Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (seconda parte)

Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per questa opera, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda.

I primi quattro soggetti menzionati possono essere definiti serial killer, ricordando che serialità è la terza parola chiave del titolo della mia opera, poiché un serial killer è un soggetto che compie almeno tre omicidi tra i quali intercorre un periodo di raffreddamento emozionale, il cui agire sottende un insieme ampio e variegato di pulsioni sessuali devianti, tali da indurre, soventemente, durante l’omicidio, anche il coito. Poiché sono soggetti che agiscono sotto l’influsso del desiderio sessuale, sono incapaci di smettere di uccidere, a meno che non sopraggiunga un evento esterno alla loro volontà: l’arresto o la morte. Armin Meiwes, invece non è un serial killer avendo ucciso una sola vittima.

Vediamo alcune principali caratteristiche.

Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, uccise 3 donne, le fece a pezzi per poi ricavarne del sapone, mentre il sangue lo raccolse, lo essiccò per poi farne biscotti che mangiò lei stessa con diversi conoscenti. Nel caso di questa donna, per esempio vi sono elementi tipicamente maschili: l’utilizzo di armi come un martello e una scure, l’atto di sezionare i corpi, ecc. A suo dire fece tutto ciò per annullare una maledizione che le aveva lanciato sua madre, e avendo perso molti figli temeva che gli unici in vita potessero fare la stessa fine.

Andrej Romanovič Čikatilo, il Mostro di Rostov, uccise tra 53 e 56 vittime tra bambini, disabili e giovani donne, cibandosi di diverse parti dei loro corpi, con modalità omicidiarie tra le più brutali ed efferate nella storia della criminologia del cannibalismo. Era solito accanirsi sui polmoni, il cuore e gli organi sessuali; in particolare, asportava e divorava i genitali delle vittime ancora in vita; sembrerebbe aver strappato a morsi e masticato la lingua, il labbro, il naso e i capezzoli di alcune sue vittime. Inoltre, si cibò dell’utero di una donna dove aveva precedentemente rilasciato il suo seme. Dunque, nel suo caso vi sono elementi tipicamente maschili nel modus operandi.

Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva, la Coppia cannibale, il loro caso è uno dei più recenti. Dalle dichiarazioni rilasciate, avrebbero non solo cannibalizzato più di 30 persone, ma anche parte di queste per delle ricette utilizzate per dar da mangiare ai militari nella mensa in cui lavorava Natalia. Nella strutturazione di questa coppia, le questioni di genere sono interessanti. Il loro modo di agire rientra nel disturbo psichiatrico noto disturbo psicotico condiviso. Questa sindrome venne descritta, sotto il nome di Folie à deux, per la prima volta da Lasègue e Falret. Si tratta di un quadro clinico peculiare in cui un soggetto dominante, denominato induttore o caso primario, influenza un soggetto più debole, denominato indotto, arrivando ad imporgli il suo sistema delirante. Normalmente l’uomo è l’induttore e la donna l’indotto, mentre in questo caso Dmitry ha ucciso una donna, Elena Vakhrusheva, su richiesta di Natalia in preda alla gelosia.

Jeffrey Lionel Dahmer, il Mostro di Milwaukee, ha ucciso e cannibalizzato 17 ragazzi. La sua ossessione era quella di trovare qualcuno che non lo abbandonasse, tanto è vero che tentò di realizzare un vero e proprio zombie iniettando varie sostanze nel cranio di una vittima. In Dahmer sono state riscontrare varie peculiarità criminologiche, una fra tutte: la splancnofilia, una tipologia di disturbo parafilico individuato in tutta la storia del serial killer sono in Dahmer appunto, e consiste nell’attrazione sessuale provata per l’involucro esterno degli organi interni. Dahmer infatti ha dichiarato di avere avuto rapporti sessuali non solo con i cadaveri delle vittime, praticando quindi necrofilia, ma a volte con parti di essi come crani, organi ecc. Nel modus operandi di questo serial killer si rilevano elementi tipici della serialità femminile come l’uso di sostanze per avvelenare e/o addormentare le proprie vittime.

Armin Meiwes, il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, si è cibato di un solo soggetto, che si consegnò volontariamente, perché desiderava essere mangiato vivo. Meiwes tagliò il pene della vittima e lo consumarono insieme per poi ucciderlo e mangiarsi la sua carne per diversi mesi. Ha dichiarato che la carne umana ha un gusto simile a quello della carne di maiale ma un po’ più amara.

