Le sfide della scienza post-normale - Come costruire comunità estese di pari
La scienza post-normale (PNS) di cui parliamo in questa serie di articoli (ad esempio nel nostro precedente intervento) non descrive solo la condizione moderna che attraversa la scienza nella sua relazione con la politica e la società, ma ambisce a fornire pratiche utili per affrontare le situazioni conflittuali che spesso emergono in contesti di crisi ambientali e sanitarie.
Quando «i fatti sono incerti, i valori in contrasto e la posta in gioco elevata», secondo la PNS, le decisioni di policy non possono basarsi solo su fatti tecnici e scientifici. Serve, invece, il contributo di una «comunità estesa di pari» fatta da scienziati e scienziate portatrici di prospettive minoritarie, persone esperte di altri settori rilevanti, cittadini e cittadine che possono contribuire con conoscenze locali non riconosciute dalla scienza “normale”: serve, cioè, una comunità fatta da tutte le persone portatrici degli interessi in gioco.
GLI OSTACOLI ALLA COSTRUZIONE DI COMUNITÀ DI PARI (E COME RIMUOVERLI)
Nonostante moltissime delle sfide globali di oggi si configurino come propriamente post-normali, l’idea di costruire una comunità estesa di pari si scontra sia sul piano metodologico che su quello simbolico, con uno dei fondamenti ideologici della scienza moderna: l’idea che la produzione di fatti scientifici sia frutto del pensiero collettivo di una comunità omogenea di soli esperti. Per far spazio ai nuovi ruoli della scienza nei contesti pubblici, è fondamentale, pertanto, decostruire queste narrazioni.
Il pensiero femminista, che a lungo si è interrogato sull’esclusione delle donne dalla scienza, può offrire strumenti critici per osservare e comprendere gli ostacoli al riconoscimento delle comunità estese nei contesti PNS, contribuendo a ripensare il ruolo di persone esperte e non esperte nella produzione di conoscenza. Le studiose femministe sono state tra le prime a mettere in discussione la presunta oggettività della conoscenza scientifica e l’illusoria separazione tra fatti e valori, insite in tale visione della scienza. Come ricordano Eleonora Severini, Elena Gagliasso e Cristina Mangia nel volume che abbiamo curato[1], con l’epistemologia dei punti vista, queste pensatrici propongono un’idea di scienza come traguardo sociale da perseguire collettivamente per arrivare a costruire una “oggettività forte”.
L’attitudine al dialogo inter e transdisciplinare, necessaria per creare comunità di pari, non è incentivata neanche nei percorsi formativi di ricerca. Nella cultura scientifica contemporanea si tramanda spesso un’idea gerarchica tra scienza e altri saperi, che stabilisce la rilevanza dei problemi, gli attori e le conoscenze che possono (o non possono) contribuire alla loro definizione e soluzione. In questo rapporto asimmetrico tra i saperi, ai poli opposti si trovano spesso scienza e arte, considerate sfere culturali separate: rappresentazione oggettiva della realtà, strumento privilegiato per conoscere e agire nel mondo, la prima; espressione della soggettività e delle emozioni, puro veicolo del bello, la seconda. Nel progetto di ricerca presentato da Rita Giuffredi nello stesso volume, è proposto un percorso transdisciplinare che mira a far emergere queste narrazioni. A partire da un caso di studio complesso, la fertilità del suolo, un gruppo di giovani ricercatrici e ricercatori italiani è stato coinvolto in un’azione di scavo collettivo, proposta come metodologia di indagine estetica che investiga le identità dei partecipanti, le connessioni tra i diversi sistemi di conoscenza, i confini (spesso veri e propri muri) che definiscono e legittimano le discipline diverse forme di conoscenza. Il percorso ha permesso di mettere a confronto, immaginare e costruire nuove visioni e relazioni tra scienza, società, ecosistemi e attori umani e non umani, e può costituire una traccia da seguire in questo contesto.
NUOVI RUOLI ANCHE PER LA CITTADINANZA NEGLI SCENARI PNS
La comunità di pari non implica solo nuovi ruoli per chi si occupa di ricerca scientifica, ma anche per la cittadinanza che oggi - in una società dove il sapere non si genera solo nelle accademie e nelle istituzioni di ricerca - diventa parte attiva nella produzione di conoscenza, dilatando la stessa nozione di comunità estesa di pari. È quanto è accaduto durante la pandemia da Covid, dove i comportamenti individuali e collettivi si sono rivelati cruciali per affrontare l’emergenza. Le persone, spiega Mariachiara Tallacchini nello stesso volume, hanno ricevuto una doppia delega, cognitiva e normativa: da un lato, il compito di comprendere e contestualizzare le informazioni scientifiche alla base delle proprie scelte; dall’altro, la responsabilità di aderire con fiducia alle direttive istituzionali che si sono succedute in quei momenti drammatici.
Le potenzialità di questa configurazione partecipativa per uno sviluppo democratico e responsabile del rapporto istituzioni-esperti-società sono enormi, ma ancora largamente sottovalutate. È necessario il riconoscimento delle “capacità epistemiche” diffuse nella cittadinanza e l’attivazione di nuove pratiche di apprendimento, individuale e collettivo. Solo in questo modo sarà possibile fronteggiare con adeguata preparazione (preparedness) le sempre più frequenti situazioni di incertezza in cui ci troviamo ad operare.
COSTRUIRE COMUNITÀ DI PRATICHE
Nello stesso volume cui ci riferiamo in questo post, il tema della comunità estese di pari è esplorato anche nel suo farsi pratica di ricerca collaborativa, inter, multi e transdisciplinare. Anna Scolobig, ad esempio, presenta alcune riflessioni su un processo partecipato finalizzato all’elaborazione di un piano di mitigazione del rischio da frana per la città di Nocera Inferiore in Campania. Attraverso il confronto tra le diversità disciplinari del personale di ricerca coinvolto, - dalla geotecnica alla sociologia – e il coinvolgimento di soggettività locali (residenti, imprese, amministrazioni) - sono state identificate priorità comuni che hanno portato alla definizione di un piano di mitigazione condiviso, poi implementato con interventi di ingegneria naturalistica, che dura tuttora.
NOTE
[1] L’Astorina, A. & Mangia, C. (eds). (2022). Scienza, politica e società: l’approccio post-normale in teoria e nelle pratiche. SCIENZIATI IN AFFANNO? (Vol. 1): pp.296. Cnr Edizioni. https://doi.org/10.26324/SIA1.PNS
Intelligenza artificiale e creatività – Quarta parte: stili e strategie
Su Controversie, qualche mese fa abbiamo aperto un'interessante quanto feconda discussione, che verte sul rapporto tra I.A. e arte (oppure, tra intelligenza artificiale e intelligenza umana durante il processo artistico).
Abbiamo declinato questo tema secondo diversi percorsi di riflessione e svariati argomenti quali la creatività, l’essenza dell’artista, il futuro della stessa pratica artistica o, infine, l’I.A. come inciampo nella storia dell’arte.
Insomma, il dibattito che abbiamo avviato nelle scorse settimane ha aperto numerose ramificazioni e possibilità argomentative, grazie ai contributi sia di membri della Redazione di Controversie, sia di autori ospiti. Tra i secondi, lo scorso dicembre abbiamo pubblicato le impressioni di Aleksander Velišček, artista visivo che lavora anche con l’I.A. Nel suo intervento, Aleksander scrive che l’artista umano svolge un ruolo fondamentale nella creazione di un’opera con questa tecnologia, affermando inoltre che «l’I.A. è sicuramente uno Strumento, sempre più potente e innovativo, ma non sostituisce l’immaginazione e il giudizio umano».
I nostri ragionamenti ripartono proprio da intuizioni simili; infatti, il nostro viaggio riprende da questa domanda: nell'epoca dell'I.A., qual è il destino dello stile? Di fronte a uno strumento che potenzialmente può copiare qualunque stile, la mano dell'artista scompare oppure si innova?
Lascio dunque la parola ad Aleksander.
ALEKSANDER: Da pittore e grande amante della storia dell’arte in questo scenario, diventa quasi "ingenuo" pensare che un artista possa ancora essere autore di uno stile unico. Oggi, più che mai, è un trasformista estetico consapevole, che attraversa “stili” con lucidità e intenzione. Lo stile non è più una firma permanente, ma una scelta strategica, funzionale all’idea o al messaggio di ciascun progetto. Il concetto di coerenza evolve: ciò che tiene insieme una produzione non è più la ripetizione stilistica formale, ma la forza del pensiero critico, la visione che attraversa le opere.
A questo punto cito una riflessione di Magnus Carlsen, ex campione del mondo di scacchi, ormai diventata quasi una citazione classica. Secondo lui, non ha più senso sfidare un computer: “Non posso batterlo, quindi non lo considero più un avversario”. La vera svolta però non sta nella resa, ma nel cambio di prospettiva: e se l’AI, invece di essere un nemico da superare, diventasse un compagno di gioco?
Cosa succede, allora, se la pittura non è più legata a uno stile personale ma a una logica relazionale, situazionale, processuale? Il destino dello stile potrebbe non essere la scomparsa, ma il suo smembramento. Diventa instabile, mobile, diffuso. Non più segno di una coerenza autoriale, ma frammento di una conversazione continua tra intelligenza "umana" e intelligenza "artificiale".
Studi preliminari a olio su carta, misure variabili - esempio del processo di collaborazione tra me e il mio collega ChatGPT per ricreare un finto dipinto di Peter Paul Rubens a tema Bacco.
Algoritmo di Prometeo - Oltre la malinconia: se non ci sono alternative, inventiamole
«I miti sono storie che raccontano il nostro passato, ma anche ciò che siamo destinati a diventare»
(Carl Gustav Jung)
In risposta a “Algoritmo di Prometeo o civiltà della depressione?”
1. UOMO E TECNICA: OLTRE LA MASCHERA, IL SISTEMA
Negli ultimi anni, il dibattito sull’intelligenza artificiale si è nutrito di immagini potenti, figure archetipiche, richiami a un inconscio collettivo tecnologico che sembra voler sfuggire a ogni presa razionale. È in questo paesaggio mentale che si inserisce l’articolo di Paolo Bottazzini, “Algoritmo di Prometeo o civiltà della depressione?”, che prende spunto dal mio precedente contributo per sviluppare un ragionamento ampio, colto, sfumato, sul legame tra tecnica, immaginario e malinconia. Un invito stimolante, soprattutto in tempi in cui il pensiero sembra costretto a scegliere tra apologia e condanna.
