Controcanto - Mario Tobino e la controversia con Basaglia
«I novatori social-psichiatrici».
(Per le antiche scale, 1982, Arnoldo Mondadori Editore)
Così, con questo linguaggio sorpassato e con evidente fastidio, Mario Tobino – psichiatra e scrittore che esercita nei manicomi dal 1939 al 1980 - chiama gli psichiatri che sostengono le proposte di Franco Basaglia e di Psichiatria Democratica.
Tobino rappresenta – di fatto - il controcanto alla rivoluzione basagliana e della Legge n. 180, controcanto che cerchiamo di far emergere analizzando la controversia con Franco Basaglia, che, nel 1978, si sviluppa sui quotidiani La Nazione e Paese Sera.
Alla fine del testo si trovano una Nota Biografica, una Bibliografia e le Note, che permettono di leggere le esatte parole usate da Tobino e da Basaglia.
LA CONTROVERSIA
Tra i due psichiatri, a pochi giorni dalla approvazione della Legge 180, si svolge una discussione pubblica, molto dura, dipanata sulla stampa in tre articoli: Lasciateli in pace, il manicomio è la loro casa, scritto da Tobino e pubblicato il 18 aprile su La Nazione; una intervista di Paese sera a Basaglia, Magliano, le false donne (4 maggio 1978); Dolorosa follia, ho udito la tua voce, di nuovo su La Nazione, 7 maggio.
(Ringraziamo la Fondazione Mario Tobino che ha messo a disposizione - dai propri archivi - le immagini dei tre articoli linkate sopra).
LASCIATELI IN PACE
Lasciateli in pace nasce dai dubbi sulla legge 180 e sulla presumibile difficoltà nel metterla in atto, preoccupazioni condivise con alcuni medici e paramedici di Maggiano. Il contenuto rilevante è nella seconda parte dell’articolo, nel dialogo tra lo psichiatra e l’infermiere Scipioni, in cui si enunciano i principi della carità continua e dell’assistenza amorevole, senza sosta, verso i malati e verso le loro esigenze. Scipioni si fa rappresentante dei timori sulla abolizione degli ospedali psichiatrici, decretata dalla legge in procinto di essere approvata.
La preoccupazione di Scipioni – e di Tobino, che sembra parlare attraverso l’infermiere – è per il destino dei tanti malati. Soprattutto quelli anziani e soli, che hanno vissuto per anni nel manicomio di Lucca e che – una volta dimessi per decreto – non avrebbero un posto dove andare. Per loro non ci sarebbe nessuna famiglia ad accoglierli, sarebbero lasciati all’abbandono e allo scherno, se non alla violenza, del mondo “libero”.
In sostanza, Tobino difende l’istituzione manicomiale come luogo di cura e di protezione per i malati di mente; una casa, per loro che una casa “fuori” non avrebbero più. È l’appello di un medico che ha vissuto tra i matti e per i matti, che adotta un criterio morale con al primo posto la dignità e l’individualità complessa di ogni singolo malato.
UNA RISPOSTA POLITICA
La risposta di Basaglia su Paese sera è durissima, quasi violenta, su un registro completamente diverso da quello di Tobino: egli accusa Tobino di ostacolare il progresso della psichiatria, di puntare sulla dimensione emotiva[1], di essere lui stesso demagogico e sprezzante quando definisce la nuova linea della psichiatria demagogia e moda.
In questa intervista, Basaglia attacca violentemente la psichiatria tradizionale e manicomiale, che ritiene essere al servizio del potere per controllare le persone emarginate, e accusa Tobino di essere al servizio del potere[2] con il suo articolo.
Il suo discorso è di carattere politico: Franco Basaglia sostiene[3] che carità continua e aspetto umano non abbiano alcun significato e che Tobino non affronti il discorso politico che sta dietro al tema della chiusura dei manicomi; egli oppone - alla dignità dell’individuo di cui parla Tobino – la dimensione antropologica molto più ampia, teoretica, della dignità dell’uomo[4]; nega la possibilità di dialogare con le posizioni altre, perché lo ritiene inutile e impossibile[5], nell’ottica di distruggere il potere.
A conclusione dell’intervista, denigra l’avversario per minarne l’autorevolezza, attaccando il romanzo Le libere donne di Magliano[6] che, a suo avviso, contiene solo falsità[7].
L’ULTIMO ATTO, TOBINO RISPONDE SULLO STESSO PIANO
Mario Tobino non può esimersi dal controbattere alle accuse di Basaglia e lo fa 3 giorni dopo, sul quotidiano toscano La Nazione, con l’articolo intitolato Dolorosa follia, ho udito la tua voce.
La controrisposta non è più né aneddotica né di piglio letterario, ma calata nello spazio analitico, teorico e metodologico. [8]
Dopo un breve preambolo di deviazione dei colpi diretti alla sua persona, va diritto ai punti che gli premono: la realtà di manicomi ben diversi dalle prigioni; l’effettiva esistenza della follia [9]; l’inopportunità della chiusura dei manicomi.
In risposta alla ideologizzazione del concetto di manicomio - prigione, Tobino ricorda che le esperienze “liberalizzanti” di Gorizia, di Colorno e di Trieste – dove ha operato Basaglia - non sono le uniche in Italia, ma ne esistono altre, altrettanto “aperte” e innovative; che lo stesso manicomio di Lucca[10] fu tra i primi ad aprirsi; che, a Lucca, i matti sono trattati con attenzione alle singole esigenze, sono liberi e girano tranquillamente, giocano a carte, lavorano allo spaccio, fanno riparazioni, sostituiscono i custodi.
Tobino ricorda - e fa appello alla memoria dello stesso Basaglia – le manifestazioni della follia, i deliri, le urla e le violenze; reali, innegabili, spesso difficilmente controllabili; la follia, secondo Tobino è questa, non la si può dimenticare.
Ed è solo grazie alla nuova chimica, all’alleanza con gli psicofarmaci[11], che si danno questi progressi: senza di essi non sarebbe stato possibile né controllare la follia – pur sopprimendo[12] una parte della personalità dei malati – né aprire i manicomi.
È l’ultimo tema, quello della chiusura dei manicomi[13], su cui Tobino pone l’accento più accorato e pone le domande critiche: dove andranno i malati che da anni vivono nei manicomi e che non hanno un luogo dove andare? Come saranno assistiti sul territorio dove le strutture ipotizzate dalla Legge non esistono, dove i reparti psichiatrici negli ospedali avranno al massimo 15 posti?
Di fatto, Tobino, affronta in modo esplicito la dimensione politica della follia e ne sottolinea l’esistenza puntuale, sociale e contestuale, chiamando in causa la fragilità dei dispositivi della Legge 180, l’impreparazione del tessuto sociale e la necessità di un posto per questi malati, di sapere che c’è un luogo adatto alla follia, seppure mascherata dalla chimica.
UNA ANALISI DELLA CONTROVERSIA
Ci sono elementi, tra quelli che emergono dalla controversia, per i quali si può intravedere una possibilità di conciliazione. È il caso della cancellazione dei trattamenti coercitivi e segreganti dei soggetti psichiatrici e dell’apertura nei confronti della società e della quotidianità, che sembrano essere obiettivi comuni a entrambi gli psichiatri.
Entrambi, inoltre, sembrano essere su una linea simile sulla modalità di gestione dei pazienti non più internati: Basaglia parla di diffusione della cura sul territorio, di somministrazione delle cure vicino a dove stanno i malati, di reinserimento; Tobino ipotizza l’ospedale come luogo di riferimento[14] per il malato; entrambi coinvolgono i pazienti in attività costruttive di laboratorio o di lavoro socialmente utile.
Nel focalizzare i principi, i criteri morali, che stanno alla base di questa etica della psichiatria, si possono trovare alcuni medesimi fondamentali: l’attenzione al malato, la cura e non la repressione, l’occupazione come mezzo per restituire un senso del tempo e dell’utilità sociale, la libertà di scelta sul ricovero e sulla presenza nel luogo di cura, il rapporto con il tessuto sociale.
Invece, sul punto dell’esistenza o meno della follia, non è possibile una composizione della controversia: Tobino, seppure non escluda del tutto l’origine sociale, ha una visione organica, fisiologica della follia, e accusa[15] Basaglia di credere che la chiusura dei manicomi cancelli ogni traccia della follia. Basaglia, infatti, la nega e nello stesso tempo, ne attribuisce la creazione alla società malata, al potere, per rinchiudere i disallineati, i disturbatori dell’ordine e dello sfruttamento[16].
Altro punto di dissidio insanabile è il tema della presenza e della forma delle strutture di cura, che coinvolge anche la visione politica delle due posizioni: Tobino non prescinde dalla necessità di un luogo dove i matti possano trovare – per periodi lunghi o brevi, più o meno volontariamente, in modo comunque aperto – riparo, protezione, cura e tranquillità[17]; e sottolinea l’assenza di preparazione dei territori, della popolazione e delle famiglie per la trasformazione dalle strutture accentrate a quelle diffuse; Basaglia, al contrario, non transige, insiste sulla necessità di distruggere l’istituzione manicomiale[18] e ribadisce la necessità della riforma, da farsi subito, in nome della «crescita politica, e quindi civile e culturale del paese».
VINCITORI
A volte le controversie scientifiche hanno un vincitore (come tra Pasteur e Pouchet[19], a metà del XIX secolo), a volte nessuno, a volte vincitori e vinti, ben oltre i contendenti.
In questo caso, la “vittoria” arride a Basaglia e alle proposte di Psichiatria Democratica[20], che vedono il parlamento prendere atto del lavoro fatto[21] e varare la legge 13 maggio 1978, n. 180.
Oltre che dalla condizione di possibilità fornita dai farmaci, questa vittoria è stata decretata:
- dal fatto che il progetto di riforma della psichiatria è nato e cresciuto nel mezzo degli anni ’70[22], in un contesto con cui condivideva lo stile di pensiero[23], il linguaggio[24] e le forme di espressione;
- dall’abilità degli innovatori nell’arruolare le forze politiche usando – appunto – concetti evocativi irrinunciabili in quegli anni: libertà dalle costrizioni, distruzione delle istituzioni, lotta contro il potere; e evocando la lotta anche contro chi resiste all’innovazione[25].
- dalla leva su elementi motivazionali anch’essi parte integrante della cultura rivoluzionaria di quegli anni, come il senso di colpa della “società”, rea della creazione e dell’espulsione della follia e dei folli[26].
ALTRI VINCITORI E MOLTI PERDENTI
Alla lunga, hanno vinto, dopo 20-30 anni, tutte le persone colpite da problemi psichiatrici – depressione, psicosi, schizofrenia – che hanno guadagnato il diritto a essere curati restando, almeno in parte, all’interno del proprio tessuto sociale (grazie al duro lavoro di chi quella legge[27] ha voluto interpretare e attuare e grazie alla diffusione e alla messa a punto dei farmaci antipsicotici).
Hanno perso, invece, i matti che vivevano dentro ai manicomi, progressivamente espulsi, poiché – scrivono Corbellino e Jervis nel 2008 – l’impossibilità di nuovi ricoveri negli ospedali psichiatrici genera una drammatica situazione di mancata assistenza per i malati critici[28].
Hanno perso anche le famiglie dei ricoverati e dei nuovi malati che, a causa della fretta della rivoluzione e dell’assenza di reali alternative alla struttura psichiatrica, si trovano sulle spalle tutto il carico della gestione, i sacrifici e le tragedie[29].
Hanno perso, più di tutti, alcune centinaia di malati che – dimessi dal manicomio – sono morti per suicidio o accidentalmente, per incapacità di vivere in un mondo ad essi ormai sconosciuto.
Dice lo psichiatra Cherubino Trabucchi[30] che si tratta di duemila – tremila persone.
MARIO TOBINO, NOTA BIOGRAFICA
Mario Tobino nasce a Viareggio nel 1910, si laurea in medicina nel 1936 e prende la specializzazione in clinica delle malattie nervose e mentali nel 1941, con una tesi sulla necessità di una rifondazione umanizzante della psichiatria contemporanea.
Esercita come psichiatra nei manicomi dal 1939 al 1980: ad Ancona, a Gorizia e a Firenze San Salvi (1939-1940), dal 1941 al 1980 nell’ospedale psichiatrico di Maggiano, in provincia di Lucca, dal 1948 come primario del reparto femminile. Nel 1944 partecipa alla guerra partigiana. Vive all’interno del manicomio – nelle stanze dei medici – fino quasi alla morte (1991).
La scrittura contende alla psichiatria il ruolo di principale occupazione. Dalla prima raccolta di poesie del 1934 a Una vacanza romana del 1992, Tobino pubblica 4 raccolte di poesie e 23 romanzi e raccolte di racconti. Di questi, almeno 4 sono incentrati sull’esperienza psichiatrica a Maggiano: Le libere donne di Magliano, Per le antiche scale (Premio Campiello 1972), Gli ultimi giorni di Magliano, Il manicomio di Pechino (Premio Strega 1990).
BIBLIOGRAFIA
M. Tobino, Lasciateli in pace, il manicomio è la loro casa, La Nazione, 18 aprile 1978
F. Basaglia, Magliano: Le false donne, Paese sera, 4 maggio 1978
M. Tobino, Dolorosa follia, ho udito la tua voce, La Nazione, 7 maggio 1978
M. Tobino, Le libere donne di Magliano, Arnoldo Mondadori Editore, 1963
M. Tobino, Per le antiche scale, Arnoldo Mondadori Editore, 1972
M. Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982; Ed. del 2019, Mondadori Libri
M. Tobino, Il manicomio di Pechino, Mondadori, 1990
health, volume 14, 1985, issues 1 and 2, The Unfinished Revolution in Italian Psychiatry: An International Perspective
https://doi.org/10.1080/
G. Corbellino - G. Jervis, La razionalità negata: psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati-Boringhieri, 2008
F. Basaglia, F. Ongaro, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Cortina, 2008
V. Furlanetto, Cento giorni che non torno – Storie di pazzia, di ribellione e di libertà, Laterza, 2024
V. Andreoli, Fratelli di Carmelo Samonà: il matto in casa, in Il matto di carta. La follia nella letteratura, BUR, 2008
S. Redaelli, Circoscrivere la follia, Mario Tobino, Alda Merini, Carmelo Samonà, Sub Lupa Academic Publishing, Warsaw, 2013
NOTE
[1] Basaglia parla di «equivoca pietà» e di «agire emotivo» (Magliano: Le false donne, Paese sera, 4 maggio 1978)
[2] «il suo scritto rende un grosso servizio al potere, su questo non si può discutere» (Cit.)
[3] «Tobino parla “di carità continua e aspetto umano”. Quale significato hanno oggi queste espressioni? Nessuno. Il discorso è politico e Tobino non lo affronta. Anzi, finge di non affrontarlo poiché tutta l’impostazione del suo articolo è politicizzata al massimo» (Cit.)
[4] «la dignità dell’uomo, di tutti gli uomini» (Cit.)
[5] «instaurare un dialogo comune, generale […] impresa impossibile poiché l’istituzione che vogliamo distruggere è il potere stesso e nessuno rinuncia senza lottare al suo potere» (Cit.)
[6] Romanzo che lo stesso Basaglia, in gioventù, aveva amato e considerato una sorta di trattato psichiatrico (cfr. Magliano: Le false donne, Paese sera, 4 maggio 1978
[7] «a Gorizia […] ho potuto verificare ogni cosa, controllare ogni sensazione. Era tutto falso» (Cit.)
[8] «non ho potuto non sorridere quando ho letto che sarei strumento del dominante potere. Da quasi quarant'anni vivo al manicomio di Lucca e in verità mai sono stato in relazione, a contatto con chi comanda, chi è dominante. Per anni e anni la mia vita si è svolta in compagnia dei malati; adesso la mattina il primo dialogo lo faccio allo spaccio, al loro spaccio, dove vado a prendere il caffè e poi ancora durante la giornata. Nel dopopranzo sono solito passeggiare qui intorno e molto spesso con malati mi accompagno, malati liberi, che se la girano tranquillamente. La sera, dopo cena, quante volte ho giocato con loro a carte e, lo giuro, mai, mai abbiamo insieme trescato col potere, mai ordimmo per difenderlo» (Dolorosa Follia, ho udito la tua voce, La Nazione, 7 maggio 1978)
[9] Come già visto, in tutta la sua produzione Mario Tobino usa in modo diretto i termini follia, malattia mentale, matto/matti, lasciando poco spazio agli eufemismi; da una parte può essere un retaggio del periodo in cui ha studiato ed esercitato, dall’altra possiamo considerarlo un modo per non dimenticare di cosa si parla in termini comuni.
