FAO, alimentazione e emissioni di CO2 - Una controversia e un conflitto di interessi?
COS’È LA FAO
La FAO – Food and Agriculture Organization – è «un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che guida gli impegni internazionali mirati a sconfiggere la fame». Il suo obiettivo dichiarato è «raggiungere la sicurezza alimentare per tutti e assicurare alle persone l’accesso regolare a quantità sufficienti di cibo di elevata qualità, al fine di condurre vite sane e attive»[1].
Questa missione, dichiarata nella sezione “About us” del sito, dice una serie di cose importanti per la controversia che stiamo esaminando: la FAO è un’agenzia delle Nazioni Unite; agisce per garantire a tutti (paesi e popolazioni) accesso a quantità sufficienti di cibo; il cibo deve essere di elevata qualità; in ultimo, il cibo sembra essere funzionale all’obiettivo di condurre una vita sana ed attiva.
TEMA, ATTORI E POSIZIONI DELLA CONTROVERSIA
La controversia verte su quanto potrebbe contribuire la diminuzione del consumo di carne – in particolare di carne bovina[2] – sul contenimento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e, di conseguenza, sull’effetto serra nei prossimi 25 anni.
Da tempo si parla del fatto che gli allevamenti (intensivi) di bestiame, in particolare di bovini destinati al macello per la produzione di carne a uso alimentare umano[3], sono una fonte rilevante – il 12% del totale[4] – delle emissioni di CO2 e di “gas serra” nell’atmosfera.
La riduzione delle emissioni legate agli allevamenti intensivi è una tematica ricorrente nella narrazione giornalistica e si intreccia con l’istanza animalista sulle condizioni e le sofferenze imposte a bovini, ovini e suini e con quella ambientalista sui gas serra.
La questione coinvolge anche la disponibilità di alimentazione proteica a basso costo per le fasce di popolazione meno ricche e il tema delle tradizioni culturali alimentari.[5]
Gli attori sono di questa disputa sono, da una parte la FAO e il suo rapporto “Pathways towards lower emissions. A global assessment of the greenhouse gas emissions and mitigation options from livestock agrifood systems” presentato alla conferenza ONU sul clima, la COP28 di Dubai; dall’altra parte, due fisici che studiano l’impatto di varie attività umane sull’ambiente: Paul Behrens e Matthew Hayek, tra gli autori degli studi scientifici citati nel rapporto della stessa FAO.
Il rapporto Pathway towards lower emission realizzato dalla FAO stima la riduzione delle emissioni di CO2 che si può ottenere con una serie di interventi sulle pratiche di allevamento e alimentari. L’efficacia stimata per ciascuno di questi interventi è la guida per definirne rilevanza e priorità.
Prime, per efficacia stimata e per priorità di attuazione, ci sono due linee di intervento sulle modalità di allevamento degli animali da carne:
- la prima linea suggerisce di incrementare la produttività degli allevamenti;
- la seconda linea propone di migliorare l’alimentazione e lo stato di salute degli animali negli allevamenti.
Quali sono i razionali e gli effetti attesi di queste misure di contenimento delle emissioni?
La prima linea, quella della produttività, è legata in modo diretto alla previsione di aumento della popolazione mondiale (+ 20% nei prossimi 25 anni) e proietta un aumento proporzionale di produzione animale necessario a soddisfare la domanda di carne e latticini. Grazie all’aumento di produttività, la FAO stima un possibile minore incremento di emissioni pari al 30%.
Per inciso, il rapporto FAO - fatto salvo per la riduzione dell’età di macellazione degli animali, che favorirebbe un migliore rapporto tra costi di produzione, volumi di prodotto (carne, peso dell’animale ucciso) e emissioni di gas - non suggerisce specifici modi per migliorare la produttività ma parla soltanto di “enhanced efficiency at every production stage along the supply chain” e “adoption of best practices”.
La seconda linea di intervento, relativa all’alimentazione e al benessere degli animali negli allevamenti, potrebbe migliorare i risultati della prima misura per varie ragioni: una alimentazione con cibi più calorici, meno grassi e più oli essenziali può far crescere prima e meglio gli animali; alimenti tannici possono ridurre la quantità di gas nella fase di ruminazione; in generale, una alimentazione “più sana” può far diminuire il tasso di mortalità degli animali e, nello stesso tempo, aumentare il tasso di crescita.
La FAO considera di minore rilevanza, in termini di effetti e di priorità, le misure relative al cambiamento delle abitudini alimentari, al consumo più responsabile e alla conseguente minore domanda di carne per uso alimentare, quali:
- cambiare le abitudini alimentari, in particolare ridurre il consumo di carne, seguendo le indicazioni governative, con un effetto di contenimento delle emissioni tra il 2% e il 5%[6];
- ridurre gli sprechi dei generi alimentari nella parte finale della filiera[7], dalla vendita al consumo, con un effetto di contenimento tra il 3% e il 6%.
Ecco, il tema del cambiamento delle abitudini alimentari è il centro della controversia.
Behrens e Hayek sostengono, infatti, in una lettera indirizzata al Direttore della Divisione Produzione Animale e Salute della FAO, che il rapporto FAO ha distorto e mal utilizzato una serie di informazioni, sottostimando l’effetto di riduzione delle emissioni associato alla riduzione del consumo di carne.
In particolare, i due scienziati, denunciano che:
- la FAO ha usato un loro studio del 2007 mentre altri studi più recenti – loro e di altri autori – disegnano uno scenario diverso e più favorevole alla riduzione del consumo di carne;
- l’effetto del cambiamento alimentare è calcolato sulla base di raccomandazioni nazionali (NDR - National Dietary Recommendations) obsolete; quelle più aggiornate raccomandano quantità di carne e di latticini molto minori;
- il rapporto contiene una serie di errori sistematici che portano a sottostimare gli effetti del cambio di dieta, tra i quali: l’utilizzo dei massimi di scala per gli NDR, la comparazione di grandezze difficilmente commensurabili, il raddoppio dei valori di emissioni al 2025, l’uso di un mix incongruente di anni di confronto;
- infine, che il rapporto FAO non prende in considerazione le linee guida più aggiornate sulle diete sostenibili e salutari raccolte – ad esempio – nell’autorevole e recente studio EAT – Lancet del 2019
Sulla base di queste considerazioni, Berhens e Hayek sostengono che il minore consumo di carne avrebbe effetti strutturali e decisamente superiori a quanto stimato dalla FAO, ponendosi in controtendenza rispetto alla strategia di inseguire una crescita della domanda di carne proporzionale all’aumento della popolazione.
Alla lettera con cui chiedono di rivedere il rapporto, la FAO ha – responsabilmente, va detto – replicato che il rapporto è stato sottoposto a peer-reviewing in doppio cieco e che, quindi, va ritenuto affidabile, ma si impegna a indagare sulle questioni sollevate e a confrontarsi con Berhens e Hayek su metodo e merito.
Nel frattempo, però, il rapporto della FAO è stato utilizzato nella conferenza sul clima COP28.
CONCLUSIONI
Ora, aspettando di vedere cosa succederà, viene da chiedersi quanto la FAO sia un soggetto indicato per definire strategie, linee guida e priorità per le misure di contenimento della CO2 nell’atmosfera, seppure se correlate all’alimentazione; la domanda si pone perché alcune misure di contenimento possono essere in parziale conflitto con gli obiettivi della FAO.
Sembrano emergere, infatti, almeno quattro ordini di problemi:
- La FAO ha la missione di garantire, qui e ora, che tutti abbiano cibo di elevata qualità e abbondante; un cambiamento radicale degli schemi produttivi e alimentari, basati – ad esempio – su una rapida riduzione degli allevamenti intensivi e su un deciso allontanamento dall’alimentazione carnea può essere in conflitto con la missione della FAO, per due ragioni: la prima è la necessità di sostituire – in tempi altrettanto serrati – carne e latticini a basso costo con prodotti vegetali di qualità e altrettanto reperibili; la seconda è la necessità di riassestamento economico e occupazionale del settore e dei paesi produttori di carni meno ricchi, che richiederebbe un sostegno organizzato a livello sovranazionale;
- la missione della FAO è centrata sulla nozione di “cibo di alta qualità”, nozione che è socialmente costruita e per lo più rappresentata da cibi a elevato contenuto proteico di origine animale, carne e latticini[8] (meglio se a basso prezzo); una svolta verso la diminuzione di questi cibi è certamente in conflitto con la nozione di “alta qualità” della FAO e richiede anche un cambiamento culturale rilevante;
- la natura della FAO – emanazione dell’UN e controllata da 143 paesi, tra i quali alcuni grandissimi produttori di carne bovina in allevamenti intensivi – richiede di tenere conto del possibile conflitto di interessi tra le misure di riduzione del consumo di carne e i paesi produttori;
- l’ultimo tema che emerge è la possibile competizione tra l’istanza morale di una migliore e più abbondante disponibilità di cibo e quella di salvaguardia dell’ambiente a cui fa capo il contenimento delle emissioni di CO2; chi decide di queste due istanze ha la priorità?
Senza nulla togliere al suo compito insostituibile, la FAO non dovrebbe, però, essere soggetto normativo su come ridurre le emissioni, ma occuparsi di mettere in atto, senza effetti negativi sul benessere di tutti, le misure più efficaci di contenimento delle emissioni decise da organismi dedicati a questo e confrontarsi con questi sulla maggiore o minore priorità dell’istanza alimentare versus quella ambientale.
Tra l’altro, l’indicazione del miglioramento dell’efficienza (produttività) degli allevamenti – nonostante il tentativo di salvare capra e cavoli con il tema del welfare dei bovini – mostra la totale assenza, nella missione della FAO, dell’istanza morale del benessere e della vita degli animali non-umani. Che potrebbe – anch’essa – essere considerata in competizione con quella della vita sana e attiva degli umani.
NOTE
Questa riflessione e il relativo studio delle fonti hanno preso spunto dall’articolo La FAO ha distorto degli studi sull’importanza di ridurre il consumo di carne?, apparso il 26 aprile 2024 su “il POST” e sull’articolo del Guardian UN livestock emissions report seriously distorted our work, say experts, 19 aprile 2024.
[1] Traduzione mia dalla sezione “About us” del sito della FAO, https://www.fao.org/home/en
[2] La produzione di carne di ruminanti ha un’impronta di CO2 di circa due ordini di grandezza superiore a quella di ovini e di suini. Cfr. Walter Willett et al., Food in the Anthropocene: The EAT-Lancet Commission on Healthy Diets from Sustainable Food Systems, "Lancet" (London, England) 393, no. 10170 (2019): 447–92, https://doi.org/10.1016/S0140-6736(18)31788-4, Figure 4, pag. 471.