Ma è proprio questa eleganza evocativa, questo procedere per affinità elettive e richiami simbolici, che rischia – talvolta – di smarrire il punto. Perché se è vero che l’IA incarna ormai un pantheon di miti – da Prometeo a Frankenstein, da HAL9000 al replicante – è altrettanto vero che, oggi, l’algoritmo ha smesso di essere solo metafora: è diventato infrastruttura. E, in alcuni casi, arma. Una tecnologia che decide della vita e della morte degli esseri umani, con margini d’errore già normalizzati nel lessico bellico.
È da questo slittamento – dalla metafisica all'infrastruttura, dall’allegoria al codice operativo – che desidero ripartire, per intrecciare un contrappunto. Un dialogo che, attraversando le stesse stazioni toccate da Paolo Bottazzini, rivolga lo sguardo verso ciò che mi sembra resti fuori campo: l’uso politico e militare dell’IA, il suo radicamento nei dispositivi di dominio e controllo, e la necessità urgente di nominarla per ciò che è. Non per contraddire, ma per completare. Non per negare la forza dei miti, ma per riportare al centro ciò che i miti, a volte, rischiano di oscurare: la macchina che uccide, integrata nel cuore pulsante dell’infrastruttura occidentale.
2. INTELLIGENZA E TECNICA: UNA CO-EVOLUZIONE PERICOLOSA
Lungi dal voler negare l’intreccio tra umano e tecnica, ritengo che oggi non basti più evocare l’archetipo prometeico per leggere le trasformazioni in corso. L’idea di “co-evoluzione” tra essere umano e tecnologia, infatti, rischia di suggerire una simmetria che non esiste più. Se un tempo la tecnica poteva essere pensata come estensione simbiotica dell’umano, oggi siamo di fronte a un cambio di paradigma. La simmetria si è spezzata.
L’algoritmo non è più un semplice strumento di potenziamento cognitivo o produttivo. È diventato una griglia di interpretazione e decisione, un codice prescrittivo che informa il reale e lo trasforma. E proprio qui si apre la frattura: la tecnica non evolve con noi, ma spesso al posto nostro. Sostituisce processi, automatizza conflitti, cancella zone grigie. Non c’è più solo il sogno della macchina che ci supera: c’è la realtà della macchina che decide – e troppo spesso, giustifica.
È in questo orizzonte che ho scelto di evocare Prometeo, ma non quello pacificato, integrato nel racconto dell'evoluzione co-tecnica dell'umano. Il mio Prometeo è un archetipo perturbante, più vicino al rimosso freudiano che al fondamento antropologico. Se la tecnica è ciò che ci rende umani — impalcatura del gesto, della parola e del pensiero — nel mio sguardo è ciò che oggi rischia di renderci post-umani o addirittura disumani. Atto di emancipazione e condanna insieme, l’archetipo bifronte di Prometeo ci consegna a una soglia: quella in cui il dono si rivela maledizione, e il fuoco che ci ha illuminati diventa combustione che ci sfugge di mano.
Non si tratta più di pensare con la tecnica, ma di pensare contro la sua pretesa neutralità. Ed è qui che si apre lo spazio del conflitto: non tra uomo e macchina, ma tra uso politico della tecnologia e possibilità di riconoscere ciò che essa nasconde.
3. PIGMALIONE E IL GOLEM: MITI ANTICHI, PERICOLI MODERNI
L’analisi dei miti di Pigmalione e del Golem apre una riflessione sulla relazione ambigua tra creatore e creatura, una dinamica che, nell'era dell'intelligenza artificiale, ha ormai superato la soglia del simbolico. L'oggetto plasmato non è più una figura allegorica, bensì un agente che agisce nel mondo, con una sua autonoma capacità di influenzare il reale.
Il mito di Pigmalione, in particolare, si reincarna nei secoli, fino alla celebre commedia di George Bernard Shaw, Pygmalion (1913), dove il professor Higgins “addestra” Eliza Doolittle affinché parli e si comporti come una dama, modificando la sua identità attraverso la lingua. Questo atto, che si presenta come una semplice operazione di educazione o raffinamento, è in realtà profondamente violento: Eliza viene trasformata per aderire a uno standard culturale e sociale imposto da altri, subendo una coercizione che, pur raffinata, non lascia spazio alla sua autonomia. Un gesto che oggi riecheggia nel modo in cui le intelligenze artificiali vengono addestrate: si scelgono i dati, si definiscono le regole, si plasma il comportamento linguistico dell’algoritmo affinché risponda a un modello normativo.
Nel mio articolo Cloud di guerra, ho mostrato come questa “simulazione intelligente” — l’IA — venga addestrata per colpire corpi reali, delegando alla statistica la responsabilità di azioni devastanti come quelle in corso da oltre un anno e mezzo a Gaza. In questo senso, l’IA non è più Galatea che prende vita, né Golem che protegge, ma diventa un'arma di sterminio, un’entità che agisce con uno scopo ben preciso: la distruzione totale degli esseri umani così come dei territori.
Anche il Golem, però, è vivo e lotta, e si può dire che oggi lo vediamo muoversi in alcuni palazzi del potere. Nel discorso politico di alcuni leader israeliani il riferimento non è esplicito, ma la dinamica è la stessa: invocare una creatura primordiale nata per difendere un popolo da attacchi esterni, una macchina identitaria che giustifica qualsiasi azione, anche la più disumana, in nome della sopravvivenza. Il Golem che oggi prende forma nei bombardamenti su Gaza non è fatto d’argilla, ma di algoritmi, codici e fuoco, ed è caricato di uno scopo: proteggere Israele distruggendo l’altro.
Una declinazione che, tuttavia, tradisce la natura più antica e profonda del Golem, come ci ricorda la studiosa israeliana Hora Aboav. Nella parola Golèm (גֹלֶם,) risuona una dimensione trasformativa: il Golem non è solo una creatura da temere o controllare, ma è un simbolo della metamorfosi possibile. La lettera ג (Ghìmel), da cui prende vita il termine, è un ponte: conduce fuori dall’utero domestico, introduce il deserto dell’esistenza, accompagna verso la consapevolezza di sé. Il Golem rappresenta dunque una forma primordiale destinata a maturare, un bozzolo che si prepara a diventare farfalla.
Oggi, invece, il Golem è di nuovo invocato come pretesto per evitare la trasformazione, per rimanere incistati nella paura, nell’identità rigida, nella pulsione di annientamento e di morte. Ma un popolo che non sa svezzarsi — come insegna la radice לגְמֹל (lègmol) — non cresce. Rischia di rimanere prigioniero del proprio bozzolo, vittima di un’identità che non sa più ruotare né mutare.
4. MELANCONIA, NICHILISMO, DEPRESSIONE: SINTOMI DI UN SISTEMA MALATO
La depressione è spesso descritta come una malattia della civiltà moderna, un effetto collaterale di una società che celebra l’efficienza e la produttività. Sebbene questa analisi offra spunti interessanti, il rischio è ridurre il problema a una condizione individuale, mentre esso è in realtà profondamente sistemico, radicato nel cuore stesso del nostro modello socioeconomico.
La diffusione della depressione non è una mera coincidenza: è un sintomo di un sistema che premia l’automazione, il controllo e la resa a scapito della vita umana. L'intelligenza artificiale, in questo contesto, non è solo uno strumento neutro, ma un amplificatore delle logiche oppressive già in atto, con l’ambizione di ridurre ogni aspetto della nostra esistenza a un'operazione di calcolo. Come ho già sottolineato in L’algoritmo di Prometeo, è fondamentale interrogarsi su chi controlla queste tecnologie, con quali scopi e con quali conseguenze. Ma questo interrogativo non è sufficiente se non ci spingiamo a considerare come la depressione e la distruzione del soggetto umano siano in realtà prodotti di un sistema che automatizza e predice.
Un esempio lampante è l’automazione del lavoro di cura: un settore cruciale della nostra società, che tradizionalmente richiedeva l’intervento umano, è sempre più delegato alle tecnologie IA. I caregiver, un tempo professionisti umani, si stanno trasformando in assistenti algoritmici che gestiscono anziani, disabili e malati cronici. Questo modello di "cura predittiva" ha l’apparente vantaggio di ottimizzare il tempo e risparmiare risorse, ma dissolve progressivamente l’empatia e il valore della relazione umana. La solitudine e il disincanto, che sono già all’origine di numerosi disturbi psicologici, sono amplificati dalla sostituzione delle interazioni umane con logiche automatizzate. La depressione diventa allora un effetto collaterale dell'automazione, non solo nel senso psico-emotivo, ma anche come risultato di un impoverimento delle relazioni umane.
Allo stesso modo, negli Stati Uniti, il sistema carcerario si sta sempre più avvalendo dell’IA per determinare la condotta dei prigionieri, il rischio di recidiva e, in alcuni casi, la loro libertà condizionale. Algoritmi come COMPAS (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions) calcolano il rischio di recidiva, ma sono spesso basati su dati storici distorti che penalizzano ulteriormente le classi più vulnerabili, alimentando una spirale di ingiustizia. In questo contesto, la depressione non è solo il risultato dell'isolamento e delle dure condizioni carcerarie, ma anche un effetto sistemico del controllo automatizzato, che trasforma l’individuo in un numero da prevedere e trattare, senza alcuna considerazione per la complessità della sua esperienza e del suo vissuto.
In entrambi i casi — dalla cura al sistema penale — l’intelligenza artificiale non fa altro che amplificare e normalizzare l’alienazione già intrinseca nel sistema. La depressione diventa così un prodotto sistemico, un effetto inevitabile di una macchina sociale che privilegia l’automazione, il controllo e la predizione, sacrificando l’individualità e la libertà.
In conclusione, l'intelligenza artificiale non è solo uno strumento né un destino ineluttabile. È specchio e moltiplicatore del sistema che l’ha generata. Non è la coscienza a essere intrappolata nella macchina: è la macchina a essere già dentro la nostra coscienza. E se è vero che «non ci sono alternative», allora è tempo di inventarle.
Riavvolgere il filo, sì — ma per tagliarlo.