[10] Tobino definisce l’ospedale psichiatrico di Maggiano «libero e umano» e ricorda che «con entusiasmo […] fummo tra i primi a tirare giù i muri di cinta, strappare le inferriate, aprire, dare luce» (M. Tobino, Dolorosa follia, ho udito la tua voce, La Nazione, 7 maggio 1978)
[11] «nel 1952, arrivarono gli psicofarmaci che riescono a velare, a intorpidire, a rendere apparentemente molli molti segni della pazzia» (Cit.);
[12] «Sono stati gli psicofarmaci a rivoluzionare i manicomi e non le loro teste. E nemmeno si domandano se la follia loro la conoscono, se ne saprebbero distinguere il volto, loro che l'hanno frequentata soltanto dopo l'avvento degli psicofarmaci, se ne sanno la violenza, la fantasia, l'orrore, l'inesprimibile immacolatezza, l'impenetrabile lutto. E neppure amano conoscere, per nulla sono ansiosi di valutare di quanto con i composti chimici la follia è stata offuscata, travestita, mascherata (ma non vinta); e a volte costretta a brancolare.
Neppure sorge loro l'inquietante interrogativo, l'as-sillo morale, se è giusto con gli psicofarmaci ottundere la personalità, arginare, imbavagliare, legare una delle più profonde, meravigliose, misteriose manifestazioni umane: la follia.» (Gli ultimi giorni di Magliano, p. 20)
[13] « fuori, come gli andrebbe? I cittadini, che hanno da lavorare, che trascinano i loro affanni, li ascolterebbero, li sopporterebbero? I cittadini debbono essere sensibilizzati ma io finora di questa sensibilizzazione non ho visto nessun progresso, se anche non è aumentato il sospetto» (M. Tobino, Dolorosa follia, ho udito la tua voce, La Nazione, 7 maggio 1978)
[14] «[Un luogo] dove ritornare, rifarsi vedere, venire […] a prendere le cure, […] un luogo dove si entra e si esce tranquillamente» (Cit.)
[15] «io credo che la follia esista e Basaglia invece mi pare che sia convinto che, chiusi i manicomi, svanisca la cupa malinconia, l’architettura della paranoia, le catene delle ossessioni» (Cit.)
[16] «La follia non esiste, non è mai esistita. Sono stati la Società, il Potere a crearla [...] hanno eretto i manicomi per rinchiudere chi disturbava il loro sfruttamento [...]» (F. Basaglia, F. Ongaro, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Cortina, 2008)
[17] Tobino è autore, nel 1958 in tempi non sospetti, insieme a due giovani architetti, di un progetto di «un futuro ospedale psichiatrico, un ospedale per matti in armonia con le vicende dei savi, un istituto che avesse, dopo le sequele di cattiverie, dopo tanto sangue versato, un grano, appena un grano di più di bontà e tolleranza» (Gli ultimi giorni di Magliano, ed. 2019, p. 206); per avere un’idea del progetto: Mappe del progetto per l'Ospedale di Vicenza (Mario Tobino, Giorgio Ramacciotti, Piero Marello) (MTb.II.30.41), Mostre Virtuali Ficlit, #3508
[18] «I manicomi […] noi diciamo che si possono distruggere e lo abbiamo dimostrato in anni di lotta» (F. Basaglia, Magliano: Le false donne, Paese sera, 4 maggio 1978)
[19] Cfr. H.M. Collins, T. Pinch, Il Golem, Tutto quello che dovremmo sapere sulla scienza, Edizioni Dedalo, 1995
[20] https://it.wikipedia.org/wiki/Psichiatria_Democratica, https://www.psichiatriademocratica.org/
[21] «Sono perciò soddisfatto che il Parlamento abbia preso ufficialmente atto della lotta di questi anni» (F. Basaglia, Magliano: Le false donne, Paese sera, 4 maggio 1978)
[22] Cfr. Franco Basaglia e la legge 180: frammenti dello scenario sociale e politico, Controversie, 4 dicembre 2024
[23] Cfr. L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico : per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, Il Mulino, 1983; L. Fleck, Stili di pensiero, La conoscenza scientifica come creazione sociale, a cura di F. Coniglione, Mimesis Edizioni, 2019
[24] scrive Tobino: «Si indicono di continuo le riunioni - qualsiasi scusa è buona - alle quali debbono assistere medici, infermieri e anche malati di mente […] Nelle riunioni si rimuginano le prossime salutari innovazioni, ciò che si è in procinto di operare per il trionfo della giustizia, lo smascheramento del Potere, la liberazione degli schiavi, dei martiri», (Gli ultimi giorni di Magliano, p. 19)
[25] «Tutti hanno paura: sanno che il potere, quello politico in primo luogo - quello che in molti casi li ha fatti assumere nell'ospedale -, è con la 180, e con questo i mezzi di comunicazione» (M. Zappella, Introduzione a Gli ultimi giorni di Magliano, ed. 2019)
[26] «La follia non esiste, non è mai esistita. Sono stati la Società, il Potere a crearla [...] hanno eretto i manicomi per rinchiudere chi disturbava il loro sfruttamento [...]» (Paese sera, Cit.)
[27] La legge n. 180 e il suo successivo incoroporamento nella legge istitutiva del Servizio Sanitari Nazionale, Legge 23 dicembre 1978, n. 833.
[28] «La nuova legge rendeva immediatamente illegale ogni nuovo ricovero negli ospedali pubblici […] fattore principale che causò […] una drammatica – e talora tragica – carenza di assistenza per i nuovi pazienti affetti da disturbi mentali acuti e gravi» (G. Corbellino – G. Jervis, La razionalità negata: psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati-Boringhieri, 2008)
[29] «gran parte del carico fu sostenuto dalle famiglie dei pazienti con grandissimi sacrifici e non poche vere tragedie» (Cit.)
[30] Gli ultimi giorni di Magliano, p. 258
Investire sulla relazione e sugli operatori - Intervista a Raffaella Bricchetti
L: Buongiorno Dott.ssa Bricchetti.
R: Buongiorno a Lei
L: Vorrei iniziare questa nostra chiacchierata chiedendole anzitutto se ci potesse raccontare qualcosa di Lei, di cosa fa. Per poter introdurre meglio i lettori nel vivo dell’intervista
R: Certo. Dunque, chi sono e cosa faccio... Sono laureata in filosofia specializzata in psicologia alla facoltà di Lettere e Filosofia con indirizzo psicologico all’Università Statale di Milano perché ai miei tempi le facoltà di psicologia erano solo a Padova e a Roma e non avendo la possibilità di andare a Padova per mille motivi familiari ho intrapreso questa strada. Laureata mi sono iscritta alla specializzazione e sono stati altri quattro anni. Ricordo tra i miei docenti anche il Dottor Musatti[1]. Nel frattempo, sia per la prima tesi, quella di facoltà, che per la tesi di specializzazione, avevo contattato il dottor Erba[2], che ai tempi lavorava al Paolo Pini (manicomio cittadino per eccellenza ai tempi) come psichiatra.
L: Ecco Dottoressa Bricchietti, può raccontarci per la sua esperienza la realtà manicomiale Italiana prima del 1978? Qual era il vero tessuto quotidiano dell’esperienza d’esser folli e del tentare di curare e lenire?
R: Certamente, come le dicevo ho conosciuto Erba nel ’74 e insieme abbiamo fatto la prima tesi (quella di facoltà) analizzando moltissimi casi di persone che arrivavano in manicomio. Persone con delle storie psichiatriche assolutamente incredibili, “gli alienati”. Persone che non potevano essere considerate soggetti, ma erano considerate semplicemente dei reietti che dovevano essere controllati, sedati, repressi perché creavano scompiglio all’interno della società. Ricordo in manicomio, ad esempio, quest’uomo di nome Luciano che era comunque una persona molto degna, non saprei come altro definirla, sempre vestito bene con camicia e giacca, mai sciatto o trasandato, di una famiglia modesta che dall’età di 15 anni l’aveva mandato in manicomio perché era un “masturbatore compulsivo”. Lui si masturbava sempre, continuamente, anche in manicomio poi lo faceva perché in realtà diciamocelo, cosa diavolo aveva da fare di meglio?! E così lui era lì da sempre.
Ai tempi i manicomi erano dei luoghi di contenimento perché queste persone venivano prese e lì stavano. Mi ricordo anche Angela, che è stata anche uno dei capitoli della mia tesi; quando l'abbiamo presa in considerazione era arrivata al centocinquantesimo ricovero. Lei entrava, stava dentro due giorni, si rifocillava un po' e poi se ne andava. Le porte le venivano riaperte sempre perché era una donna giovane di nessuna pericolosità né per sé né per gli altri... era molto bizzarra quello sì. Mi è capitato di rivederla poi dopo la chiusura del reparto psichiatrico e mi prese in giro dicendomi “ma guarda io ti ho vista che eri grande così!” Ecco, c'erano anche questi personaggi che andavano e venivano in questo reparto molto aperto. Faccia conto che in Italia ai tempi c’erano 98 manicomi con 100mila persone dentro. La cosa che colpì di più Basaglia quando entrò nell’ospedale di Gorizia fu “l’odore di morte e di piscio”, che è vero perché l’odore di morte e di piscio caratterizzava tutto.
Io da bambina mi ero fatta delle fantasie su come fosse un manicomio. Abitavo in un piccolo paese vicino a Brescia e c’erano alcune persone che lavoravano a Canton Mombello che era il manicomio di Brescia. Ai tempi la cosa che mi aveva incuriosito molto era che gli infermieri venivano assunti anche in base alla stazza perché più erano grandi, grossi e potenti più erano in grado di contenere le persone che avrebbero potuto avere delle manifestazioni violente. Questo anche per farvi capire il clima riguardo questi luoghi, le idee che circolavano. A me però questa voce mi aveva sempre incuriosita e quando decisi di fare la prima tesi di laurea sul tema fu perché avevo casualmente letto un articolo su un giornale in cui intervistavano Sergio Erba che aveva introdotto il concetto di “terapia della famiglia all’interno del manicomio”. Ecco questa cosa mi fece scattare ulteriormente la curiosità e gli chiesi di poter assistere e di poter fare la tesi. Mi avvicinai così alla settima divisione del Paolo Pini di Milano dove il Dottor Erba dirigeva un reparto. Quando entrai scoprì che il clima era completamente diverso da quello che avevo immaginato da bambina: ad esempio, il giovedì mattina c’era un’assemblea di reparto dove i pazienti non erano considerati dei numeri ma delle persone, ciò che poi è stato uno dei principi della Legge Basaglia, considerare la persona ricoverata una persona non da sedare o da contenere con fascette ma una persona con la quale parlare. Era faticoso e questa fatica non era tanto dovuta al comportamento dei pazienti, quanto dal personale infermieristico che non era abituato a mettersi in gioco nella relazione con il paziente. Era difficile per loro non intrattenere con i pazienti rapporti che non fossero di forza. Ad un certo punto infatti ci fu proprio una divisione degli infermieri tra chi voleva provare a lavorare in questa maniera e chi no. Così funzionava al piano dove c’era il Dottor Erba, al piano di sotto un altro psichiatra di cui non ricordo il nome procedeva con idee molto ma molto più tradizionaliste...
L: Nel 1978 grazie a Franco Basaglia inizia quindi il percorso verso la riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera, ci racconti di questo periodo di transizione...
R: Faccia conto che io sono entrata in questo mondo nel ’74, la Legge 180 è del maggio ’78. Già prima comunque c’era una tendenza ad un approccio diverso alla malattia mentale solamente che era riservata al singolo psichiatra e al reparto dove lavorava, non era una cosa generalizzata e generalizzabile... Qualcosa a livello di chi operava nei contesti manicomiali si stava muovendo ma il livello di establishment diciamo “ufficiale” e politico era ancora orientato nel mantenere il manicomio come luogo di contenimento. È stato molto più difficile a livello istituzionale cambiare qualcosa. Le singole persone erano sicuramente più illuminate ma a livello di istituzioni è stato difficile. Con l’avvento della Legge Basaglia e la chiusura di questi manicomi uno dei temi di base della legge era proprio quella dell’umanizzazione del manicomio.
Basaglia aveva iniziato giovanissimo a Gorizia come direttore e lì aveva avuto grossi problemi. Era finito quindi a Colorno, in provincia di Parma, poi era andato a Trieste, insomma aveva girato vari manicomi sempre con questa idea che voglio esprimere leggendo proprio le sue parole:
“restituire l’individualità e la dignità ai pazienti che dovrebbero essere riconosciuti prima come esseri umani e poi come delle persone da riabilitare. La prima cosa da fare è sospendere ogni forma di giudizio e considerare l’individuo nella sua interezza partendo dalla sua storia, dal ruolo sociale svolto, dalle emozioni e dal malessere, per poi procedere con diagnosi e terapia ma evitando stigmatizzazioni inutili”. Questa legge è stata talmente rivoluzionaria che era arrivata ben prima alle orecchie di tanti psichiatri che non potevano ignorare queste cose. A Milano ad esempio c’era il “Gruppo di Psichiatria Democratica” che era molto attivo (ne facevano parte personaggi come Benedetto Saraceno[3], Leo Nahon[4] etc). I concetti quindi di cui parlava Basaglia li si maneggiava. Cercavamo di andare verso una nuova realtà, il desiderio di umanizzare il manicomio cercando di trasformarlo in quelle che potevano essere delle comunità terapeutiche dove per i pazienti, ad esempio, si iniziavano ad introdurre delle attività per evitare che questi passassero l’intera giornata a letto o in giro per i vialetti del Paolo Pini senza niente da fare se non fumare, fumare, fumare...
Un’altra innovazione di questo momento di transizione era l’idea di ricoverare anche i famigliari del paziente designato. Ricordo questi due ragazzi molto giovani che erano istituzionalizzati al Paolo Pini entrambi con diagnosi di schizofrenia e ad un certo punto venne invitata a rimanere tutta la famiglia, con questa madre molto dominante e un padre che si faceva più piccolino e la seguiva sempre da dietro. Questa donna arrivava sempre alle 9 del mattino con una borsa piena di cibo per i figli, che per altro erano magrissimi e lei riempiva loro la bocca di polpette, questi ragazzi me li ricordo come degli scoiattolini con le guanciotte piene di polpette che tenevano lì. La mattina avevamo un appuntamento fisso e si cercava di lavorare sulle dinamiche che venivano ad instaurarsi, ad un certo punto avevamo lavorato anche sul suo riempire le bocche dei figli. Insomma, esperienze ed esperimenti molto particolari.
La legge Basaglia comunque era molto bella nella teoria ma nella pratica è stata disattesa per molti anni. Addirittura se non ricordo male quelli che erano i precursori degli attuali Cps iniziarono ad aprire negli anni ’90. L’unica cosa rapida fu l’apertura dei reparti di psichiatria negli ospedali civili “normali” chiamiamoli così, come conseguenza immediata della chiusura manicomi.
L: Ma secondo lei quindi che cos’è cambiato veramente dopo che questi posti hanno chiuso?
R: Beh, hanno iniziato a creare i servizi di igiene mentale... A quei tempi Milano era divisa prima in 20 zone, poi 13, etc e una zona che faceva riferimento alla divisione del Paolo Pini era (adesso non si chiama più così) la zona 13 che era attorno all’aeroporto Forlanini (quindi via Mecenate, viale Ungheria etc) dove tutta la via Ungheria aveva un “buon gettito” di pazienti psichiatrici, invece la via Salomone erano tossici e lì cerano prima le case minime, poi le case bianche dove c’era, e forse c’è ancora oggi, una grossa presenza di tossicodipendenti. Quando hanno chiuso il Paolo Pini, hanno aperto in zona un ambulatorio con tre stanzette: una per l’infermeria, una per l’assistente sociale e una dove ruotavamo noi. Ecco lì siamo stati parecchi anni, nella stessa palazzina misero il consultorio e il fatto che ci fosse questa commistione tra matti e tossici (perché ai tempi ancora non avevano creato i servizi per la tossicodipendenza) non piaceva.
E nel concreto cosa succedeva, succedeva che c’erano appunto tutti questi tentativi di creazione di comunità terapeutiche, ambulatori zonali dove affluivano i pazienti psichiatrici mandati dai medici o che venivano ricoverati 10/15 giorni nei reparti di psichiatria e poi una volta dimessi passavano direttamente al territorio mandati con tanto di foglio di via in queste strutture per prendere contatti con il personale. Molti assumevano farmaci, per cui venivano a prenderli e a questo punto non ci si limitava a dare solamente il farmaco al paziente ma si cercava di parlare con lui, di vedere che cos’era successo nel frattempo, che cosa l’aveva portato in ospedale. Sempre in quell’ottica di umanizzazione e di rispetto della persona, di rendere la persona soggetto della propria potenziale -non tanto guarigione- quanto consapevolezza che il disagio che lui stava vivendo poteva essere affrontato diversamente e non solo con il farmaco. Ad esempio, se veniva una signora depressa si cercava di instaurare un approccio relazionale sia con lei, persona che arrivava portando una sofferenza, che con la famiglia.
