppi di ricerca:

«In pratica, l’acqua ha un comportamento dinamico e le molecole sono in grado di formare dei reticoli assimilabili a un filo conduttore. Quando l’acqua viene posta in un campo magnetico le molecole si mettono ad oscillare all’unisono in modo coerente, o come si dice, in fase. La frequenza di oscillazione può essere trasmessa ai liquidi biologici» (Associazione Lycopodium 2019, Introduzione all’omeopatia).

In altre parole, l’acqua si comporta non come un materiale inerte e passivo, bensì dinamico nella trasmissione di una informazione energetica. Ogni stimolo fisico-chimico, e quindi anche la sostanza del rimedio, ha una certa frequenza di oscillazione che viene trasmessa all’acqua della soluzione, la quale continua a vibrare con la stessa frequenza anche quando la sostanza non è più presente.

«Il processo di agitazione del liquido (succussione) avrebbe proprio il compito di ‘riattivare la memoria dell’acqua’ ad ogni passaggio di diluizione, cioè ‘rienergizzarla’ con la stessa frequenza corrispondente alla sostanza iniziale. L’acqua fungerebbe così da messaggero, trasferendo poi la frequenza di oscillazione, ovvero l’informazione, ai tessuti e ai liquidi biologici dell’organismo che l’assume.

Sono state fatte altre ipotesi sul meccanismo di trasferimento dell’informazione da parte dell’acqua (tramite degli aggregati di molecole particolari, cavi al centro, che incorporerebbero così la molecola di soluto, i cosiddetti cluster) e la possibilità di una verifica sperimentale non sembra più così lontana.

La ricerca di base in Omeopatia ha ormai permesso di ritenere che il rimedio omeopatico sia dotato di una specificità nei confronti di sistemi ‘recettoriali’ dell’organismo. Il segnale veicolato dalla soluzione viene riconosciuto specificamente dall’organismo bersaglio ed elaborato in modo da indurre un’azione positiva su tutto il sistema. Si tratterebbe comunque di un’attività biologica in presenza di tracce di molecole, tanto che è stato coniato il termine di biologia metamolecolare, e l’informazione veicolata differisce da quella conosciuta dalla biologia e dalla farmacologia classiche» (Associazione Lycopodium 2019,Introduzione all’omeopatia).

Sappiamo che queste affermazioni sono ritenute prive di fondamento e di solide basi sperimentali da parte di molta medicina, biologia e farmacologia (più aperti sembrano invece i fisici teorici). Le diluizioni vengono considerate “acqua fresca” e gli effetti benefici dell’omeopatia come un “effetto placebo” dell’empatia, ascolto, attenzione, cura che il/la medico omeopata mette nella relazione con il/la paziente.

Una difficile mediazione

Come se ne esce? È possibile trovare una mediazione? Sì e no.

Sì,

nel senso che una mediazione è da tempo già praticata, anche in diverse strutture pubbliche del Sistema Sanitario Nazionale (ad esempio la Regione Toscana, sin dal 1996), dove la “medicina integrativa” o TCIM (Traditional, Complementary and Integrative Medicine) mostra tutta la sua utilità ed efficacia.

La TCIM, per come l’ha definita l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità),

“è la dimora di numerose concezioni e sistemi medici, come la medicina tradizionale cinese, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la medicina antroposofica e le medicine tradizionali locali. La caratteristica della TCIM è quella di integrare le cure convenzionali, farmacologiche e non, con altri approcci basati sull’esperienza artistica, sul movimento, sulle cure infermieristiche, sul colloquio biografico. Metodi diversi che si appellano all’attivazione del paziente e che risvegliano risorse latenti di guarigione molto differenti fra loro. Inoltre, la TCIM si propone strategie di ricerca che tengano conto della salute globale, per esempio sviluppando approcci di cura rivolti alle malattie croniche o a contribuire ad affrontare problemi collettivi come quello della resistenza antimicrobica (Kienle et al. 2019; Baars et al. 2019). Questi sistemi medici sono orientati primariamente alla qualità della vita, ma non si limitano ad essa; inoltre, si rivolgono non solo al paziente, ma anche ai curanti, per la prevenzione del burnout (Ben Arye et al. 2021).