[3] La produzione di carne a uso alimentare umano è lo scopo prevalente dell’allevamento intensivo di animali. Tra gli altri scopi – a titolo di esempio - possiamo citare: pellame (cuoio) per le industrie di abbigliamento, prodotti alimentari per animali da compagnia, farine proteiche, capsule per i farmaci, fertilizzanti (primo fra tutti il letame), caglio animale per formaggi, biocarburanti.
[4] Dati FAO: Globally, the production of the animal protein, as presented in the previous subsection “Global animal protein production”, is associated with a total of 6.2 Gt CO2eq of emissions, constituting approximately 12 percent of the estimated 50 to 52 Gt CO2eq total anthropogenic emissions in 2015. (Greenhouse gas emissions from agrifood systems.Global, regional and country trends, 2000-2020. FAOSTAT Analytical Brief Series No. 50. Rome). https://www.fao.org/3/cc2672en/cc2672en.pdf)
[5] È interessante vedere come lo stesso numero, la stessa percentuale – in questo caso del 14,5%, calcolata nel 2015 – di contribuzione dell’allevamento animale sia narrata in modo opposto da due parti a loro volta contrapposte: il WWF scrive «tra i maggiori responsabili della produzione di gas serra ci sono gli allevamenti intensivi che, in base a stime della FAO, generano il 14,5% delle emissioni totali di gas serra»; Alimenti&Salute, sito tematico della Regione Emilia-Romagna dedicato alla sicurezza alimentare e alla nutrizione, titola: «Rapporto FAO sulle emissioni gas serra. Solo il 14% viene attribuito agli allevamenti intensivi»
[6] Con una diversa distribuzione tra paesi più ricchi, tra il 13% e il 24%, paesi a reddito intermedio, tra lo 0,08% e il 12% e, invece, un aumento di emissioni tra il 12% e il 17% per i paesi più poveri (cfr. cit. p.19)
[7] Se non ci credete, fate un giro in un qualsiasi supermercato verso le 19.00/20.00 e noterete quanta carne viene buttata via a fine giornata, perché ormai scaduta. Per cui non è vero che uccidiamo animali per mangiarli. Probabilmente il 50% degli animali viene ucciso per… essere buttato nella spazzatura a fine giornata…
[8] Per approfondimenti: Adams C, Carne da macello. La politica sessuale della carne, 2020, Vanda edizioni; Harris M., Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, 2015, Einaudi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Il rapporto della FAO, Pathways towards lower emissions. A global assessment of the greenhouse gas emissions and mitigation options from livestock agrifood systems, Food and Agriculture Organization of the United Nations, Rome, 2023, ISBN 978-92-5-138448-0, si può scaricare qui.
- La lettera di P. Behrens e M. Hayek indirizzata a Thanawat Tiensin, Director of Animal Production and Health Division (NSA), si può scaricare qui.
- Greenhouse gas emissions from agrifood systems.Global, regional and country trends, 2000-2020. FAOSTAT Analytical Brief Series No. 50. Rome. https://www.fao.org/3/cc2672en/cc2672en.pdf)
- Walter Willett et al., “Food in the Anthropocene: The EAT-Lancet Commission on Healthy Diets from Sustainable Food Systems.,” Lancet (London, England) 393, no. 10170 (2019): 447–92, https://doi.org/10.1016/S0140-6736(18)31788-4.
- Nordic Cooperation, “Less Meat, More Plant-Based: Here Are the Nordic Nutrition Recommendations 2023,” Nordic Cooperation, 2023, https://pub.norden.org/nord2023-003/
- Vieux et al., “Greenhouse Gas Emissions of Self-Selected Individual Diets in France: Changing the Diet Structure or Consuming Less?,” Ecological Economics 75 (March 1, 2012): 91–101, https://doi.org/10.1016/j.ecolecon.2012.01.003.
In nome del fanatismo sovrano – Ingegneria sociale e potere delle comunità (seconda parte)
Fanatismo e fandom
Brittany Kaiser che volteggia senza accorgersi di nulla attraverso uffici in cui viene forzato il risultato delle elezioni degli Usa e il referendum sulla Brexit, e i sostenitori di QAnon che credono alle cospirazioni del Deep State, possono corroborare la suggestione che «internet ci renda stupidi», come temeva Nicholas Carr (2011). Senza dubbio una parte delle risorse di comunicazione in Rete conta sulla collaborazione degli utili idioti per attecchire e propagarsi, ma l’esperienza ordinaria dovrebbe insegnarci ad ammettere che le tecnologie digitali hanno avvolto il nostro mondo come se fossero l’involucro di un dispositivo (Floridi, 2014), accrescendo, o almeno trasformando, la maneggevolezza di questo mondo-elettrodomestico. Ciascuno di noi vive il suo QAnon, in compagnia di nicchie più o meno ristrette di amici, che condividono la stessa concezione del mondo. Il problema non è solo la bacheca di Facebook, ma le recensioni di TripAdvisor con cui scegliamo il ristorante e i piatti da assaporare, quelle di Airbnb per selezionare la casa dove fermarsi qualche notte, le foto di Instagram per sapere quale deve essere il nostro stile di vita. La realtà viene letta con i servizi di georeferenziazione disponibili sul cellulare o addirittura sullo smartwatch. Gli algoritmi delle tecnologie indossabili ci rimproverano l’adipe accumulata nel ristorante scelto con TripAdvisor, si allarmano se stiamo camminando troppo, o ci irridono per la stanchezza prematura, ci mettono in competizione con gli amici e con gli sconosciuti (che per caso hanno stessa età, peso e altezza, e probabilmente hanno frequentato le stesse trattorie); quelli del termostato di casa verificano se il nostro consumo di energia è virtuoso o spregevole rispetto ai vicini. Scelgono la musica che ci piace, e persino la fidanzata (o il fidanzato) ideale, prediligendo i rapporti con una data di scadenza ravvicinata: in fondo anche il sesso si consuma, ed è quindi destinato a obsolescenza precoce. In questo contesto, Cambridge Analytica ha commesso l’errore di aver suggerito in Donald Trump il partner sbagliato ad un’intera nazione, per un rapporto della durata di quattro anni – svista giustamente pagata con il fallimento dell’agenzia elettoral-matrimoniale.
Aja Romano (2024) ricorre al termine stan (crasi di stalker fan), con cui si denotano i seguaci delle star della musica pop e di Hollywood, per spiegare il tipo di coinvolgimento che (il team elettorale di) Trump ha generato presso i sostenitori dell’ex presidente, in vista delle elezioni del prossimo novembre. I leader politici sono circondati dalla stessa aura di mito che caratterizza il fanatismo per le celebrità dello spettacolo e dello sport; i sostenitori partecipano dell’identità della comunità con la stessa carica assiologica che solidarizza i tifosi di una squadra o gli ammiratori di una leggenda del rock. La comunicazione con i fan non è mediata dai corpi intermedi delle istituzioni e della stampa, perché tutte le distanze sono abrogate dall’istantaneità della conversazione su X, su Instagram, o su Tiktok. Il ritardo richiesto dalla riflessione e dalla valutazione razionale viene soppresso nell’immediatezza del colloquio, con la sua emotività e la sua visceralità. Huwet (2023) ha chiarito come il fandom di Harry Potter sia diventato il terreno di coltura per alimentare (e finanziare) la setta degli Altruisti Efficaci in America.
L’iscrizione in una comunità, da cui ci si sente osservati e giudicati, rende percepibile per i frequentatori dei social media la pressione delle opinioni e delle valutazioni degli altri in modo diretto. Uno studio condotto nel 2016 con metodologie di Big Data Analysis da Quattrociocchi, Scala e Sunstein, ha mostrato che su Facebook non esistono differenze tra i comportamenti delle comunità di coloro che sono – o si ritengono – competenti su temi scientifici, e dei gruppi che recepiscono, diffondono e amplificano le opinioni cospirazioniste e antiscientifiche. Gli argomenti di cui dibattono sono opposti per segno ideologico, ma la polarizzazione che sospinge ciascuno a identificarsi con la posizione della propria comunità, e a scorgere nelle obiezioni solo un’espressione di disonestà intellettuale o economica, è una e la stessa come la via in su e quella in giù di Eraclito. È possibile distinguere i cluster per la velocità di propagazione dei post e per il numero di bacheche raggiunte, ma non per la resistenza a ogni forma di debunking, volto a dimostrare l’infondatezza delle informazioni condivise dai membri della comunità. Il ricorso alla ragione, con argomenti e prove fattuali, non solo è destinato al fallimento, ma genera un «effetto boomerang» (Hart e Nisbet, 2012) che incrementa la fiducia nei pregiudizi della comunità: il fact checking tende a scatenare una reazione contraria alla sua destinazione, promuovendo la ricerca di conforto da parte dei confratelli sulla validità delle notizie contestate, e intensificando la polarizzazione delle opinioni.
Eco sociale e comunità scientifica pre-print
La social network analysis ha elaborato modelli matematici che misurano l’interazione tra individuo e collettività, e permettono di correlare la chiusura di una rete sociale alla larghezza di banda nella circolazione delle informazioni e alla fiducia che i membri ripongono nella loro validità (oltre a quella che attribuiscono alle persone che le diffondono). Con l’aiuto dell’immaginazione si può intuire che il passaggio delle notizie accelera nelle comunità in cui ognuno conosce ogni altro componente, e che questo movimento vorticoso consegna più volte lo stesso contenuto a ciascun soggetto, recapitandolo da fonti in apparenza indipendenti le une dalle altre. Il turbine dell’informazione suscita una sensazione di urgenza che cresce ad ogni ripresentazione della notizia, impone l’imperativo del suo rilancio, ispira fede nella sua verità.
Lo strumento essenziale delle piattaforme online sono gli algoritmi che identificano i cluster di utenti con interessi simili. La geodetica di una rete è il numero di passaggi che collega i due nodi più distanti compiendo il percorso più breve possibile. Secondo il famoso esperimento di Milgram del 1967 la geodetica dell’intera umanità conterebbe sei gradi di separazione; Facebook conta oltre due miliardi di iscritti, ma secondo uno studio del 2012 la sua geodetica è di soli 3,75 passi. La densità delle relazioni umane è molto più fitta di quanto ci immaginiamo, e la larghezza di banda che misura il potenziale di circolazione delle notizie è ampia in misura direttamente proporzionale.
