Con questo terzo post1 andremo a completare la ricostruzione del pensiero di Platone che riguarda la conoscenza finalizzata alla pratica. Nel primo abbiamo visto come egli descrive la facoltà della Memoria e il ruolo che questa svolge nella conservazione del sapere dall’essere umano; nel secondo post abbiamo visto che cosa è definibile come “arte tecnica” (techne) e perciò che cosa sia un sapere pratico strutturato e disciplinato.
Qui ci occuperemo di comprendere meglio quelle forme del sapere pratico che come il sapere tecnico sono il frutto dell’esperienza e guardano all’utilità, ma che, diversamente da questo, non si strutturano in una disciplina e rimangono perciò un “saper fare” di possesso individuale, “al portatore”.
In conclusione verranno proposte al nostro lettore alcune riflessioni e domande che possono essergli di spunto per avviare una propria lettura di questo tema nel mondo attuale.

Le «empeiria kai tribé»2

Nei suoi dialoghi Platone ci avverte che vi sono “tecniche propriamente dette” e altre pratiche che, anche se da molti son chiamate “tecniche”, non lo sono affatto, poiché prive di un rigore disciplinare, ossia di teoria, metodo, pratica e/o finalità produttive precisabili.
Il termine utilizzato per indicare questi saperi pratici ma non tecnici è quello di empeiria kai tribé, ossia quei tipi di esperienza empirica (empeiria) che, grazie all’esercizio (tribé) pratico, vengono raffinati fino ad assicurare al loro esecutore l’ottenimento di un effetto. La loro efficacia o meno viene esperita di volta in volta da chi le pratica, che, attraverso la formulazione di congetture necessarie all’occorrenza, si doterà man mano dell’esperienza bastevole a produrre l’effetto desiderato.

Le empeiria kai tribé sono quelle forme del “saper fare”, possedute da chi viene detto “bravo a fare” qualcosa e che appare agli occhi dei non esperti un “tecnico”, anche se privo di una vera competenza nel campo in cui “fa”, ma ritenuto tale in virtù della sua sola capacità, abitudine e disinvoltura “nel fare”, che ha acquisito autonomamente (senza essere stato adeguatamente formato) esercitandosi nel tempo per “tentativi ed errori”.

Questa è la condizione di possesso della forma di conoscenza empirica più semplice, ossia quella della sola memorizzazione di meccaniche dell’azione in vista della produzione di un effetto.

Platone dedica una riflessione apposita3 a queste forme del sapere perché, per questa loro natura di grado conoscitivo insufficiente perché siano strutturabili in una forma disciplinare, rimangono un semplice “saper fare” frutto dell’esperienza individuale e nulla di più.

Per usare un esempio non platonico, il portatore della sola empeiria kai tribé somiglia al famoso “cugino” che “è bravo a fare”, i cui risultati non sono evidentemente il frutto di una conoscenza tecnica, anche se talvolta (si spera) equipollenti sul piano del prodotto finale. Egli “è pratico”, ma non è “un esperto” o un cosiddetto “professionista”.

Per comprendere meglio questa differenza tra arte tecnica ed “esperienza frutto dell’esercizio”, prenderemo ora in esame tre esempi che ci ha fornito lo stesso Platone nei suoi dialoghi.

Il flautista del Filebo

La “arte” del flautista «armonizza gli accordi non secondo misura, ma secondo congetture dedotte dalla pratica e da tutta la musica» e che «ricerca la misura della vibrazione di ciascuna corda andando per tentativi» (56 a).

Questo flautista a cui si riferisce acquisisce la propria esperienza in chiave dilettantistica. Egli prima prende tra le mani il flauto per capirne la struttura, poi, come ha visto fare ad altri, soffia nell’imboccatura e prova a emettere un suono. Procede sviluppando una sua successione di movimenti che corregge finché corrispondono a una serie di suoni tonali e ripete così l’esercizio fino a memorizzarli. Egli compone la sequenza di gesti – e non di note, visto che non le conosce, né le sa definire – imitando le melodie che ha già udito dai musicisti, forse scegliendo tra quelle che ritiene essere gradevoli in quanto ha udito essere maggiormente apprezzate tra le persone. Quando finalmente il flautista uscirà dal suo privato per esibirsi di fronte a un pubblico, ne guarderà e valuterà la risposta per capire se la propria esecuzione “funziona”, ossia viene da esso accolta favorevolmente.
Ripete poi tutte queste cose dette fino a quando non giungerà a formulare una propria esecuzione (di gesti e soffi!) che avrà come effetto l’approvazione della maggior parte degli ascoltatori che incontra e che, per questo motivo, di esso diranno essere “un bravo flautista”.

