“La conoscenza (…) comincia con la tensione tra sapere e ignoranza: non c’è problema senza sapere – non c’è problema senza ignoranza. Poiché ogni problema nasce (…), dalla scoperta di un’apparente contraddizione fra quello che riteniamo nostro sapere e quelli che riteniamo fatti”.

Con queste parole si conclude il mio secondo saggio, Cannibalismo, questioni di genere e serialità (2023) edito dalla casa editrice Tab edizioni di Roma nell’aprile dello scorso anno. Non mi sarei mai aspettato che un tema così pregno di timore, tanto da essere annoverato come uno dei più grandi tabù, potesse suscitare tanto interesse… Eppure, è successo! Questo saggio ha vinto una menzione di merito dalla giuria del concorso nazionale Caffè delle arti; è stato collocato al terzo posto tra i migliori saggi sul tema da Notizie scientifiche; è stato attenzionato da testate giornalistiche e culturali di respiro nazionale, etc.

Ricordo, però, che appena mi misi all’opera, molti tra docenti e amici mi chiedevano “che gusto ci trovi a studiare questo tema?”. La mia risposta era, ed è, molto semplice: mi piace tutto ciò che è poco attenzionato, ciò che è di nicchia, perché è in queste intercapedini del sapere che si ha la possibilità di portare alla luce qualcosa di nuovo, o semplicemente qualcosa di cui si conosce molto poco… Ed è proprio il caso del cannibalismo, che per quanto sia stato studiato dall’antropologia, dalla criminologia e dalla stessa psicoanalisi, e vedremo brevemente in che modo, da parte della sociologia, invece, non vi è stato molto interesse.

Gli argomenti trattati in questa opera sono tanti: dall’analisi transdisciplinare del cannibalismo l’antropologia, la sociologia, la criminologia e la psicoanalisi; allo studio di 5 casi di soggetti cannibali Leonarda Cianciulli, Andrei Chikatilo, i coniugi Baksheev, Jeffrey Dahmer, Armin Meiwes, nonché alcune divinità antropofaghe come Śiva, per poi giungere ad una ipotesi  secondo la quale i tratti comuni tra il modus operandi dei serial killer studiati e i culti cannibali vi sarebbe, in soggetti di questo tipo e non solo, un istinto atavico di tipo sociopsicologico e śivaista.

Da notare il fatto che negli ultimi anni il tema del cannibalismo è tornato in auge grazie sul grande e il piccolo schermo, pensiamo alla pellicola cinematografica Bones and Hall, adattamento cinematografico di Luca Guadagnino dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis; la serie tv Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story e molto recentemente La Società della Neve il cui soggetto principale è il caso del disastro aereo sulle Ande in cui vennero praticati atti di cannibalismo per sopravvivenza.

Ma innanzitutto cosa si intende per cannibalismo?

In generale potremmo definirlo come l’atto con il quale un individuo si ciba di un altro suo simile, cioè appartenente alla sua stessa specie. Si tratta di un comportamento presente in molte specie animali, comprese le scimmie, ma anche nella storia del genere umano sia da un punto di vista evolutivo che simbolico. Questo aspetto, infatti, lo considero il grande paradosso del cannibalismo perché da un lato, anche solo menzionarlo stimola sensazioni e reazioni di assoluto ribrezzo e intolleranza, dall’altro però le prove storico-archeologiche sono inconfutabili: il cannibalismo ha accompagnato l’evoluzione della specie umana.

A questo proposito, da un punto di vista antropologico, il cannibalismo sembrerebbe che sia apparso più di 70.000 anni fa. La tendenza cannibalistica dei Neanderthal è stata identificata principalmente grazie all’analisi di teschi su cui erano presenti delle manipolazioni. Famoso è il teschio del Circeo in cui sono stati individuati segni di pratiche rituali funerarie di tipo cannibalistico. Anche sui teschi di Homo pekinensis, risalenti al Pleistocene medio (circa 350.000-450.000 anni) sono state trovate delle fessure e tagli; la prova più evidente del fatto che i nostri antenati fossero dediti al cannibalismo sarebbe il cosiddetto foramen magnum, cioè il foro presente sull’osso occipitale allargato manualmente per estrarre e mangiare il cervello.