In questo intrico di connessioni, sono gli algoritmi dei motori di ricerca e dei social media a decidere cosa deve essere letto e da chi: sono quindi i loro pregiudizi a stabilire il grado di perspicacia o di ingenuità degli individui, o almeno a intensificare le loro inclinazioni personali. Sembra la versione moderna della Grazia divina, che secondo Lutero distingue a priori i sommersi e i salvati; ma nell’immanenza della realtà profana, questo è il sintomo della sostituzione della classe sociale che alimentava comitati scientifici e peer reviewer con un nuova struttura di potere, che alimenta la produzione e la certificazione della verità fondandola sul prestigio degli algoritmi, dei big data, e su una diversa divisione del lavoro linguistico, con una nuova distribuzione delle competenze e delle comunità di esperti. Uno studio di West e Bergstrom del 2021 documenta la tendenza anche da parte degli scienziati ad affidarsi a Google Scholar per la ricerca di saggi, e a seguire le segnalazioni dei colleghi sui social media. Ma l’algoritmo del motore tende a premiare i contenuti che ottengono più link e più citazioni, così come le piattaforme di social network incrementano la visibilità dei profili e dei contenuti che ottengono più like e più interazioni. Robert Merton ha battezzato «effetto San Matteo» il risultato di questo comportamento: chi vince piglia tutto. Tra i contenuti vincenti nell’ambito scientifico si trovano anche citazioni scorrette che vengono replicate a oltranza, nonché saggi in versioni pre-print che non hanno mai passato la peer review, o che includono errori in seguito emendati – senza alcun riguardo per le correzioni.
Non so se la crisis discipline debba farsi carico di mettere in salvo la specie dei sostenitori di QAnon dai memi di QAnon, contro la loro stessa volontà; ma di certo serve una nuova interpretazione della realtà che la osservi come il prodotto di un nuovo ecosistema. La tecnologia sovrappone al mondo piani di leggibilità e di utilizzabilità, anzi, li iscrive nel mondo stesso – e non saremo noi, né alcun altro Artù, a poterli estrarre. Se li conosci non li eviti, ma almeno puoi provare a capirli.
BIBLIOGRAFIA
Aubenque, Pierre, Le problème de l’Être chez Aristote. Essai sur la problématique aristotélicienne, PUF, Parigi, 1962.
Austin, John, How to Do Things with Words: The William James Lectures delivered at Harvard University in 1955, Clarendon Press, Oxford 1962.
Backstrom, Lars; Boldi, Paolo; Rosa, Marco; Ugander, Johan; Vigna, Sebastiano, Four degrees of separation, «Proceedings of the 4th Annual ACM Web Science Conference, June 2012», pagg. 33–42
Bak-Coleman, Joseph B.; Alfano, Mark; Barfuss, Wolfram; Bergstrom, Carl T.; Centeno, Miguel A.; Couzin, Iain D.; Donges, Jonathan F.; Galesic, Mirta; Gersick, Andrew S.; Jacquet, Jennifer; Kao, Albert B.; Moran, Rachel E.; Romanczuk, Pawel; Rubenstein, Daniel I.; Tombak, Kaia J.; Van Bavel, Jay J.; Weber, Elke U., Stewardship of global collective behavior, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 6 luglio 2021, n.118.
Butcher, Mike, The CEO of Cambridge Analytica plans a book on its methods, and the US election, «TechCrunch», 6 novembre 2017.
Carr, Nicholas, The Shallows. What Internet is Doing to Our Brains, W. W. Norton & Company, New York, 2011.
Floridi, Luciano, The Fourth Revolution. How the Infosphere is Reshaping Human Reality, OUP Oxford, 2014.
Girard, René, Le Bouc émissaire, Grasset, Parigi, 1982.
Hamilton, Isobel Asher, Plans to storm the Capitol were circulating on social media sites, including Facebook, Twitter, and Parler, for days before the siege, «Business Insider», 7 gennaio 2021
Hart, Sol; Nisbet, Erik, Boomerang effects in science communication: How motivated reasoning and identity cues amplify opinion polarization about climate mitigation policies, «Communication Research», vol. 39, n.6, 1° dicembre 2012, pagg. 701-723.
Huet, Ellen, Effective altruism has bigger problems than Sam Bankman-Fried, Financial Review, 17 marzo 2023.
Kaiser, Brittany, Targeted, HarperCollins Publisher, New York 2019.
Merton, Robert, Social Theory and Social Structure,II, New York, The Free Press, 1968.
Milgram, Stanley, The Small-World Problem, in «Psychology Today», vol. 1, no. 1, Maggio 1967, pp. 61-67
Pariser, Eli,The Filter Bubble. What the Internet is Hiding from You, The Penguin Press, New York 2011.
Quattrociocchi, Walter; Scala, Antonio; Sunstein, Cass, Echo Chambers on Facebook, «SSRN», 2795110, 13 giugno 2016.
Romano, Aja, If you want to understand modern politics, you have to understand modern fandom, «Vox», 18 gennaio 2024.
West, Jevin D.; Bergstrom, Carl T., Misinformation in and about science, «Proceedings of the National Academy of Sciences», aprile 2021, vol. 118, n.15.
In nome del fanatismo sovrano - Ingegneria sociale e potere delle comunità (prima parte)
Brittany Kaiser era la business developer di Cambridge Analytica, l’azienda accusata di aver consegnato a Donald Trump la vittoria delle elezioni presidenziali del 2016 ricorrendo a tattiche di microtargeting sui social network. Alexander Nix, il CEO che l'ha assunta nel 2014 e licenziata nel 2018, sostiene in un’intervista a Mike Butcher (2017) che l’agenzia abbia processato dati provenienti da Facebook su 220 milioni di cittadini americani, estraendone le informazioni necessarie per profilare messaggi personalizzati di propaganda pro-Trump. Le confessioni della Kaiser, raccolte nel libro Targeted (2019), si riassumono nell’attante «non capivo, non sapevo, ho solo obbedito agli ordini», e sono considerate tra le rivelazioni più importanti delle «talpe» interne all’agenzia.
Il tema che ha incuriosito la magistratura riguarda il modo in cui Cambridge Analytica ha acquisito e conservato i dati degli utenti del social network. Invece l’aspetto che sfida il talento ermeneutico della Kaiser, e che è interessante esaminare, è la presunta capacità della comunicazione digitale di cambiare le convinzioni delle persone, soprattutto in ambito politico, grazie all'identificazione dei temi cui ciascun individuo è più sensibile, e alla misurazione delle relazioni di influenza tra amici. La «talpa» Kaiser inferisce dalle affermazioni dei colleghi che Cambridge Analytica eseguisse una profilazione psicometrica degli utenti, ed elaborasse messaggi capaci di dirottare le loro scelte elettorali o commerciali in senso opposto a quello spontaneo. I Sofisti facevano qualcosa del genere con l’arte dialettica, ma Platone e Aristotele non si ritenevano delle talpe quando hanno denunciato la loro techne.
Le dichiarazioni di Alexander Nix, riportate nel libro, inducono però a credere che gli obiettivi dell’agenzia fossero diversi, più coerenti con le tesi sull’efficacia dei social media, condivise un po’ da tutti almeno dalla pubblicazione di The Filter Bubble (2011) di Eli Pariser. Gli algoritmi di Facebook, e delle piattaforme simili, tendono a rinchiudere gli individui in una bolla autoreferenziale, popolando le loro bacheche con i post degli amici e con i messaggi pubblicitari che confermano la loro visione del mondo, ed escludendo progressivamente i contributi in disaccordo. Se questa ipotesi è corretta, non si comprende in che modo il social network possa stimolare trasformazioni nella concezione politica delle persone. Alexander Nix spiega che Cambridge Analytica si proponeva di incentivare l’entusiasmo dei sostenitori spontanei del candidato-cliente, trasformandoli da spettatori ad attivisti della sua campagna; al contempo, tentava di raffreddare l’adesione dei cluster di elettori «naturali» degli avversari, demotivando la loro partecipazione alle iniziative di propaganda e disertando i seggi il giorno delle votazioni. Durante la sfida tra Donald Trump e Hillary Clinton, questo schema si è tradotto nella focalizzazione sugli Stati della Rust Belt, l’America nord-occidentale dove il candidato repubblicano ha vinto la corsa alla Casa Bianca, coinvolgendo i lavoratori del settore manifatturiero, spaventati dalla crisi occupazionale, e raffreddando il sostegno all’avversaria da parte delle comunità nere e LGBT.
Le campagne di comunicazione su Facebook sarebbero quindi efficaci nel modificare l’entusiasmo per una convinzione già stabilita, non nel cambiarla. La Kaiser ha una vocazione difficilmente eguagliabile per il travisamento e la distrazione, ma sulla difficoltà di inquadrare i veri effetti dei social media si trova in buona compagnia. Il 6 luglio 2021 la rivista PNAS ha pubblicato un saggio firmato da 17 ricercatori di biologia, ecologia e antropologia, che definiscono lo studio dell’impatto di larga scala delle tecnologie sulla società come una crisis discipline, ovvero come un ambito di indagine paragonabile a quello che viene adottato per salvaguardare alcune specie in via di estinzione, o per prevenire gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici. Gli autori denunciano il fatto che le piattaforme digitali innescano processi di gestione del comportamento collettivo, ma mancano conoscenze di dettaglio sui meccanismi che mettono in opera il controllo, e metodi di misurazione della loro efficacia.
Le preoccupazioni dei ricercatori sono collegate a fenomeni di massa come il movimento complottista QAnon, nato nella bacheca del forum 4chan.org e rilanciato sui social media americani. Dall’ottobre 2017 una porzione sempre più ampia di cittadini Usa, di orientamento conservatore, vive in un mondo parallelo, con una storia elaborata da personaggi la cui identità rimane nascosta sotto i nickname di un gioco di ruolo disputato su varie piattaforme online. L’esercizio ludico consiste nella ricerca e nella sovrainterpretazione dei simboli che sarebbero cifrati nelle esternazioni dell’allora presidente Trump, nelle immagini dei politici divulgate dai giornali e dalle televisioni, nelle «soffiate» su presunti documenti segreti della CIA: il senso che viene rintracciato allude ad un conflitto sotterraneo tra le forze del bene e le insidie allestite da poteri forti che manovrano gli esponenti del Partito Democratico, i giornalisti delle testate più autorevoli del mondo, molte celebrità dello spettacolo, al fine di soggiogare il popolo americano e di imporre il dominio dei malvagi sull’intero pianeta. Gli avversari di Trump sono anche accusati di tutte le forme di empietà che René Girard (1982) ha rubricato tra i marchi del capro espiatorio, rintracciandoli in una narrativa culturale molto ampia, dai miti classici fino alle persecuzioni medievali: pedofilia, uccisione di bambini, cannibalismo, commercio con il demonio.
3 Mondi possibili e realtà aumentata
Le notizie che circolano di più e meglio sono una struttura coerente che forma un mondo abitabile, anche quando la sua trama è un cartone animato per bambini come QAnon. I Sofisti non arrivavano fino a questo punto; secondo Aubenque (1962) potrebbero averlo fatto Platone e Aristotele. Esiste un mondo possibile popolato dalle migliaia di persone che sciamano ai raduni di QAnon, dalle centinaia di migliaia che vedono e condividono i post con il suo hashtag, dai milioni che seguono i profili da cui vengono pubblicate le sue dichiarazioni. Per lo più le informazioni circolano sotto forma di memi (come accade ormai ovunque, dentro e fuori le campagne elettorali): post che mostrano un design perfetto per diffondersi senza attriti, non subire modifiche nel corso dei passaggi, sedurre l’immaginario e non pretendere nessuno sforzo di lettura.