L: Come prendevano i pazienti, a livello di cambiamento di approccio e non solo di cambiamento strutturale, l’esser trattati così diversamente, in questa maniera appunto relazionale?
R: Non era facile, non era facile. Però questo era ciò che ritenevamo l’approccio migliore cioè di “responsabilizzazione del paziente”. Il paziente non è oggetto di cura ma è soggetto. Il lavoro era quello di fare in modo che la persona si rendesse conto di essere portatore di una domanda e portatore di un possibile dimensionamento del suo star male. Solo lui poteva in qualche modo fare qualcosa per uscire da quella situazione. Noi, nella nostra posizione di curanti, potevamo “aiutarlo a”.
L: Lei prima diceva che però i manicomi erano dei luoghi per i pazienti di contenimento sì, ma in qualche modo luoghi in cui le persone che li abitavano ci avevano passato tutta la vita per poi ritrovarsi a dire “cosa faccio/dove vado”?
R: Assolutamente! Persone smarrite... Se vi ricordate Luciano di cui vi parlavo prima, quando hanno chiuso i manicomi lui si era trovato veramente perso perché dentro almeno era in una situazione molto protetta. Chiuso il manicomio lui è stato sbattuto fuori ma la famiglia non lo voleva, non sapevano dove cacciarlo e onestamente non mi pare siano riusciti a trovargli una sorta di comunità dove farlo stare... Mi pare di ricordare che non abbia vissuto a lungo fuori. Questo per dire che non è che ai tempi ci fossero i matti attaccati al cancello che urlavano “noi vogliamo uscire”, perché quello paradossalmente era un ambiente molto protetto dove le persone magari erano lì da sempre. Come dicevo anche per Angela; lei arrivava lì, mangiava un po’ perché magari passava qualche giorno in giro per Milano senza mangiare, e se ne andava. Era anche una Milano degli anni ’70 in cui la realtà fuori non è come quella di adesso. Io ai tempi ho visto solo un signore di colore nell’arco di tutta la mia esperienza, che era stato ricoverato perché aveva dato un po’ fuori di matto ma rimesso un attimo in sesto se ne era andato ed aveva continuato a fare quel che faceva, lavorare etc. Adesso credo che nelle odierne comunità terapeutiche ci siano molti più immigrati, piazzati ovunque senza esserci tante altre strutture per poterli ospitare...
L: Quindi lei crede che quello un tempo fosse un po’ un rifugio per gli emarginati sociali di allora...
R: Sicuramente... un’alternativa era il dormitorio di Viale Ortles. Perché una volta “liberati” dai manicomi questi soggetti non sapevano dove andare e andavano nei dormitori. Avevo avuto dei contatti con il direttore del dormitorio di viale Ortles anche per capire come cercare di fare questi passaggi perché non è che nei dormitori le persone poi potessero vivere: andavano là per dormire, stavano fino alla mattina alle 6, facevano la colazione ma poi dovevano andare fuori. Non c’era più quindi un luogo dove queste persone potevano stare 24 ore su 24. Il concetto di fondo però era quello del rispetto della persona, perché prima non era assolutamente così. Persona in quanto portatrice di un disagio, e quindi, nella sua storia come è nato, come si è evoluto questo disagio? Quindi, parlare e lavorare con queste persone.
L: Come prendeva l’opinione pubblica questo cambio di approccio in termini più relazionali di cui parlavamo poco prima?
R: L’opinione pubblica era arrabbiata! Comunque c’era ancora e credo ci sia tutt’ora una fetta più tradizionalista e in questo senso anche più assistenzialista, e le persone stesse arrivano da te con un’ottica di assistenzialismo. Riuscire a far cambiare alle persone questa ottica e renderli partecipi della terapeuticità della loro relazione non era facile. Persone che non ci stava anche ad assumersi la propria parte di responsabilità, volevano solo il farmaco e allora “va bene ti do il farmaco, però te lo do a modo mio”. Quando ad esempio venivano per fare le iniezioni depot[5] dei farmaci anti depressivi, questi nuovi infermieri erano capaci sì di fare l’iniezione ma anche di parlare con la persona, di cercare di sensibilizzarle in questo senso. Le famiglie spesso erano poco disposte a starci perché venivano messe in discussione, veniva messo in discussione il loro modo di relazionarsi con quello che doveva essere il paziente designato e magari le famiglie non avevano nessuna voglia di mettersi in gioco, era più comodo dire “lui è matto, è lui quello strambo, gli dia la medicina e a posto così”.
L: In Italia invece a livello di humus culturale, le persone erano spaventate da questo cambiamento?
R: Direi di no. Ma nemmeno gli importava così tanto anche perché le persone direttamente interessate non erano chissà quante e quindi si lavorava su quei numeri piccoli.
L: Siamo alla domanda finale, secondo lei, ad oggi c’è qualche aspetto che avrebbe bisogno di una nuova rivoluzione in ambito di salute mentale?
R: Sì. Ancora oggi fa molto più comodo somministrare quattro pillole piuttosto che tenere il paziente lì, una volta alla settimana, a parlare del suo male. Le cose sono cambiate ma fino ad un certo punto. Finché ho lavorato in consultorio sono sempre stata poco “ossequiosa” rispetto a quello che l’istituzione mi diceva di fare, ad esempio il pacchetto da dieci colloqui: io faccio i colloqui che mi servono, se il paziente ne vuole fare venti ne farà venti, se ne vuole fare cinque ne farà cinque ma lavoriamo insieme in quei venti o cinque che siano. Ho seguito ad esempio più pazienti per anni in consultorio, mandando su tutte le furie i responsabili. Adesso bisogna anche registrare tutte le prestazioni, c’è una sorta di controllo non tanto sui pazienti ma su noi operatori, ora. Per l’istituzione se tu fai più del tuo pacchetto standardizzato da dieci sedute con un paziente vuol dire che stai togliendo la possibilità ad un altro di utilizzarti e quindi tu devi fare dieci colloqui, punto. Finiti i dieci colloqui la persona che hai davanti speri si sia rimpannuncciata un po’ e se non si è rimpannuncciata pazienza e avanti il prossimo. Ora si cerca di lavorare sui comportamenti, così che la persona qualcosa modificherà, starà meno male in dieci appuntamenti e quindi vai, può arrivarne un altro che ha bisogno. Io questo non lo farò mai, faccio quello che ho imparato, lavorare con la relazione e quindi ho fatto così anche in consultorio.
L: Quindi se ci fosse una rivoluzione da fare ad oggi sarebbe quella di investire veramente sulla relazione?
R: Sì e anche di investire sugli operatori. Dare all’operatore la possibilità di lavorare un po’ più tranquillo rispetto alla registrazione della prestazione ad esempio. Io credo che questo approccio al disagio mentale ed emotivo non può passare attraverso una schematicità. Si sta tornando molto indietro ahimè...
***
Dovendo scrivere di Basaglia, dei suoi anni e di ciò che hanno rappresentato per la psichiatria italiana le sue intuizioni, ho pensato che potesse essere molto interessante parlarne con una persona che quegli anni li ha vissuti, permettendoci di rivivere la storia da un punto di vista privilegiato e originale in quanto legato al vissuto reale dei pazienti più ancora che alla teoria accademica.
Per chi scrive, giovane psicologa, alla luce di questa preziosa chiacchierata resta una sensazione di perdita. La sensazione è che oggi questo fermento di idee con al centro il benessere dei pazienti sia carente e si stia scivolando verso una standardizzazione di metodologie e un rigore operativo che lasciano poco spazio alla relazione.
Il sistema ha già riassorbito anche Basaglia e le idee di tutti i “rivoluzionari” di quegli anni?
NOTA BIOGRAFICA
Raffaella Bricchetti. Psicoterapeuta individuale e di coppia, laureata in Filosofia con indirizzo Psicologico e specializzata in Psicologia con indirizzo Sociale nel 1984, presso l’Università degli Studi di Milano. Dal 1974 collabora con la Scuola di Formazione Il Ruolo Terapeutico come docente clinica e teorica. Inoltre è redattrice della rivista “I Quaderni del Ruolo Terapeutico”.
NOTE
[1] Cesare Luigi Eugenio Musatti (Dolo, 21 settembre 1897 – Milano, 21 marzo 1989) è stato uno psicologo, psicoanalista, filosofo e politico italiano, tra i primi che posero le basi della psicoanalisi in Italia
[2] Sergio Erba psichiatria con formazione psicoanalitica. Dagli anni '60 sino all'85 ha lavorato per il servizio pubblico nella Clinica psichiatrica dell'Università di Milano, nell'Ospedale Psichiatrico P. Pini e al Centro psicosociale di zona 13. Fondatore della scuola "Il Ruolo Terapeutico" di Milano e dell’omonima rivista
[3] Benedetto Saraceno, Psichiatra ed esperto di sanità pubblica, ha lavorato a Trieste sotto la direzione di Franco Basaglia e a Milano come responsabile della Comunità per pazienti psicotici gravi prevista dalla legge Basaglia. Direttore del Laboratorio di epidemiologia e psichiatria sociale presso l’Istituto Mario Negri. È stato uno dei leader del movimento di Psichiatria antistituzionale e ha lavorato per molti anni in America latina, dove ha promosso modelli comunitari di assistenza psichiatrica ispirati alla difesa dei diritti umani dei pazienti. Dal 1999 al 2010 ha diretto il Dipartimento di salute mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra
[4] Leo Nahon, Psichiatra, è stato assistente di Franco Basaglia all’ospedale di Trieste. È stato poi Primario dei Servizi Psichiatrici di Vimercate e Carate e poi Direttore della Struttura Complessa di Psichiatria dell’Ospedale Niguarda a Milano.
[5] Letteralmente deriva dalla lingua francese e significa deposito. In medicina viene riferito a particolari formulazioni di farmaci che consentono l’accumulo nei tessuti ed il graduale rilascio nel tempo della sostanza terapeutica somministrata. Il farmaco quindi è disciolto in particolari veicoli oleosi che ne consentono lo stoccaggio nel tessuto muscolare (tramite iniezione intramuscolare profonda) o nelle mucose (mediante ovuli)
Rete psichiatrica sul territorio - Intervista a uno psichiatra che attuò la legge 180
Nell'ottica di raccontare la legge 180, descritta in altri articoli di questi speciale di Controversie, decido di cercare di farmi raccontare le pratiche di chi ha lavorato nel contesto sociale successivo alla promulgazione della legge. Così incontro Antonio Iraci, medico psichiatra. Mi invita gentilmente a casa sua una sera e fin dalle prime chiacchiere, i convenevoli, ci inoltriamo nel suo lavoro dei primi anni '90 nelle comunità della provincia di Como...
Antonio Iraci: A inizio anni ‘90 lavoravo per l’Unità Operativa di Psichiatria di Menaggio. Avevo l’area di Porlezza che all’epoca coincideva con tre vallate del profondo Nord: la Val Rezzo, la Val Cavargna e la Val Solda.
Ricordo queste case con un’unica stanza, la parte nera per il fumo del camino, un letto, un tavolo e le imprecazioni di chi vi abitava. Si andava anche solo per fare un’iniezione di farmaco depot, per garantire la continuità delle cure.
Racconto sempre di una paziente che si chiamava Nini. Le volevo molto bene e lei ne voleva a me. Non sempre il medico vuole bene al paziente! La Nini diceva di essere la moglie del sindaco dimessosi, ma che lei non si era affatto dimessa! La Nini manteneva il suo ruolo sociale interessandosi a tutto ciò che poteva essere di nocumento ai suoi concittadini. Faceva proclami per il paese e andava in chiesa a seguire ogni messa per poi salire sul pulpito alla fine dichiarando: “Adess parli mi”.
La Nini in una metropoli sarebbe stata rinchiusa. Lì, in effetti, si è riusciti a fare un grosso lavoro. In una riunione col sindaco e col prete spiegai loro che se le avessi dato un antipsicotico si sarebbe buttata dal balcone (era già successo): a volte i sintomi sono meccanismi di difesa e se io non sono più nessuno allora non ha senso vivere e mi butto.
Allora montammo una bacheca all’ingresso del paese dove lei poteva mettere tutti i suoi proclami. Aderì tutta la comunità e questo è l’esempio di un caso gestito tenendo conto di tutte le problematiche del momento. Dovevamo gestirla in termini sociali e ce l’abbiamo fatta. Perché quando i pazienti non sono più rinchiusi e rintanati in una struttura allora devi costruire processi di integrazione del paese.
Jacopo Gibertini: Raccontami per favore come arrivi a questo. Il tuo rapporto con l’antipsichiatria e la legge Basaglia.
AI: La comprensione di tutto parte, per me, verso la fine degli anni ‘70 dove mi arriva fra le mani un libro, che leggo, che si chiama L’io diviso di Laing (edizioni Einaudi, ancora oggi). Avevo 25/26 anni, stavo studiando medicina. Vado a capire chi è Laing, insieme a David Cooper mi intrigano. Erano parte di quella gente che veniva considerata l’antipsichiatria. Non quella di oggi che sono dei beceri ignoranti. Allora l’antipsichiatria era la base di quella che sarebbe diventata la psichiatria sociale.
Cosa diceva l'antipsichiatria? Che i folli non sono dentro al manicomio, ma fuori perché per aderire alle regole di questo modello sociale bisogna essere matti. Che è una posizione estrema, ma come tale riesce a farti vedere le cose in una certa nuova maniera.
Nel ‘78 poi viene approvata la legge 180. Legge Orsini, Basaglia ne fu il consulente. Allora c’era anche questa possibilità d’illuminazione da parte dei democristiani. Uno dei temi fondamentali della legge 180 era la decriminalizzazione del paziente psichiatrico. Banalmente si escluse dal TSO il criterio di pericolosità sociale, riducendolo a criteri esclusivamente clinici.
E questa mi è sembrato un elemento di civiltà, di grande civiltà. I manicomi poi resteranno aperti per altri 20 anni circa, nel ‘98 si arriva alla chiusura completa. Durante questo periodo, a esempio, a Como avvenne ancora qualche ricovero.
JG: A Como quindi c’era ancora la struttura e funzionante?
AI: Io entro nel servizio pubblico nel 1990. Il manicomio era ancora aperto e buona parte dei miei colleghi più anziani venivano dall’esperienza manicomiale. Così anche gli infermieri psichiatrici che dovevano essere forti fisicamente per poter gestire certe situazioni. Qualcuno di questi poi non aveva un grande afflato empatico e capitava che alcune zone del manicomio diventassero pericolose la sera. Per gli infermieri!
Declinare la legge 180 era un bel casino. Questi medici erano tutte persone di grande esperienza, come dicevano loro. Tu arrivavi ideologizzato, coi tuoi capelli lunghi e ti mandavano a cagare in tempo zero. Non ero da solo, ma abbiamo dovuto unirci e studiare. Capire, comprendere cosa volesse dire servizio territoriale.
Noi abbiamo voluto dare al servizio territoriale una logica di presa in carico totale del paziente. Tu sei sul territorio e lui avrà te come riferimento sempre e comunque, per qualsiasi cosa. Se il paziente necessità una visita, lo aiuti fino a prenotargliela tu. Così come si andava per le valli per le iniezioni quando stavo nel CPS di Menaggio. E territorio non è l’ambulatorio. Basaglia diceva che bisogna far entrare in qualche modo la città nel manicomio. Per questo mi piace raccontare l’esempio della Nini.
Abbiamo anche fondato una delle prime comunità della zona, a Montemezzo, nel 1991. Durante la costruzione della casa andavo a prendere 6/7 pazienti con un furgone che aveva ancora il clacson a pedale. Li portavo a Montemezzo durante la costruzione della casa. La logica era quella di una cooperativa orto-floreale, produzione in proprio e altre attività che oggi consociamo perché si sono diffuse. Si trattava di un luogo dove le persone potevano convivere condividendo un quotidiano supportato. Abbiamo anche scritto articoli e fatto un convegno su questo.
JG: Mi piace il fatto che avete dovuto studiare. C’era una teoria e un modo diverso di spiegare la psichiatria a cui avevate accesso, eravate ideologizzati come hai detto tu. Però era una teoria del fare psichiatria irriducibilmente legata alle persone e al territorio. Come lo applichi allora?