Il musicista, diversamente da questo flautista, è invece un vero “teknos”, ossia un esperto, perciò un tecnico professionista dell’esecuzione e della composizione musicale. Questo poiché ha intrapreso un percorso di studi specializzandosi nel tempo sotto la guida dei maestri di musica, perciò dei tecnici esperti che insegnano quest’arte, imparando a conoscere cosa sia la materia sonora nei suoi elementi e la tecnica necessaria a produrre armonie musicali. Inoltre, il musicista ha appreso l’arte attraverso tutti gli strumenti musicali, anche quelli più difficili da suonare e da governare rispetto al flauto.

Platone ci dice che il musicista si differenzia poi a sua volta dal musico, il quale ha invece conoscenza scientifica (episteme) della musica, in quanto si occupa non di produrre le armonie sonore, bensì di conoscere il loro rapporto armonico numerico (Platone,Phil. 17 c – d, cfr. Phaedr. 268 e). Ai tempi di Platone la Musica è infatti, oltre che l’arte della composizione di suoni come è oggi intesa, anche una seconda disciplina che studia le armonie numeriche secondo il rigore dell’aritmetica e del logismos,4 in questo caso nel campo di studio dei matematici.5

In conclusione, il procedere per tentativi senza il supporto di una conoscenza tecnica, fa sì che il flautista del Filebo sia un mero esecutore di gesti e non invece di note musicali, le quali saranno solo una conseguenza del suo soffio nello strumento e del movimento delle sue dita su fori dello stesso, che egli ha imparato corrispondere all’erogazione dei suoni desiderati. Compie tutto ciò pur non sapendo né dare un nome a ciò che fa né una spiegazione tecnica o matematica delle note di cui fa uso.

Il cuoco e il medico del Gorgia

Il medico è colui che si occupa del corpo pensando al bene che deve procurargli, mentre il cuoco ha come scopo quello di procurare al corpo un piacere fine a sé stesso.6

Se l’esempio del flautista pone l’accento sullo scarso rigore e la totale assenza di conoscenza specialistica nel campo di azione in cui egli opera, nell’esempio del cuoco e del medico emerge la problematica del grado di conoscenza che chi opera possiede dell’oggetto su cui agisce.

Entrambi, medico e cuoco, mirano a produrre un effetto sul medesimo oggetto, ossia il corpo, ma ciò che manca nella teoria e nella pratica del secondo è la conoscenza di questo oggetto per ciò che esso è, interessandosi ad esso solo come oggetto che patisce.
Il cuoco ha di mira il procurare la “sensazione di benessere”, il medico quella di ripristinarne il benessere inteso come “salute”.7 Il medico può infatti trovarsi a dover operare in seguito al danno prodotto dagli eccessi del cibo, però, nel suo caso, con una conoscenza rigorosa e “scientifica” del corpo, dunque in coerenza con e nel rispetto dell’oggetto su cui agisce.

La retorica del sofista nel Gorgia

Il buon politico ha di mira la produzione di un effetto tecnico, precisamente quello amministrativo, e utilizza la retorica come strumento per indirizzare i propri cittadini verso il bene derivante dal rispetto per le leggi della città. L’effetto ricercato dal sofista attraverso la retorica è sempre quello di indirizzare il pensiero e le passioni del cittadino, ma non verso un punto preciso. Piuttosto egli ricerca l’accrescimento della propria fama grazie al suo “saper parlare bene”, nel senso del “saper fare” leva sul pensiero del suo uditorio attraverso il discorso parlato, spesso superficiale e privo di contenuti, dunque mirato alla sola produzione di un effetto fine a sé stesso: la persuasione (peithó)8 attraverso l’espediente dell’adulazione (kholekheia) (Gorg. 463 a – b).

Inoltre, se il filosofo si occupa di indagare scientificamente gli oggetti della conoscenza e utilizza la retorica per coinvolgere il proprio interlocutore a partecipare nella costruzione di un pensiero comune, il sofista spesso non conosce ciò di cui parla benché ne parli e guarda all’uditorio solo per monitorare gli effetti che producono le proprie parole.

Il sofista “sa parlare bene” e lo fa perseguendo scopi e fini estranei ai temi di cui parla. Ricerca il favore del pubblico modificando man mano i propri discorsi sulla base degli effetti che le parole hanno su di esso.

Più in generale, leggendo il Gorgia, il Protagora e il Sofista, emerge che il sofista non è un teknos, non essendo in possesso né di un’arte né di contenuti specialistici. Egli possiede le sole strategie discorsive personali che gli sono utili per produrre l’effetto desiderato sul proprio pubblico.