Ma il cannibalismo, noto anche come antropofagia, ha caratterizzato anche epoche successive: è stato considerato come uno degli atti tipici della stregoneria, l’accusa con la quale condannare eretici, ma anche uno strumento terapeutico, definito tecnicamente come cannibalismo medico o terapeutico Si tratta di una forma peculiare di cannibalismo dove cuore, midollo e sangue umani venivano ritenuti veri e propri presidi terapeutici, e quindi molto usati nelle pratiche medico-sanitarie. Questa forma di cannibalismo era già nota agli antichi romani i quali erano convinti che l’epilessia si potesse curare succhiando il sangue dalle ferite dei gladiatori. Tale usanza venne mantenuta fino al XVIII secolo. In particolare, si prescriveva l’assunzione di carne umana, generalmente proveniente da morti per decapitazione o impiccagione, per il trattamento dell’epilessia. In Gran Bretagna, addirittura, nacquero i cosiddetti mummy shop, ovvero farmacie che vendevano carne umana mummificata. E sullo scopo terapeutico del cannibalismo, nel suo ultimo saggio Siamo tutti cannibali, uno degli antropologi più autorevoli, Lévi-Strauss, ha sostenuto che il cannibalismo non solo sia presente quotidianamente ma che gran parte delle tecniche terapeutiche che altro non sono che la forma più evoluta del cannibalismo: il trapianto di organi, le trasfusioni, l’impiego di ormoni ipofisari, innesti cutanei o di altre parti del corpo provenienti da cadaveri, ecc. L’obiettivo di Lévi-Strauss, a differenza di altri suoi colleghi, è quello di esorcizzare il concetto di cannibalismo, sottolineando come sia necessario considerare questo fenomeno come “normale” e non come fattore di discrimine fra società selvagge e società civilizzate. Altri suoi colleghi, invece, hanno considerato il cannibalismo o come la manifestazione più evidente della differenza tra i popoli civilizzati e meno civilizzati, o ancora come un mero mito con quale etichettare popoli considerati inferiori.

Nel caso della psicoanalisi, invece, il cannibalismo assume altri significati. Freud lo definisce come la manifestazione più evidente dell’aggressività repressa, che si manifesta, appunto, mediante l’attacco orale, che sarebbe alla base della storia umana e della sua evoluzione, ma al tempo stesso considera l’antropofagia come l’espressione dell’impulso con il quale si intende introiettare l’altro per appropriarsene. Parte di questi atteggiamenti si rilevano nel bambino, durante la fase orale o cannibalica dello sviluppo psichico. L’uomo, ricorda Freud, sin dalla nascita si attacca al seno materno e finché non svilupperà i denti, si limiterà alla suzione, che è comunque fonte di appagamento sessuale per l’infante.

Secondo la criminologia, invece, il cannibalismo rientra nelle cosiddette parafilie ossia condizioni in cui si sviluppano interessi sessuali atipici. In questo ambito il cannibalismo, è correlato ad atti commessi da serial killer, ossia individui, che nella maggior parte dei casi, commettono almeno 3 omicidi, spinti da istinti sessuali deviati.

Da un punto di vista sociologico il cannibalismo ha avuto scarsa attenzione, questo perché la stessa sociologia dell’alimentazione ha avuto un suo riconoscimento formale solo di recente. Uno dei pochi tentativi di analisi sociologica dell’antropofagia è stato proposto da Georges Guille-Escuret e nella sua trilogia Sociologie comparée du cannibalisme, in cui il cannibalismo viene analizzato come un evento sociale endogeno alla società. Il concetto di cannibalismo, da questo punto di vista, ricorda quello di l’incorporazione della cultura, cioè l’introiezione di ciò che proviene dalla società dentro ciascuno di noi. Ma mangiare in generale è un “fatto sociale”, per dirla in termini durkheimiani, rappresenta, cioè, il massimo grado di espressione del volere collettivo e dell’esigenza di relazionalità. Così la rilevanza sociale dell’alimentazione e del suo ruolo relazionale lo si ritrovano già nel termine compagno, dal latino companio, composto da cŭm, con e pānis, pane; letteralmente, quindi, compagno significa “chi mangia il pane con l’altro”. Mangiare diventa essenziale per stare in relazione, ecco perché la nutrizione viene considerata in sociologia come uno dei mediatori più importanti, nonché a fattore di incremento e di strutturazione del capitale sociale, cioè dell’insieme più ampio di relazioni di cui ciascuno gode. Ma il cannibalismo ha anche altri significati sociologici: quelli riconducibili al rito, per esempio pensiamo al processo di transustanziazione e al precetto cristiano di cibarsi del corpo e sangue di Cristo; è all’interno di molti miti, leggende, fiabe, si pensi a: Pollicino, Hänsel e Gretel, il conte Ugolino, ecc.

Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per il mio lavoro, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, di cui vi parlerò dettagliatamente nella seconda parte di questo post.

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