AI: L’aspetto di vivacità di quell’epoca è che ognuno diceva “qual è il senso del CPS? (Centro Psico Sociale)”, “qual è il senso di una comunità?”. Dovevamo costruire senso su queste cose. Il reparto psichiatrico - il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) - aveva una sola funzione. Ci ricoveri una persona, fai i colloqui per arrivare a una diagnosi, imposti la terapia e rinvii la persona al servizio territoriale per la continuità delle cure. Lo SPDC poteva e può essere una stazione del percorso terapeutico. La sua funzione è che la persona recuperi delle competenze dopo la fase acuta e di scompenso.
Poi però devi avere una lettura del servizio psichiatrico come rete. In questa rete ci sono dei nodi che sono l’ambulatorio, l’attività domiciliare sul territorio, il CRA (Comunità Riabilitativa ad Alta Assistenza) e le comunità dove fare percorsi più lunghi di risocializzazione. Ognuna di queste realtà doveva produrre un pensiero. Partecipare alla costruzione di una cultura di riferimento che era il modello complessivo. E l’area del territorio era il fulcro della progettualità. Il progetto lo costruivi sulla base di ogni paziente che incontravi, delle sue esigenze, dei suoi bisogni, delle sue criticità e pensando alle strutture a disposizione del territorio.
Nel 1993 entro in reparto a Menaggio. Avevo passato 6 mesi lì in precedenza e mi era piaciuto perché vedevo che si potevano fare delle cose. Al tempo il reparto era gestito da un anziano che aveva una buona filosofia, ma trovavo che l’applicazione fosse carente. Quando lui se n’è andato dopo un anno, il sostituto non c’era e il primario di allora propose a me di prendere la direzione. Io ho detto “sì, se posso fare”. Lui era un illuminato e - a patto che gli parlassi dei miei progetti - mi ha lasciato fare.
Ho recuperato un gruppo di giovani infermieri senza esperienze e abbiamo iniziato a fare riunioni e formazione tra di noi. “Vediamo qual è il modo migliore per poter lavorare qui dentro” ci siamo detti, sulla base delle fantasie che avevamo e del lavoro che volevamo fare. È molto identitaria come cosa. Nel senso che concerne l’identità che ognuno di noi esprime facendo riferimento a sé e al mondo. Come voglio pensarmi lì dentro, come voglio che quel posto venga pensato. Tutti i nodi contribuivano, mi sono venuti dietro in modo esplosivo. Tutti avevano voce in capitolo.
Un giorno ho chiesto al primario illuminato di coinvolgere i familiari. Io stavo facendo la scuola sistemica di terapia della famiglia che prevede un setting di colloquio specifico: lo specchio unidirezionale. In questo modo hai due setting, quello della conduzione del colloquio e quello degli operatori che osservano. Io facevo i colloqui con i pazienti e dietro lo specchio gli infermieri e i familiari si formavano. Registravamo tutto con il loro consenso e quello del paziente e poi lavoravamo tutti insieme su quel materiale. Più teste sono meglio di una si diceva, abbiamo fatto dei lavori bellissimi.
Per avere lo specchio poi avevo avuto qualche difficoltà perché nessuno veniva inviato a costruire la stanza. Così un giorno, con il primario, ci siamo messi a tirare giù la parete! A quel punto l’ospedale ha mandato delle persone a fare il lavoro e abbiamo iniziato.
JG: E i parenti si prestavano volentieri a questo lavoro?
AI: Assolutamente. Eravamo diventati attrattivi, arrivavano pazienti anche da fuori provincia e ci mandavano i casi più impestati. E a noi piaceva perché cercavamo di capire come, in effetti, stessero funzionando le cose lì, in quella persona e in quel contesto familiare.
Noi puntavamo sempre a ridurre il più possibile l’istituzione, a dare un grande supporto ai familiari tirando fuori la persona dal reparto il prima possibile. Il reparto non è che un momento di sgancio in cui ci sistemiamo. Non ha senso se stai bene dentro il reparto. Devi star bene fuori dove c’è il casino. Ci arrivavano tutte le forme di psicosi e dovevi cercare di far sì che il paziente tornasse almeno a galleggiare nel migliore modo possibile, ma nella sua vita quotidiana.
Ti racconto un caso emblematico del lavoro fatto. Arrivano due genitori che avevano ricoverato la propria figlia per mesi in una clinica privata in Svizzera. Volevano valutare come fosse il reparto di Menaggio perché ormai raschiavano il fondo. Menaggio era bellissimo: luminoso, senza il tipico puzzo dolciastro da psichiatria, avevamo camere con vista lago! Se tu sei in un posto dignitoso stai dando dignità alle persone. Avevo anche scritto un articolo, Le mura terapeutiche…
Bene, questa paziente aveva un disturbo ossessivo compulsivo gravissimo. Il suo problema era che qualunque tipo di movimento lei facesse lasciava indietro pezzi di sé. Quindi lei doveva tornare indietro a riprenderli, rifacendo lo stesso movimento, più e più volte.
Abbiamo iniziato a lavorare con l’accordo dei genitori. Anche insieme a loro abbiamo parlato moltissimo con lei cercando di comprenderla. Abbiamo valutato una terapia, modificandola e sistemandola mano mano.
In un mese è passata da non muoversi dal letto – la sua isola – a muoversi e infine tornare a casa con un piano terapeutico e un progetto di psicoterapia, che in quel caso segui direttamente io. Dopo 5 mesi giocava a tennis! Successone! Certo, lei donna intelligente e laureata ha abbassato le sue aspettative professionali. Però si è impegnata, ha fatto del suo meglio riuscendo a vivere una vita più serena.
JG: Un’opinione diffusa e contraria alla legge 180 è quella per cui si è scaricato tutto sulle famiglie. Pensi che questo sia differente dove l’istituzione si adopera verso le famiglie? Non le lascia sole?
AI: Certo, dove questo succede. Sono stato anche responsabile del Servizio territoriale di Como dal 2005. Quando sono arrivato lì ho scoperto che l’ovvio è rivoluzionario.
Ricordo la Presidente dell’associazione delle famiglie dei pazienti psichiatrici arrivare da me entrando adagio con il cappello in mano dicendo “noi siamo i parenti e noi siamo i colpevoli del resto, perché abbiamo prodotto noi il paziente psichiatrico”. Io ho detto “no, voi adesso vi sedete e parliamo perché io ho bisogno di voi!”, “dobbiamo costruire progetti insieme”. Era un contesto che si dimostrava arretrato culturalmente perché abituato al modello ospedaliero, manicomiale.
Dico così ma ho lavorato molti anni in ospedale. Sempre però rimanendo nell’ottica della rete. Io ero un nodo della rete e ogni nodo deve funzionare come si deve. Se anche solo vuoi dare una terapia devi spiegare bene al paziente cosa sta prendendo e perché, devi prenderti il tempo e sapere che ha capito. Come dicono gli analisti con il farmaco si assume anche il medico. E se il medico è un oggetto buono, io assumo un oggetto buono. La famiglia è parte fondamentale di tutto questo, della rete.
JG: In questo rapporto tra istituzione e famiglia mi viene in mente una cosa che ho sentito spesso, cioè che nonostante – anzi contro – Basaglia ci fosse una fetta importante dell’accademia, conservatrice…
AI: La scuola milanese non ha mai amato il modello territoriale. Anche perché nel modello territoriale hai meno potere. Se stai nell’ospedale mantieni potenti i reparti di pischiatria. Era, secondo me, una politica della scuola di Milano quella di favorire il reparto tralasciando il territorio.
Del resto se andavi a Trieste, a Udine o Arezzo trovavi reparti con numeri ridotti di posti letto. A Trieste poi facevano persino la gestione della fase acuta a domicilio. Loro grazie al fatto che lì c’era stato Basaglia riuscivano a fare tutto.
Tu non ti relazioni solo con il paziente. Hai un rapporto con le istituzioni, con i colleghi, con le famiglie e con le città. Se non leggi questa complessità rischi di fare un lavoro come stanno facendo in questo momento.
Nell’anno 2000 eravamo 35 psichiatri in tutta la provincia di Como. Oggi ce ne sono 9 forse 10. È stato chiuso il reparto di Menaggio (nel 2022), stanno chiudendo quello di Cantù. Como avrà 28 posti letto. Pensare ad Arezzo che ne ha 8, Trieste che ne ha una decina ti dice quale livello di arretramento c’è stato. Ed è doloroso perché cosa vuoi fare con 10 colleghi? Arriveranno dei giovani psichiatri, ma qual è la cultura che hanno? C’è un progetto di riproporre una cultura territorialista? Chi la porta avanti? Qualcuno al governo arriva a dire di riaprire i manicomi… io mi incateno.
JG: Pensi che non sia comunque possibile un passaggio culturale tra chi è rimasto e i giovani che arrivano?
AI: In questo momento faccio fatica a pensarlo. Anche perché c’è una fatica generale di chi sta lavorando. L’unica cosa che devi fare adesso è gestire l’emergenza, urgenza per urgenza, non hai tempo di fare altro.
JG: Non pensi che potrebbero essere comunque in atto, in chi si sta specializzando ora, dei nuovi modelli positivi?
AI: Si stanno attivando dei modelli. Devi in ogni caso seguire una scuola di pensiero. Devi comunque approcciarti all’ambito psicoterapico. I milanesi portano avanti però la scuola cognitivo comportamentale. Perché si ritiene sia quella misurabile! Binswanger diceva che la scientificità all’interno della psicologia è il cancro della psicologia. Come puoi pensare di standardizzare l’umano?
Secondo il metodo scientifico quello che io riesco a fare qui, con te, dovrebbe riuscire a farlo un signore negli Stati Uniti con un altro. Non è standardizzabile! È un disastro così come i protocolli di intervento… e i tirocinanti vengono da me dicendo con orgoglio di essere cognitivo-comportamentali.
Va bene, mi dico sempre che son partito sistemico e non so cosa sono ora. Forse è giusto comunque partire da qualcosa, un qualcosa che ti struttura per poi andare oltre.
JG: Quindi in un certo modo i modelli sono utili. Far passare il senso in cui sono nati quei modelli è più difficile?
AI: Devi anche considerare che anche i modelli di patologia psichiatrica si sono evoluti nel tempo. È rarissimo oggi vedere una paziente con una manifestazione isterica di tipo charcotiano. Adesso sono esplosi gli attacchi di panico. Depressioni in quantità notevoli (e c’è da dire che le terapie farmacologiche aiutano molto). Le psicosi sono molto ridotte mentre si ha un aumento vertiginoso delle nevrosi e dei disturbi della condotta alimentare così come delle tossicofilie in comorbilità con le patologie psichiatriche. Un aumento di circa il 30% della casistica, limitandosi a quella misurabile, quindi è una stima per difetto.
Inoltre, è cambiata anche la qualità dei pazienti e in mancanza di una cultura di riferimento anche i modelli organizzativi sono inutili. L’espansione delle sostanze psicoattive, a esempio, l’aumento delle persone intossicate e il relativo aumento delle aggressioni fuori e dentro l’ospedale ne sono un esempio. Il paziente psichiatrico è solitamente dentro a un mondo tale che è difficile riesca a far del male a qualcuno. Al contrario l’intossicato da cocaina o crack può esser molto pericoloso.
Senza un’organizzazione basata sul territorio di riferimento, si cerca poi di scaricare i pazienti socialmente pericolosi sui reparti di psichiatria o sulle CRA (Comunità Riabilitative ad Alta Assistenza). Questo è uno degli effetti del non aver pensato strutture adeguate dopo la chiusura degli Ospedali giudiziari. Quando lavoravo in ospedale c’era una lista di attesa di 70 pazienti per le REMS. Il reparto era diventato l’anticamera delle REMS, ma questo è pericolosissimo e io mi sono sempre opposto.
Torno alla tua domanda. Far passare il modello è una questione più delicata. Sono stato richiamato in servizio per sostenere l'ambulatorio per i disturbi della condotta alimentare, ma credo che a dicembre di quest’anno mi fermerò, in fondo sono un pensionato. Poi credo anche che probabilmente, se arriva il nuovo psichiatra, continuerò a lavorare per affiancarlo nel passaggio. Se mi sta simpatico. Nel frattempo passerò le prossime settimane a costruire un modello per i disturbi del comportamento alimentare. Mi aiuterà la dottoressa Floris, psicoterapeuta con cui lavoro da tempo. Sarà un modello territoriale perché è a casa che ci sono i problemi.
Franco Basaglia e la legge 180: frammenti dello scenario sociale e politico
Franco Basaglia nasce a Venezia nel 1924, un anno e mezzo dopo la presa di potere fascista.
Cresce e studia tra regime fascista e Seconda guerra mondiale. Consegue la maturità classica nel 1943; poi, si iscrive a medicina a Padova, dove svolge anche attività antifascista, che lo porta all’arresto, nel dicembre del 1944. Resta in carcere fino ad aprile del 1945, alla fine della guerra.
Nel 1949 si laurea in medicina e inizia la pratica clinica nel dipartimento per le malattie nervose e mentali di Padova, studia con Roberto Belloni, pioniere della neurofisiologia clinica, della neurochimica applicata e della neuroradiologia, base diagnostica delle neuroscienze cliniche padovane.
Negli anni dell’Università e della pratica clinica si dedica anche allo studio filosofico, all’esistenzialismo di Sartre, alla psichiatria fenomenologia di L. Binswanger.
Nel 1953 si specializza in malattie nervose e mentali e sposa Franca Ongaro, che – a differenza di quanto spesso si pensa – non era medica, né psicologa, ma letterata. Con lei lavora per tutta la vita.
Dal 1953 al 1961, assistente di Belloni a Padova, si dedica alla ricerca e alla pratica clinica, come; nel 1958 ottiene la libera docenza in psichiatria.
Il 1961 è l’anno della svolta: Franco Basaglia inizia il rivoluzionario lavoro di direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia.
Tra il 1961 e il 1970 visita una comunità terapeutica di Maxwell Jones in Scozia e le esperienze di apertura francesi. Nel 1967 cura il volume Che cos'è la psichiatria? e nel 1968 L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, che racconta l'esperienza di Gorizia.
Tra il 1970 e il 1971, dirige – per poco tempo – la struttura psichiatrica di Colorno, vicino a Parma e, nel 1971, accetta la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, enorme struttura che sorge sul colle di San Giovanni e ospita 1182 malati di cui 840 sottoposti a regime coatto.
Trieste è il luogo in cui mette in pratica, in modo ampio e completo, il suo approccio di normalizzazione della malattia mentale e di apertura dell’ospedale psichiatrico alla città e della città all’ospedale psichiatrico.
Nel 1973 fonda la Società Italiana di Psichiatria Democratica; nello stesso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce Trieste come zona pilota per la ricerca sui servizi per la salute mentale.
Il 1978 è l’anno in cui il suo approccio prende forma in termini istituzionali con l’approvazione della legge 13 maggio 1978, n. 180 - la Legge Orsini, chiamata quasi sempre Legge Basaglia – che abroga quasi completamente la legge del 14 febbraio 1904, n.36 e che impone la chiusura dei manicomi, regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio e istituisce i servizi di igiene mentale pubblici.
Franco Basaglia nel 1980 prende servizio come coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio – dove potrebbe mettere in pratica il modello di psichiatria aperta e territoriale ma, colpito da un tumore, muore nel mese di agosto, a 56 anni.
FRAMMENTI DI CONTESTO SOCIALE ED ECONOMICO
Per comprendere “dove e come” nascono ed evolvono il pensiero e l’opera di Franco Basaglia e dei suoi colleghi, abbiamo provato a isolare alcuni frammenti di contesto che esemplificano quale fosse lo stile di pensiero che ha accompagnato questa evoluzione.
FRAMMENTO #1– IL REGIME FASCISTA
Franco Basaglia studia tra fascismo e Seconda guerra mondiale e viene incarcerato per alcuni mesi tra 1944 e 1945, per attività antifascista. È il periodo in cui, gli eccessi fascisti e nazisti, le leggi razziali e la repressione politica stimolano il desiderio di libertà. Durante il regime fascista le libertà fondamentali, di parole, di movimento, di educazione e di professione sono negate e il manicomio – più che nel passato -è usato come strumento politico, di contenimento, non solo della cosiddetta devianza sociale e mentale, ma anche della opposizione politica.
Un caso emblematico è quello di «Giuseppe Massarenti, leader del movimento bracciantile emiliano e poi sindaco socialista di Molinella – ricordato come il Santo del Socialismo italiano – fu mandato al confino nel 1926 e da lì seguirà un doloroso processo di impoverimento e di caduta nella marginalità che si concluse con il trasferimento alla Clinica delle malattie nervose e mentali di Roma prima e al celebre ospedale psichiatrico della capitale – il Santa Maria della Pietà – poi. Delirio paranoico la prognosi. Un classico» (Petracci M., I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, 2014, Donzelli, XVIII, p. 238).