Egli “è bravo a” incantare l’uditorio e vincere con le parole. Solo in questo appare possedere una tecnica.

Alcuni spunti di riflessione guardando al mondo contemporaneo

Ora che abbiamo preso confidenza con il tema delle forme di sapere pratico ma non tecnico, proporrò due campi di riflessione su cui concentrare la nostra analisi: 1) le empeiria kai tribé di oggi e 2) il ruolo odierno della retorica.

1) Sulle forme attuali di empeiria kai tribé abbiamo in parte già suggerito alcuni spunti riflessivi nel post sulla tecnica in Platone, dove proponevo al nostro lettore di considerare le dinamiche di ritorno alle pratiche analogiche contro il diffondersi di quelle digitali e di pensare al ruolo che svolge il fiorente mercato dell’accesso rapido alle conoscenze pratiche, ad esempio i “workshop”, nella formazione di nuove forme del “saper fare”. Ripensiamo ora a questi aspetti nella chiave del flautista del Filebo, ossia a quali siano le forme di conoscenza e competenza possibili per una stessa pratica e quali i percorsi che portano invece a formare i veri saperi tecnici e teorici o il semplice “saper fare”.

2) Il “saper parlare” è sicuramente una dote o una capacità che suscita fascinazione nel prossimo. Questo fenomeno non è cambiato dai tempi di Platone ad oggi e accompagnerà il genere umano probabilmente lungo la sua intera esistenza. Questo è un motivo che mi induce a pensare che sia necessario soffermarsi qualche riga in più su questo tema.

Già ai tempi di Platone, e dunque non solo di recente, la retorica era vista come una pratica ambigua e potenzialmente problematica nel campo comunicativo per la sua capacità alterante e distorsiva. Essa può mutare la direzione che prendono i discorsi in base ai contesti e alle caratteristiche dell’uditorio, divenendo, grazie alla sua forza plasmatrice, un potenziale mezzo di manipolazione degli stati d’animo.

Se il suo utilizzo è di per sé neutro, potremmo invece ricercare le cause del suo risvolto “negativo” o “dannoso” nelle competenze e nelle intenzioni di chi la utilizza.

Benché anche per essa sia possibile astrarre delle “regole”, la retorica rimane forse ancora oggi un solo strumento più che una tecnica. La sua possibilità di utilizzo per fini poco costruttivi potrebbe derivare anche dalle caratteristiche che ne individua Platone: essa è acquisibile attraverso l’emulazione dei discorsi fatti dagli altri (impostazione dei toni, utilizzo di frasi “fatte” o “ad effetto”, riproposizione di contro-argomentazioni e fallacie logiche versatili per ogni “avversario”, etc.) e rafforzabile con l’esercizio autonomo. Tant’è vero che non deve la sua efficacia alla propria applicazione di per sé, mentre è efficace per le doti di chi ne fa uso.

Sempre seguendo Platone, domandiamoci poi se potrebbe essere anche che i suoi risvolti problematici derivino dalla sua intrinseca possibilità di essere acquisita senza il possesso da parte del suo utilizzatore di particolari conoscenze o competenze, o anche dal fatto che la sua efficacia sia completamente svincolata dall’applicazione di regole e dall’esistenza di reali contenuti interni al discorso che dirige.

Nell’epoca in cui visse Platone, quella della grande esperienza democratica della città di Atene, il sofista è stato il massimo rappresentante di questa problematica incontrollabilità degli scopi, dei fini e degli effetti della retorica, tanto che l’appellativo e i termini che da esso abbiamo derivato hanno preso oggi una valenza negativa. Pensiamo a quando si aggettiva qualcosa o qualcuno col termine “sofisticato”, o si parla di “sofismi” e “sofisticazioni”: tutti questi termini si riferiscono a forme di modificazione, alterazione e complicazione inutili e/o potenzialmente dannose.

Cosa potremmo fare qualora volessimo sottrarci a diventare noi stessi un facile bersaglio di persuasione delle parole più che dei contenuti di un discorso?

Conclusioni

Oggi, questo problema dell’efficacia della retorica di stampo sofistico e del diffondersi di forme di approccio dilettantistico (verbale e fattuale) alle pratiche che richiederebbero la preparazione di un esperto (il tecnico, lo scienziato e, Platone direbbe, anche il filosofo), sembrerebbe essere correlato con l’instaurarsi di ritmi sempre più frenetici a cui l’esperienza deve adeguarsi a farsi spazio. Per spiegarmi meglio, il rispettivo decremento del tempo che l’individuo può dedicare all’approfondimento delle proprie conoscenze potrebbe andare a discapito di un percorso continuativo che gli permetterebbe di passare dall’essere un semplice uditorio fino a quello di studioso esperto, passando per i campi applicativi del “saper fare” e della “conoscenza pratica tecnica”, per culminare infine nel possesso reale di un bagaglio di conoscenze.