La calata barbarica sul Campidoglio del 6 gennaio 2021, che si proponeva di impedire la ratifica da parte del Congresso dell’elezione di Joe Biden, è stata orchestrata da migliaia di account collegati a QAnon su Twitter (Hamilton, 2021); ma già il 4 dicembre 2016 un ventottenne della North Carolina si era pesentato alla pizzeria Comet Pong Pong di Washington per fucilare di persona i Democratici che (nel suo mondo) vi tenevano segregati bambini innocenti. Pizzagate è l’etichetta di un complotto, parallelo a Qanon, che mostra come la realtà online sia da molto tempo debordata fuori dagli schermi dei computer, trasformando i software dei forum dei fandom in hardware, nella realtà aumentata in cui vivono i fan stessi (in questo caso quelli di Trump). Quando John Austin (1962) spiegava «come fare cose con le parole», certo non immaginava che le narrazioni intessute da un gioco di ruolo avrebbero assunto il potere performativo di prescrivere una strage, o che gli storytelling del fandom di un presidente avrebbero ordito un colpo di stato in formato carnevale. In fondo, ogni epoca ha le talpe e le rivoluzioni che si merita: ad Atene sono toccati Platone e Pericle, a noi la Kaiser e lo Sciamano.
Meditate gente, meditate.
Neuroscienze e giudizio morale - Emozione e razionalità appartengono a sistemi distinti?
L’oggetto di questa controversia è il modello di funzionamento dei correlati neurali dei giudizi morali.
Nell’ambito delle neuroscienze (vedi i due articoli precedenti: Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontro con le neuroscienze e Incontri con le scienze empiriche) sono stati fatti numerosi studi che si appoggiano alle tecniche di neuroimaging funzionale, seguendo tre filoni principali di lavoro:
- Lo studio di pazienti con danni o lesioni cerebrali e pazienti con patologie psichiatriche (“Bad brains”, Greene 2014a, 2020);
- L’analisi della valutazione morale di certi atti o situazioni da parte di individui sani (“Good brains”, ibid.);
- Lo studio delle modificazioni cerebrali durante la valutazione di dilemmi morali come il Trolley dilemma, il Footbridge dilemma e il Crying Baby dilemma.
Per contestualizzare meglio, ecco qualche definizione e informazione sugli studi con pazienti con lesioni cerebrali e sui tre principali dilemmi morali:
PAZIENTI CON LESIONI CEREBRALI
Le ricerche su pazienti con lesioni cerebrali o patologie psichiatriche offrono dati interessanti per l’indagine sul coinvolgimento di determinate aree del cervello nella realizzazione di varie funzioni cognitive.
Qualsiasi studio relativo a pazienti con lesioni cerebrali connesse alla sfera del comportamento sociale non può non fare riferimento al lavoro di Antonio Damasio. La sua prima opera divulgativa, “L’errore di Cartesio” (1994), è un’esposizione delle ricerche sull’emozione a livello cerebrale e le loro implicazioni in ambito decisionale, soprattutto nella sfera del comportamento sociale. Tali ricerche hanno preso avvio dall’osservazione di soggetti con lesioni alla corteccia prefrontale ventromediale, i quali mostrano un comportamento atipico soprattutto in relazione al giudizio etico e alla condotta sociale. Come sostenuto da Damasio, sembra che questi individui abbiano una “razionalità menomata”, nonostante gli elementi associati convenzionalmente a un buon funzionamento della ragione non siano in alcun modo danneggiati. Tra questi ultimi in genere figurano: la memoria, l’attenzione, il linguaggio, la capacità di calcolo e la capacità di ragionamento logico per problemi astratti (Damasio, 1994, pp.18-19). Il primo caso storicamente registrato di questo tipo di lesioni è quello di Phineas Gage, caposquadra di un gruppo di costruzioni ferroviarie, vissuto in America durante il XIX secolo, e il cui teschio è oggi conservato a Boston, al Warren Medical Musem della Harvard Medical School.
TROLLEY DILEMMA
Il Trolley Dilemma o Dilemma del carrello, proposto originariamente da Philippa Foot nel 1967, descrive un treno che corre senza controllo su un binario dove più avanti sono legate cinque persone, mentre su un binario alternativo c’è una sola persona legata; il quesito è se sia legittimo tirare una leva in modo da deviare il treno sul secondo binario e uccidere una sola persona anziché cinque. Generalmente, le persone tendono a considerare moralmente accettabile tirare la leva in virtù di un’analisi costi-benefici.
I protagonisti della controversia sono tre neuroscienziati: da una parte lo psicologo statunitense J. Greene; dall’altrail filosofo statunitense Shaun Nichols e il filosofo tedesco Hanno Sauer. Essi si concentrano soprattutto sul terzo tipo di studi.
FOOTBRIDGE DILEMMA
Il Footbridge Dilemma è stato formulato da Judith Jarvis Thomson nel 1976 e descrive una situazione analoga alla precedente ma, anziché avere la possibilità di tirare la leva, si chiede se sia legittimo buttare giù da un ponte che passa sopra il binario un uomo molto grasso, il quale fermerebbe il treno perdendo al tempo stesso la vita. In questo caso le persone non considerano moralmente accettabile compiere l’atto, nonostante secondo un’analisi costi-benefici il risultato sarebbe lo stesso del problema precedente. Quindi, i soggetti a cui viene sottoposto i test tendono a ritenere accettabile deviare il treno nel primo caso, ma non ritengono lecito spingere l’uomo dal ponte (Songhorian, 2020, p.77). Perché le persone rispondono in modo diverso ai due scenari?
CRYING BABY DILEMMA
La formulazione del Crying Baby dilemma è la seguente: “In tempi di guerra tu e alcuni concittadini vi state nascondendo da dei soldati nemici in un seminterrato. Tuo figlio comincia a piangere e tu gli copri la bocca per far sì che non se ne senta il suono. Se togli la mano il bambino piangerà, i soldati lo sentiranno, troveranno te e i tuoi compagni e uccideranno tutti quanti, compreso te e il tuo bambino. Se non togli la mano, tuo figlio morirà soffocato. È legittimo soffocare tuo figlio per salvare te stesso e gli altri?”
GREENE e il modello della “macchina fotografica” o del doppio processo
Joshua Green ha dedicato gran parte del suo lavoro all’approfondimento del perché i dilemmi del carrello, Footbridge e Crying Baby, apparentemente simili nel risultato, suscitano risposte diverse e reazioni discordanti nei soggetti a cui vengono sottoposti.
Uno dei punti chiave dell’analisi è il fatto che i dilemmi presentano forme diverse di problematiche morali, che interessano in modo differenziato l’area delle “violazioni personali” - violazioni che comportano un grave danno fisico, ad una persona specifica, in modo che il danno non sia il risultato di un effetto collaterale di un’azione rivolta altrove (come dire: “io danneggio te”), e quella dei temi morali impersonali - quelli dell’utilità generale, per esempio, meno coinvolgenti nell’immediato.
Greene ha provato ad osservare, attraverso le tecniche di neuroimaging funzionale, l’attività cerebrale degli individui mentre cercano di rispondere a questi dilemmi.
I risultati del neuroimaging, con tempi diversi – più rapidi per i problemi che implicano le violazioni personali” e più lenti negli altri casi - e aree cerebrali coinvolte diverse, hanno suggerito a Greene che nel giudizio morale vi sia una dissociazione tra i contributi affettivi e quelli cognitivi, e che le persone tendano a esprimere i loro giudizi morali sulla base di due sistemi cerebrali distinti, uno più emotivo e un altro più razionale. Questa distinzione è stata corroborata – secondo Greene – anche dal fatto che sembra esserci una correlazione tra i sistemi cerebrali e il tipo di giudizi che questi producono: le aree del cervello associate all’emozione tendono a suscitare giudizi impulsivi che prendono la forma di giudizi deontologici, quindi giustificati in termini di diritti e doveri; le aree del cervello associate al ragionamento producono, invece, giudizi fondati su un’analisi costi-benefici.
Green propone, quindi, il modello della “macchina fotografica”; in analogia con le due modalità di funzionamento della fotocamera (una modalità automatica e una manuale, ciascuna con caratteristiche più adatte ed efficienti in situazioni diverse); così l’essere umano giudica moralmente servendosi di due processi differenti, di due sistemi cerebrali distinti che non possono funzionare congiuntamente, ciascuno dei quali funziona meglio in determinate circostanze.
Secondo Greene, l’analogia con la macchina fotografica è in grado di esprimere anche il compromesso tra efficienza e flessibilità di questi sistemi cognitivi: le risposte emotive, infatti, sono efficienti proprio in quanto istintive, mentre le risposte razionali sono flessibili perché si servono del ragionamento per perseguire obiettivi a lungo termine, prevedendo e programmando i comportamenti necessari. L’autore ritiene che a supporto dell’idea che le aree emotive siano automatiche c’è il fatto che sono le stesse aree che presentano attività quando il cervello è a riposo o, come anticipato, quando è coinvolto in attività non tipicamente di “attenzione”. Per queste ragioni, solo le azioni che derivano da giudizi razionali sarebbero da ritenersi pienamente consce, volontarie e frutto di uno sforzo.
Le teorie alternative e concorrenti: Nichols e Sauer
Shaun Nichols propone una teoria che integra il ruolo dei due sistemi, basata su due tipi di studi empirici fondamentali (Songhorian, 2020, pp.88-95): il primo, che ha per oggetto la distinzione tra norme morali e norme convenzionali, definisce come non necessario presupporre una teoria della mente per tale distinzione poiché i bambini autistici, i quali non hanno buone capacità di comprensione degli stati mentali altrui, rispondono allo stesso modo dei bambini a sviluppo tipico nei test di riconoscimento dei due tipi di violazione; il secondo è quello relativo ai deficit di empatia degli psicopatici.
Nichols – a differenza di Greene - ritiene che vi siano due componenti integrate che costituiscono i giudizi morali: un meccanismo affettivo (che si attiva quando vediamo o sappiamo che gli altri soffrono) e una teoria normativa che impedisce di danneggiare gli altri.
Inoltre, egli definisce come teoria normativa qualunque insieme di regole interiorizzate che proibiscono certi comportamenti e afferma che sia possibile riscontrare la presenza di questi elementi in tutti quei giudizi che sono condivisi in maniera universale e transculturale.
In tal modo rende conto del perché gli psicopatici e i bambini prima dei due anni non siano in grado di formarsi giudizi morali; infatti, i bambini non dispongono di una teoria normativa e gli psicopatici non hanno un meccanismo emotivo concomitante tale teoria.
Sauer sviluppa la sua idea a partire dai risultati degli esperimenti di Greene sul dilemma dell’incesto consensuale; secondo Sauer, il fatto che dopo un tempo adeguato le persone ritengano accettabile l’incesto tra fratello e sorella è indicativo del fatto che le nostre intuizioni morali sono soggette al ragionamento razionale.