Durante il regime di Mussolini il numero di reclusi psichiatrici quasi raddoppia rispetto ai decenni precedenti, i manicomi italiani passano ad ospitare da 55 mila (dati del 1920) a 95 mila persone (dati del 1941)[1]
FRAMMENTO #2 – L’IMMEDIATO DOPOGUERRA
Il periodo della laurea e degli studi per la specializzazione scorre tra la fine della guerra e i primi anni ’60. Sono gli anni del boom economico, della scoperta del benessere, in Italia, per (quasi) tutti, della condanna delle miserie come quelle dei Sassi di Matera (la visita di P. Togliatti a Matera è del 1948), dell’affermazione di una nuova economia industriale – della Fiat che “importa” manodopera dal sud del Paese, della “fabbrica aperta” di Adriano Olivetti; sono anni in cui – sollevata dall’oppressione del regime, dalle disgrazie della guerra e dalla miseria delle difficoltà economiche - la società italiana può pensare anche a cose marginali: i matti e la malattia mentale, per esempio, le modalità coercitive in cui vengono trattati.
Nel 1957 Sergio Zavoli realizza il documentario radiofonico Clausura all’interno di un monastero di clausura delle Carmelitane scalze e – intervistando Padre Rotondi, cita Pio XII che, nell’enciclica Sponsa Christi aveva definito non più tollerabili certi disagi in cui vivono le monache di clausura.
Questo atteggiamento – però - non sembra toccare la facoltà di medicina di Padova e – in particolare – l’istituto di malattie nervose e mentali, diretto da Belloni, che era «intriso di positivismo scientista e lombrosiano […] fedele alla tesi organicistica che vede la malattia mentale come la conseguenza di tare biologiche congenite».
In quegli stessi anni, la fenomenologia e l’esistenzialismo dominano la scena filosofica e si spingono all’interno del perimetro della psicologia, della medicina, della psichiatria.
FRAMMENTO #3: GLI ANNI ’60, FINO AL 1968
Il periodo in cui Basaglia dirige l’ospedale psichiatrico di Trieste, tra il 1961 e il 1970, è quello in cui maturano le istanze che sfoceranno nella “rivoluzione” del 1968.
È un vero e proprio tentativo di rovesciamento del paradigma sociale, in cui la tradizione e la conservazione dei valori borghesi della fine del XIX secolo e anche del primo dopoguerra – gli stessi valori di ricerca del benessere economico che hanno favorito l’attenzione ai marginali – vengono messi in crisi.
Sono gli anni in cui si parla, si scrive, si canta e si urla – nelle manifestazioni e nei momenti di lotta - di immaginazione al potere, di libertà da ogni costrizione – culturale, sociale, sessuale.
È nel 1968 che il Ministro della Sanità Luigi Mariotti firma la Legge di riforma psichiatrica che porta il suo nome e che abolisce l’obbligo di iscrizione nel Casellario giudiziale e prevede la possibilità del ricovero volontario e i Centri di Igiene Mentale con equipe multi professionali composte da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali [2]
Sono gli anni in cui inizia la fine del boom economico e – sulla scia del libertarismo del ’68 – si affermano le istanze di rivendicazione economica e sociale dei lavoratori delle fabbriche, sostenuti da ampie schiere di studenti liceali e universitari.
Nel 1968, ancora Zavoli, “entra” nel manicomio di Gorizia con le telecamere di TV7 a documentare
FRAMMENTO #4: DAL 1968 AL 1978
Negli anni tra il 1968 e la promulgazione della Legge 180 accadono fatti che possono essere ricordati come elementi rilevanti per la formazione del pensiero di Basaglia e del suo gruppo di co-pensatori, per il favore che questo pensiero può trovare tra società e contesto politico.
Si tratta – ad esempio - della crescita di consenso del Partito Comunista Italiano, che nel 1976 raggiunge il 34% delle preferenze, guadagnando quasi 10 punti percentuali e 5 milioni di voti rispetto al 1963, a solo 4 punti dalla Democrazia Cristiana.
Si tratta anche del tentativo di rovesciare il paradigma di contrapposizione partitica tra DC e PCI, che aveva dominato fino ad allora, attraverso la formula del compromesso storico che si sostanziò prima nel governo di solidarietà nazionale (1976), a guida Andreotti, e nell’ipotesi di entrata del Partito Comunista nella compagine del successivo governo, studiata da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro e sostenuta da Zaccagnini. Il compromesso storico naufragò proprio nel 1978 con il rapimento e la successiva uccisione di Aldo Moro.
Sono anche gli anni del sindacalismo, della promulgazione della Legge 20 maggio 1970, n. 300 nota come Statuto dei lavoratori, che riconosce formalmente e in maniera organica una serie di diritti ai lavoratori di tutti i comparti, diritti fino ad allora spesso negati o ignorati, a partire dal Diritto all’opinione (Art. 1 della Legge Cit.) e del diritto all’Assemblea Sindacale, considerata in molti casi un atto di sedizione.
E del contro-sindacalismo: nel 1969 vengono ufficialmente riconosciuti i consigli di fabbrica; Alla fine del 1970 i CdF sono già 1.374 con 22.609 delegati: nel 1971, 2.566 con 30.493 delegati, nel 1972 un totale di 83.000 delegati; non mancano - però – le forme di opposizione da parte di alcune frange sindacali, che vedono nel Consiglio di Fabbrica un sistema per ingabbiare la protesta e suggeriscono mezzi di espressione con base più ampia e – in alcuni casi – modi più aggressivi.
Le assemblee sono un elemento chiave dei due decenni che seguono il 1960: note solo come momenti di aggregazione partitica o di movimento – molto spesso clandestine - diventano in breve tempo uno degli strumenti teoricamente portatori di democrazia più diffusi nelle fabbriche, nelle aziende, nelle scuole e nelle università; tutto si discute in assemblea, tutto si decide in assemblea, tutti i leader vengono nominato o acclamati in assemblea.
Le assemblee sono un modo per fare sentire la propria voce, per fare partecipare, per sentirsi liberi; Libertà è partecipazione, canta Giorgio Gaber nel 1972.
Far sentire la voce di chi non l’ha mai avuta in pubblico è anche uno dei momenti – chiave delle prime radio libere “impegnate”[3], che fanno intervenire gli ascoltatori al telefono in diretta.
Tra le voci che conquistano il diritto ad essere – finalmente – ascoltate ci sono quelle delle donne che, ad esempio, nonostante dure opposizioni interne, conquistano una propria progressiva rilevanza all’interno dei movimenti sindacali verso la metà degli anni ’70; e lo fanno con assemblee e comitati femminili, non contrapposti ma paralleli a quelli sindacali ufficiali.
E, a Verona, nel 1976, si svolge il primo processo per stupro in cui la vittima rifiuta di interpretare il ruolo passivo di “oggetto” della violenza sessuale per diventare “soggetto” di un’accusa che trascende i suoi stupratori, spiegando quanto la sua vicenda “personale” sia in realtà “politica”. In aula la ragazza è sostenuta dalla presenza di un coordinamento di gruppi femministi e la sua voce – non più silenziata come nei casi analoghi – si fa sentire in una dimensione pubblica, grazie alla copertura dei media più tradizionali e della televisione, che ne fa un documentario trasmesso in prima serata alla fine di ottobre dello stesso anno.
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È in questo scenario o, meglio, questo susseguirsi di scenari sociali e politici – delineato in pochi tratti a cui manca sicuramente molta “storia” – che si forma l’esperienza e la rivoluzione di Franco Basaglia, di Franca Ongaro, di Giovanni Jervis e dei loro colleghi.
Idee ed esperienze che attingono anche a quella che fu chiamata da Pasolini – e non a torto - «ubriacatura di astrazione teorica» ma che ha sicuramente segnato la trasformazione della società italiana dal dopoguerra alla fine degli anni ’70.
NOTE
[1] Cfr. Petracci M., Cit.
[2] Reggio Emilia è in prima fila nell’avvio dell’esperienza territoriale e nel 1968 la Provincia apre i primi Centri di Igiene Mentale, affidati dal 1969 a Giovanni Jervis, psichiatra che aveva lavorato con Basaglia a Gorizia.
[3] Cfr. F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Feltrinelli, 2021
Epistemologia e clinica (oltre la politica) in Franco Basaglia
“Basaglia” è il nome di una rivoluzione quasi universalmente riconosciuta, anche se poco o nulla applicata fuori dall’Italia. I dibattiti sulla legge 180, sulle sue luci impossibili da spegnere, ma anche sui suoi limiti attuali, si susseguono ciclicamente. Spesso il Basaglia clinico tende a essere offuscato dalla, giustamente celebre, portata politica della sua battaglia e del suo gesto. Eppure, clinica e politica, in lui, sono legati.
Figlio della tradizione della psichiatria fenomenologica, esistenziale, dasein-analitica, in lui sono costanti i riferimenti a pensatori ritenuti fondamentali fino agli anni 60’-70’, e oggi un po’ in ombra, come Sartre, Heidegger, Merlau-Ponty, Husserl, Biswanger. Autori politici, ognuno a suo modo, da cui Basaglia trarrà i propri echi; correnti di pensiero appunto, non solo strettamente filosofiche, tali da investire tutti i campi delle scienze cosiddette “umane”.
La psichiatria è chiaramente una scienza limite, avendo come oggetto qualcosa di eternamente sfuggente come l’umano, rimanendo con un piede o entrambi, all’interno di un’altra scienza limite, cioè la medicina.
Medicina: sapere, tecnica, che unisce arte, nel senso ippocratico, e scienza transitata nella cornice del moderno. E sullo psi della iatreia (cura), su cosa sia o come sia quella psyché a salire fino alla nostra “psiche” o “mente” la risposta non è definitiva.
Tantomeno sulle sue malattie e le sue cure. Ne consegue che teoria e prassi, epistemologia e azione sono indissociabili; di qui, il problema storico, sociologico e infine politico non cesserà mai di ripresentarsi.
In Un problema di psichiatria istituzionale e testi vicini (L’ideologia del corpo, Corpo, sguardo e silenzio, ecc), l’originalità dell’intreccio che presenta Basaglia è evidente: emerge una teoria della clinica come specchio di una teoria politico-critica.
Il sottotitolo è eloquente: L’esclusione come categoria socio-psichiatrica. Da un punto di vista di filosofia politica, o anche socio-antropologico, la categoria dell’escluso è inerente a ogni società, e in particolare in quelle dove siano presenti divisioni gerarchiche.
Il capro espiatorio è quel “dispositivo” (politico, sociologico, antropologico) in cui le contraddizioni di una società vanno a concretizzarsi, scaricando l’aggressività che esse comportano.
Ma il malato mentale ha una sua peculiarità: egli è posto fuori dalla dialettica. Quelli che oggi chiameremmo “gruppi marginalizzati” hanno sempre avuto un potenziale attivo di rivolta. Il malato mentale è una figura più enigmatica: se Foucault voleva dare parola alla follia, è perché essa non parla mai in modo univoco, e dunque è al confine col silenzio; ma se il malato mentale è ridotto all’espressione della propria malattia, confine sempre aperto, la sua stessa parola sarà puro silenzio.
Così funziona la realtà di quest’esclusione peculiare: ogni parola di risposta, di tentativo di dialettica, è nuovo rinforzo, motivo per prolungare l’esclusione.
Il tutto comporta per Basaglia, che egli è all’interno della sua stessa epistemologia, cioè nel dispositivo per dire e poi curare, trattare, la follia come malattia mentale. Comporta che la psichiatria può trovare le leve per dialettizzare il malato. Le parole quasi d’ordine dell’impianto degli autori sopracitati sono imperniate intorno alla soggettività, alla libertà, al corpo, alla scelta.
Il problema centrale per quest’approccio è la questione della scelta, scelta di sé come libertà e dell’angoscia che questa comporta, eco esistenzialista, la cui difesa primigenia è l’esclusione. Ma non solo: l’altro da sé è anche la propria “fattità”.
Fattità che si è come corpo, “corpo oggettuale”, opacità, passività, nonché soggetto delle percezioni, corporeità con cui si è nel mondo (Merleau-Ponty), di cui ci si deve appropriare per essere soggetti di scelta propria, cioè per soggettivarsi.
L’opacità è anche, specularmente, quella dell’altro. Dunque, incorporare la propria estraneità è parte dello stesso processo del riconoscere l’altro come altro da sé. Non solo come oggetto, come “concretizzazione” dell’estraneità che si rifiuta, ma come a sua volta luogo di una soggettività. Corpo oggettuale, ma anche – husserlianamente – centro di un “io fungente”.
Al contrario, la mancata appropriazione della propria opacità corporea – della vulnerabilità, della materialità – dell’essere corpo-oggetto sia di se stessi sia dello sguardo altrui porterà alla sua esclusione nell’altro divenuto “osceno”. Altro incomprensibile e dunque riducibile soltanto a oggetto, così come a oggetto dell’altro si è sempre ricondotti in questa dinamica.
La genialità di Basaglia, nell’intrecciare clinica e politica, sta qui nel proporre una diagnosi strutturale tra nevrosi e psicosi, capisaldi freudiani, come due modi di essere-nel-mondo con connotazione politica: esclusione ideologica e utopia psicotica. Se per Freud il conflitto centrale della prima è tra Io ed Es, per accettazione del mondo esterno, quello della seconda tra Io e mondo esterno, per lo strabordare dell’Es, qui il conflitto è frutto di un’esclusione del reale.
Per il nevrotico tale esclusione è ideologica, nel senso che non v’è rinuncia a un rapporto con l’altro, ma comunque rifiuto della propria contingenza, dell’ansia derivante dalla scelta di sé e dell’appropriazione del proprio corpo.
Come risposta – o difesa – edificherà un’ideologia, un’immagine “ideale” del corpo, con cui controllarne l’opacità, potendosi per lo meno relazionare con l’altro per il quale avrà comunque una certa oblatività.
È sull’altro e nel desiderio di essere accettato, che egli la edificherà. Pagando questo al prezzo di un’angoscia che produce inibizione, indeterminazione, restringimento.
L’altro è dunque mantenuto nella sua soggettività, sempre nel filtro di un’ideologia che lo conduce alla malafede sartriana.
Per lo psicotico, invece, il rifiuto è ben più radicale. Il risultato di questo processo non è la costruzione di un’ideologia, ma di un’utopia.
La contestazione che il reale continua a far irrompere, reale come opacità, viene a tal punto mal tollerata che è solo nel delirio – cioè in una costruzione sganciata dall’altro, dal “co-mondano” – che uno psicotico potrà trovare una sorta di stabilizzazione e controllo.
Ma proprio lì è un mondo senza limiti, sotto la costante minaccia di quell’angoscia che non cesserà di tormentarlo, divenendo sempre più schiacciante e distruttiva con conseguenti difese estreme.
Se la terminologia politica è qui esplicita, diviene evidente il problema politico dei manicomi: alla regressione psicotica viene aggiunta, intrecciata, una regressione istituzionale. All’esclusione che il malato opera si aggiunge l’esclusione che la società opera su di lui attraverso le mura del manicomio, difesa non del malato, ma dei sani.
L’opacità, l’incomprensibilità del malato di mente, è ridotta a pericolosità sociale. Egli rimane quell’“osceno” (fuori-scena) privo di qualunque soggettività. Alla malattia si sovrappone dunque una malattia indotta direttamente dall’istituzione, in un circolo vizioso in cui le due diventano indistinguibili, fortificandosi a vicenda e giustificando quindi l’apparato manicomiale.
Il restringimento dell’Io – il rimpicciolimento, il rinchiudersi della soggettività, a cui già fa fronte il malato – è speculare al risultato di quella “carriera morale” a cui è sottoposto dall’istituzione disciplinare. L’Io è ridotto a spettro, uomo privato di tutto, homo sacer o musulmano di Auschiwtz, seguendo la concettualizzazione successiva di Giorgio Agamben: non a caso c’è riferimento esplicito a Primo Levi.
È qui che si innesta una specifica teoria del potere: rifiuto dell’autorità o dell’autoritarismo, ma non rifiuto del potere tout court. Perché il potere contiene in sé anche lo spazio di una dialettica, che non si riduca a quella servo-signore hegeliana.
Da questo breve excursus si può notare come epistemologia, clinica e politica non siano dissociabili. Al netto dell’impossibilità di liberarsi della contingenza, in particolare storica, quando si tratta della prassi, Basaglia offre un originale e si spera non dimenticato esempio di questo gesto di annodamento.