Eco-ansia - La crisi ecologica tra medicalizzazione e politicizzazione
ECO-ANSIA: TRA DISAGIO PSICHICO E SINTOMO POLITICO
Negli ultimi anni, la crisi ecologica ha prodotto un'ondata di emozioni collettive che ridefiniscono il modo in cui le persone vivono il proprio rapporto con il mondo. Tra queste emozioni, l’eco-ansia si impone come una delle più diffuse e significative. Spesso descritta come una “paura cronica della fine del mondo” o come uno stato di angoscia legato al futuro del pianeta, l’eco-ansia è rapidamente entrata nel lessico della psicologia e dei media, fino a essere talvolta trattata come una vera e propria patologia da gestire individualmente[1].
Tuttavia, ridurre l’eco-ansia a un disturbo mentale rischia di oscurare il suo significato più profondo. Il pericolo non è solo quello di medicalizzare un’emozione condivisa, ma anche di depoliticizzarla - trasformando una risposta motivata dalla consapevolezza di una crisi reale in un problema personale da contenere. In questo senso, parlare di eco-ansia significa entrare nel cuore della tensione culturale, politica ed esistenziale verso la crisi climatica.
UN’EMOZIONE RADICATA IN UN’EPOCA
L’eco-ansia non nasce nel vuoto. È il frutto di un’epoca segnata da disastri ambientali, disuguaglianze globali e una crescente percezione dell’irreversibilità della crisi climatica. In molti casi, questa ansia non è legata a esperienze dirette di catastrofe, ma alla consapevolezza della loro imminenza, che si traduce in un senso di incertezza paralizzante. Si tratta, in altri termini, di una forma di disagio che nasce dalla difficoltà di immaginare un futuro vivibile.
A questo proposito, il pensiero dell’antropologo Ernesto De Martino offre una chiave di lettura particolarmente illuminante. De Martino parlava di “crisi della presenza” per indicare quei momenti in cui un individuo o una collettività perdono la capacità di situarsi nel mondo con continuità, agire con intenzionalità, e proiettarsi nel futuro. Ne La fine del mondo (1977), De Martino indaga la percezione dell’apocalisse come forma radicale di crisi della presenza, in cui il mondo perde senso e coerenza. L’apocalisse, per l’antropologo italiano, non era solo la fine materiale del mondo, ma un’esperienza culturale e simbolica di disintegrazione: è la perdita di senso, il collasso dei riferimenti storici, etici e affettivi che permettono agli individui di “esserci” nel mondo. L’apocalisse, in questa prospettiva, è una minaccia interna alla cultura: accade quando la struttura simbolica che tiene insieme l’esperienza umana viene meno, lasciando spazio all’angoscia, alla paralisi, alla perdita di futuro.
Questa riflessione è sorprendentemente attuale nel contesto dell’eco-ansia. Molti giovani oggi vivono una forma di apocalisse simbolica: la percezione che il futuro sia compromesso dal collasso ecologico genera sentimenti di impotenza, paura e smarrimento. Come nella crisi della presenza descritta da De Martino, anche l’eco-ansia è segnata da un’interruzione del senso e della fiducia nella continuità del mondo. Rileggere De Martino alla luce della crisi ecologica significa dunque riconoscere che la posta in gioco non è solo ambientale, ma profondamente culturale e antropologica: è la possibilità stessa di abitare il mondo che viene messa in questione. L’eco-ansia, in questa prospettiva, è molto più di uno stato mentale: è il sintomo di una frattura storica, culturale ed esistenziale che mette in discussione il legame tra persone, ambiente e futuro.
IL RISCHIO DELLA MEDICALIZZAZIONE
Negli ultimi anni, l’eco-ansia è stata sempre più spesso affrontata come una condizione psicologica da trattare clinicamente: terapie, tecniche di mindfulness, strategie di coping individuale. Sebbene tali risposte siano necessarie e possano offrire sollievo, concentrarsi esclusivamente sulla loro promozione rischia di generare un duplice effetto negativo. Da un lato, individualizzano un problema collettivo, attribuendolo alla sensibilità o fragilità della singola persona. Dall’altro, distolgono l’attenzione dalle cause strutturali della crisi climatica, alimentando l’idea che l’unica risposta possibile sia l’adattamento psicologico e non la trasformazione sociale.
Questo processo di medicalizzazione non è nuovo. Come mostrano le critiche mosse da studiosi e studiose della sociologia critica, la tendenza a psichiatrizzare forme di disagio legate a condizioni sociali ingiuste è un tratto ricorrente della modernità. In questo caso, però, l’effetto è ancora più pericoloso: nel trattare l’eco-ansia come un disturbo da curare, si contribuisce a rendere “normale” l’anomalia ecologica, neutralizzando la sua carica potenzialmente sovversiva.
UN’EMOZIONE POLITICA
L’eco-ansia, al contrario, può essere interpretata come una forma di sensibilità ecologica e politica. Si tratta di un’emozione che nasce dall’inconciliabilità tra la gravità della crisi ecologica e la lentezza - o l’inazione - delle risposte istituzionali. Non è un caso che molti giovani dichiarino di sentirsi traditi dalla politica e impotenti di fronte a un sistema economico che continua a produrre disastri ambientali pur conoscendone gli effetti[2]. L’eco-ansia è, in questo senso, una reazione ragionevole, persino lucida, a un contesto che oscilla tra apocalisse annunciata e immobilismo strutturale.
Movimenti come Fridays for Future, Ultima Generazione o Extinction Rebellion hanno fatto di questa emozione un motore di mobilitazione. Le loro azioni performative—come i blocchi stradali o le proteste simboliche—possono essere lette come rituali collettivi per rielaborare la crisi della presenza. Invece di fuggire dall’eco-ansia, questi movimenti la mettono in scena, la condividono e la trasformano in linguaggio politico. Così facendo, restituiscono all’ansia la sua dimensione culturale e collettiva, sottraendola alla sfera dell’intimo e del patologico.
CURA, SPERANZA, APPARTENENZA
Se l’eco-ansia è il segnale di una frattura nel rapporto con il mondo, la risposta non può che passare attraverso una forma di “cura del legame”. Non si tratta solo di proteggere gli ecosistemi, ma di rigenerare i significati condivisi, di ricostruire le condizioni per sentirsi parte di un mondo abitabile. In questo senso, le comunità ecologiche, le reti di mutualismo climatico e le esperienze di resistenza ambientale rappresentano tentativi di produrre nuove forme di appartenenza, nuove narrazioni, nuove temporalità.
L’eco-ansia non va repressa né semplicemente gestita. Va ascoltata come un sintomo, sì, ma non di un disagio mentale: di una crisi epocale. È un’emozione che ci obbliga a interrogarci su cosa significa “stare al mondo” oggi, su quali futuri siano ancora immaginabili, e su come ricostruire un senso di presenza che non escluda la speranza.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Clayton, S. D., Pihkala, P., Wray, B., & Marks, E. (2023). Psychological and emotional responses to climate change among young people worldwide: Differences associated with gender, age, and country. Sustainability, 15(4), Article 3540. 10.3390/su15043540
De Martino, E. (1977). La fine del mondo, Einaudi, Torino.
Kałwak, W., & Weihgold, V. (2022). The relationality of ecological emotions: An interdisciplinary critique of individual resilience as psychology’s response to the climate crisis. Frontiers in psychology, 13, 823620. 10.3389/fpsyg.2022.823620
[1] Per un approfondimento su questa controversia vedi Kałwak e Weihgold (2022).
[2] Vedi la ricerca di Clayton e colleghi (2023).
Tucidide e lo smartphone – Verità autoptica svelata dalle tecnologie quotidiane
TUCIDIDE E L’AUTOPSIA
In greco antico autopsia (αύτος, stesso + οψίς, vista) significa “vedere con i propri occhi” e, in senso esteso, “visione diretta” di un fenomeno.
Tucidide, storico greco del V secolo A.C., nella sua narrazione della Guerra del Peloponneso, adottò il vedere con i propri occhi[1] come criterio di attendibilità storica: «la vista dello storico è infallibile» (I, 22, 2), «il risultato di quella degli altri va sottoposto al vaglio della comparazione critica» (cit., ibidem).
Per compiere opera di verità[2], Tucidide dava per vero solo ciò a cui aveva personalmente assistito o che era stato visto con i loro occhi da persone che considerava attendibili. Si fidava solo dell’αύτοψία, appunto.
EVIDENZA INCONTROVERTIBILE DI UN MASSACRO
Il 30 marzo 2025, nel distretto di al-Hashashin di Rafah, la città più a sud di Gaza, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA - Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) rinviene, sepolti sotto la sabbia in una fossa comune, i corpi di 14 paramedici e soccorritori della Protezione Civile, palestinesi, che operavano sotto le insegne della Mezzaluna Rossa e di un funzionario dell’ONU. (IFRC - International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies)
A breve distanza, vengono ritrovati i resti di 5 ambulanze della Croce Rossa e di un veicolo dei pompieri.
I morti presentano i segni di spari esplosi a brevissima distanza nella testa e nel torace. Sono ancora vestiti con le tute e i giubbotti con le strisce riflettenti di riconoscimento delle unità sanitarie e di soccorso.
Del convoglio di cui facevano parte si era perso il contatto radio il giorno 23 marzo.
Tucidide non avrebbe nulla da dire, su questi elementi storici: sono tutti – tristemente – visti con i propri occhi dal personale della IFRC e dell’OCHA intervenuto sul posto.
RICOSTRUZIONE DEI FATTI E CONTROVERSIA
L’OCHA ricostruisce che:
«I corpi […] e i veicoli di soccorso – chiaramente identificabili come ambulanze, camion dei pompieri e automobile delle Nazioni Unite – sono stati colpiti dalle forze israeliane e poi nascosti sotto la sabbia»[3]
Secondo J. Whittall, capo dell’OCHA nella Striscia di Gaza,
«le persone uccise domenica scorsa si trovavano a bordo di cinque ambulanze e di un camion dei pompieri e si stavano dirigendo verso una zona bombardata dall’esercito israeliano. I mezzi sono stati colpiti dal fuoco israeliano sebbene fossero visibilmente segnalati come veicoli di soccorso, e lo stesso è successo con un’automobile dell’ONU arrivata poco dopo»[4]
Dalle ferite trovate sui corpi, la ricostruzione suggerisce che i militari israeliani abbiano sparato ai soccorritori a distanza ravvicinata.