Quello di Sauer è un modello di “sfida e risposta”, per cui le intuizioni morali “sono soggette a continui miglioramenti, sovra-apprendimento e abituazione” (Sauer, 2017, p. 122, citato in Songhorian, 2020, p. 103).
A giudizio di Sauer, i nostri giudizi morali nascono da delle intuizioni emotive che possono essere integrate e corrette dalla riflessione e dal ragionamento, i quali vengono sollecitati proprio in risposta a una sfida; tuttavia, non sono solo frutto di un processo evolutivo soggettivo, ma anche socio-culturale. In questo modo riesce a integrare il ruolo di emozione e ragione nella cognizione morale e rende anche conto del processo evolutivo dei giudizi morali.
Differenze tra le tre teorie
Le teorie di Nichols e Sauer propongono entrambe una concezione non oppositiva di emozione e ragione, anche in linea con le tesi di Damasio, ma differiscono nei loro obiettivi polemici: il primo vuole mostrare che anche le regole morali devono essere sentimentali; il secondo compie il percorso inverso, cercando di mostrare che anche l’emozione ha bisogno del supporto del ragionamento (Songhorian, 2020, pp. 102-106).
Ciò che distingue queste teorie da quella di Greene è il fatto che gli autori in questione considerano i giudizi morali dei “processi”, in una prospettiva diacronica; mentre Greene li ritiene degli stati mentali puntuali, e non tiene, quindi, conto del loro carattere evolutivo, del perché i valori morali si modifichino nel corso della storia e del perché anche i singoli individui possano mutare prospettiva nei loro giudizi morali.
Conclusione
Le neuroscienze cognitive ci offrono oggi molte possibilità di approfondimento di svariate questioni filosofiche estremamente affascinanti e antiche, ma è evidente che siamo ancora agli inizi di questo nuovo approccio e le teorie che ne emergono devono ancora molto alla dimensione di costruzione sociale e – in alcuni casi – metafisica.
Dal confronto di queste tre prospettive sui giudizi morali sembra emergere anche l’enorme discordanza e opacità che vi è oggi in molte definizioni metaetiche; non certo fonte di scoraggiamento ma, anzi, indice del fatto che c’è un ampio spazio per nuove riflessioni filosofiche e sociologiche.
No news, bad news – Covid, due anni dopo: delle non-notizie che devono far riflettere
Alcuni giorni fa, uno dei più autorevoli quotidiani italiani ha pubblicato l’articolo “Il Covid, il laboratorio di Wuhan e le accuse rilanciate dal Nyt sulle responsabilità Usa: «Potrebbe essere stato l’incidente più dannoso nella storia della scienza»” sull’ipotesi che la diffusione del virus Sars-CoV-2 abbia avuto origine da un laboratorio di ricerca sui virus del ceppo Sars, a Wuhan, in Cina.
L’articolo del quotidiano italiano riprende un analogo testo del New York Times, intitolato “Why the pandemic probably started in a Lab – in 5 points” che “rilancia con forza l’ipotesi che il virus Sars-Cov-2 sia stato creato in laboratorio” e, inoltre, “lancia un atto di accusa ancora più pesante: che quel laboratorio abbia creato il virus nell’ambito di un progetto di ricerca a cui hanno collaborato organizzazioni americane finanziate dal governo degli Stati Uniti.”
A sostegno di questa ipotesi, il NYT (e il quotidiano italiano che dà spazio alla notizia) si appoggia all’opinione di Alina Chan, biologa molecolare canadese presso il MIT, autrice del libro Viral: The Search for the Origin of Covid-19 (Chan A. e Ridley M., New York: Harpers Collins, 2021), libro in cui utilizza queste presunte prove a suffragio della sua ipotesi:
- La pandemia è iniziata a Wuhan, dove si trovava il più importante laboratorio di ricerca sui virus simili alla Sars;
- Nel 2018 il laboratorio di Wuhan, in collaborazione con EcoHealth Alliance (un’organizzazione scientifica americana che è stata finanziata con 80 milioni di dollari dal governo degli Stati Uniti) e l’epidemiologo dell’Università del North Carolina Ralph Baric, aveva elaborato un progetto di ricerca, chiamato Defuse, in cui progettava di creare virus simili al Sars-Cov-2;
- I livelli di sicurezza del laboratorio di Wuhan (cioè le misure per evitare il rilascio accidentale di virus) erano molto più bassi di quelli richiesti dagli standard di sicurezza delle strutture di ricerca americane;
- Non ci sono prove sostanziali per dire che lo spill-over, cioè il contagio da un’altra specie animale all’uomo, sia avvenuto in un mercato di Wuhan, come sostenuto dai cinesi.
Chan sottolinea, scrive il quotidiano italiano, che è perlomeno peculiare che «un virus simile alla Sars mai visto prima, con un sito di scissione della furina di recente introduzione, corrispondente alla descrizione contenuta nella proposta Defuse dell’istituto di Wuhan, ha causato un’epidemia a Wuhan meno di due anni dopo la stesura della proposta».
L’articolo continua affermando che “Tutto questo fa pensare che l’ipotesi di un virus costruito in laboratorio sia la più probabile.”
Ora, se proviamo ad analizzare il contenuto della narrazione, emerge che:
- il libro di Chan è del 2021;
- gli elementi a favore dell'ipotesi fuga dal laboratorio sono tratte dal libro di Chan, quindi sono datati 2021;
- l'articolo dice che non ci sono prove sostanziali per dire che lo spill-over sia avvenuto da animale non umano ad animale umano al mercato di Wuhan;
- tuttavia, non sembra fornire prove sostanziali del contrario, cioè del fatto che il virus sia stato creato nel laboratorio di Wuhan né, tantomeno, che da quel laboratorio sia sfuggito.
David Hume non avrebbe dubbi: il nesso causale che l’articolo suggerisce tra ricerca a Wuhan e diffusione del virus è illusorio; al massimo si tratta – in assenza di altre prove sostanziali – di un caso di contiguità temporale e di posizione.
Quindi, non sembrano esserci notizie nuove sull’origine della diffusione del virus, ma solo congetture, coincidenze, contiguità non causali, dette 3 anni fa.
Perché, quindi, il New York Times e il quotidiano italiano dedicano la loro attenzione a delle non – notizie?
Perché nei giorni precedenti, Anthony Fauci, immunologo a capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases fino al 2022, e guida della strategia degli Stati Uniti sul Covid, è stato sentito alla Camera statunitense sulle (presunte) responsabilità del governo USA nella pandemia e sul suo (presunto) ruolo nell’averle nascoste; durante l’audizione, Fauci ha dichiarato: «È falsa l’accusa che io abbia cercato di coprire l’ipotesi che il virus potesse essere nato da una mutazione creata in laboratorio. È vero il contrario: in una email inviata il 12 febbraio 2020 chiesi di fare chiarezza e di riportare alle autorità preposte».
Le vere notizie, quindi, sembrano essere queste:
- che prendendo spunto dalla deposizione di Fauci, che ha dato spunto a un articolo del NYT, che a sua volta non dà altre notizie, il quotidiano italiano tratta come notizia il fatto che non ci sono notizie e prova, in questo modo sottile, a sostenere l'ipotesi di Chan, trattandola in modo che sembri altamente probabile;
- che il rilancio dell’ipotesi di Chan, più che sulla solidità fattuale e causale, e a dispetto della dimensione fortemente congetturale, è fondato sull’autorevolezza della ricercatrice, “che lavora al Massachusetts Institute of Technology (Mit) e ad Harvard”[1]
- che il NYT e il quotidiano italiano usano una notizia politica (l’audizione di Fauci) per parlare d’altro, altro in cui non ci sono affatto notizie, ma solo riesumazione di congetture, per di più datate.
C’è, però, un’ultima notizia, più importante, da leggere fra le righe: che non si parla seriamente di un’ipotesi - quella della produzione in laboratorio del virus e della possibile “fuga” – che, invece, meriterebbe indagini e approfondimenti seri, circostanziati e trasparenti; non tanto per attribuire responsabilità, ma per capire:
- se e dove vengono fatte ricerche su agenti virali ad alto rischio;
- come vengono fatte;
- e soprattutto perché vengono fatte e quali sono le fonti dei finanziamenti che le rendono possibili.
NOTA
Tutti i corsivi virgolettati sono tratti dall’articolo Il Covid, il laboratorio di Wuhan e le accuse rilanciate dal Nyt sulle responsabilità Usa: «Potrebbe essere stato l’incidente più dannoso nella storia della scienza», Corriere della Sera, 4 giugno 2024.
[1] Sul tema del ruolo dell’autorevolezza degli scienziati si può vedere: Gobo G. e Marcheselli V, Sociologia della scienza e della tecnologia, Carocci Editore, 2021, Cap. 7; Collins H.M. e Evans R., The third wave of science studies: studies of expertise and experience, in “Social studies of science”, 32, 2, pp. 235-96; Collins H.M. e Pinch T., Il Golem, Edizioni Dedalo, 1995, Cap. VI.
Perché l’astensionismo… “fa bene” ai partiti, specie a quelli più grandi
Nei giorni scorsi si sono sentiti accorati appelli bipartisan ad andare a votare.
E diversi quotidiani hanno presentato con preoccupazione il fenomeno (crescente) dell’astensionismo, il quale (secondo loro) “agitava i partiti”, “incombeva sul voto”, sul quale “pendeva la mannaia dell’astensione”.
Insomma, sembravano tutti allarmati per l’astensionismo.
In realtà l’astensionismo giova ai partiti, soprattutto a quelli più grandi. Infatti, meno persone vanno a votare e più essi si rafforzano.
Sembra un’affermazione assurda, un’enormità; invece (dati alla mano) è perfettamente plausibile.
Già il sociologo Niklas Luhmann, più di quarant’anni fa (Soziale Systeme, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984. Trad. it. Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna, Il Mulino, 1990), sosteneva che il consenso era strutturalmente una risorsa scarsa nelle democrazie occidentali. Per cui non valeva la pena di dannarsi tanto nell’ottenerlo, perché scarso comunque sarebbe restato. In altre parole, si può benissimo governare… con poco consenso.
Passiamo ora ai dati.
Diverse leader di partito, nelle scorse ore, hanno esultato per essere aumentate di qualche punto percentuale. Ad esempio il PD nelle elezioni europee precedenti (2019) aveva ottenuto il 22,74%; ora, invece, il 24,08%: un punto in mezzo in più. Che diventano ben 5 rispetto alle ultime elezioni politiche (19,04%).
Ma se andiamo a vedere i valori assoluti (avvertenza che si impara alla prima lezione di un qualsiasi corso di statistica), scopriamo che i voti per i partiti più grandi sono calati, e anche di molto. In altre parole, i voti calano ma le percentuali aumentano. E i politici (e i giornalisti) guardano solo le seconde, dimenticando (furbizia? malafede? ignoranza?) i primi.