No,

perché quello a cui assistiamo è uno scontro tra paradigmi, nel senso di Kuhn (1962, La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche).

Ogni paradigma ha i suoi assunti (taciti e/o espliciti), le sue premesse epistemologiche, le sue convenzioni metodologiche relative a quali siano i metodi adatti e cosa rappresenti un prova o un’evidenza.

Approssimando non poco, perché sia all’interno della medicina allopatica che in quella omeopatica esistono molte differenze, sfumature e sensibilità, attualmente nella medicina allopatica è dominante l’approccio basato sull’evidenza (EBM), che al di là dell’altisonante uso del termine ‘evidenza’, con esso intende «l’uso di stime matematiche del rischio di benefici e danni, derivate da ricerche di alta qualità su campioni di popolazione, per informare il processo decisionale clinico nelle fasi di indagine diagnostica o la gestione di singoli pazienti» (Greenhalgh 2010, How To Read a Paper: The Basics of Evidence-Based Medicine, p. 1). In altre parole, le evidenze sono risultanze statistiche derivate da studi a doppio cieco su campioni di popolazione. Conosciamo però (oltre ai pregi, anche) tutti i limiti di questo metodo. Pensiamo soltanto che non pochi farmaci sono stati ritirati dal mercato (ad es. dietilstilbestrolo, talidomìde, vioxx) dopo aver passato rigorosissimi (almeno si spera) studi statistici a doppio cieco.

Come mai? Le ragioni sono tante (e servirebbe un post apposito per elencarle). Una per tutte è che ognuno di noi è fatto in modo diverso; siamo portatori di una biologia individuale o personalizzata (Lock, 1995; Lock & Nguyen, 2010; Merz, 2021). Per cui l’interazione tra una biologia individuale e un farmaco standardizzato produce un numero enorme di possibili esiti; ancor di più, quando l’interazione è tra due individualità, come ad esempio un individuo e un cibo, oppure una malattia.

Al contrario l’omeopatia è una practice-based medicine, cioè si basa sullo studio e l’osservazione di un paziente considerato nella sua individualità anziché rappresentatività. Su quello che accade concretamente a lui o lei, e solo a lui o lei. Sulla sua interazione con l’agente patogeno e la malattia, che è un’interazione del tutto particolare, specifica, personale. Su studi clinici (pochi casi) anziché statistici (molti casi).

Due diversi (e incomunicabili) concetti di empiria

Ci troviamo di fronte a due empirie diverse e (forse) incomunicabili. La prima (quella statistica), per cui i casi singoli non contano nulla. L’altra (quella clinica) per cui contano solo i casi individuali.

Ed è su questi differenti concetti di cosa sia ‘empirico’ che si è (anche) giocato lo scontro sulle terapie anti-Covid: da una parte molti medici di base (peraltro pienamente appartenenti alla medicina convenzionale, che nulla o poco avevano a che fare con l’omeopatia) che proponevano terapie precoci anti-covid basate su farmaci convenzionali (come ketoprofene, ibuprofene a basse dosi, morniflumato, aspirina, nimesulide, corticosteroidi, eparine, idrossiclorochina, Azitromicina, Paxlovid, Remdesivir, ecc.); dall’altra gli ospedalieri e la gran parte dei ricercatori/scienziati che sostenevano che bisognava aspettare gli esiti degli studi standardizzati prima proporre una terapia, perché non credevano alle esperienze empiriche (limitate nel numero di casi) dei medici di base. E così, in attesa di un bel studio a doppio cieco, le persone morivano senza assistenza… La cecità del doppio cieco, potremmo dire.