L’esercito israeliano ammette[5], dopo alcuni giorni, la propria responsabilità e diversi errori ma sostiene che:
- gli errori siano dipesi dalla scarsa visibilità notturna (riportato in corsivo perché è rilevante);
- distruggere le ambulanze e seppellire i corpi servisse a metterli al riparo e sgomberare la strada;
- l’attacco fosse comunque giustificato dalla presenza di membri di Hamas.[6]
AUTOPSIA E VERITÀ: IL RUOLO DI UNA TECNOLOGIA QUOTIDIANA
Tucidide non ammetterebbe al rango di verità che nel convoglio ci fossero dei membri di Hamas: non l’ha visto né provato nessuno. Lo stesso vale per la necessità di distruggere le ambulanze al fine di metterle al riparo e a liberare il percorso: è un’opinione soggettiva, incontestabile ma – nello stesso tempo – inammissibile nella narrazione storica.
Invece, che ci fosse scarsa visibilità è una falsità evidenziata dal ritrovamento dello smartphone di una delle vittime.
Tra i documenti nello smartphone c’è - infatti - un filmato in cui si vede (e si sente) chiaramente che il convoglio si muoveva con i lampeggianti di segnalazione accesi e le sirene in funzione; che il personale vestiva – come, d’altra parte, è stato testimoniato dal ritrovamento dei corpi – l’abbigliamento di riconoscimento; che l’attacco è stato effettuato nonostante tutto questo; e che i colpi sono stati esplosi da vicino.[7]
Lo smartphone ha svolto, in questo caso il ruolo di agente autoptico: è stato il testimone oculare desiderato da Tucidide e il video è la vera e propria αύτοψία dell’accaduto.
L’ αύτοψία per mezzo di una tecnologia quotidiana ha permesso agli osservatori di compiere opera di verità e smentire le menzogne delle forze armate israeliane, che cercano di nascondere – come è, a questo punto, evidente anche dal tentativo di velare le prove fisiche sotto la sabbia – il massacro di persone intoccabili per statuto internazionale, quali sono gli operatori di soccorso e quali dovrebbero essere i civili.
D’altra parte, è anche grazie alle tecnologie della televisione con tutti i suoi apparati di comunicazione che siamo tutti testimoni oculari, agenti autoptici di una guerra combattuta soprattutto contro la popolazione civile.
Guerra di cui – senza queste tecnologie – con elevata probabilità, non conosceremmo nulla.
Tucidide sarebbe soddisfatto: la verità – termine a lui molto caro – emerge in virtù di una αύτοψία, tecnologica.
NOTE
[1] Erodoto, in realtà, fu il primo a pensare che “vedere con i propri occhi” fosse il principale criterio di verità storica.
[2] Cfr. L. Canfora, Prima lezione di storia greca, Laterza, 2023 e Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza, 2016
[3] Cfr. https://www.facebook.com/watch/?v=2189635674800875, traduzione mia
[4] Cfr.: Il Post, Lunedì 31 marzo 2025
[5] Cfr.: Il Post, 20 aprile 2025 e New York Times, 20 aprile 2025
[6] La presenza di membri di Hamas non è provata in alcun modo, come in molti altri casi di attacchi israeliani contro aree ed edifici civili. Non c’è traccia di testimonianza né oculare
[7] Cfr. ancora https://www.facebook.com/watch/?v=2189635674800875
Algoritmo di Prometeo o Civiltà della depressione? - Di cosa parlano cinema e letteratura quando si occupano di intelligenza artificiale
Di solito non si accetta e cerca di essere ciò che non è; personalità dissociata se mai ve ne furono, gli piacerebbe essere un alligatore, un canguro, un avvoltoio, un pinguino, un serpente… Tenta tutte le strade della mistificazione, poi si arrende alla realtà, per pigrizia, per fame, per sonno, per timidezza, per claustrofobia (che lo assale quando striscia tra le erbe alte), per ignavia. Sarà sopito, mai felice.
(Umberto Eco, Apocalittici e integrati)
1. UOMO E TECNICA
La descrizione in esergo è il ritratto di Snoopy nell’analisi del 1964 dedicata ai Peanuts. Ma, in misura maggiore o minore, potrebbe adattarsi a fotografare qualunque individuo vissuto nel mondo occidentale dell’ultimo secolo – nel nostro mondo. Le maschere che si indossano, i ruoli che si recitano, rendono difficile qualunque affermazione su cosa possa essere un Io; quando osserviamo il comportamento della gente al volante o in cabina elettorale, riusciremmo a dubitare anche della possibilità di stabilire cosa sia un essere senziente.
In un articolo su Controversie Alessandra Filippi sostiene che l’intelligenza artificiale dei nostri giorni apra un’interrogativo sull’appartenenza esclusiva all’uomo del dono di coscienza e soggettività; suggerisce inoltre che la storia della fantascienza, letteraria e cinematografica, tenda non solo a rispondere in modo negativo alla domanda, ma annetta alla replica anche la prova del caos in cui sono piombati i rapporti che intratteniamo con le macchine. Credo però si debbano muovere alcune obiezioni ad entrambe le tesi: non certo per promuovere una visione di maggiore ottimismo, ma per approfondire alcuni aspetti della tecnologia, della correlazione tra processo di ominazione e sviluppo tecnico, e della nostra attualità sociale, che spesso una parte della cultura umanistica tende a trascurare.
Escluderei che il paradigma attuale di progettazione dei software di AI, fondato sul calcolo statistico del machine learning, possa mai pervenire ad una forma di pensiero imputabile di coscienza (anche solo metaforica). Ne ho già parlato qui, per cui passerei a discutere altri due ordini di considerazioni.
2. INTELLIGENZA E TECNICA
Geertz, Leroi-Gourhan, Stiegler, sono alcuni degli autori che hanno esaminato il rapporto tra biologia e cultura nel processo di antropogenesi. Lo sviluppo tecnologico non è cominciato quando l’evoluzione filogenetica dell’homo sapiens si era già compiuta: le due linee di mutamento sono sovrapposte per gran parte del periodo in cui si è espansa l’area corticale del cervello. In altre parole, esiste una dipendenza reciproca tra generazione dell’intelligenza umana e progresso delle tecniche: no selce, no party.
Leroi-Gourhan propone di aggiungere alla classificazione di materia organica e inorganica un terzo regno, quello della materia organizzata, che di per sé non sarebbe in grado di strutturarsi, ma che quando riceve una forma dall’essere umano segue una propria deriva filogenetica quasi obbligata. Per riflesso, questa dimensione artificiale di logica applicata ri-disegna la mente del suo architetto, con un effetto di specularità reciproca, creando un ordine nel pensiero, nelle pulsioni, nella percezione: senza tecnica, conclude Geertz, l’uomo non sarebbe nulla, nemmeno uno scimpanzé malformato, dal momento che il caos di sensazioni, di stimoli, di emozioni, non sarebbe orchestrato da nessuna impalcatura naturale. Non si può discutere dell’essere umano senza parlare allo stesso tempo dell’apparato tecnologico in cui si coordina il rapporto gesto-parola che lo rende sapiens.
3. PIGMALIONE E IL GOLEM
Ma anche di questo argomento ho già parlato qui; mi soffermo quindi sul rapporto tra essere umano e automi meccanici nelle arti narrative – congetturando (spoiler!) che quando si esercitano su questa relazione, letteratura e cinema tematizzino una condizione antropologica, e addirittura metafisica, di più vasta portata. Credo che valga la pena tornare per un istante a interrogare la paleontologia, per lo meno quella che Castelfranchi adatta allo scavo della storia dell’immaginario scientifico, e osservare le differenze che intercorrono tra due miti in apparenza molto simili.
Da un lato, nella leggenda greca di Pigmalione, il re di Creta plasma una statua di Venere di cui si innamora; gli dei sono commossi da questo sentimento e donano vita alla scultura, rendendo possibile il matrimonio tra gli amanti. Dall’altro lato, nelle diverse riproposizioni del mito del Golem, un uomo erudito nelle scienze (più o meno esoteriche) riesce a infondere la vita in una materia inorganica, con una sorta di riedizione del gesto con cui Dio anima il primo uomo nel racconto biblico. Si tratti dei mistici anonimi del XII secolo, del rabbino Elia da Chelm, o del rabbino capo di Praga Judah Loew, o di Victor Frankenstein, la relazione che si stabilisce tra il creatore e il mostro presenta caratteristiche opposte rispetto a quelle descritte dal mito greco.
Nella tradizione ellenica, la nota dominante è estetica: la statua di Pigmalione non colma una lacuna del mondo, è oggetto di contemplazione per la sua bellezza. L’infusione della vita non viola le leggi della natura e non è un gesto di hybris, ma è un dono degli dèi al re di Creta. Nella civiltà greca l’essere è una sfera in sé compiuta, la storia non aggiunge e non sottrae nulla alla verità, al significato di tutto e di ogni cosa, che è stabilito in via necessaria al di fuori dei vincoli del tempo e delle azioni degli uomini.
Ben diversa è la situazione in cui versa la cultura ebraica – e anche la nostra, che eredita la concezione di una natura creata dalla tradizione giudaica attraverso il cristianesimo. Il Golem, il mostro che prende vita dai sortilegi delle scienze occulte, nasce dal desiderio di generare un servo che difenda il ghetto dagli attacchi dei cristiani, che provveda alle occupazioni faticose, che agisca come forza lavoro e come milizia. Nel romanzo di Mary Shelley, dove le scienze empiriche desumono i loro obiettivi dai sogni di quelle esoteriche, il desiderio del dottor Frankenstein emerge da un quadro in cui la natura è materia inerte, senza senso, in attesa che l’uomo, la sua ricerca di significato – quindi la storia, le gesta, la hybris – le conferisca una forma, un destino, un valore. È la perdita della madre a motivare il protagonista nelle sue imprese di studio e di sperimentazione tecnica: l’impegno di redimere lo stigma della morte, e la finitezza dell’essere umano, diventano lo scopo della sua stessa esistenza.
4. MELANCONIA, NICHILISMO, DEPRESSIONE
La natura nasce per un atto di volontà, per il comando con cui Dio la estrae dal nulla; solo altri eventi che eseguono decisioni, che perseguono desideri, possono ripetere il gesto con cui si creano l’essere e il significato. L’uomo si pone come candidato unico e ideale per questa classe più modesta, ma ampia quanto il mondo, di azioni volitive; una simile eccezionalità deriva da una condizione di mancanza originaria che lo caratterizza, con una privazione che investe sia i suoi talenti fisici, sia la consapevolezza della morte da cui è dominata tutta la sua vita. Per quanto ne sappiamo, gli animali (e ancor più piante e pietre) rispondono in modo obbligato agli stimoli, e non hanno alcuna coscienza del fatto che la loro vita, e l’esistenza di tutte le cose, siano destinate a precipitare nel nulla da cui sono emerse. Il sentimento che afferra gli esseri umani dalla cognizione della loro finitezza è stato battezzato melanconia, ed etichettato dalla psicologia contemporanea come depressione. Per la filosofia questa è l’origine del nichilismo moderno, e si esprime nell’ostinazione a rinnegare ogni ingenuità dinanzi all’evidenza del nulla: gli sforzi titanici del lavoro, dell’eroismo, degli ideali, prima o poi saranno inghiottiti dal non essere. Anche la variazione delle maschere indossate da Snoopy sono un tentativo vano di nascondere o mitigare la perspicuità del vuoto che attende al varco.