L’etica hacker al di là di destra e sinistra - Il potere e la Silicon Valley
Quo usque tandem
Fino a quando i politici e i media mainstream abuseranno delle categorie di destra e sinistra per parlare della Silicon Valley? Candidati, ministri, deputati e giornalisti si impigliano in questa classificazione già nei loro discorsi consueti, aggovigliandosi in parole d’ordine in cui è difficile comprendere cosa distingua questi orientamenti politici e in che modo li si debba identificare. La loro applicazione al sistema di economia e di potere delle Big Tech è ancora più arbitrario, dal momento che i fondatori e i manager delle multinazionali digitali americane, l’ecosistema degli startupper e dei finanziatori, dichiarano da sempre di appartenere ad un’élite dell’umanità in cui valgono regole di valutazione, diritti di decisione e libertà di manovra, che non si trovano nella disponibilità di tutti.
Nello statuto di Facebook e nella lettera agli azionisti al momento del collocamento in Borsa, Mark Zuckerberg chiariva che il fondatore avrebbe conservato un potere di voto maggioritario, in modo indipendente dalla distribuzione delle quote azionarie, perché aveva dimostrato di essere più smart di chiunque altro. La rivendicazione di questo privilegio proviene dall’etica hacker, che distingue gli esseri umani in capaci e incapaci, senza ulteriori sfumature. L’abilità è testimoniata dal talento di trovare una procedura per risolvere qualunque problema – anzi, nell’individuare il procedimento più semplice dal punto di vista dell’implementazione e più esaustivo dal punto di vista dei risultati. Se si considera che questa è la prospettiva con cui viene descritta l’intelligenza dalle parti della Silicon Valley, non sorprende che la progettazione di una macchina capace di vincere le partite di scacchi sia stata interpretata come la via maestra per realizzare l’Intelligenza Artificiale Generale (AGI), raggiungendo la Singolarità, il tipo di intelligenza che si ritrova negli esseri umani.
Il problema di cosa sia smartness è che dipende sempre dalla definizione, e dal contesto culturale che la concepisce. Per gli esponenti più influenti della Silicon Valley coincide con la capacità di escogitare algoritmi: una serie di operazioni governate da una regola che possono essere automatizzate – ingranaggi che, sistemati nei luoghi opportuni, fanno funzionare meglio la macchina-mondo, così com’è. La politica, come riflessione sul potere e come progetto antropologico che immagina una realtà migliore e una società più giusta (qualunque significato si assegni a migliore e a giustizia), non serve: è inefficiente, provoca disagi e rallentamenti. L’universo attuale non ha bisogno di aspirazioni al cambiamento, se non il requisito di un’efficienza maggiore, movimenti più oliati, privilegi che si perpetuano scontrandosi con meno frizioni, un’opinione pubblica convertita in una platea di utenti-clienti.
Smartness
In questa prospettiva, i «ragazzi» che hanno fondato le imprese da cui proviene l’ecosistema di software in cui siamo immersi, possono a buon diritto stimarsi più smart degli amministratori pubblici. Elon Musk ha avviato il progetto Starlink per l’erogazione di connettività a banda larga via satellite nel 2019, e oggi conta su oltre 7.000 satelliti già in orbita, con circa tre milioni di abbonati tra gli utenti civili di tutto il globo – senza contare la capacità di intervenire nelle sorti delle guerre in corso in Ucraina e Israele, o di contribuire al soccorso delle popolazioni alluvionate in Emilia Romagna nel 2023. L’Unione Europea ha varato un piano concorrente solo quattro anni dopo: Iris2 ha debuttato nel marzo 2023, dopo nove mesi di dibattito preliminare, con la previsione di lanciare 170 satelliti entro il 2027. Il progetto però sta già subendo dei rinvii a causa delle tensioni con i partner privati Airbus (tedesca) e Thales (francese).
Altro esempio: dopo l’approvazione dell’AI Act, l’Unione Europea ha allestito un Ufficio per l’applicazione del regolamento, che occuperà 140 persone. Nel piano è previsto un finanziamento distribuito fino al 2027, di 49 milioni di euro complessivi, per progetti che creino un grande modello linguistico generativo open source, capace di federare le aziende e i progetti di ricerca del continente. L’obiettivo è costruire un’alternativa concorrente a ChatGPT, che però OpenAI ha cominciato a progettare nel 2015, su inziativa di quattro fondatori privati (tra cui il solito Elon Musk e Sam Altman, attuale CEO), che hanno investito di tasca loro oltre 1 miliardo di dollari, e che è stata sostenuta con più di dieci miliardi di dollari da Microsoft nell’ultimo round di finanziamento.
L’archetipo randiano
La storia dei successi delle tecnologie ideate e commercializzate in tutto il mondo dalle società della Silicon Valley accredita la convinzione dei loro fondatori di incarnare l’élite più smart del pianeta; l’etica hacker stimola la loro inclinazione a concepire, realizzare e distribuire dispositivi il cui funzionamento viola qualunque normativa a tutela della privacy e della proprietà intellettuale in vigore, con la creazione di mercati che trasformano ambienti, comportamenti, relazioni, corpi umani, in beni di scambio e di consumo; la filosofia di Ayn Rand giustifica sul piano della cultura, dell’ideologia e della politica, il loro atteggiamento come la missione salvifica dell’individuo eccezionale nei confronti della destinazione storica dell’intera specie. La devozione agli insegnamenti della Rand accomuna tutti i leader delle Big Tech in un’unica visione dell’uomo e del mondo, che legittima i loro modelli di business come valide espressioni del loro talento, e censura le reazioni degli organismi di giustizia come il sabotaggio perpetrato dall’ottusità tradizionale e dalla repressione (sprigionata dalla vocazione comunista di ogni istituto statale) sulla libertà di azione dell’imprenditore-eroe. La rivendicazione della libertà di iniziativa al di là dei limiti di qualsiasi sistema legale non avviene solo sul piano del diritto, ma è avvertita come un dovere da parte dei depositari della smartness del pianeta – perché, come osserva il co-fondatore ed ex direttore di Wired Kevin Kelly, il loro coraggio di innovazione porta a compimento un percorso di evoluzione ineluttabile: il tentativo di resistervi conduce ad un ruolo subordinato nelle retrovie del presente, nella parte di chi viene accantonato dalla Storia.
Tecnologia e istituzioni
Riotta e Bonini rilevano che oggi l’espressione culturale della Silicon Valley è il Think Tank del Claremont Institute, dove verrebbe praticato una sorta di culto delle idee di Leo Strauss. Se così fosse, dovremmo riconoscere che il clima filosofico della zona si è molto moderato, e raffinato, rispetto al superomismo tradizionale della Rand. Tuttavia gli editorialisti de la Repubblica leggono questo passaggio come un segnale dello sbandamento verso destra dei rappresentanti delle Big Tech, tra i quali si avvertirebbe sempre di più la frattura tra progressisti e reazionari. L’articolo del 21 settembre di Riotta prepara l’interpretazione politica del premio «Global Citizen Award 2024» dell'Atlantic Council a Giorgia Meloni, consegnato il 24 settembre da Elon Musk in persona. Molti giornali hanno chiosato il significato dell’evento come la celebrazione dell’alleanza tra il gruppo di imprenditori legati a Musk e la destra europea e americana. Il contratto di cui il creatore di Starlink e la Presidente del Consiglio avrebbero parlato nel loro colloquio privato riguarda proprio la gara di appalto per i servizi di connettività dello stato italiano. Tim e OpenFiber si sono aggiudicati i progetti per la copertura con banda larga di tutto il territorio, alimentati dal Pnrr; ma hanno già accumulato ritardi e opposto difficoltà alla concorrenza satellitare, per cui il governo potrebbe decidere di sostituire la loro fornitura via terra con quella dei servizi di Elon Musk. Anche per le operazioni di lancio dei satelliti di Iris2, l’Italia potrebbe appoggiare la collaborazione con SpaceX, grazie alla quale verrebbero superati gli impedimenti sollevati da Airbus e Thales. Il rapporto con le società americane permetterebbe loro di entrare nelle infrastrutture strategiche per la gestione dei servizi civili e persino per quelli di sicurezza nazionale dell’Unione Eruopea.
Già negli anni Ottanta del secolo scorso Ulrich Beck osservava che il ritmo di avanzamento della scienza e della tecnologia è troppo veloce per permettere alle istituzioni pubbliche di vagliare i rischi, di verificare condizioni e conseguenze, di guidarne lo sviluppo: alla politica non resta che constatare e convalidare l’esistente. Il rapporto che si stabilisce tra le figure di Musk e della Meloni non sembra differente: non è l’imprenditore ad essere affiliato alle fila della destra politica, ma è l’innovatore spregiudicato che definisce le prospettive della tecnologia, le possibilità che essa pone in essere, e i criteri per giudicare dispositivi e processi concorrenti. L’Unione Europea è relegata nel ruolo di inseguitore poco efficiente di ciò che Starlink ha già concepito e realizzato: il discorso con cui Giorgia Meloni consacra Elon Musk come campione degli ideali della destra, in fondo, non è che il gesto di validazione dell’esistente da parte delle istituzioni, e l’affiliazione della politica al mondo che l’eroe randiano ha progettato per noi. È la Presidente del Consiglio ad essere arruolata tra i legittimatori della leadership naturale dell’hacker, nelle fila di coloro che percepiscono il bene comune come la soluzione tecnologica di problemi che, o permettono questo tipo di ricomposizione, o non esistono.
Come ha dichiarato Sam Altman alla fine di luglio 2024, anche la crisi delle disparità sociali ha una soluzione che deve essere gestita dalle aziende tecnologiche, con la distribuzione di un reddito base universale a tutti coloro che stanno per perdere il lavoro: a causa della rivoluzione imminente dell’Intelligenza Artificiale Generale, secondo il CEO di OpenAI, questa sarà la situazione in cui a breve verseremo quasi tutti. Sono quasi due decenni che con le piattaforme digitali, Facebook e Google in primis, l’intero mondo Occidentale si è trasformato in un enorme esperimento sociale a cielo aperto, controllato e mirato solo da chi possiede le chiavi del software (purtroppo, molto spesso, nemmeno troppo in modo consapevole).
Come al tavolo dell’Atlantic Council, Giorgia Meloni siede alla destra di Elon Musk, alla corte dei re della tecnologia politica.
BIBLIOGRAFIA
Ulrich Beck, Una società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it. a cura di W. Privitera, Carocci Editore, Roma, 2005.
Paresh Dave, Here’s What Happens When You Give People Free Money, «Wired», 22 luglio 2024.
Kevin Kelly, Quello che vuole la tecnologia, Codice Edizioni, Milano 2010.
Gianni Riotta, Carlo Bonini, Silicon Valley, in fondo a destra, «la Repubblica», 21 settembre 2024.
Namibia, uccidere per mangiare - Animali protetti e persone affamate
83 elefanti, 300 zebre, 100 gnu, 150 antilopi, 60 bufali e 30 ippopotami: sono 723 grandi animali – protetti – dei parchi nazionali che saranno uccisi da cacciatori ufficialmente incaricati dal Governo della Namibia.
Questo piano istituzionale è un intervento mirato a contrastare la più grave carestia degli ultimi 100 anni, con le scorte alimentari già esaurite per l’84%, più della metà della popolazione che si trova in gravi difficoltà alimentari dal mese di luglio e un aggravamento delle condizioni di malnutrizione per i bambini sotto i 5 anni .
Quindi: il Governo della Namibia intende sacrificare una parte consistente delle risorse naturalistiche del paese per far mangiare la propria gente, per alleviare le gravi sofferenze e difficoltà in cui questa gente versa. Sono risorse dei parchi, oggetto dell’interesse turistico e – per questo – elemento importante dell’economia namibiana; e sono protette dalle leggi costituzionali: «Lo stato dovrà promuovere e proteggere attivamente il benessere della popolazione facendo proprie le politiche internazionali rivolte ai seguenti obiettivi: protezione degli ecosistemi, processi ecologici essenziali, biodiversità, e uso delle risorse naturali come base sostenibile per il bene di tutti i namibiani, presenti e futuri» (Articolo 35 della Costituzione della Namibia). Ma, d’altra parte, questo stesso dettato costituzionale legittima l’uso degli animali per far mangiare i namibiani: «per il bene di tutti i namibiani», e quale maggior bene della sopravvivenza?
In più, anche questi animali hanno fame, perché la carestia colpisce tutti, indistintamente, e hanno iniziato ad esercitare pressione sui villaggi e sui paesi “di confine” con le aree protette, facendo danni e – pare - qualche vittima tra gli umani.
E sono tanti, forse troppi: in molte regioni dell’Africa i programmi – realizzati secondo criteri ecologici e scientifici - di protezione delle specie caratteristiche e di sostegno al popolamento hanno dato risultati superiori alle aspettative e generato un numero di individui superiore al livello di sostenibilità territoriale, eccesso che rischia di mettere in crisi gli equilibri tra umani e non umani e tra diverse specie.
QUESTIONI DI CONFINE
Da questa storia emergono – immediate – alcune questioni di confine, anch’esse, tra scienza e morale.
La prima riguarda il valore morale delle specie animali, umane e non umane; è evidente che per il Governo e, immaginiamo, per tutti i namibiani, sfamare la popolazione è più importante della vita di qualche centinaio di animali dei parchi.
In secondo luogo, gli animali dei parchi sono – lo dice la costituzione – risorse naturali il cui uso, che sia essere fotografati, cacciati o macellati, è finalizzato al bene della popolazione. Il confine è, qui, proprio tra individui e risorse. Questo confine ricalca la trasformazione di queste regioni, in cui – prima dell’intervento coloniale, delle successive rivoluzioni indipendentiste e delle occidentalizzazioni – tradizionalmente, gli animali avevano un diritto all’individualità e godevano di forme di rispetto e di attenzione dettate dalle tradizioni di equilibrio tra i diversi abitanti, umani e non; ora sono risorse, da preservare e utilizzare con calcolo economico.
Terzo: l’effetto dannoso della fame è acuito dalla conflittualità “di confine” tra animali dei parchi e insediamenti umani: risultato – anche – degli interventi di preservazione e di ripopolamento di medio lungo periodo che hanno, probabilmente, trascurato l’analisi degli effetti collaterali.
INCROCI PERICOLOSI
Proviamo a incrociare questa storia con altre storie recenti, serie e meno serie, che parlano di uccidere per mangiare e a considerare le reazioni “pubbliche” che si sono registrate:
- La FAO è irremovibile – nonostante l’evidente contraddizione con i programmi transnazionali di riduzione delle emissioni di CO2 – sull’utilizzo del bestiame d’allevamento, mucche, maiali, polli, come fonte di cibo di elevata qualità. Legittima, in nome dell’evidenza scientifica della superiorità delle proteine di origine animale, l’industria dell’uccisione, per far mangiare “bene” la popolazione mondiale.
- Nel dibattito di pochi giorni fa tra i due candidati alla Presidenza degli Stati Uniti, uno dei candidati ha accusato gli immigrati Haitiani (neri e irregolari, è implicito) di uccidere, per mangiarli, i cani, i gatti e le oche dei vicini di casa (bianchi e regolari, si presume) cittadini di Pittsburgh.
Sulla posizione della FAO si registrano solo i commenti negativi di alcuni scienziati che studiano meno superficialmente il problema della CO2 e – naturalmente – degli attivisti animalisti. Nessun Governo e nessuna istituzione nazionale o sovranazionale pare aver preso una posizione di contrasto.
Sulla fandonia di cani, gatti e oche raccontata a fini elettorali dal candidato americano, invece, sono insorti tutti: molti per deprecare la falsità dell’argomento – puntualmente smentito dalle autorità di Pittsburgh – tutti, nessuno escluso, hanno aderito all’opinione di sdegno di fronte alla sola idea che possa accadere qualcosa del genere. Perlomeno per cani e gatti. Per le oche, invece, il fronte non è certamente compatto: il Governo inglese va verso l’abolizione delle importazioni del foie gras ma l’opposizione conservatrice si oppone; in California il divieto è già attivo da tempo e in Belgio sono stati chiusi gli allevamenti forzati; ma in Francia si continua a produrre.
E sulla Namibia? Preoccupazione e un po’ di sdegno delle organizzazioni naturaliste e animaliste, pur se mitigate dalla contropartita: si uccide – e in numero limitato - per alleviare la fame, per salvare i bambini, per far arrivare la popolazione all’arrivo di aiuti più consistenti. Non si dovrebbe, però… e nessun Governo, in tutto il mondo, sembra aver detto una parola.
GERARCHIE CONTROVERSE
Questi “incroci” sembrano disegnare delle mappe della gerarchia di rilevanza morale del mondo animale. Senza dubbio, in tutti i casi che abbiamo visto, gli umani sono al primo posto, ben al di sopra dei non umani: è legittimo, per un’ampia parte delle opinioni, uccidere altri animali per nutrire gli umani.
Però, va notato, non tutti gli “altri” animali sono ugualmente sacrificabili. I cani e i gatti godono di uno statuto privilegiato – sicuramente se domestici, apparentemente anche se randagi; non sono “buoni da mangiare”, ucciderli per mangiarli è deprecabile, incivile, barbaro.