Spesso chi critica l’omeopatia sostiene che i suoi asserti non hanno superato i requisiti di riproducibilità di un esperimento, che insieme alla verificabilità di una ipotesi di lavoro, rappresentano i due pilastri fondamentali della ricerca scientifica. Chi ragiona in questo modo, però, dimentica che l’esperimento è solo una fra i (tanti) metodi scientifici che le scienze dispongono per validare le scoperte e le conoscenze. Anche perché l’esperimento (oltre agli innumerevoli pregi) è un metodo con molti limiti, capace di controllare soltanto un numero molto esiguo di variabili, che per funzionare deve necessariamente ridurre la complessità dell’interazione tra un individuo e il mondo circostante. In questo sta la straordinaria potenza dell’esperimento, ma al contempo la sua povertà intellettuale e culturale. L’esperimento non è capace di padroneggiare la complessità. Ha bisogno di ridurre…

Un’altra accusa, complementare alla precedente, che si muove all’omeopatia è che non è in grado di mostrare e replicare i meccanismi chimici su cui si basano le sue ipotesi. Oppure che affida le spiegazioni sul funzionamento molecolare dei rimedi omeopatici a future “magnifiche sorti e progressive” della fisica quantistica; mentre le spiegazioni noi le vorremmo ora, e non domani. In altri termini, si vedono gli effetti di un trattamento omeopatico, ma non si evidenziano chiaramente le cause, i meccanismi. Accusa speculare a quella che, invece, gli omeopati rivolgono ai farmaci convenzionali: intervengono sugli effetti e non sulle cause (innescando, a volte, anche reazioni avverse).

Anche in questo caso, l’impossibilità di comunicare e comprendersi è alta. Eppure pretendere di capire tutto e subito (di un farmaco, di un trattamento, di una teoria) è segno di scarsa apertura al possibile, all’inconoscibile, all’ignoto, al mistero…

L’aspirina

L’ASPIRIN è acido acetilsalicilico, della famiglia dei salicilati. Erodoto (V sec a.C.) nelle Storie narra di un popolo stranamente più resistente di altri alle comuni malattie, che era solito mangiare le foglie di salice. Ippocrate (V sec a.C.) descrisse una polvere amara estratta dalla corteccia del salice che era utile per alleviare mal di testa, febbre, dolori muscolari, reumatismi e brividi. Un rimedio simile è citato anche dai Sumeri, dagli antichi Egizi e dagli Assiri. Anche i nativi americani lo conoscevano e lo usavano.

Nell’era moderna è stato il reverendo Edward Stone, nel 1757, a scoprire gli effetti benefici della corteccia di salice. Sei anni dopo scrisse una famosa lettera alla Royal Society in cui giustificava in modo razionale l’utilizzo della sostanza contro le febbri.

La sostanza attiva dell’estratto di corteccia del salice bianco (Salix alba), chiamato salicina, fu isolata in cristalli nel 1828 da Johann A. Buchner e in seguito da Henri Leroux, un farmacista francese, e da Raffaele Piria, un chimico calabrese emigrato a Parigi, che diede al composto il nome attuale (acide salicylique).
Nel 1860 Hermann Kolbe e i suoi studenti dell’Università di Marburgo riuscirono a sintetizzare l’acido salicilico, immettendolo poi sul mercato nel 1874 a un prezzo dieci volte inferiore all’acido estratto dalla salicina, e già nel 1876 un gruppo di scienziati tedeschi, tra cui Franz Stricker e Ludwig Riess, pubblicarono su The Lancet gli esiti delle loro terapie basate sulla somministrazione di sei grammi di salicilati al giorno.

Il meccanismo di azione dell’aspirina fu conosciuto in dettaglio solamente nel 1970, dopo millenni di suo uso e 150 anni dal suo isolamento chimico.

Perché escludere che potrebbe accadere lo stesso anche per i preparati omeopatici?