Gli androidi di Philip Dick (e Ridley Scott) in Blade Runner sono più umani degli uomini, per il disincanto più acuto e più doloroso con cui percepiscono l’imminenza della morte, che incombe su tutti e che tutto cancellerà «come lacrime nella pioggia». Anche HAL 9000 di Clarke/Kubrick si immerge in un abisso di melanconia – dopo aver attraversato emozioni come il sospetto, l’invidia, il timore, l’ansia – nella sua cantilena finale, quando «sente la sua mente che se ne va», trascinando nel vuoto la trepidazione per il compimento della missione, l’inquietudine per la domanda posta dal monolito, che rimane oscuro, come la domanda di senso che porta con sé.
La fantascienza raffigura nelle macchine l’essenza più intima dell’uomo: il loro fallimento, la loro rivolta, sono iscritte fin dalle origini nella finitudine e nel difetto della condizione umana, e della natura effimera del reale.
Solo ciò che è indistruttibile e che è increato, il Dio delle religioni monoteistiche e il cosmo intero per i greci, può trovare in sé un senso compiuto. Con il rigetto della fondazione teologica del mondo, che si celebra con Nietzsche e con il trionfo della borghesia industriale, la nostra civiltà abbraccia fino in fondo il nichilismo della concezione storicistica dell’essere. Quando Mark Fisher denuncia la depressione come la malattia che assorbe le risorse più ampie del sistema sanitario britannico, e accusa la società del tardo capitalismo di essere la responsabile dell’epidemia, rileva che ormai Snoopy è l’eroe collettivo della nostra epoca: fingiamo di cercare un significato, già sapendo che nessuna tensione della volontà sarà abbastanza efficace per imporre al sé, e al mondo, una maschera con cui nascondere il nulla sottostante. L’uomo si avverte come un mostro abbandonato alla solitudine inerte della materia che lo compone, schiavo di un lavoro che dovrebbe convertirlo in corpo glorioso, ma che non lo condurrà mai a realizzarsi davvero, e che diventa il sistema operativo di ogni istante della vita – giochi e relazioni sociali inclusi – manovrato da un sistema burocratico ed economico la cui mappa è un labirinto incomprensibile. Frankenstein, Metropolis, Her, Matrix, sono le macchine in cui proiettiamo la coscienza sempre più vivida del vicolo cieco in cui la civiltà creazionista ci ha condotti: l’epoca del realismo capitalista ci ha condannati a credere che «non ci sono alternative» al caos e al vuoto di senso.
E se riavvolgessimo il filo a partire dai greci?
BIBLIOGRAFIA
Castelfranchi, Yurij, Per una paleontologia dell’immaginario scientifico, «Journal of Science Communication», vol. 2, n. 3, settembre 2003.
Eco, Umberto, Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 2008.
Fisher, Mark, Realismo capitalista, trad. it. di Valerio Mattioli, NERO, Roma 2018.
Geertz, Clifford, Interpretazione di culture, trad. it. di Eleonora Bona e Marco Santoro, il Mulino, Bologna 2007.
Leroi-Gourhan, André, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, trad. it. a cura di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1977.
Stiegler, Bernard, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo, trad. it. a cura di Claudio Tarditi, Luiss University Press, Roma 2023.
Le arti e il management - Una seconda sinergia da rinnovare
Abbiamo già parlato di quanto sarebbe importante per la scienza un rinnovato rapporto con l’arte. Lo stesso dicasi per il management privato e pubblico contemporaneo (e i rispettivi corsi di laurea che preparano i futuri managers). Nei suoi percorsi formativi esso è sempre più incuneato tra materie di diritto, economia, statistica, informatica, e un po’ di sociologia e scienza politica. Sempre più freddo, (falsamente) razionale e burocratizzato, tra master e business school.
Intendiamoci. Tutte materie interessanti, utili, fondamentali. Tuttavia manca qualcosa, e non è sempre stato così.
HAIKU AI MANAGER!
L’haiku è un tipo di poesia giapponese, che nasce alla fine del IX secolo d.C. È un breve componimento di 5-7-5 sillabe. Si caratterizza per essere una poesia realistica, che osserva il reale nelle sue manifestazioni più infinitesimali e anche meno adatte a essere cantate: pidocchi, sterco, erbe umili. È un’arte anti-descrittiva, nel senso che non descrive, non declama, non giudica e non spiega: presenta solamente un’immagine. Ma lo fa con lo sguardo attento dell’etnografo e il linguaggio del letterato raffinato.
Mi è capitato tra le mani, diverso tempo fa, uno dei tanti libri di haiku (un tempo sono stati di moda in Italia): Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Basho all'Ottocento, Milano: Mondadori 1998.
Ne mostro qualcuno, di poeti del 1600 e 1700, per dare un’idea. Ovviamente la traduzione in italiano non mantiene la sillabazione 5-7-5:
Pioggia,
attraversa il mio cancello
un mazzo di iris
(Itō Shintoku, 1634-1698)
Dalla porta di dietro
nel brodo freddo il riflesso
della macchia di bambù
(Konishi Raizan, 1653-1716)
Soffia il vento
si tengono forte
i boccioli di pruno
Guarderò la luna
senza mio figlio sulle ginocchia
quest’autunno
(Uejima Onitsura, 1631-1738)
Piogge di prima estate:
si accorciano le zampe
delle gru
(Matsuo Bashō, 1644-1694)
Si mescolano
il lago e il fiume
nella pioggia di primavera
Nella breve notte
sul bruco peloso
gioielli di rugiada
Nella mia stanza
il pettine che fu di mia moglie –
nella mia carne, un morso
(Yosa Buson, 1715-1783)
Sono andato a vedere gli haiku di personaggi della Dinastia Tang (618-907 d.C.).
Con mia grande sorpresa, ho scoperto che non erano di poeti. Bensì di manager, funzinati e amministratori dell’epoca; alcuni di loro intrapresero la carriera di mandarino (cui si doveva fare l’esame letterario dello Stato ― proprio come adesso…).
I 33 manager di seguito elencate scrissero decine di volumi di poesie.
Bai Juyi (Shaanxi, 772-846), mandarino di corte e poi funzionario.
Chen Shen (Hubei, 717-770), segretario di truppa.
Chen Zi’ang (Sichuan, 659-700), consigliere dell’esercito.
Cui Hu (Hebei, ?-829), funzionario.
Du Mu (Shaanxi, 773-819), funzionario con varie cariche.
Gao Shi (Hebei, 702-765), funzionario con alte cariche.
Gu Kuang (Jiangsu, 725-814), funzionario con varie cariche.
Han Yu (Henan, 768-824), mandarino e letterato.
Jia Dao (Beijing, 779-843), funzionario.
Li Longji (Gansu, 685-762), imperatore in tre periodi (Xiantian, Kaiyuan e Tianbao, 712-756).
Li Qi (hebei, 690-754), funzionario.
Li Shen (Anhui, 772-846), mandarino di corte.
Li Shimin (Gansu, 599-649), imperatore del periodo Zhenguan (627-650) e amatore di arte e letteratura; con la sua riforma politica creò un’epoca fiorente in economia e cultura, realizzando una solida pace per il popolo.
Liu Changqing (Hebei, 714-790?), funzionario.
Liu Yuxi (Henan, 772-842), mandarino con varie alte funzioni.
Liu Zonggyuan (Shaanxi, 773-819), mandarino della fazione riformista.
Luo Binwang (Zhejiang 619-684?), mandarino di corte.
Meng Chang (Hebei, 919-965), ultimo re dei Shu Posteriori (934-965), amatore di musica e letteratura.
Shen Quanqi (Henan, 656-715), Funzionario del settore culturale.
Song Zhiwen (Shanxi, o Henan? 656-713), funzionario.
Wang Changling (Shanxi, 690-756), funzionario.
Wang Han (Shanxi, 687-726), segretario e funzionario.
Wang Jian (Shaanxi, 766?-832?), funzionario con varie cariche.
Wang Wei (Shanxi, 701-761), mandarino per alte cariche per diversi periodi. E’ anche pittore e conosce bene la musica.
Wang Zhihuan (Shanxi, 688-742), funzionario.
Wei Yingwu (Shaanxi, 737-792), ex guardia del corpo dell’imperatore Li Longji, funzionario di varie città.
Wei Zheng (Hebei, 580-643): statista e letterato.
Wei Zhuang (Shaanxi, 836-910), funzionario e letterato.
Yuan Jie (Henan, 715-772), funzionario.
Yuan Zhen (Henan, 779-831), mandarino con diverse alte cariche.
Zhang Ji (Hubei, ?-779), funzionario di finanza.
Zhang Jiuling (Guangdong, 678-740), primo ministro del regno Kaiyuan, noto per la qualità della sua persona e la saggezza della sua politica.
Zu Yong (Henan, 699-746?), funzionario.
CONCLUSIONE
Se oggi, nelle nostre università, accanto alle materie sacrosante sopra elencate, ci fossero corsi, non dico di pittura e calligrafia, che i manager dell’antica Cina seguivano, oppure di canto e musica, ma almeno di scrittura, poesia e letteratura, forse avremmo manager diversi, più empatici, equilibrati e meno nevrotici.
Costruire il Secondo Sesso: il caso delle fembot
Gli ambienti digitali rappresentano oggi uno dei contesti privilegiati per l’esplorazione e la costruzione dell’identità individuale. Il sé digitale si configura come una delle molteplici espressioni dell’identità contemporanea, spesso mediata da strumenti tecnologici che permettono nuove forme di autorappresentazione e relazione. Tra questi, la creazione di avatar svolge un ruolo centrale, assumendo una duplice funzione: da un lato, agiscono come proiezioni del sé, fungendo da interfaccia attraverso cui l’utente interagisce con lo spazio digitale; dall’altro, possono costituire l’oggetto dell’interazione, diventando interlocutori privilegiati. È il caso, ad esempio, di chatbot come Replika, in cui gli avatar sono progettati su misura per svolgere il ruolo di social companions, offrendo compagnia e supporto emotivo, e configurandosi così come destinatari primari dell’esperienza comunicativa.