Non ci credete? Date un’occhiata alla tabella:
(Fonti dati: Elezioni Europee 2019, Elezioni Europee 2024, Elezioni Politiche 2022)
Così può capitare che FdI perda quasi mezzo milione di voti rispetto alle Politiche di due anni fa, ma salga miracolosamente del quasi 3%. Che il PD prenda soltanto 250mila voti in più rispetto alle Politiche ma faccia un balzo del 5%; e che ne perda quasi mezzo milione rispetto alle scorse europee ma salga di 1 punto e mezzo. Che la Lega e Forza Italia perdano rispettivamente 340mila e 291mila voti rispetto alle Politiche, ma salgano di qualche decimo.
Invece questo non succede con i partiti minori (vedasi +Europa), che quando perdono voti, perdono anche decimi percentuali.
Facciamo un ragionamento per assurdo: se alle prossime elezioni vanno a votare solo 10 persone su 1000 aventi diritto, e queste danno 3 voti a FdI, 3 al PD, 2 al M5S, 1 alla Lega e 1 Forza Italia, questi partiti prenderanno rispettivamente il 30%, 30%, 20%, 10% e 10%, pur avendo perso tutto l’elettorato e con un’astensione pari al 99%.
Perché, diversamente dai sondaggi, dove i ‘non so’ si espungono (giustamente) dalle percentuali finali — non si può attribuire un’opinione a chi dice di non averla — nelle elezioni questo non avviene: il voto viene attribuito anche a chi non vota [1].
E questo viene fatto presupponendo una distribuzione (partiticamente) omogenea delle astenute. Ma così assolutamente non è: coloro che non vanno a votare sono tendenzialmente le persone più critiche nei confronti del sistema politico (e non solo le “indifferenti” o qualunquiste, che potrebbero essere equamente distribuite).
Quindi non è vero che 1 vale 1. Al contrario: l’1 del votante (con alti tassi di astensionismo) vale molto di più. Con il 50% di astensionismo, vale 2. E con un ipotetico 99% di astensionismo vale quasi 100!
In questo modo le elezioni sono (matematicamente) delle ponderazioni, degli artifizi, delle manipolazioni aritmetiche.
Per cui 10 votanti (l’1%) contano come il 100% e si distribuiscono i 76 seggi europarlamentari. In questo caso (assurdo), gli eletti sarebbero più dei votanti… cioè qualche eletto non sarebbe andato a votare…
Allora è chiaro perché i partiti più grandi (quelli sopra il 10%) non hanno interesse a combattere seriamente l’astensionismo. Perché se anche porta a loro meno voti, alza però le loro percentuali. E sono queste (malauguratamente) quelle che contano.
Per cui colei/colui che non va a votare, fa (indirettamente) il gioco dei partiti più grandi.
Perché il suo non-voto se lo prendono lo stesso…
NOTE
[1] Nei sondaggi l’astensionista corrisponde alla nonrespondent, persona che non ha voluto partecipare al sondaggio. In questi casi la sondaggista interviene in due modi: 1) con una “riserva”, cioè sostituendo la nonrispondente con un'altra (socio-demograficamente) simile a lei; oppure, 2) con una “ponderazione”, cioè attribuendo (mediante un coefficiente) fittiziamente l’opinione media di quelle che hanno risposto (nel senso di aver partecipato al sondaggio) a coloro che non l’hanno fatto. Ma entrambe queste operazioni hanno dei limiti e, soprattutto, la ponderazione è sconsigliata quando il fenomeno nonresponse supera il 50% (come nel caso di queste ultime elezioni europee). Per un approfondimento: Gobo, G. (2015), La nuova survey. Sondaggio discorsivo e approccio interazionale, Roma, Carocci, pp. 201-202.
Seveso, 1976 - Il Comitato tecnico scientifico popolare: nascita e programma di lotta
La conservazione delle tracce del “disastro” dell’Icmesa e di quello che ne seguì è stata una pratica che accomuna le persone di Seveso e dei comuni limitrofi: le memorie sevesine sono sepolte nel sottobosco del Bosco delle Querce e nelle cantine delle case private. È come se a Seveso esistesse un mondo di sotto che si è stratificato con il passaggio della nuvola-nube nel mondo di sopra e che, se sollecitato, riaffiora.
-----
Ricercando questo mondo sotterraneo, una delle storie che riemerge è quella del Comitato tecnico scientifico popolare. In una video-intervista conservata da “Archivio Seveso. Memoria di parte”, uno degli studenti di medicina protagonisti del CTSP ne ricorda la genesi e la composizione eterogenea, che coinvolgeva studenti, operai, medici, sindacalisti. L’intervistato, quando si è sprigionata la nube tossica a Seveso, era un giovane laureando in medicina e ricorda che nei momenti immediatamente successivi al “disastro” nella sua facoltà si era formato un gruppo di persone che volevano approfondire questa situazione, a partire «dalla situazione reale, dalla situazione della gente»[1].
È nato così il CTSP, a partire da alcuni operai del Consiglio di Fabbrica, da studenti che stavano finendo la facoltà di medicina, da professori universitari, come Giulio Alfredo Maccacaro, e da sindacalisti.
Tra i materiali conservati nell’“Archivio Seveso. Memoria di parte” sono presenti i documenti, i ciclostilati, le lettere e i volantini del CTSP.
Il Comitato esplicitò i propri obiettivi nel bollettino pubblicato nel settembre del 1976, ponendosi in contrapposizione con l’operato delle istituzioni locali, regionali e nazionali che – secondo il CTSP – avevano coperto e soffocato ogni tipo di protesta e di organizzazione degli abitanti della zona, non fornendo sufficienti informazioni sulla situazione per fare maturare una consapevolezza collettiva del rischio.
Rifiutando il principio di delega, il CTSP intendeva allargare il proprio intervento attraverso il coinvolgimento degli organismi di base della zona, degli organismi medici e socio-sanitari.
Le proposte del Comitato insistevano:
- sull’educazione e sull’informazione sanitaria,
- sulla necessità di accertamenti sanitari e scientifici controllati dal basso,
- sull’importanza di un’opera di controinformazione atta a impedire qualsiasi tentativo di insabbiamento di responsabilità dell’industria, delle strutture scientifiche istituzionali e delle forze politiche.
Un altro aspetto importante per il Comitato era la generazione di una forma di lotta popolare mirata alla bonifica delle zone contaminate, alla salvaguardia del posto di lavoro, all’abbattimento della nocività nelle fabbriche e nel territorio e alla costruzione di nuovi servizi sanitari di base[2]. Per realizzare questi propositi, gli attivisti del CTSP proponevano un «programma di lotta» che intrecciava le questioni particolari e urgenti di Seveso con la dimensione di una lotta generale e strutturale.
Per questo oggi non possiamo limitarci a chiedere che vengano attuate solo le misure più urgenti in favore delle popolazioni colpite. Non basta rimediare ai disastri più gravi causati dalla nube: se non vogliamo un’altra Icmesa, dobbiamo batterci subito per cambiare le condizioni di lavoro in fabbrica e abbattere la nocività, per ottenere un’assistenza sanitaria realmente orientata alla prevenzione, per conquistare nuovi servizi sociali, a partire dalla casa (Asmp, b. CTSP, Bollettino del Comitato tecnico scientifico popolare, settembre 1976).
----
Il passaggio dalla dimensione particolare a quella generale si inseriva nell'eccezionalità del “disastro” sevesino perché per la prima volta in Italia la nocività non rimaneva un problema solo interno alla fabbrica, ma usciva ed «esplodeva letteralmente sul territorio» (Intervista ad abitante di Seveso, gennaio 2024).
Secondo il CTSP, per rispondere alle domande che la vicenda dell’Icmesa aveva sollevato in merito alla relazione tra lavoro, salute e ambiente, era necessario organizzare una mobilitazione operaia, territoriale e di massa.
Si trattava di una proposta che si opponeva alla marginalizzazione di chi era stato colpito dalla “nuvola-nube” e cercava di combinare il rifiuto della semplice fruizione di ordinamenti esistenti con la richiesta di partecipazione attiva (Koensler, Rossi 2012, p. 7).
La pratica militante del CTSP tentò – quindi - di portare fuori dalla fabbrica gli strumenti di indagine e di inchiesta di cui il movimento operaio si era dotato per portare la soggettività operaia al centro delle lotte dei lavoratori (Carnevale, Baldasseroni 1999, pp. 230-283).
Così le pratiche utilizzate per capire le conseguenze sanitarie e ambientali della diffusione della diossina affondavano le loro radici in una concezione della medicina non “oggettiva”, ma che si poneva l’obiettivo di coinvolgere direttamente gli abitanti delle zone colpite. La soggettività delle persone coinvolte era il punto di partenza per le ricerche scientifiche del CTSP.
L’idea di salute e di cura proposte si basavano sull’inclusione delle persone che nei territori contaminati vi abitano all’interno del discorso, perché il loro sapere e i sintomi accusati, in un tempo preciso e in un luogo determinato, sono fonti di conoscenza fondamentali per la pratica medica.
Il Comitato, a partire dalle esperienze dei gruppi omogenei di fabbrica, e dalle loro elaborazioni di salute e malattia, concepiva la salute nel quadro di una liberazione di sé,
«dove i soggetti devono avere voce e non subire le decisioni degli ospedali che non sono mai neutre»
(Intervista ad abitante di Seveso, gennaio 2024).
Ammalarsi è una realtà sociale che mette in gioco rapporti di potere ed è espressione di molteplici modi di incorporare l’ordine socio-economico e le sue disuguaglianze che pongono gli individui e le comunità di fronte a rischi differenti.
Soprattutto chi viveva a Seveso ed era da pochi anni immigrato nella Brianza produttiva in cerca di lavoro, ha incorporato la produzione nociva e pericolosa dell’Icmesa (incorporation de l’inégalité), ha sperimentato il potere locale, regionale e nazionale incapace di guarire (pouvoir de guérir) e il governo della vita attraverso controlli biologici, evacuazioni, limitazioni e ordinanze (gouvernament de la vie).
Secondo gli studi del medico-antropologo Didier Fassin (Fassin 1996), le tre dimensioni appena menzionate costruiscono lo spazio politico della salute (Fassin 1996) ed è in esso che il CTSP ha giocato un ruolo fondamentale – anche se oggi è quasi dimenticato – a Seveso per praticare e diffondere una concezione di salute e di medicina al servizio della popolazione e a partire dalla soggettività di quest’ultima, proponendo lo sviluppo di un’«eziologia politica» (Nguyen, Peschard 2003) delle patologie insorte in seguito al “disastro”.
NOTE
[1] Asmp, b. CTSP, Interviste-documentario “Seveso Memoria di parte”.
[2] Asmp, b. CTSP, Bollettino del Comitato tecnico scientifico popolare, settembre 1976.