In realtà molte di queste pratiche fino ad ora descritte si ritrovano nei culti di diverse divinità cannibali come il demone Asmodeo definito come il distruttore, capace di cibarsi delle sue vittime; Lamaštu, divinità di origine mesopotamica; secondo diversi miti, a differenza delle altre divinità mesopotamiche, ella attaccava le sue vittime autonomamente e non per ordine di altre divinità. Le sue vittime predilette erano le donne prossime al parto e i neonati, che venivano rapiti durante l’allattamento per cibarsi delle loro ossa e del loro sangue; Crono, nella denominazione greca, o Saturno, nella denominazione romana, dopo aver sposato sua sorella Rea, la quale partorì i suoi figli, a divorarli uno per uno. Il suo atto antropofagico è stato reso celebre, nel mondo dell’arte, da Francisco Goya e la sua opera Saturno devorando a su hijo.

Nel saggio però, ho dato molto spazio ad una divinità che ha un rapporto peculiare con il cannibalismo ossia Śiva, dio ermafrodito degli umili, i śūdra. Nel culto di questa divinità i sacrifici umani rispecchiano certe credenze dell’essere umano, certi aspetti della natura del mondo che sarebbe imprudente ignorare. Sono parte dell’inconscio collettivo e rischiano di manifestarsi in forme perverse se non osiamo affrontarli. “Esistere vuol dire mangiare ed essere mangiato. L’uomo è ciò che mangia. Ogni essere vivente si nutre di altri esseri e diverrà nutrimento di altri esseri in un ciclo interminabile”. Śiva viene così considerato sia come divorato che come divoratore; Śiva stesso afferma: “Io sono il cibo, io sono il cibo, io sono il cibo! Io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo!… Dal cibo le creature nascono, per opera del cibo una volta generate si mantengono in vita, nel cibo morendo ritornano”. È indubbia la correlazione con le concezioni socio-psicoanalitiche sul cannibalismo seriale, come se negli antropofagi seriali vi fossero delle sopravvivenze inconsce, ovvero una sorta di esternazione di queste concezioni sedimentate nel proprio inconscio, un istinto primitivo e śivaista che si slatentizza.

Primitivo perché l’atto di uccidere e cannibalizzare era tipico delle popolazioni primitive, o meglio ancora del passato, perché spesso in periodi più recenti caratterizzati da grave carestia sono stati praticati atti antropofagi per garantire la propria sopravvivenza. E questo aspetto è abbastanza noto e trattato nella letteratura in generale, soprattutto lombrosiano-freudiana di cui si è fornita una breve panoramica.

Sul secondo aggettivo, ossia śivaista, a oggi non vi è alcun riferimento e legame, se non per gli atti antropofagici, al campo della criminologia. È necessario precisare che non si sta sostenendo che gli śivaisti siano dei serial killer, ma che in questi ultimi sembrerebbe riaffiorare un’attitudine che ricorda la ritualità, i principi, e alcuni aspetti tipici di questo culto; una vera e propria forma di regressione, o forse la dimostrazione del fatto che tutti siano accomunati da un unico grande inconscio collettivo. Una prima prova legata a questa ipotesi potrebbe essere rappresentata da una delle poche popolazioni inclini al cannibalismo ancora in vita, ossia gli Aghori.

Dunque, il gusto del cannibalismo ha molte sfumature perché mette a nudo pensieri e desideri che fanno paura, e ci mettono innanzi ad una domanda difficile da porsi: chi è un mostro? Forse potremmo rispondere con il titolo di un’opera dello psichiatra forense, Robert Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno.


Mundus patet - Ernesto De Martino e l’informe atomico

E la fine di “un mondo” non significherà la fine “del mondo” ma, semplicemente, “il mondo di domani”

Ernesto De Martino

Risale ai miti fondativi dell’antica Roma la comparsa del termine mundus, con cui si indicava il perimetro della città. Terra già esistente, diviene cosmo creato in virtù di un gesto collettivo. Il rito di fondazione prevedeva la partecipazione di un gruppo o, secondo uno sguardo diacronico, di una comunità. Ovidio racconta che venne scavato un fosso in cui riporre beni di vario genere. In seguito questo venne riempito di terra. Fu Romolo stesso, secondo l’autore, a tracciare con l’aratro «il solco su cui costruire le mura»[1]. Non solo un perimetro, bensì un’intera superficie. Catone spiega la derivazione del senso terreno del mundus dal mondo che sta «sopra di noi: la sua forma infatti […] è simile alla forma di quello»[2]. Alla forma a volta dell’universo corrisponde la forma a fossa, a “U”, del mondo sotto di noi, chiamato anche mundus Cereris: il mondo dei defunti. Il mondo degli inferi è cautamente sigillato con un apposito coperchio apribile, oppure è sovrastato dall’altare di Romolo. Mundus è dunque l’insediamento, il centro fissato, ma anche il limine tra mondo celeste e inferi. In quanto soglia esso assume un significato aggiuntivo, inserendosi in un’articolazione di senso e di operazioni ulteriori. Insieme al bue nero e alla giumenta bianca[3], Romolo si mette alla guida della sua aratro per tracciare il confine, il limen, del nuovo insediamento. È a partire dalla centralità delle tecniche agricole nella società romana “delle origini” che è possibile individuare il terzo senso del termine mundus che, secondo Herbert J. Rose, «poteva essere destinato a determinati riti agrari, poteva contenere per esempio piccole quantità di grano non tanto come primizie bensì per essere benedette dalle potenze del mondo infero»[4]. Si istituisce uno scambio tra mondo dei vivi e mondo dei morti cui segue la rigenerazione della terra. Nel capitolo di Morte e pianto rituale dedicato alla “Messe del dolore”, l’etnologo napoletano Ernesto De Martino (1908-1965) analizza la configurazione del rapporto dell’uomo del mondo antico con l’esperienza di morte. L’autore sostiene che «veder fiorire» e «veder scomparire» sono accadimenti che dipendevano «in larga misura da potenze che sfuggivano al controllo umano»[5], ma che nondimeno venivano integrati in un «ordine di lavori agricoli» che – come l’arare, il seminare e il raccogliere – istituivano un rapporto speculare con quelle forze indomabili, per cui l’uomo «si fa procuratore di morte secondo una regola umana»[6]. Così come, attraverso il raccolto, l’uomo decide per la morte della spiga, così attraverso il seminare l’uomo opera in direzione della propagazione della vita, della sua ripetizione. L’autore riconosce che questo rapporto organico non risolve, non evita, il rischio di una crisi[7]. Occorre fissare un primo interrogativo: in che senso non è sufficiente osservare e domesticare la natura – imitandola – per essere certi che «domani ci sarà un mondo»[8]?