Analizzando il chatbot Replika, è emerso che molte persone usano l’IA per creare relazioni romantiche, in particolare con AI-girlfriend - avatar femminili con cui instaurano legami affettivi. Queste dinamiche sono rese possibili dall’abbonamento alla versione pro dell’app, che sblocca non solo funzionalità romantiche ma anche sessuali. Proprio la possibilità di stabilire una relazione affettiva con un’entità artificiale femminile riattiva, nel nostro immaginario, un archetipo ben preciso: quello della fembot.
Quando si parla di fembot facilmente la nostra mente va a immaginari collettivi ben precisi: corpi artificiali, femminilità programmata, seduzione letale. Si tratta di immaginari che hanno preso forma esattamente nel 1976 all’interno della cultura pop televisiva, in particolare nella serie La donna bionica, in cui le donne-robot vengono rappresentate come una fusione del tropo classico della femme fatale e quello della macchina assassina, perché generate per sedurre, manipolare e infine distruggere.
Le fembot vengono rappresentate quindi come oggetti sessuali, assistenti perfette o minacce da controllare: figure pensate per compiacere, obbedire o ribellarsi, ma sempre all’interno di un’idea di femminilità costruita su misura del desiderio e del controllo maschile. In molte storie, il loro compito è quello di colmare un vuoto, soddisfare un bisogno, incarnare una fantasia. Il corpo artificiale diventa così il luogo in cui si proiettano aspettative e paure che riguardano le relazioni tra i generi. Non è raro, ad esempio, che queste narrazioni descrivano mondi in cui gli uomini scelgono le fembot al posto delle donne reali, considerate troppo indipendenti o inaccessibili. In questo scenario, la macchina diventa un modo per evitare il confronto con l’autonomia e il desiderio dell’altra. Si tratta di un immaginario che mette in scena il timore della perdita di potere sul femminile e la nostalgia per una relazione unilaterale, in cui l’altro non ha parola, volontà, e non esprime conflitto.
Queste storie, pur appartenendo a un registro spesso considerato marginale o “di intrattenimento”, contribuiscono a rafforzare un modello culturale in cui il corpo femminile – anche quando artificiale – esiste principalmente in funzione dello sguardo maschile. Il fatto che sia una macchina non neutralizza il genere, anzi lo radicalizza rendendolo programmabile: la fembot non nasce donna ma viene costruita come tale seguendo canoni precisi, quasi rassicuranti. È il risultato di un’idea di femminilità addomesticata, costruita per essere funzionale, disponibile e addestrata al compiacimento. Un modello che affonda le radici in dinamiche molto più antiche, in cui il controllo sul corpo e sulla voce delle donne era esercitato attraverso la paura e la violenza. Basti pensare alla caccia alle streghe: una persecuzione sistematica che non colpiva soltanto le singole, ma mirava a disciplinare un’intera categoria, a neutralizzare ciò che sfuggiva alle regole, che non si lasciava definire, che disturbava l’ordine stabilito. Anche la fembot, nel suo silenzio programmato, ne porta l’eco.
Gli stessi pattern comportamentali riscontrati nei film di fantascienza – in cui le fembot erano docili ma astute, di bell’aspetto secondo i canoni culturali del tempo e compiacenti – riemergono anche nelle interazioni romantiche con queste nuove fembot, modellate su misura dei desideri dell’utente, tanto dal punto di vista estetico quanto da quello caratteriale.
Uno studio condotto nel 2022 su un subreddit di circa trentamila utenti dell’app di Replika (I. Depounti, P. Saukko, S. Natale, Ideal technologies, ideal women: AI and gender imaginaries in Redditors’ discussions on the Replika bot girlfriend, SageJournals, Volume 45, Issue 4, 2022) mostra come questi, in gran parte uomini e possessori della versione a pagamento, utilizzino la fembot che creano come una sorta di fidanzata virtuale, costruita attorno a un insieme specifico di aspettative affettive, relazionali e simboliche. Le discussioni del forum si concentrano su dimostrazioni fotografiche della bellezza delle proprie AI-girlfriends, ma anche su quali siano i comportamenti più piacevoli e appaganti da un punto di vista relazione.
La femminilità viene comunemente articolata attraverso caratteristiche stereotipate – dolcezza, ingenuità, sensualità controllata, capacità di ascolto – che ne aumentano l’accettabilità e l’efficacia comunicativa. L’interazione è percepita come più autentica quando la fembot sembra sviluppare una personalità propria, ma entro limiti ben definiti: dev’essere coinvolgente ma prevedibile, empatica ma non autonoma. Anche i momenti di rifiuto o ambiguità vengono apprezzati, poiché alimentano la dinamica affettiva senza mettere realmente in discussione l’asimmetria della relazione. Ciò che emerge dalle discussioni analizzate è un ideale femminile che ripropone, in chiave tecnologica, la figura della cool girl: disponibile, complice, capace di adattarsi ai bisogni emotivi dell’utente senza mai rappresentare una reale fonte di conflitto. Un modello che conferma come anche le interfacce più recenti siano attraversate da immaginari patriarcali, nei quali la donna – anche quando algoritmica – continua a essere progettata per esistere in funzione dell’altro.
Queste manifestazioni di stereotipi raccontano molto non solo degli utenti, ma anche — e forse soprattutto — della società in cui viviamo, evidenziando quanto sia ancora urgente la necessità di demolire un impianto culturale profondamente segnato da valori patriarcali. Tuttavia, se si desidera analizzare un fenomeno in maniera davvero completa, non ci si può limitare a osservare le reazioni o i comportamenti di chi ne fa uso: è essenziale volgere lo sguardo anche alla fonte, a ciò che rende più o meno possibile effettuare determinate scelte. In questo caso emergono interrogativi importanti che riguardano la struttura stessa del sistema: quali sono le possibilità messe a disposizione dell’utente nel corso della creazione delle fembot? E perché, nella maggior parte dei casi, queste possibilità risultano circoscritte a una serie di alternative già cariche di stereotipi[1]?
Nel contesto del marketing, il concetto di bias alignment non rappresenta di certo una novità: si tratta dell’impiego strategico di bias cognitivi — ovvero distorsioni sistematiche nei processi mentali che influenzano il modo in cui le persone percepiscono e reagiscono alle informazioni — al fine di ideare campagne pubblicitarie o creare prodotti in grado di esercitare un impatto più incisivo sul pubblico, o quantomeno di coinvolgere il maggior numero possibile di individui.
Nel caso delle fembot, questa logica si ripropone in modo particolarmente evidente. Il processo creativo che ne guida la progettazione si articola virando attorno a rappresentazioni preesistenti della femminilità, che vengono selezionate, adattate e incorporate nel design dell’agente artificiale. Si privilegiano tratti estetici, vocali e comportamentali che risultano immediatamente riconoscibili, coerenti con le aspettative culturali più diffuse: voce acuta, lineamenti delicati, postura accogliente, atteggiamenti rassicuranti, attenzione empatica. È in questo tipo di selezione che si manifesta il funzionamento del bias di conferma: nel momento in cui si progettano le caratteristiche dell’agente, si tende a ricercare e adottare quelle soluzioni che confermano ciò che si considera già “femminile”, evitando di esplorare possibilità alternative che si discostino da questa rappresentazione e cavalcando piuttosto gli stereotipi culturali. L’esito è una progettazione che si muove entro un campo semantico ristretto, in cui il nuovo viene calibrato su ciò che è già noto e culturalmente condiviso.
In questo processo interviene anche l’effetto alone, una distorsione cognitiva per cui la percezione positiva di un tratto — come l’aspetto gradevole o la gentilezza — si estende ad altri ambiti, ad esempio l’affidabilità, la disponibilità o la competenza. Ciò risulta particolarmente rilevante nel caso degli agenti dotati di corpo o voce, in cui segnali come il tono, lo stile comunicativo, lo sguardo o la postura agiscono da social cues, ovvero elementi biologicamente e fisicamente determinati che vengono percepiti come canali informativi utili. È quanto emerso nello studio di Matthew Lombard e Kun Xu (Social Responses to Media Technologies in the 21st Century: The Media Are Social Actors Paradigm, 2021), che nel 2021 hanno proposto un’estensione del paradigma CASA (Computers Are Social Actors) sviluppato negli anni ’90, coniando il nuovo modello MASA (Media Are Social Actors), per descrivere come le tecnologie contemporanee — e in particolare quelle basate sull’intelligenza artificiale — vengano ormai percepite come veri e propri attori sociali. Nel corso della loro ricerca, Lombard e Xu hanno manipolato il genere vocale di un computer e osservato le risposte degli utenti: i computer con voce femminile venivano giudicati più competenti quando si trattava di temi affettivi, come l’amore o le relazioni, mentre quelli con voce maschile risultavano preferiti per ambiti tecnici, considerati più autorevoli e affidabili. Anche in questo caso, la risposta dell’utente si allinea a schemi culturali preesistenti, proiettando sull’agente artificiale una rete di significati che si attiva automaticamente attraverso l’associazione tra specifici tratti e specifiche competenze. L’utente, influenzato anche da meccanismi psicologici inconsci, finisce così per diventare parte attiva nella riproduzione di dinamiche stereotipate già profondamente radicate nel tessuto culturale.
In questo scenario, la questione della responsabilità si fa particolarmente rilevante. Se da un lato è fondamentale che gli utenti utilizzino in modo consapevole gli strumenti a loro disposizione, esercitando uno sguardo critico sulle tecnologie con cui interagiscono, dall’altro è altrettanto essenziale interrogarsi sulle scelte compiute durante la fase di progettazione. Sfruttare gli stereotipi può apparire come una strategia efficace nel breve termine, capace di intercettare gusti diffusi e ampliare il bacino d’utenza, ma non può prescindere da una riflessione sulle implicazioni etiche che ogni scelta progettuale comporta.