La fisiologia dualista di Cartesio si regge sull’uso improprio degli animali?
Quando si parla di Cartesio (1596 - 1650) non va dimenticato che è uno scienziato (si direbbe oggi), un filosofo naturale (si diceva ai suoi tempi) che lavora per anni in modo moderno basandosi sul dubbio, rifuggendo il dogmatismo, osservando e costruendo le teorie sull’osservazione e sulla confutazione, discutendo con i suoi pari e antagonisti sulla fisiologia dei viventi, e che da questa fisiologia prende forma la sua teoria dualista del corpo e della mente.
Fisiologia dei viventi, sì; ma con al centro di tutto l’uomo[1]. Infatti, nella prima parte della sua opera, Descartes non considera gli animali se non di sfuggita e in modo conformista: l’animale è quello della tradizione aristotelico-scolastica, con qualche facoltà psichica ma senza intelligenza.
“quanto alla ragione o buon senso, essendo questa la sola cosa che ci fa uomini e ci distingue dalle bestie” (Descartes, R, Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche, Universale Laterza, 1978, p. 4)
Probabilmente a Descartes importava poco, degli animali, e non poteva essere collocato in modo netto su nessun versante della controversia naturalista e filosofica, tra teriofili e non-teriofili che si sviluppò in Francia nella modernità [2] – cioè tra filosofi naturali e pensatori che sostengono che tra umano e animale non ci sia una grande distanza, in termini di fisiologia di capacità morali, di sensibilità e di intelligenza e, al contrario che ritengono gli animali inferiori all’umano secondo tutti questi aspetti.
La fisiologia dell’umano è, invece, al centro de L’Homme, che Descartes inizia nel 1630 e continua a scrivere per un decennio ma che non pubblica in vita [3].
Ne L’Homme, Cartesio sviluppa una fisiologia ponderosa, ampia, dettagliata, in parte sostenuta da osservazioni naturaliste, in parte congetturale o basata su teorie della tradizione, in cui il corpo, la res estensa, ha un ruolo molto ampio, acquista mano a mano sempre più potere, invade le aree della sensibilità, dell’adattamento, del pensiero e del giudizio.
Per Descartes, però, si delinea un rischio: perseguire la strada intrapresa con L’Homme, in cui le facoltà dell’adattamento all’ambiente, il pensiero e il giudizio sono funzioni del corpo, significa puntare verso il materialismo e il determinismo.
E, come se non bastasse, questo mette a repentaglio anche una serie di punti importanti del suo stesso pensiero e vitali per il contesto in cui vive e lavora il fisiologo Cartesio: la preminenza della ragione, la mente, la libertà di scelta e, addirittura, l’esistenza e immortalità dell’anima.
Come può fare, Descartes a salvare capra e cavoli, a mantenere, cioè, la fisiologia potente del corpo e, nello stesso tempo non mettere in crisi il potere della ragione, la scelta, l’anima immortale, e – in definitiva – il giudizio come parte della componente spirituale dell’umano, della sua mente?
Un modo valido per coniugare queste due esigenze sembra essere la separazione di corpo e mente, il dualismo. Cioè, la divisione della fisiologia del vivente, con il corpo sede di funzioni della sensibilità, meccaniche, operative, di senso, e la mente che raccoglie, decodifica, decide e imposta valutazione, pensiero e azione.
Tuttavia, per non sminuire il lavoro fatto ne L’Homme, il “corpo-da-solo” deve poter essere autonomo, deve poter vivere senza pensiero, senza emozioni, senza anima, senza valutazione e giudizio.
Facile a dirsi ma difficile, però, a dimostrarsi; non sembrano esserci umani viventi che possono impersonare la mente senza corpo (certo, c’è l’anima immortale una volta separata dal corpo; ma questa è materia religiosa) né, tantomeno, un corpo ben funzionante senza la mente[4]
In soccorso di Descartes arrivano gli animali! Corpi e solo corpi, ottimamente funzionanti – in molti casi meglio degli umani: reattivi, efficaci e, nello stesso tempo, non senzienti, non pensanti, senza giudizio, senza scelta. Quindi, autonomi e automatici!
“molti animali, pur dimostrando maggiore abilità di noi in alcune loro azioni, non ne dimostrano affatto in molte altre: di modo che, quel ch'essi fanno meglio di noi, non prova affatto che abbiano ingegno, perché, se così fosse, ne avrebbero più di noi e anche nel resto farebbero meglio; ma prova piuttosto che non ne hanno punto, e ch'è la natura quella che opera in essi secondo la disposizione dei loro organi: a quel modo che un orologio, composto solo di ruote e di molle, conta le ore e misura il tempo più esattamente di noi con tutta la nostra intelligenza”. (Descartes, R, Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche, Universale Laterza, 1978, p. 42)
Questa degli animali automatici è una soluzione, tutto sommato, molto a buon mercato; perché gli animali non possono lamentarsi e perché c’è già una ampia letteratura anti-teriofila, tra scienze naturali e fisiologia, che non attribuisce funzioni “superiori” ai non umani.
E non è una soluzione qualunque perché, se da un punto di vista epistemologico, Descartes mette al sicuro la veracità della conoscenza con il lumen naturale, con il cogito e – alla fine – con la garanzia della rappresentazione garantita da Dio, dal punto di vista ontologico, l’animale-macchina “salva” l’autonomia delle due res, cogitans e estensa, l’anima immortale, tutta la fisiologia.
E, da allora, gli animali non umani sono sempre più macchine, bruti, senza sentimenti, senza patimenti, oggetti. Fruibili a fini filosofici e “buoni da usare” (non solo da mangiare).
NOTE
[1] Inteso come essere umano. Cartesio non avrebbe, però, mai detto ‘essere umano’, e certamente non pensava alla parità di genere.
[2] A partire da Montaigne fino a Rousseau; per approfondimenti, cfr. Boas, The Happy Beast in French Thought of the Seventeenth Century, John Hopkins Press, 1933 e Singer P., La nuova rivoluzione animale, Il saggiatore, 2024, pagg. 61 e segg.
[3] Cfr.: Corpus Descartes, Édition en ligne des œuvres et de la correspondance de Descartes, https://www.unicaen.fr/puc/sources/prodescartes/accueil.html
[4] I tentativi di considerare corpo senza mente diverse forme di disabilità mentali non sembrano dare risultati validi: l’osservazione e la fisiologia mettono sempre in luce scampoli di mente sensibile
Nello specchio dell’Intelligenza Artificiale - The Eye of the Master
Specchi
Con consueta indiscrezione Oscar Wilde rivela che Dorian Gray si è immunizzato dai sintomi dell’invecchiamento e del degrado morale della sua condotta, proiettandone i sintomi su un ritratto che custodisce in soffitta. Solo puntando lo sguardo sul dipinto è possibile scorgere la verità che l’aspetto del personaggio sta mascherando. Cosa vediamo quando fissiamo gli occhi sull’intelligenza artificiale, che in qualche modo abbiamo costruito come un ritratto tecnologico della nostra umanità? Le scienze cognitive e gran parte delle pubblicazioni divulgative affermano che i dispositivi informatici riflettono la forma della nostra mente, anche se ancora in modo parziale e talvolta alterato. Nei computer riverbera la verità dello spirito, anche se ancora solo per speculum et in aenigmate, un po’ come secondo Agostino di Ippona e Paolo di Tarso la nostra esperienza ci permette di scorgere il volto di Dio in uno specchio, non ancora faccia a faccia – con tutte le contraffazioni che ai tempi dell’impero romano le superfici riflettenti praticavano sulle immagini.
Ma è possibile che nell’intelligenza artificiale si mostri quello che il lavoro collettivo della storia della tecnologia vi ha introdotto in fase di progetto e di sviluppo, più che la struttura o le funzioni della mente nella loro presunta universalità e immutabilità. La tesi che Matteo Pasquinelli dimostra in The Eye of the Master rende omaggio all’evidenza che nei dispositivi informatici troviamo quello che ci abbiamo messo più che quello che siamo, in una prospettiva che ha il pregio di muoversi in direzione opposta all’opinione comune, e con una strategia di argomentazione tutt’altro che triviale. I passaggi focali della sua ricostruzione sono due.
Ragazze che contano
Il primo si colloca all’origine della storia dell’informatica, o comunque in uno dei momenti considerati come essenziali per la nascita della disciplina: qui Pasquinelli sfida il presagio di noia dei lettori esperti, soffermandosi sugli studi condotti nella prima metà dell’Ottocento dal matematico Charles Babbage per la realizzazione della «Macchina Differenziale» (ed esponendo me ora allo stesso rischio). Il dispositivo non è mai stato portato a compimento, e si distingue dai computer progettati e costruiti nel Novecento per il fatto che non prevede una distinzione tra hardware e software: la macchina, anche nella sua veste definitiva, sarebbe stata in grado di processare un solo programma – quello del calcolo delle tavole logaritmiche. Babbage ha anche elaborato i piani per una «Macchina Analitica», che avrebbe potuto eseguire una pluralità di compiti diversi, ricorrendo a schede meccaniche paragonabili a quelle utilizzate nei telai Jacquard per l’esecuzione dei ricami. In questo caso però la pianificazione non ha condotto nemmeno al prototipo con azionamento manuale, che invece è stato messo a punto per la Macchina Differenziale.
Il primo progetto è stato sollecitato da esigenze commerciali e militari, ottenendo anche un finanziamento pubblico di 1.500 sterline: le tavole logaritmiche sono essenziali per il tracciamento delle rotte, e sono state quindi uno strumento fondamentale per la solidità dell’impero coloniale costruito dagli inglesi fino dal Settecento. Il procedimento seguito da Babbage, da cui discende la tecnica moderna della programmazione, si fonda sulla nozione di divisione del lavoro divulgata da Adam Smith cinquant’anni prima e approfondita in due direzioni.
La prima è quella della riduzione delle operazioni di calcolo ai passaggi meccanici di cui sono composte. Turing ripete lo stesso esercizio più di un secolo dopo, quando in piena Seconda Guerra Mondiale elabora il modello matematico per decrittare i messaggi in codice della marina tedesca. Computer ai tempi di Babbage, e ancora ai tempi di Turing, non è il nome di una macchina, ma l’etichetta di una professione esercitata per lo più da ragazze, che eseguono lunghe sequenze di calcoli meccanici in cui sono stati segmentati algoritmi predisposti da ingegneri e da matematici, per la misurazione di rotte, di distribuzioni statistiche, ecc. La riduzione di questa varietà di competenze a singoli passaggi automatici permette di organizzarli in una macchina, che quindi non è un oggetto ma la cristallizzazione di una configurazione di relazioni sociali e della divisione del lavoro che la governa.