Il “tutto e subito” sembrerebbe essere preferito al “più lento” percorso di studi e di ricerca dedicato.

Pensiamo a come questa “preferibilità” possa essere corrisposta e nutrita dalle nuove forme e proposte di veicolazione rapida del sapere, e a come queste ci possano potenzialmente portare ad essere sempre più spettatori e utilizzatori improvvisati di strumenti tecnici che reali conoscitori.
In proposito è interessante riflettere su tutti quei formati digitali (facilmente accessibili e ri-producibili) che sono impostati perché l’utente possa potenzialmente assorbirne il contenuto in modalità passiva (facilmente fruibili), rapida e concentrata, quali sono le cosiddette “App” dedicate, i podcast, i documentari, gli short video (reel, shorts, etc.), le video-serie e i tutorial sulle piattaforme di streaming più popolari, gli ormai consolidati videocorsi e così via.
La richiesta di poter apprendere rapidamente è tale per cui i servizi di distribuzione di questi contenuti mettono a disposizione anche le funzioni di riproduzione velocizzata a 1.5x, 2x, 4x.

Ciò che possiamo chiederci è in che modo permangano ancora oggi i livelli della conoscenza e i rispettivi “ranghi” dei loro possessori (l’umanista, lo scienziato, il tecnico, il “bravo a fare”, lo spettatore) identificati da Platone. Quanto i soli “aver udito qualcosa”, “saper fare” e “saper parlare” avanzano tra le preferenze degli individui a discapito del formarsi di una teoria e una pratica proprie di una “conoscenza autentica”?

E ancora, la diffusione delle empeiria kai tribé a discapito delle forme della conoscenza approfondita è dovuta anche alla appetibilità del proprio “raggiungere comunque un risultato”?  Di possesso di una conoscenza “quanto basta”, bastevole a farci produrre immediatamente un effetto che ci permetta anche di poter dire di noi “saper fare” qualcosa?

 


NOTE

1 I precedenti due post sono 1) “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale – A confronto con il pensiero di Platone“ e 2) “La conoscenza tecnica – Meditazioni a partire dal pensiero di Platone”.

2 «empeiria kai (tini) tribé» è una definizione che compare esplicitamente sia nel Gorgia (463 b) che nel Filebo (55 e). Il tema compare anche nel Fedro (270 b).

3 I passi di riferimento Phil. 55 e – 56 a, Gorg. 500 e – 501 a, sviluppano e affrontano parallelamente, ma con una sorprendente coincidenza, la differenza tra techne ed empeiria.

4 Disciplina matematica che si occupa dello studio dei rapporti numerici. In senso matematico “Logos” significa “rapporto”, “relazione” o “proporzione”.

5 La “Musica” così intesa è una disciplina teorica e scientifica in senso forte, che rientra, assieme all’aritmetica, alla geometria piana, alla stereometria (geometria delle figure solide) e all’astronomia, nella lista delle discipline matematiche fatta da Socrate e Glaucone nella Repubblica (533 c – d).

6 Parafrasi dei passi in Gorg. 465 d – e, 500 e – 501 a.

7 Il medico non corrisponde esattamente a ciò che intendiamo oggi con questa professione, piuttosto egli è una sorta di filosofo dell’oggetto anima-corpo, che ne studia gli effetti (le malattie) per comprenderne le cause. Chi si occupa invece delle pratiche per il mantenimento della salute è il maestro di ginnastica, che ha come obiettivo non quello del ripristino ma quello del mantenimento della salute.

8 Nel Gorgia 453 a, si arriverà ad affermare che la retorica non è di per sé un’arte tecnica e che il fine della retorica è la sua stessa essenza: la persuasione di un pubblico.

Autore

  • Fabio Talloru

    Dottore magistrale in Scienze Filosofiche, è un artista multidisciplinare, musicista e sound designer. La sua indagine sulla Tecnica e sulla Tecnologia prende i passi dalla Filosofia di Platone e dalle Filosofie Presocratiche, con l’utilizzo di prospettive socio e antropologiche. Tra Milano, Sardegna, Dolomiti, porta avanti la sua ricerca mettendola in pratica attraverso la realizzazione dei propri lavori artistici. https://fabiotalloru.com/