Appena “sotto” ai cani e ai gatti, si vedono delle crepe: le oche, se a mangiarle sono gli immigrati Haitiani in USA, questi compiono un delitto. Se lo fa un cittadino francese, è rispetto della tradizione alimentare.
Solo in India le mucche non si mangiano, sia questa una questione religiosa o micro-economica, ma nel resto del mondo – fatto salvo per una abbastanza ridotta percentuale di eretici vegetariani e vegani – la carne di mucche, maiali e polli è necessità proteica, cultura, abitudine, (spreco), ed è legittimata anche dalla FAO con argomenti scientifici.
E gli animali selvaggi delle regioni esotiche? Elefanti, zebre, gnu, ippopotami, eccetera, godevano – in generale - anch’essi di uno statuto di intoccabilità, afferivano alla categoria delle specie a rischio di estinzione, da preservare, della biodiversità; ma si è aperta una crepa e pare che si possano uccidere e mangiare anche loro. E, oltre alla questione morale: meglio mangiare un elefante o lasciare malnutrito un bambino? entrano in gioco la dimensione economica: grandi animali affamati possono fare danni e per sostenere l’economia turistica dei parchi ce ne sono più che abbastanza, e la legittimazione scientifica, ecologica: troppi elefanti (ippopotami, gnu, …) mettono in crisi l’equilibrio faunistico e del verde territoriale.
Quello che si nota qui è che i criteri per costruire la scala di valore degli animali sono principalmente sociali e spesso godono di legittimazione scientifica – l’inferiorità intellettiva di alcuni animali rispetto ad altri, ad esempio, è oggetto di numerose ricerche cognitive.
Tuttavia, non sembra che tra questi criteri sociali ci siano il valore della vita dei singoli individui non umani né quello della sensibilità, criteri che animano – invece – la lotta contro l’alimentazione forzata delle oche in molti paesi europei e che – sempre – legittimano la posizione dominante degli umani, a cui tutti possono – di fatto - essere sacrificati.
Ancora un orso ucciso dalla politica - E la scienza che si crede neutrale
Tocca parlare di nuovo di un orso - ucciso “col favore delle tenebre”, come si direbbe in gergo giornalistico e senza, tuttavia, sbagliarsi - dal Presidente della Provincia Autonoma di Trento con l'aiuto della scienza che pretende di essere politicamente e moralmente neutrale.
I FATTI
Il 16 luglio scorso un’orsa, con un piccolo vicino, aggredisce e ferisce un turista francese che percorre il Sentiero degli scaloni, nei pressi di Dro, in Trentino. L’orsa sembra essere l’esemplare femmina, madre di 3 cuccioli, chiamato in codice KJ1.
Il giorno dopo, il Presidente della Provincia Autonoma di Trento delibera “la rimozione tramite uccisione (abbattimento)” dell’orsa KJ1 perché pericolosa per l’incolumità pubblica e perché non c’è il tempo per altre misure.
La misura di rimozione – attenzione, non di uccisione - è giustificata dal parere dell’ISPRA[1], secondo la valutazione del PACOBACE - Piano d’Azione interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro-Orientali, che classifica l’orsa come esemplare ad alta pericolosità.
A sostengo di questa ordinanza c’è il fattore tempo: la Provincia ritiene che non ne ce ne sia abbastanza per catturare l’orsa, metterle un radiocollare ed eventualmente trasferirla in altre zone o in cattività, senza pregiudicare la sicurezza dei cittadini e dei turisti.
Il 19 di luglio, il TAR di Trento accoglie il ricorso di gruppi di ambientalisti[2] e blocca il decreto di uccisione perché «senza alcuna possibile alternativa e senza un accertamento definitivo dell’effettiva riconducibilità dell’aggressione all’orsa KJ1», riporta Il Fatto Quotidiano. in sostanza, il Tribunale Amministrativo contesta l’assenza di sufficienti ragioni di merito per l'uccisione.
Nei giorni successivi si ripete il copione: la Provincia di Trento (PAT) emette una seconda ordinanza di uccisione e il TAR di Trento si ripete nel bloccarla poiché – seppur accogliendo la necessità di garantire la sicurezza ai cittadini – non riscontra la necessità della misura estrema dell’uccisione.
Il TAR sottolinea anche l’esigenza di preservare la sicurezza con maggiori misure di prevenzione quali una maggiore informazione e l’eventuale chiusura delle aree in cui si muove l’orsa giudicata pericolosa.
In media res: il 23 luglio l’orsa viene catturata in una trappola a tubo nell’Alto Garda, le prelevano campioni di DNA e le viene apposto il radiocollare. L’esame del DNA è compatibile con quello rinvenuto nel luogo dell’aggressione, a prova del fatto che KJ1 possa essere stata effettivamente l’autrice dell’aggressione.
Ultimo, triste e inevitabile atto: il 29 luglio – si dice in tarda serata - il Presidente della PAT, con un uno-due degno di Mohammed Alì, questa volta non lascia tempo alla reazione ambientalista, delibera per la terza volta la rimozione per uccisione dell’orsa e nella mattinata del 30 luglio una squadra del Corpo forestale la uccide.
LA POSIZIONE DELL’ISPRA
L’ISPRA, autore, depositario, interprete e attuatore del Piano Regionale per la Conservazione dell’Orso Bruno, segue i criteri di valutazione della pericolosità degli orsi contenuti nel piano e – a differenza di altri casi di cui abbiamo già parlato – li contestualizza, integrandoli con la “storia personale” dell’orso, fino a definirne il grado di pericolosità. KJ1, in ragione dell’evento del 16 luglio, di 68 casi di danni a cose e 7 altri incontri in cui non sembra aver dimostrato quella paura che garantisce la tranquillità degli umani[3], è classificata “ad alto rischio” e se ne consiglia l’immediata rimozione.
La rimozione, dice il Piano d’Azione – dice l’Ispra, in sostanza – può essere effettuata tramite tre opzioni di intervento:
- cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radio marcaggio;
- cattura per captivazione permanente;
- abbattimento.
L’Ispra non va oltre e lascia all’Autorità, al Soggetto Decisore «di potersi muovere con adeguata autonomia per la realizzazione d'interventi il più possibile preconfigurati e codificati» evitando che «a causa di ritardi decisionali connessi ad aspetti burocratici e/o organizzativi, gli stati di crisi degenerino in situazioni che possono rivelarsi pericolose per la sicurezza e l’incolumità pubblica».
Il decisore – in questo caso - è la Provincia Autonoma di Trento, nella persona del suo Presidente.
LA POSIZIONE DEL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
Cercando di evitare l’ovvia (e, dal mio punto di vista, giusta) retorica e polemica nei confronti di quella che appare una guerra personale del rappresentante della Provincia contro gli orsi, un'analisi lucida delle ragioni del Presidente della PAT[4] fa emergere tre criteri morali che hanno ispirato la sua azione:
- il primo criterio, espresso esplicitamente, è la sicurezza, la salvaguardia e l’incolumità di “chi vive nelle nostre valli” e “dei nostri ospiti”
- il secondo criterio che emerge è la tutela dell’economia della Provincia di Trento, in cui il turismo gioca una parte molto significativa e il “rischio orsi” può farne diminuire l’appeal
Da qualunque punto di vista, l’istanza morale del Presidente della PAT è comprensibile e condivisibile: incolumità delle persone e salvaguardia del turismo – una delle principali risorse economiche della zona[5] – sono obiettivi chiave per la politica locale a cui riesce difficile obiettare.
È interessante[6] - però - che nell’ordinanza di uccisione di KJ1 si ritrovi anche il riferimento alla «sfera soggettiva dell’animale», come valore da perseguire.
Tuttavia, la scala di valori morali del Presidente vede dichiaratamente la «vita e l’incolumità dell’uomo» come «assiologicamente superiori rispetto alla vita di un animale».
Il Presidente della PAT giustifica, quindi, in questo modo la sua scelta morale di rimuovere l’orsa dal territorio attraverso l’uccisione e non con una delle altre possibili misure: il pericolo per la vita dei cittadini e dei turisti, che è – a suo avviso - di maggior valore di quella dell’animale non umano.[7]
EPPURE C’È QUALCOSA CHE NON QUADRA
Primo: in questa storia emerge che la Scienza – impersonificata nell’Ispra, nel Piano PACOBACE e nei suoi specialisti di ambiente e di etologia – si nasconde dietro alla cortina della neutralità, fermandosi alla valutazione della pericolosità, lodevolmente contestualizzata, e al suggerimento della rimozione.
Non prende, tuttavia, posizione sul “come”: trasferimento, cattività e morte sembrano essere soluzioni alla pari, senza differenze sostanziali e morali; le conseguenze della classificazione vengono lasciate alla politica.
Viene naturale pensare che, se si trattasse di un criminale umano, neuroscienziati, psichiatri ed esperti di diverse discipline scientifiche avrebbero molto da eccepire su questa normalizzazione compiuta dall’Ispra: come dire che l’allontanamento, il carcere e la pena di morte sono la stessa cosa, decida pure il Governo cosa fare di costui!
Un’occasione persa: la scienza, l’Ispra, potrebbe bene fare un passo di più, dare indicazioni su quale delle scelte sia più opportuna, tenendo conto sia della sicurezza degli umani che della sfera soggettiva dell’animale non umano (tutelata, tra l’altro, dalla costituzione e dal Codice penale), invece che arroccarsi in questa presunta neutralità e indipendenza morale, protetta dalla disciplina e dai suoi meccanismi esatti.
Secondo: La decisione del Presidente della PAT, che presenta un lato assolutamente condivisibile (chi vorrebbe mettere a rischio i propri concittadini e la loro economia?) è apparentemente giustificata dal principio del primato della vita umana rispetto a quella animale ma, in realtà, fa una torsione di questo principio mettendo a confronto due “oggetti” non commensurabili: il rischio (ipotetico) per l’umano e la morte (certa, per decreto) dell’animale. E di questa torsione dà pure ampia giustificazione nel decreto: «La vita di un animale pericoloso, nelle circostanze date, non può che ricoprire una valenza recessiva rispetto, non tanto e non solo alla vita e all’incolumità dell’uomo, quanto piuttosto al solo pericolo latente e concreto che detto animale possa reiterare attacchi nei confronti dell’uomo stesso».
Il pericolo “latente e concreto” – ma non così concreto da essere prevedibile e inevitabile con misure diverse dalla morte - diventa – in modo perverso e ingiustificato - un termine fondamentale dell’equazione che porta all’uccisione dell’orsa e all’abbandono dei suoi piccoli.
Terzo: il 23 luglio l’orsa KJ1 era stata catturata e le era stato messo il radiocollare. Cadeva così la necessità di fare in fretta, poteva essere trattenuta, trasferita o messa in cattività.
Poteva non essere uccisa: un’altra occasione persa.
Quarto ed ultimo punto: il Presidente della PATi, con il suo uno-due – ordinanza e uccisione - tra la sera del 29 e la mattina del 30 luglio, impone il primato dell’azione di potere sopra ad ogni posizione avversa e si fa beffe della giustizia amministrativa[8], delle istanze morali di chi sostiene la causa della soggettività dell’animale, delle valutazioni scientifiche alternative e della propria stessa dialettica di stampo scientifico[9] che dovrebbe accettare il dibattito e il confronto aperto, articolato e alla luce del sole.
Ancora un’occasione persa, quella di affrontare in modo democratico la discussione tra scienza, politica e morale.
NOTE
[1] Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, un ente pubblico di ricerca, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, e di autonomia tecnica e scientifica
[2] L’istanza è stata presentata da Leal e Lav, cui si sono immediatamente uniti Aidaa, Enpa e Oipa
[3] È bizzarro: mi hanno insegnato fin da piccolo, quando iniziavo ad andare per montagne, e ho sempre pensato che dobbiamo essere noi, animali umani, ad aver paura degli orsi e dei lupi e che questa paura dovrebbe tenerci lontani da loro e dai guai, come si fa – ad esempio – in Abruzzo (vedi…)
[4] Si vedano, ad esempio: il DECRETO DEL PRESIDENTE della PAT N. 81 DI DATA 29 Luglio 2024,
[5] Il turismo trentino vale circa 1,5 miliardi di euro e rappresenta il 10% del PIL della provincia; si veda: http://www.statistica.provincia.tn.it/news/
[6] La categoria dell’”interessante” – nata nell’800 e oggi espressione meno frequente - è stata un criterio valoriale importante per tutti gli anni ’70 e ’80, soprattutto nel giudizio di lavori artistici e letterari; può essere di interesse studiarne l’origine, l’applicazione e la critica in Kierkegaard, nei “Diari del Seduttore”, di cui è indiscussa protagonista. L’“interessante”, categoria della riflessione, si delinea in quanto sorprendente, contemporaneamente armonico e disarmonico, possibilità del dis-uniforme.
[7] Dietro a questa posizione che è condivisa da molti ed ha una grande rilevanza storica e culturale c’è una storia filosofica e scientifica di secoli, che parte dall’Antica Scrittura - “Tenete sottoposti i pesci del mare e le creature volatili dei cieli e ogni creatura vivente che si muove sopra la terra” (Genesi 1:28) – evolve nella Scolastica e viene codificata dalla fisiologia cartesiana in poi. È indubbio che - quando ritenuta scientifica – abbia tratti di origine sociale, politica, religiosa.
[8] Giustizia amministrativa, il TAR, di cui la stessa Provincia dice «un baluardo di giustizia per i cittadini e spesso di giustezza dell’operato provinciale, nella convinzione che l’efficienza, la correttezza e la concretezza dell’azione amministrativo siano fattori di progresso per tutta la nostra comunità» https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/I-40-anni-del-Tar-di-Trento-un-baluardo-di-giustizia-per-i-cittadini
[9] Si veda ancora l’ordinanza di abbattimento DECRETO DEL PRESIDENTE della PAT N. 81 DI DATA 29 Luglio 2024
Il doppio click - Terza parte: L’università e la guerra, conoscere è valutare
PREMESSA
Lo scorso 13 giugno, presso l’Università di Pisa e come in molte altre università italiane, si è svolta una seduta straordinaria del Senato Accademico, indetta dal Rettore, sulla spinta dei movimenti studenteschi dell’ateneo che reclamano il boicottaggio delle forme di collaborazione con le università israeliane e con gli enti operanti nel settore bellico del nostro paese. [1].
L’oggetto della riunione consisteva nel prendere diverse decisioni in merito ad alcune scelte: da una parte, la sospensione temporanea di tutti questi progetti di ricerca, per sensibilizzare e dissuadere il mondo universitario e la società civile nel paese ebraico dal sostegno alle operazioni militari [2], e – dall’altra parte – l’abbandono definitivo da parte dell’ateneo pisano dei progetti suscettibili di dual use (ovvero concepiti per l’ambito civile, ma applicabili anche a quello militare).
Durante la seduta, ciascun senatore e senatrice ha presentato le proprie riflessioni riguardo alle decisioni da prendere, così si sono ben presto delineate due argomentazioni opposte.
Da un lato, molti docenti hanno espresso la propria contrarietà alle mozioni di boicottaggio, in ragione del fatto che, secondo il loro giudizio, le università di tutto il mondo, devono affermarsi come entità diverse e separate dai governi dei rispettivi paesi, poiché hanno una vocazione naturale alla diffusione delle idee e della conoscenza, e quindi alla costruzione di ponti e collaborazioni transfrontaliere per l’affermazione di rapporti di pace fra le popolazioni – un ruolo che quindi non può prevedere il boicottaggio, poiché contrario e sicuramente controproducente rispetto a questa vocazione.
Dall’altro lato, altri hanno sostenuto le mozioni, rivendicando anch’essi l’autonomia politica e amministrativa delle università, peraltro sancita dalla costituzione, ma ribadendo l’opportunità di ricorrere al boicottaggio come strumento per affermare nei confronti del contesto internazionale una forma pacifica di discredito verso l’accademia e, contestualmente, verso la società e lo stato israeliani, in opposizione alla negligenza di tanti parlamenti e governi occidentali, tra cui quello italiano.
In altre parole, si potrebbe dire che tutto il dibattito si è basato sul fatto che una parte considera l’università come un’entità indipendente rispetto allo stato in cui si trova (non solo in senso normativo, ma come constatazione di fatto), e l’altra non può fare a meno di far notare l’impossibilità di scindere gli atenei dall’apparato politico su cui sono basati e tutte le varie diramazioni sociali che li sostanziano.
UN PARALLELO CON I MODELLI A DIFFUSIONE E A TRADUZIONE
Così, in questi due partiti, ritroviamo, di riflesso, i due approcci conoscitivi presentanti nel precedente articolo, il modello a diffusione e quello a traduzione.