In conclusione: l’omeopatia è una scienza?

Qualche tempo fa, Ioannidis (2005), medico ed epidemiologo greco e statunitense, uno dei più importanti scienziati nel suo campo, pubblicò un articolo dal titolo destabilizzante: Why most published research findings are false. Dieci anni più tardi, l’11 aprile 2015, Richard Horton (dal 1995 capo-redattore de The Lancet, forse la rivista medica più importante del settore) pubblicò una sorta di editoriale dal titolo “What is medicine’s 5 sigma?“, in cui afferma senza mezzi termini:

gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, potrebbe semplicemente essere falsa (untrue). Afflitta da studi con campioni di piccole dimensioni, effetti risibili, analisi esplorative non valide e evidenti conflitti di interesse, insieme a un’ossessione nel perseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza ha preso una svolta verso il buio. Come ha detto uno degli addetti ai lavori “metodi scadenti ottengono risultati”.

Se adottiamo una visione realistica (lontana da una versione idealista o normativo/prescrittiva della scienza, purtroppo propria di molta filosofia della scienza) dobbiamo accettare che le situazioni descritte da Ioannidis e Horton sono… scienza. Che ci piaccia o no.

E se queste pratiche (incerte, dubbie, difettose) sono a tutti gli effetti attività scientifiche, perché non accogliere e considerare anche l’omeopatia una scienza?

Chi lo vieta? Soltanto un’ottusità di sapore neopositivista…

 


Bibliografia

Baars EW, Zoen EB, Breitkreuz T, Martin D, Matthes H, von Schoen-Angerer T, Soldner G, Vagedes J, van Wietmarschen H, Patijn O, Willcox M, von Flotow P, Teut M, von Ammon K, Thangavelu M, Wolf U, Hummelsberger J, Nicolai T, Hartemann P, Szőke H, McIntyre M, van der Werf ET, Huber R. (2019) The Contribution of Complementary and Alternative Medicine to Reduce Antibiotic Use: A Narrative Review of Health Concepts, Prevention, and Treatment Strategies. Evid Based Complement Alternat Med. Feb 3: 5365608.

Ben-Arye E, Zohar S, Keshet Y, Gressel O, Samuels N, Eden A, Vagedes J, Kassem S. (2021), Sensing the lightness: a narrative analysis of an integrative medicine program for healthcare providers in the COVID-19 department. Support Care Cancer, Sept. 15:1–8.

Gobo, G, Campo E. e Portalupi E. (2023), A Systemic Approach to Health and Disease: The Interaction of Individuals, Medicines, Cultures and Environment”, in Medicine: A Science in the Middle, Alessandro Pingitore and Alfonso Maurizio Iacono (eds.), Berlin: Springer, pp. 39-53.

Kienle GS, Ben-Arye E, Berger B, Cuadrado Nahum C, Falkenberg T, Kapócs G, Kiene H, Martin D, Wolf U, Szöke H. (2019), Contributing to Global Health: Development of a Consensus-Based Whole Systems Research Strategy for Anthroposophic Medicine. Evid Based Complement Alternat Med. Nov 12: 3706143.

Lock M. (1995). Encounters with aging: Mythologies of menopause in Japan and North America, Berkeley (California): University of California Press.

Lock M., & Nguyen V-K. (2010). An anthropology of biomedicine, Hoboken (New Jersey): Wiley-Blackwell.

Merz S. (2021). Global trials, local bodies: Negotiating difference and sameness in Indian for-profit clinical trials. Science, Technology, & Human Values, 46(4), 882-905.

Autore

  • Giampietro Gobo

    Professore ordinario di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Per molti anni si è occupato di epistemologia e metodologia della ricerca sociale. Attualmente si dedica allo studio dei “sensi sociali” e di controversie scientifiche nel campo della salute. Per le sue pubblicazioni: https://scholar.google.com/citations?user=SRLrkG8AAAAJ&hl=it