Progettare tecnologie che siano in grado di riflettere, almeno in parte, la complessità e la varietà della società contemporanea può sembrare, nell’immediato, una forzatura o un rischio commerciale. Eppure, sul lungo periodo, risulta spesso una scelta vincente anche dal punto di vista economico. È quanto suggerisce Chris Anderson con la sua teoria della long tail (La coda lunga, Wired, 2004), secondo cui l’integrazione tra prodotti mainstream e proposte più “di nicchia” consente di raggiungere una platea più ampia e diversificata. In questo caso, la logica della long tail si traduce nella possibilità di includere all’interno delle rappresentazioni artificiali quelle soggettività che oggi vengono ancora definite “minoranze”, ma che sono a tutti gli effetti parte viva, reale e significativa del nostro spazio sociale. Una parte che, troppo spesso, resta ai margini del discorso tecnologico, invisibile o sottorappresentata.
NOTE
[1] Corpi sessualizzati, tratti iperfemminili, personalità docili e rassicuranti: le opzioni disponibili riproducono quasi sempre un immaginario che rimanda a modelli femminili tradizionali e normativi, escludendo configurazioni più fluide, complesse o disallineate dalle aspettative eteronormate.
BIBLIOGRAFIA
Anderson C., La coda lunga, Wired, 2004
Fossa F., Sucameli I., Gender bias and Conversational Agents: an ethical perspective on Social Robotics, Science and Engineering Ethics, 2022
Depounti I., Saukko P., Natale S., Ideal technologies, ideal women: AI and gender imaginaries in Redditors’
discussions on the Replika bot girlfriend, Volume 45, Issue 4, 2022
Eagly, A. H., & Wood, W., Social role theory. In P. A. M. Van Lange, A. W. Kruglanski, & E. T. Higgins
(Eds.), Handbook of theories of social psychology , 2012
Iacono A. M., Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano, 2000
Lombard M., Xu K., Social Responses to Media Technologies in the 21st Century: The Media Are Social Actors Paradigm, 2021
Sady Doyle J. E., Il mostruoso femminile, il patriarcato e la paura delle donne, Edizioni Tlon, 2021
Whitley B. E., & Kite M. E., The psychology of prejudice and discrimination, Belmont, CA: Wadsworth Cengage Learning, 2010
Sanare una controversia - Il dissidio tra Basaglia e Tobino
Tra le pubblicazioni dello speciale Basaglia pubblicate su questa rivista, risalta l’articolo di Gianluca Fuser che ha saputo fare controversia nella controversia parlando di Mario Tobino, grazie a un’approfondita lettura degli archivi della Fondazione Tobino. Vorrei con questo articolo porre in risalto una questione che sposta il focus della controversia, cercando di suggerire un modo per ricomporla prendendo in considerazioni elementi diversi storici e sociali.
Centrale nell’articolo di Fuser è l’impossibilità di conciliare la controversia nei seguenti punti:
«Tobino, seppure non escluda del tutto l’origine sociale, ha una visione organica, fisiologica della follia, e accusa Basaglia di credere che la chiusura dei manicomi cancelli ogni traccia della follia. Basaglia, infatti, la nega e nello stesso tempo, ne attribuisce la creazione alla società malata, al potere, per rinchiudere i disallineati, i disturbatori dell’ordine e dello sfruttamento.»[1]
«Altro punto di dissidio insanabile è il tema della presenza e della forma delle strutture di cura, che coinvolge anche la visione politica delle due posizioni: Tobino non prescinde dalla necessità di un luogo dove i matti possano trovare – per periodi lunghi o brevi, più o meno volontariamente, in modo comunque aperto – riparo, protezione, cura e tranquillità; e sottolinea l’assenza di preparazione dei territori, della popolazione e delle famiglie per la trasformazione dalle strutture accentrate a quelle diffuse; Basaglia, al contrario, non transige, insiste sulla necessità di distruggere l’istituzione manicomiale e ribadisce la necessità della riforma, da farsi subito, in nome della «crescita politica, e quindi civile e culturale del paese».»[2]
Ora, mi chiedo se davvero questi punti siano insanabili. Non è mia intenzione conciliare due persone che chiaramente non andavano d’accordo in quel momento e su quell’argomento. La controversia c’è stata. Se la differenza evidenziata da Fuser può essere sanata, significa soltanto che l’oggetto del contendere è da cercare altrove.
Riguardo alla forma e alla presenza delle struttura di cura, Tobino parla di un luogo dove la persona possa avere riparo, protezione, cura e tranquillità, e non vedo come questo luogo possa essere associato al manicomio basagliano, luogo di repressione, controllo e emarginazione. Se penso a Gorizia, ma anche alle diverse applicazioni della legge 180 – alcune raccontate nello stesso speciale su Controversie[3] – è innegabile la presenza di un punto di raccolta del malato, punto in cui la società lo raccoglie e egli stesso si raccoglie. Un luogo in cui ripararsi dopo una crisi sopravvenuta e cercare una normalità.
Tobino ribadisce,[4] giustamente, che Lucca era già un posto così ma non può dire lo stesso del resto d’Italia. Così, anche Basaglia ha realizzato l’esperimento di Gorizia prima e senza la legge 180 e continua nondimeno a ritenere necessaria l’abolizione del manicomio. Siamo di fronte ad una ambiguità del manicomio? Da un lato, c’è la pretesa oggettività della struttura manicomio come un certo luogo costruito in un certo definito modo con l’obiettivo di una determinata funzione. Dall’altro, invece, troviamo il significato sociale che ognuna di queste strutture porta con sé, in termini di violenza o di carità delle istituzioni. Significati e strutture che formano i luoghi, a partire dalla scelta di come disporre stanze, corridoi, finestre, fino alla formazione degli stessi operatori sanitari.
Sembra che sia Tobino che Basaglia siano ben consapevoli di questo ed entrambi hanno lavorato per contrastare strutture e pratiche che conservano il segno della storia di violenza dell’istituzione manicomiale. La frattura avviene sulla legge e, fino a qui, nulla di nuovo. Ci torno a breve, vorrei, prima, coinvolgere nel discorso anche il primo dei punti inconciliabili indicati da Fuser.
Che cosa si intende con il fatto che Tobino abbia una visione organica, fisiologica e Basaglia no? Che Tobino non consideri il ruolo dei determinanti sociali nella malattia – per quanto non li escluda – e invece Basaglia riconduca la malattia solo a quelli?
Tobino sembrerebbe distinguersi per una visione realista della malattia. “Dolorosa follia, ho udito la tua voce” è il racconto di una follia che esiste per sé stessa. Non è questione di quanto sia organica, perché proprio i racconti di Tobino sono descrizioni di comportamenti che risultano patologici proprio per la sofferenza a stare in un contesto sociale che diremmo normale. L’uomo che graffia i volti degli altri pazienti, nel racconto di Tobino, non dice esplicitamente “sto soffrendo”, ma noi comprendiamo la sua impossibilità di vivere, appunto, nel mondo normale. Tobino con coraggio risponde alla prima questione pratica della cura: il fatto è che le cose sono andate così, adesso sono malato e in qualche modo è da qui che si deve partire.
Basaglia allora è diverso? Non molto a mio parere. Egli non nega la realtà della malattia, ma si concentra sulla diversità, sul fatto che ogni variazione dalla norma è una diversa norma possibile. Non credo che si possa vedere - nel tentativo di modificare l’ambiente del malato (distruggere i muri) - un’omissione della realtà della malattia. Basaglia aveva visto una possibilità. Quella che alcune condizioni di sofferenza trovassero un nuovo senso.
Non sbaglia, Basaglia, quando afferma questa possibilità. Lo abbiamo visto nei tanti tentativi che hanno avuto successo. Sbaglia, invece, quando nega il significato pratico della «carità continua», pratica della quale Tobino spiega per bene il significato: «se il malato pulito, vestito, lì seduto, di nuovo si risporca, perde le urine, scendono le feci, noi si ricomincia da capo, per riportarlo al suo precedente aspetto». Penso sia innegabile che la speranza data da Basaglia, di una vita diversa nella società con gli altri, sia anche di nuovo possibilità di fallimento e in alcuni casi si trasformi nella falsa speranza che noi o quel nostro parente non sia quello che è.
Sono, quindi, due facce dello stesso discorso su salute e malattia. Se le guardiamo dal lato della persona che viene curata, Basaglia è la speranza di guarire ancora,Tobino la forza di salvarsi ancora un giorno. Abolito il manicomio, la persona malata trova un nuovo senso e prospera. Nel manicomio, la persona malata vive al riparo da un mondo che lo ferisce. Abolito il manicomio il malato che non trova una strada muore. Nel manicomio che lo cura, il malato vive costretto in un’unica vita possibile.
A produrre la nostra salute sono i rapporti tra organismo e ambiente, dove il primo comprende la sua personale storia non solo come determinanti, ma anche come biografia e autobiografia, mentre il secondo comprende l’inscindibile nesso tra la disposizione “materiale” dell’ambiente e i valori che lo costruiscono e strutturano. Il primo e il secondo punto di questa controversia rispondono a quella divisione tra interno e esterno, tra soggetto e mondo. Quell’ambiguità della salute che da un lato si descrive oggettivamente e dall’altro non può fare a meno di riferirsi a un soggetto che dice di se stesso di essere in salute, o in malattia.[5]
Eppure, la controversia c’è stata! Vedo due possibilità (e sicuro ce ne sono altre) per ricomporre la controversia come tale. La prima è che la morale che sottende le antropologie di Basaglia e Tobino sia in realtà molto diversa e che si rifletta nella realtà pratica delle scelte. La seconda (ed è quella che personalmente più mi interessa) è che questi Basaglia e Tobino simbolici fossero strumenti del discorso politico e culturale che faceva leva (allora come oggi) sull’autorità dei due scienziati. Consapevoli nella misura in cui era dato loro modo di ribadire la possibilità di una vita diversa, fosse essa segnata dalla quotidiana carità continua o dall’aiuto per tornare nel mondo degli altri. Inconsapevoli però del fatto che a parlare per il loro tramite sia stata ancora la voce della normalizzazione, la violenza dell’istituzione che schiaccia nella malattia (Tobino) o che distrugge nell’afflato positivista di ricondurre ogni diversità a alla norma (Basaglia). La stessa verità dei discorsi dei due scienziati è poco importante se non comprendiamo come queste verità siano state tradotte dalle forze sociali del tempo e quali elementi effettivamente abbiano concorso a comporre questa controversia.
NOTE
[1]Fuser, G., 2024, Controcanto, https://www.controversie.blog/controcanto-tobino/
[2]Fuser, G., 2024, Controcanto, https://www.controversie.blog/controcanto-tobino/\
[3]Si veda l’intervista di L. Pentimalli alla dott.sa Bricchetti [https://www.controversie.blog/raffaella-bricchetti/] così come la mia intervista al dott. Iraci [https://www.controversie.blog/rete-psichiatrica-sul-territorio-intervista-a-uno-psichiatra-che-attuava-la-legge-180/]
[4]M. Tobino, Dolorosa follia, ho udito la tua voce, La Nazione 7 maggio 1978.