Seguendo il primo, infatti, in sede di riunione l’università è stata paragonata a quella comunità ideale di intellettuali cosmopoliti che hanno preceduto l’epoca dei lumi, denominata Res Publica Literarum. Come se, in fondo, la pratica accademica potesse avvenire meglio, e fosse tanto più veritiera, quanto più essa è indipendente e disinteressata rispetto ai condizionamenti esterni, ovvero quelli del potere e del denaro su tutti. Accettarli, infatti, è ammesso solo perché essi consentirebbero la sua missione liberatrice, anche se al costo di uno sporco ricatto. Perché invece, sarebbe meglio rifiutare incentivi e contributi conservando la propria autonomia, dato che questi non farebbero altro che corrompere o ostacolare la vera natura delle scoperte. Che c’entra, ad esempio, una collaborazione su un progetto di ricerca di biologia marina con la guerra? Perché interromperlo? (#lasciatelilavorare) [3].
Invece, abbiamo visto che per il modello a traduzione la scienza è sempre tecnoscienza, e che quindi la distinzione aristotelica fra téchne ed episteme è un non-senso.
Non esiste infatti il sapere “in generale” in forma distillata, ma è sempre dipendente dalla tecnica che lo produce, sia essa quella del laboratorio, dell’archivio o della pinacoteca. Quindi, il finanziamento pubblico, statale o privato, conta nel determinare il tipo di conoscenza che viene prodotta.
Infatti, non si può trascurare che uno dei settori che assorbono maggiormente la ricerca e lo sviluppo è proprio la difesa:
«la tecnoscienza è una questione essenzialmente militare … L'analogia tra corsa alla dimostrazione e corsa alle armi non è solo metaforica, ma sottende letteralmente un comune problema: vincere. Oggi non vi è esercito capace di vincere senza scienziati e solo pochi scienziati e ingegneri riuscirebbero a far vincere le proprie tesi senza l'esercito. Solo ora il lettore può rendersi conto del perché io abbia impiegato molte espressioni proprie del lessico militaresco (prove di forza, controversia, lotta, vincere e perdere, strategia e tattica, equilibrio di forze, potenziale, numero alleati), espressioni che, sebbene di continuo sulla bocca degli scienziati, vengono impiegate di rado dai filosofi per descrivere il mondo pacifico della scienza pura. Mi sono avvalso di questo lessico perché, grosso modo, la tecnoscienza è parte di una macchina da guerra e dovrebbe essere studiata come tale» (Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, pp. 230-2, grassetto mio).
PER UN SAPERE RESPONSABILE E INTERESSATO
Il modello diffusionista (quello del doppio click), sembra perpetuare l’idea che il sapere sia gratuito, e così risulta essere in primo luogo un’offesa a tutti i precari della ricerca che campano con un salario appena al di sopra della soglia minima di sussistenza, come in Italia.
La realtà è che chi crede in una forma di sapere emancipato dai mezzi necessari per produrlo, vive in una condizione simile a quella – drammatica – dei soldati protagonisti del film Lebanon (Maoz, 2009), interamente ambientato all’interno di un carrarmato. Dalla propria monade, infatti, l’unico tramite per conoscere il mondo esplorato e leggere le vite degli altri è il periscopio e il grilletto, l’unica aria che permette di respirare è quella della sua pancia, stracolma di vomito, lacrime, olio e sigarette, le uniche scelte che consente sono quelle del suo stesso movimento che tiene in vita i carristi, che la guerra non vogliono farla. Questo è il senso del principio «il migliore dei mondi possibili», che sta dietro al cambio di paradigma proposto dalla prospettiva di Gaia: non esiste la possibilità che dispositivi dual use non facciano la guerra (come è stato affermato in senato accademico), solo perché esisterebbe la possibilità di tener fede a certi principi “superiori” per controllare l’utilizzo dei prodotti della ricerca. Ad ogni nuova tecnica segue sempre una nuova soggettività, un nuovo mondo di possibilità incluse e vincolanti.
Infatti, per prendersi gioco degli intellettuali e dei politici blasé che, durante la seconda guerra del golfo, sostenevano che la democrazia fosse un’idea che bastasse esportare per poter invertire le sorti dei paesi “canaglia” o “sponsor del terrorismo”, il filosofo Peter Sloterdijk ha brevettato il “parlamento gonfiabile”: come un pacco di aiuti umanitari, questo dispositivo può essere sganciato da un aereo, e nel giro di poco tempo si installa automaticamente come una cupola capiente, dotata di sedute a emiciclo, e con tutti i comfort per il pieno supporto della democrazia, che si consolida istantaneamente (Sloterdijk P. (2005), Instant Democracy: The Pneumatic Parliament®, in B. Latour, P. Wiebel (eds.), Making Things Public: Atmospheres of Democracy, MIT Press, pp. 952-55).
Allo stesso modo si può dire che un dispositivo del genere potrebbe essere attivato quando viene proposta, con squallido e ipocrito ritardo, la soluzione, “due popoli, due stati” [4]: in realtà, non sembra esserci niente che ci possa far sperare nella creazione di uno stato palestinese, per almeno i prossimi decenni, forse per generazioni intere. Su quali infrastrutture potrebbe mai sorreggersi? Quale rete di strade e ferrovie, approvvigionamento energetico e agroalimentare, cablaggi internet e per le comunicazioni, sistemi e edifici amministrativi, istituti di statistica, scuole, università, ospedali, mercati e caserme di polizia sono a disposizione, al momento, dato che almeno per quanto riguarda Gaza, il territorio è stato quasi raso al suolo? Quali comitati, associazioni, gruppi di interesse, sindacati, filiere di imprese, enti di ricerca, accordi commerciali internazionali e partiti politici potrebbero mai popolare un parlamento, e autogovernarsi, dato che un’economia ed una società politica indipendenti non possono sussistere in condizioni di occupazione permanente?
Tristemente, l’unica prospettiva immediata, all’imposizione del cessate il fuoco, è la predisposizione di sistemi di accoglienza per sfollati sotto la protezione delle Nazioni Unite, in una condizione di privazione assoluta di qualsiasi mezzo. Per questo non possiamo trascurare quelli che invece noi abbiamo a disposizione. Faticosamente conquistati affermando valori e posizioni di parte, e che ci permettono di conoscere il mondo in cui, fondamentalmente, abbiamo deciso di voler vivere.
È il caso di citare la famosa frase di Desmond Tutu, «se davanti a un'ingiustizia sei neutrale, hai scelto di stare dalla parte dell'oppressore», e allora, «se i vostri avversari vi dicono che vi state dando alla politica, prendendovi seriamente per rappresentanti di innumerevoli voci neglette, in nome del Cielo rispondete: ‘Sì certo!’. Se la politica consiste nel rappresentare la voce degli oppressi e di chi non ha volto, allora saremmo tutti in una situazione assai più rosea se – invece di pretendere che siano gli altri a impegnarsi in politica e che voi, oh, voi non vi occupate ‘che di scienza’ – riconosceste che anche voi state cercando effettivamente di assemblare un altro corpo politico e di vivere in un cosmo coerente, composto in modo differente. Se è del tutto corretto che non state parlando in nome di un’istituzione delimitata dalle frontiere degli Stati-nazione e che il fondamento della vostra autorità poggia su un sistema di elezione e di prove assai strano, è proprio questo che rende così prezioso il vostro potere politico di rappresentanza di così tanti nuovi agenti. Potere la cui importanza sarà capitale negli imminenti conflitti sulla forma del mondo e la nuova geopolitica. Non svendete questo potere di rappresentanza per un piatto di lenticchie» [5].
NOTE
[2] In analogia con quanto fatto nelle università di tanti altri paesi nel mondo, come riportato ad esempio dal sito della campagna internazionale BDS https://www.bdsitalia.org/index.php/acc-notizie/2843-mobilitazioni-studentesche
[3] Ritorniamo così all’importanza della comprensione del turismo, come espresso nel primo articolo della serie, per cogliere in parallelo anche la trasposizione in campo economico del modello a diffusione, che tende a legittimare la rendita e il guadagno facile da proventi («sogno una vita in vacanza»), specialmente di tipo finanziario, liberati da vincoli di ogni genere, che non farebbero altro che ostacolare la libera impresa e il genio inventivo dell’imprenditore (la famosa «troppa burocrazia che frena la crescita», tipo i controlli amministrativi sui mercati e lo sviluppo tecnologico, il pagamento delle imposte, dei salari ai dipendenti o il rispetto degli adempimenti nei confronti degli stakeholders).
[4] E perché non una federazione di sei stati sul modello dell’UE postbellica (Egitto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Palestina), come proposto dal compianto Johan Galtung? (Galtung J. (2014), Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, Pisa University Press, pp. 135-141).
[5] Latour B. (2020), La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano, pp. 60-1.
Cibo di alta qualità, crescita economica, salvare il pianeta o salvare gli animali? - 4 istanze morali in tensione
Due settimane fa, parlando della FAO e della controversia sulle misure più efficaci per contenere le emissioni di gas serra, abbiamo evidenziato un possibile conflitto tra l’obiettivo di diminuire significativamente la CO2 immessa nell’atmosfera e la missione della FAO stessa di garantire a tutti abbastanza cibo di alta qualità.
Nell’accezione della FAO, infatti, il cibo di alta qualità è principalmente rappresentato dalle proteine di origine animale e, quindi, ridurre le emissioni di CO2 che vengono dagli allevamenti intensivi significa mettere in crisi il meccanismo di approvvigionamento di una parte importante del cibo di alta qualità.
Questa tensione tra i due obiettivi mostra come, spesso, i problemi di carattere scientifico (il modo in cui ridurre la produzione di CO2 è indubbiamente un problema scientifico) celino una dimensione politica e, quindi, di scelte morali [1].
In questo caso, esaminando con maggiore attenzione i termini della controversia, emerge che ci sono almeno quattro obiettivi di carattere politico e morale in tensione reciproca:
- La riduzione della CO2 anche attraverso il drastico ridimensionamento dell’industria della carne [2], che fa capo all’istanza morale di “salvare il pianeta”,
- La garanzia che tutti abbiano sufficiente cibo di alta qualità, che fa capo all’istanza morale di “salvare le persone umane” dalla fame e dagli effetti negativi che derivano da una alimentazione insufficiente o troppo povera,
- La salvaguardia dell’economia e dell’occupazione delle sfere sociali in cui operano i produttori di carne, la cui istanza morale può essere riassunta in “garantire lavoro e sussistenza”,
- L’attenzione alla vita e al benessere degli animali non umani, importante per una sempre più diffusa sensibilità la cui istanza morale di riferimento è “non uccidere e non far soffrire tutti gli animali”.
In modo molto schematico e semplificato, la tensione reciproca tra le 4 istanze morali è abbastanza evidente considerando gli effetti della riduzione degli allevamenti:
- ridurre significativamente gli allevamenti (e la CO2 che producono) può generare crisi economica e disoccupazione, almeno nel breve periodo e, contestualmente, ridurre la disponibilità di cibo di alta qualità per chi ne ha bisogno
- mantenere in continuità gli allevamenti con la conseguente stabilità economica e occupazionale, può – invece – impedire il raggiungimento degli obiettivi di contenimento della CO2 e (senza può) provoca morte e sofferenza a milioni di animali non umani (bovini, ovini e suini)
A queste 4 istanze morali va aggiunta quella del rispetto e della continuità delle tradizioni, tra cui quelle alimentari, che includono – spesso – il consumo di carne, abitudinario o addirittura con sfumature rituali (ad esempio, il Sunday Roast in Gran Bretagna, il capitone a Natale e l’agnello a Pasqua in Italia, il tacchino per il Thanksgiving negli US ecc.), che complica ulteriormente il quadro.
Questa contrapposizione di obiettivi mostra chiaramente come, dietro una questione scientifica (il maggiore o minore valore della CO2 da allevamenti), si ponga la necessità di fare delle scelte morali, di determinare quali siano le priorità da assegnare alle diverse opzioni e ai diversi obiettivi, cosa sia più importante, quale sia il valore da collocare in cima alla scala.
E, ancora una volta, mostra che le scienze e il lavoro scientifico non siano neutrali ma
- influenzate da istanze sociali, politiche e morali; l’interpretazione riduttiva del tasso di CO2 legato agli allevamenti intensivi, in questo caso, può essere stato influenzato da considerazioni di natura economica, occupazionale e alimentare
- politicamente e socialmente attive; in questo caso, ancora, la lettura della FAO ha orientato l’agenda politica e ambientale in direzione diversa da quella della riduzione dell’allevamento di animali da carne
È, perciò, opportuno non credere alla presunta obiettività e neutralità delle scienza ma – riconoscendone la rilevanza per la vita di tutti e senza cadere in forme di critica distruttiva – fare attenzione alle implicazioni sociali, politiche e morali che esse sottendono.
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A ben vedere, inoltre, queste contrapposizioni tra istanze morali che, prese una alla volta, sono tutte ampiamente condivisibili (chi non vuole salvare la Terra? E chi non vorrebbe eliminare la fame dal mondo? E chi si opporrebbe ad una economia florida e con meno disoccupazione? A chi piace veder soffrire e morire animali innocenti?) sono ben rappresentate tra gli organismi sovranazionali che, in particolare, fanno capo alle Nazioni Unite:
- la FAO – che ha la missione di assicurare cibo sufficiente e di qualità per tutti
- l’UNEP – che lavora a favore della tutela dell’ambiente e della sostenibilità
- la WOAH – che si occupa della salute e del benessere degli animali non umani
- l’ILO – organizzazione internazionale per il lavoro, con il fine di creare maggiori opportunità di occupazione e redito dignitosi
- la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale – che dovrebbero impegnarsi per uno sviluppo equo ed equilibrato di tutte le nazioni
Organismi e obiettivi in tensione o, addirittura, in parziale conflitto tra loro. Come si possono – quindi – armonizzare agende [3] tanto diverse tra loro?
Un primo passopotrebbe essere quello di abbattere una sorta di tabù, quello dell’identificazione del cibo di alta qualità con la carne animale seguendo, ad esempio, le linee guida del Rapporto EAT – Lancet, che indica vie alternative (e spesso a minor costo) di alimentazione ricca e completa. Se la FAO adottasse questo punto di vista uno dei termini di opposizione si eliminerebbe.
Un secondo passo potrebbe essere, conseguenza del primo, l’adozione di una politica di progressiva trasformazione dell’economia dell’allevamento in economia della produzione e trattamento dei cereali per alimentazione umana, con misure di sostegno eco-finanziario da parte della Banca Mondiale, e con risultati efficaci per la salvaguardia dell’ambiente (meno CO2), del benessere di animali umani (meno rischi cardiaci) e non umani (meno sofferenze e morti).
Inoltre, eludendo la difficoltà di armonizzare politiche mondiali, potrebbe essere opportuno focalizzare gli interventi su aree micro economiche ed ambientali, in cui le misure di contenimento delle emissioni di CO2 possono essere orientate in modo mirato e gli interventi per la trasformazione ambientale, alimentare e produttiva possono essere sostenuti in modo più efficace, creando esperienze pilota e buone pratiche da diffondere.
Sempre con un occhio attento alle relazioni tra scienze, società, morale e politica, e con le orecchie aperte alle istanze minoritarie – anche quelle scientifiche – che possono alimentare l’innovatività e le soluzioni meno ovvie.
NOTE
[1] In modo molto semplificato, possiamo definire scelta morale una scelta fatta in modo consapevole sulla base di esperienze, convinzioni e scale di priorità e di valori. Per fare queste scelte usiamo, infatti, quello che sappiamo, quello che abbiamo provato, quello che ci ha insegnato se la scelta ci farà bene o male; per sapere se quello che accadrà ci farà bene o male usiamo l’esperienza del piacere e del dolore; per discernere tra piacere e dolore utilizziamo una scala di valori, cioè una classifica di cosa fa più bene o più male.
[2] Soprattutto bovina, cfr. Pathways towards lower emissions. A global assessment of the greenhouse gas emissions and mitigation options from livestock agrifood systems, Food and Agriculture Organization of the United Nations, Rome, 2023, ISBN 978-92-5-138448-0, si può scaricare qui, p. 12
[3] Qualcosa, in questo senso, è stato fatto: si tratta di ONE HEALTH un approccio integrato alla salute umana, animale e ambientale, che coinvolge la FAO, la WHO e la WOAH, e che – per ora – consiste in un gruppo trasversale di esperti costituito nel 2021 con l’obiettivo di sviluppare un punto di vista olistico su salute e ambiente e di fornire consulenza su questo tema alle Agenzie che lo formano. Questo approccio sembra essere, tuttavia, molto orientato alla tutela della salute umana.