Quando Caravaggio dipinge Amor vincit omnia, non dipinge un semplice trionfo dell’amore. Dipinge un paradosso. Quel giovane Cupido, nudo e sorridente, che domina il mondo dalle sue ali scure, mette in scena l’ambiguità originaria del desiderio. Attorno ai suoi piedi giacciono strumenti di cultura — il liuto, la spada, il globo, gli strumenti geometrici — come se l’amore avesse trionfato su tutto ciò che l’umanità costruisce per dominare, comprendere, misurare. Ma quel sorriso ha qualcosa di perturbante: non è il sorriso dell’amore che illumina, ma quello dell’amore che conquista.
Già Platone, nel Simposio, distingueva l’amore come mancanza — eros come tensione verso ciò che non si possiede — e come desiderio che spinge a colmare un vuoto. Ma quando il desiderio diventa volontà di possesso, ciò che nasce come aspirazione si trasforma in dominio. Caravaggio sembra ricordarci che l’amore è sempre anche una forza oscura: conquista ciò che vuole, e per farlo deve vincere — e ogni vittoria implica un vinto.
Da qui il passaggio è breve: dall’amore come possesso alla guerra come massima espressione della volontà di possedere. La guerra, diceva Hobbes, nasce dalla diffidenza, dal bisogno di garantire la propria sopravvivenza e affermare il proprio potere. Ma è anche, in fondo, una forma estrema di relazione: due volontà che vogliono affermarsi, due desideri che entrano in collisione. La guerra, allora, è il lato tossico dell’amore: quando il desiderio di relazione diventa desiderio di controllo.
Ma se esiste un amore tossico che invade, esiste anche un amore semplice, che libera. La pace non è solo assenza di conflitto: è presenza di libertà. Spinoza ci ricorda che la libertà non è fare ciò che si vuole, ma comprendere ciò che si è: è il movimento quieto dell’essere che non ha bisogno di conquistare. La pace, in questo senso, è un atto d’amore che non pretende, non occupa, non costringe. È il riconoscimento dell’altro come altro.
Fin qui siamo nel campo della filosofia, dove i concetti si sostanziano come idee. Ma la fisica moderna ci chiede di andare oltre. La meccanica quantistica — con gli intrecci, l’entanglement, l’impossibilità di separare completamente un sistema dal suo osservatore — ci dice che nulla esiste in modo isolato.
Due particelle possono influenzarsi anche a enormi distanze, come se condividessero un’unica storia. Esse sono relazione, prima ancora di essere oggetti. Niels Bohr lo definiva “complementarità”: non si può dire cos’è un ente senza dire con che cosa è in relazione.
Se portiamo questa intuizione dentro il campo umano, scopriamo un paradosso: la libertà non può essere compresa senza la costrizione; la pace non può essere pensata senza il conflitto; l’amore non può esistere senza la possibilità della sua degenerazione. La guerra diventa allora l’espressione irrazionale di un’umanità che non ha ancora imparato a gestire le proprie relazioni; la scienza, con la sua razionalità, non può esserne responsabile — perché la guerra è figlia dell’istinto e della fragilità, non dell’equazione. La guerra, soprattutto l’armageddon nucleare, diviene allora minaccia per incutere paura, diviene arma di controllo. Sono gli uomini che, accecati dal desiderio di controllo, trasformano la conoscenza in minaccia, la paura in arma.
Qui tocchiamo un nodo antico quanto le religioni: il timor Dei.
Gli dei dell’Olimpo punivano, Zeus scagliava fulmini, Atena guidava gli eserciti. Il Dio cristiano, pur predicando l’amore, mantiene come suo strumento il timore — non come terrore, forse, ma come reverenza che disciplina, che regola. Il timore divino diventa un’energia che ordina il mondo: un’ombra che insegna all’uomo i limiti.
Ma cosa succede quando l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di quel Dio, imita quel potere?
Non crea mondi. Crea bombe.
L’umanità trasfigura il timor Dei nella bomba atomica: prende la paura e la rende materia, la condensa in codici di lancio.
Quella che era una dimensione teologica diventa una geometria di distruzione. La scienza fornisce gli strumenti, ma non lo scopo: la responsabilità non è dello scienziato che calcola, ma dell’essere umano che sceglie. La paura — antica alleata degli dei — si fa tecnologia. E la tecnologia, come ricordava Günther Anders, supera la nostra capacità di immaginarne le conseguenze.
Ma se vogliamo comprendere davvero la sconfitta che si annida nella guerra, dobbiamo tornare all’arte. E guardare La caduta di Lucifero di Alexandre Cabanel. Lucifero non è raffigurato come un demone, ma come un essere di straordinaria bellezza: il più luminoso degli angeli, precipitato nell’abisso. Il suo corpo è perfetto, il suo volto giovane, il suo sguardo colmo di una disperazione eloquente. Su quel viso scende una lacrima.
Quella lacrima è la testimonianza che anche per Dio la guerra è una sconfitta. La punizione del suo prediletto — del portatore di luce — è una vittoria che costa troppo, come tutte le vittorie della forza.
È l’amore che fallisce nel tentativo di imporre se stesso.
È la libertà che viene amputata per salvare l’ordine.
In quella lacrima c’è qualcosa che ci riguarda profondamente: c’è la possibilità dell’errore, c’è la nostalgia di ciò che è perduto, c’è la consapevolezza che ogni atto di violenza, anche quando appare necessario, porta con sé la negazione di ciò che vorremmo essere.
Ed è lì, in quell’unica goccia di luce che scivola sul volto dell’angelo caduto, che si nasconde — paradossalmente — la salvezza dell’umanità.
Perché mentre la bomba atomica è la caricatura sbiadita del timor Dei, un’imitazione malriuscita del potere divino, la vera forza non è nella distruzione, ma nella capacità di plasmare il pensiero, di orientare il desiderio, di trasformare la relazione.
Il controllo vero non sta nella minaccia ma nel significato. Non nella paura ma nella consapevolezza.
Non nell’atomica ma nella capacità di immaginare mondi in cui la conquista si trasforma in cura, e la forza in responsabilità.
E allora, forse, Caravaggio, i fisici, i teologi e Cabanel ci dicono la stessa cosa: che l’amore vince davvero solo quando accetta il rischio della relazione; che la libertà esiste solo se esiste la possibilità della sua perdita; che la pace non si costruisce eliminando la guerra, ma comprendendone la radice umana; e che la nostra umanità — fragile, luminosa, piena di contraddizioni — vive tutta, intera, dentro quella lacrima di Lucifero.
Una lacrima che non annuncia la fine, ma la possibilità di ricominciare.
Di essere migliori.
Di scegliere, finalmente, un amore che non trionfa: che libera.
Autore
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Laureato in Informatica, esperto di comunicazione e manager. Appassionato di arte e filosofia, è stato presidente del Cantiere Cultura per 10 anni, attraverso il quale ha collaborato con grandi istituzioni pubbliche e private (Cassa di Risparmio di Firenze, Accademia delle belle Arti di Firenze, Galleria degli Uffizi). Presidente del Rotary Club nell’anno 2021-2022 durante il quale ha organizzato una raccolta fondi per supportare le donne tigrine ed eritree vittime di violenza nella guerra. Con Cantiere Cultura ha organizzato eventi di approfondimento sulla guerra in Palestina e sull’immigrazione. A volte dice sciocchezze, ma sempre con la scusa di attivare controversie.
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