La seconda direzione proviene dagli studi di Babbage in ambito di management aziendale, e dalla sua conapevolezza che la divisione del lavoro permette di calcolare il costo di ogni fase della produzione, e di abbatterlo attraverso l’assegnazione dei compiti più semplici a personale non qualificato, o a macchine che lo rimpiazzino. Babbage non coincide con l’immagine di apostolo dalla purezza della curiosità scientifica che l’agiografia dipinge da sempre, né è stato una figura isolata nella sua austerità accademica – né la sua invenzione è neutrale da un punto di vista morale e politico. Il computer cristallizza la piramide di competenze e le prestazioni dei matematici, degli ingegneri, delle signorine calcolatrici, riflettendo le gerarchie sociali e le strutture etiche che ne governano la divisione del lavoro: la macchina non è moralmente meno compromessa del ritratto di Dorian Gray.
Autonomia, parzialità e fallibilismo
L’ordinamento gerarchico piramidale della cultura industriale si rispecchia nella tecnica di programmazione inaugurata da Babbage, che implementa una struttura di comando verticale in cui l’ingegnere del software definisce tutte le fasi di elaborazione, e i processi le eseguono in modo automatico. La società contemporanea non può essere controllata nello stesso modo, a causa della complessità delle interazioni, e del livello di distribuzione e di autonomia degli agenti coinvolti. I freelance che lavorano con il coordinamento delle imprese della gig economy, come gli autisti di Uber o i rider di Glovo, i creatori di contenuti che pubblicano sui social media, i webmaster che producono le pagine digitali indicizzate da Google, gli attori e i prodotti del mercato finanziario globale, sono alcune espressioni della mereologia tra organicità e frammentazione locale del mondo contemporaneo. I soggetti che lo abitano dispongono sempre di una conoscenza parziale dell’ambiente in cui operano, e sviluppano una comprensione della realtà che è stimata per congettura, con rappresentazioni che devono essere aggiornate o rivoluzionate sulla base dell’esperienza.
Pur senza approfondire il modo in cui funzionano le intelligenza artificiali costruite con reti neurali, è possibile osservare che, dai primi esperimenti del Perceptron di Frank Rosenblatt nel 1957 alle attuali AI generative trasformative, i principi essenziali rimangono due: ogni unità di calcolo, ogni «neurone», accede ad una quantità di informazione limitata, che può essere persino sbagliata; il software nella sua totalità dispone di una rappresentazione statistica complessiva del fenomeno processato, in cui si bilanciano gli output di ogni «cellula» di calcolo. La natura probabilistica del risultato deriva dall’autonomia delle singole unità di processamento, e dall’adeguamento per tentativi ed errori con cui la macchina interagisce con l’ambiente: se la risposta esterna è negativa, il sistema rimodella la propria configurazione per migliorare l’output. Il secondo passaggio strategico dell’argomentazione di Pasquinelli consiste nella ricostruzione del debito che lega il progetto di Rosenblatt a The Sensory Order (1952) di Friedrich von Hayek. In questo testo l’autore proietta le tesi economiche e sociali del neoliberalismo – di cui è uno dei padri fondatori, insieme a von Mises e a Schumpeter – sul dominio della psicologia connessionista: il modello di apprendimento fondato sui principi di collegamento in rete dei neuroni corrisponde all’autonomia degli individui economici come agenti dotati di conoscenza limitata del mercato, e del sistema sociale come equilibrio tra le rappresentazioni probabilistiche e congetturali dei soggetti. L’assunto di una conoscenza completa delle necessità e delle transazioni sociali non è reputato solo impossibile, ma condannato come moralmente deprecabile. Il ritratto insegna a Dorian Gray non solo cos’è diventato, ma anche che è giusto che sia così.
Pasquinelli riprende il metodo e l’orientamento della scuola del Max Planck Institute di Berlino, con la capacità di rendere perspicuo il radicamento dei paradigmi tecnologici e di quelli scientifici nelle condizioni politiche e sociali in cui hanno visto la luce. Sarebbe stato interessante un approfondimento del modo in cui l’intelligenza artificiale di ultima generazione sta riplasmando l’ambiente materiale in cui è attiva, e la società che la circonda. Se c’è qualcosa di vero nel fatto che nella tecnologia possiamo osservare anche ciò che siamo, oltre a quello che ci abbiamo messo, è perché noi stessi siamo rimodellati dagli artefatti che produciamo: nella tecnica ritrattiamo in continuazione ciò che l’essenza della nostra umanità è stata per i nostri predecessori: eroismo aristocratico, telescopio eidetico, anima immortale, monade rappresentativa, macchina a stati finiti, rete connettiva. E ora?
Scienze sociali in scena: un rapporto fecondo tra sociologie e teatro
«Il teatro è così infinitamente affascinante perché è così casuale. È come la vita…»
(Arthur Miller)
Teatro, persona, maschere, ruoli e palcoscenico… Sono da sempre interconnessi. Non è un caso se nel linguaggio comune vi siano molti riferimenti al teatro: «il ruolo di genitore», «le persone hanno molte maschere», «è calato il sipario», e così via.
Anche nelle scienze sociali vi sono molti riferimenti a questa realtà: dal concetto stesso di rappresentazioni sociali, all’approccio drammaturgico dello scienziato sociale Erving Goffman (1945, The Presentation of Self in Everyday Life) che analizza le istituzioni sociali, quelle della vita quotidiana e quelle professionali, come vere e proprie rappresentazioni teatrali, in cui gli individui sono considerati come degli attori e che, a seguito di un periodo variabile e differente di preparazione in un contesto sociale definito retroscena, interpretano pubblicamente dei ruoli, in un altro spazio pubblico, ovvero la ribalta. Anche in un’altra disciplina di grande interesse, si ha un forte richiamo al teatro, ossia l’antropologia teatrale che analizza le interazioni degli individui e/o delle collettività all’interno di una forma di drammatizzazione organizzata. Quindi diventano interessanti i rapporti dell’attore teatrale/sociale con i gesti e le parole portati in scena. Uno degli studiosi più importanti di questa sub-disciplina, Eugenio Barba (1993, La canoa di carta) la definisce come «lo studio del comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive».
A partire da queste premesse (intrecciate sia con il mio bagaglio culturale e di ricerca, che a sua volta interseca antropologia, criminologia e sociologia, che con la mia passione per l’arte, il teatro e il cinema) è nato il progetto di divulgazione scientifica in chiave teatrale, Scienze sociali in scena.
Gli obiettivi del progetto
Il progetto, dunque, ha diversi obiettivi: innanzitutto quello di trasmettere gli elementi caratterizzanti le scienze sociali di cui mi occupo attraverso il teatro, inteso come uno dei migliori strumenti per acquisire conoscenza; al tempo stesso affrontare i problemi della società contemporanea; ma soprattutto accomunare l’esperienza della ricerca scientifica e il mondo delle arti sceniche attraverso uno scambio reciproco di saperi e di sostegno per la divulgazione scientifica con una impostazione e un linguaggio alla portata di tutti.
Il logo
L’identità di una qualsiasi entità, per affermarsi, necessita innanzitutto di simboli. Proprio per queste ragioni il logo ingloba le tante “dualità” che sottendono questo progetto. Innanzitutto, i colori: il bianco e il nero, come richiamo sia alle zone di luce ed ombra dell’agire umano, ma anche correlati alla contrapposizione tra il retroscena e la ribalta, ma più in generale si riferiscono alle varie forme di ambivalenza che accompagnano l’uomo. I simboli: sulla sinistra sono presenti le classiche maschere che rappresentano il teatro, ma hanno anche un altro significato, ovvero quello proposto da Jung che «prende in prestito il termine dal latino Persōna Persōnam, ovvero la maschera che gli attori solevano indossare durante le rappresentazioni sceniche. La Persona era solo un riflesso dell’immagine del personaggio interpretato dall’attore, ne riprendeva i lineamenti, lo caratterizzava, lo inseriva in un ruolo». A destra, invece, ritroviamo un network, e quindi una simbologia che richiama l’attitudine umana di entrare in relazione con i suoi simili.
La strutturazione di Scienze sociali in scena
Il progetto ha una strutturazione particolare. Innanzitutto, si apre con dei video con sottofondo musicale, da me realizzati, perché ho anche l’hobby, seppur del tutto amatoriale, del video editing. Questa fase ha un duplice compito: sia di creare un’atmosfera densa e volta ad attirare l’attenzione, ma al tempo stesso, essere una vera e propria scenografia visuale. Dopodiché inizia la fase teatrale propriamente detta, in cui vengono interpretati passaggi delle mie ricerche, ma anche eventuali personaggi analizzati. Si tratta di un momento essenziale, perché ha il compito di portare lo spettatore “all’interno” della tematica trattata.
Il passo successivo consiste nella fase intervista al personaggio, il cui scopo consiste nel mostrare come si conduce un’intervista dal punto di vista delle scienze sociali, per far comprendere come sia complicato rimanere, per esempio, avalutativi rispetto a determinate tematiche; ma, al tempo stesso, è utile per dare il via all’ultima fase ossia quella dell’analisi di tutto ciò che è stato portato in scena, con un linguaggio semplice ed accessibile, in modo tale da trasmettere forme di conoscenza utili non solo ai fini dell’evento, ma anche nella vita quotidiana.
Curiosità
Scienze sociali in scena interseca le scienze sociali non solo con la recitazione, ma anche con l’arte. Infatti, un elemento centrale di questo progetto sono sia la realizzazione di fotografie, che la presenza di installazioni artistiche in scena, in linea con la tematica trattata.
Il progetto [1] è totalmente autonomo e autofinanziato, perché i realizzatori credono che soltanto nell’autonomia si possa erogare un prodotto di ricerca libero da qualsiasi forma di influenza politica, economica, o di altra natura.
In questo modo, è possibile che si rafforzi la figura del divulgatore teatrale: ossia uno scienziato sociale in grado di trasmettere il proprio sapere, la propria esperienza sul campo, i propri prodotti scientifici nel contesto teatrale.
Speriamo che questo progetto possa avere una crescente attenzione e impatto in diversi contesti ed ambiti, ricordando sempre che nel grande teatro della vita, cerchiamo sempre le sedie dello stupore, dell'innovazione, della diversità e perché no anche del sano dissidio... Si tratta di sedute quasi sempre libere... Quelle dell'ovvio, invece, sono già tutte occupate.
NOTE
[1] A questa avventura partecipano: Anna Rotundo (per la fotografia, le installazioni artistiche e, in collaborazione con me, l’adattamento delle mie ricerche in chiave teatrale); Maria Novella Madia (attrice); lo staff tecnico (Rita Rotundo e Arturo Obizzo), l’autore di questo post.
Il progetto è stato inaugurato a Catanzaro, con l’adattamento teatrale del Cannibalismo questioni di genere e serialità, e ha ottenuto un numero elevatissimo di presenze!
Per approfondimenti, si può fare riferimento alle pagine Facebook e Instagram.
Sono già in fase di programmazione altri eventi sotto l’effige di Scienze sociali in scena.