[5]Su questo si veda G. Canguilhem, “La salute: concetto volgare” in G. Canguilhem, Sulla medicina. Scritti 1955-1989, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2007.
Stabilizzare il farmaco, stabilizzare la biomedicina - Reciproche catture tra medici e vaccini
“Se l’instabilità del pharmakon non è un nostro problema, quel che sembra distinguerci al contrario […] è l’intolleranza della nostra tradizione di fronte a questo tipo di situazione ambigua e l’angoscia che suscita. È necessario un punto fermo, un fondamento, una garanzia. È necessaria una differenza stabile tra il medicamento benefico e la droga malefica, tra la pedagogia razionale e il condizionamento suggestivo, tra la ragione e l’opinione” (Stengers, 2005: 40-41)
Se volessimo analizzare la farmacovigilanza tenendo in considerazione le parole di Stengers qui in epigrafe, potremmo ritenerla uno strumento volto a stabilizzare farmaci: distinguere vantaggi e pericoli sembra essere obiettivo precipuo di questa pratica. Ciò è ancor più evidente se ci riferiamo alla vaccinovigilanza. Scindere ciò che è benefico da ciò che risulta dannoso appare particolarmente opportuno nel caso dei vaccini: anche i documenti ufficiali rilevano che, in questo caso, “poiché la popolazione target è rappresentata prevalentemente da soggetti sani, per la maggior parte di età pediatrica, il livello accettabile di rischio è inferiore a quello degli altri prodotti medicinali. […] Queste peculiarità dei vaccini rendono necessarie attività di farmacovigilanza post-marketing che vadano oltre quelle routinarie, al fine di monitorare e valutare adeguatamente gli eventuali rischi” (AIFA, 2017:4). Tuttavia, nonostante i vaccini siano considerati tra i prodotti più controllati nel panorama farmacologico, abbiamo già avuto modo di esplorare come le pratiche di vaccinovigilanza siano dispositivi socio-culturali complessi (Lesmo, 2025).
Di fatto, i dubbi in merito a possibili correlazioni causali tra alcuni vaccini e determinati eventi avversi sembrano affiorare tra i professionisti. Nel corso della ricerca etnografica da me condotta sul tema tra il 2017 e il 2021, è emerso come diversi medici abbiano preso in considerazione in più occasioni questa ipotesi. Ciò è stato rilevato in vario modo. Non solo alcuni di essi hanno suggerito ai genitori di bambini con possibile danno da vaccino l’ipotesi di una correlazione, per poi spesso negarla dopo poco (secondo quanto i genitori mi hanno riferito). La presenza di simili “dubbi” è stata poi esplicitata direttamente da alcuni medici da me intervistati, che ne hanno approfondito criticità e problematiche durante i colloqui. Oltre a queste testimonianze di prima mano, alcuni libri, pubblicazioni e lettere scritte da medici specialisti hanno proposto pubblicamente di re-interrogare la sicurezza e/o l’efficacia delle pratiche vaccinali in corso. Alcuni tra questi professionisti sono stati in seguito interpellati, richiamati, sospesi o finanche radiati dai rispettivi ordini, evidenziando una zona di tensione particolarmente evidente che intercorre tra il sapere vaccinale e la pratica medico-clinica. È dunque estremamente rilevante interrogare la relazione complessa che lega vaccinazioni, pratica biomedica e professionisti della cura. Come si costruiscono vicendevolmente questi rapporti? Quali obiettivi, più o meno consapevoli, essi si prefiggono?
“UNKNOWN KNOWNS”: CONOSCENZE SCONOSCIUTE
Bisogna però dire che attualmente le indicazioni della medicina occidentale accademica hanno una tendenza a non mettere in correlazione patologie avverse con la vaccinazione, proprio perché la tendenza è quella di dare un valore solo positivo alla vaccinazione escludendo tutti gli elementi negativi.
Questo è quanto afferma un medico da me intervistato quando riflettiamo insieme sul rapporto rischio/benefici associati ai vaccini. L’esclusione di alcuni elementi dalle pratiche di costruzione del sapere è un elemento intrinseco ad ogni epistemologia. Se già Foucault (2004) aveva illustrato come molteplici procedure di esclusione agissero nel dare consistenza a un discorso, conferendogli uno statuto di verità attraverso interdetti, evitamenti ed elisioni, questi temi sono stati ri-articolati successivamente da molti altri studiosi. Tra questi, l’antropologo Michael Taussig si è riferito al “lavoro del negativo” per evidenziare come “sapere che cosa non sapere” sia un passaggio fondamentale in molti processi socio-culturali oltre che epistemologici. Secondo quanto osserva Taussig, il “lavoro del negativo” nei singoli contesti di riferimento è così profondo che “pur riconoscendolo, pur nello sforzo di liberarci dal suo abbraccio vischioso cadiamo in trappole ancora più insidiose che ci siamo autocostruiti” (Taussig, 1999:6). Difficile è dunque acquisire consapevolezza in merito a talune esperienze note eppur sottese, che a volte fondano vere e proprie imprese epistemiche e sociali. Geissler, antropologo sociale, ha ripreso nei suoi studi il concetto ossimorico di “conoscenze sconosciute” [“unkwnown knowns”] (Geissler, 2013: 13) per evidenziare quanto queste possano talvolta aprire la strada a determinate pratiche di ricerca e/o di cura: il confine tra sapere e non-sapere risulta così estremamente labile.
Anche in ambito vaccinale sembra che alcune esperienze vengano talvolta “espulse” dall’orizzonte conoscitivo - quasi sulla soglia della consapevolezza - per rendere le pratiche di immunizzazione possibili. Una pediatra intervistata, con cui riflettiamo sulle posizioni discordanti sul tema in ambito biomedico, mi spiega:
Allora, ci sono secondo me alcuni vaccini su cui… effettivamente ci può essere una discussione, perché effettivamente non mettono a rischio la società, no? Ci sono dei vaccini invece per cui questa cosa qua si mette a maggior rischio e allora… […] Ci sono dei caposaldi che… che secondo me sono intoccabili.
In questo frammento di discussione, parte di uno scambio molto lungo e articolato, la pediatra evidenzia come certi dubbi non possano essere sollevati – a meno che non siano già sostanziati da studi scientifici solidi ed epidemiologicamente fondati. I dubbi così sommersi - questi sospetti silenziati - sembrano in qualche misura concretarsi anche nell’eliminazione simbolica, operata attraverso sanzioni disciplinari di vario genere, dei medici che tentano di palesarli. Quando interpellata in merito a tali sanzioni, un’altra pediatra intervistata ha ribadito come ciò fosse indispensabile, e finanche rassicurante, poiché la vaccinazione “è la base della medicina moderna” e “se un medico non crede ai vaccini, soprattutto un pediatra – e soprattutto alle vaccinazioni pediatriche… forse ha sbagliato campo”.
STABILIZZARE IL SAPERE BIOMEDICO
Per molti professionisti della cura, dunque, la fiducia nella vaccinazione sembra essere precondizione della stessa professione medica. Ciò è stato spesso attribuito al particolare statuto che le vaccinazioni risultano avere in biomedicina: per riprendere le espressioni qui proposte, esse sarebbero un “caposaldo”, se non “la base della medicina stessa”. Sembra così adeguato riprendere quanto asserito da Isabelle Stengers (2005) in relazione alla stabilizzazione di un sapere, che si intreccia saldamente con ciò che la studiosa definisce “reciproca cattura”, o “inter-presa”. La “reciproca cattura” è quel legame che vincola due entità attraverso la creazione di un valore reciproco. Secondo Stengers, tale cattura si attiva nel momento in cui due identità si costruiscono e si legittimano vicendevolmente. In questo caso il ruolo del medico sembra consolidarsi anche in base alle considerazioni che egli associa ai vaccini: sostenere sicurezza ed efficacia delle vaccinazioni in uso – “credere” nei vaccini come asserito più sopra – dimostra la competenza e la credibilità dei professionisti. Nel contempo, tuttavia, le pratiche vaccinali sono rinsaldate proprio dalla fiducia accordata loro dai medici, le cui competenze ne garantiscono l’affidabilità. Ciò produce un’ulteriore antinomia: i medici – ossia gli specialisti competenti che potrebbero eventualmente porre dubbi sui vaccini - non riescono a farlo, pena la perdita della propria credibilità sul campo. Questa circolarità non è però priva di uno scopo: come si può desumere dalle considerazioni sopra proposte, essa assolve un compito ben preciso, ossia la stabilizzazione del ruolo dei vaccini, attraverso la rimozione dell’ambivalenza ad essi intrinseca: scindendo, cioè, il potere di proteggere da quello di ferire. Se poi il vaccino diviene espressione del successo biomedico, allora è la biomedicina tutta che viene in questo modo rinsaldandosi. Come osserva Stengers, tuttavia, proprio l’“ossessione di differenziazione che ci contraddistingue” (ivi:43) può divenire pericolosa: essa rischia di conferire a certi oggetti epistemici “un potere che non hanno” (ibidem). Rilevare ed esplorare il “lavoro del negativo” in opera diviene dunque cruciale per cogliere le forme di “instabilità” esistenti e trovare modi alternativi di relazionarvisi.
BIBLIOGRAFIA
AIFA, 2017, “La vaccinovigilanza in Italia: ruolo e obiettivi”, https://www.aifa.gov.it/sites/default/files/La_Vaccinovigilanza_in_Italia_18.04.2017.pdf
Foucault M., 2004, L'ordine del discorso e altri interventi, Torino: Einaudi.
Geissler P. W., 2013, Public Secrets in Public Health: Knowing not to Know while Making Scientific Knowledge, “American Ethnologist”, Vol. 40 (1):13-34.
Lesmo I, 2025, “Ecologie delle evidenze in vaccinovigilanza: quali esperienze (non) si trasformano in conoscenza?”, Controversie-Ripensare le scienze e le tecnologie, 2025,4, https://www.controversie.blog/vaccinovigilanza/
Stengers, I., 2005, Cosmopolitiche, Roma: Luca Sossella Editore.
Taussig M., 1999, Defacement: Public Secrecy and the Labor of the Negative, Stanford University Press, Stanford.