Che cosa è “mondo”? È una sfera? Oppure è una volta, cui corrisponde una fossa, separate da un coperchio che noi uomini calpestiamo? Lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha tentato di descrivere il tipo di spazio che viene in essere nell’esperienza dell’uomo religioso. Così come il coperchio serve ad un tempo da membrana e da limite invalicabile del mundus Cereris, così le Colonne d’Ercole sono il limite ultimo oltre cui non spingersi, pena cadere nel nulla e ritrovarsi faccia a faccia con Atlante. Allo strapiombo dell’Inferno dantesco corrisponde, secondo una simmetria longitudinale, la verticalità del Purgatorio alla cui somma sta l’Eden[9]. In queste tre rappresentazioni ricorre un carattere osservato da Eliade: «per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo»[10]. Esistono spazi consacrati, con una loro forza, un loro preciso significato; ed esistono spazi «non consacrati […] amorfi»[11]. I primi sono «l’unica cosa reale», mentre i secondi costituiscono una mera «informe distesa» che circonda i primi[12]. Lo spazio sacro diviene tale in virtù di una ierofania, di una manifestazione delle forze sacre che sancisce una separazione ontologica tra lo spazio sacro e lo spazio profano[13]. Da questa cesura nasce il templum come perimetro e indice che questo posto, questo cerchio di terra, è sede delle potenze sacre. Il tempio si costituisce come centro di orientamento, come centro di irradiamento: qui il sacro si concentra, il fedele vi si dirige, il sacro ne emana e viene sigillato in una forma – coperchio o montagna. Il mondo sembra essere, stando a Eliade e De Martino, il “reale” che si dispiega in quanto tale in forza di una significazione. Più che un villaggio, un bosco o un pianeta, il mondo è un prodotto – da producere, portare avanti – derivante e continuamente costruito nel rinnovamento di un legame agonistico dell’uomo con sé stesso e con le forze su cui non può nulla. Il mondo è il risultato di una tessitura faticosa che ricorda quella di Penelope: potenzialmente infinita. Se il mondo non è qualcosa di stabile bensì di stabilizzato che cosa succede quando l’uomo cessa di essere religioso? Religio, rilegare, cucire insieme l’uomo e il mondo, inserire l’esteriorità entro una trama ordinata, un disegno. Secondo Eliade non è possibile trovare un uomo che non sia religioso in toto, «anche la vita più desacralizzata conserva tuttavia le tracce di una valoristica religiosa del Mondo»[14]. Siamo meno religiosi, ossia siamo meno adeguati ad una religione istituzionalizzata, e il nostro rapporto con la natura è per molti aspetti meno sacralizzante che un tempo. Eppure la religione intesa come rapporto non riguarda solo le relazioni uomo-divinità e uomo-natura, bensì anche quella dell’uomo a sé e al suo simile. La religione è quel comportamento umano che continuamente sancisce la validità di determinati valori che divengono condivisi in quanto universalizzabili, ossia: traduce quotidianamente in pratiche le regole di un comportamento dello stare insieme in uno spazio collettivo. La comunità non è una sommatoria di individui, bensì un insieme organico orientato verso un modo del vivere in comune che costituisce la base per la formulazione delle regole – tacite o meno – di questo stesso vivere in comune. La religione, come la politica; il mundus, come lo Stato. Cosa hanno in comune queste forme di rapporto? Arrischiamo una risposta provvisoria: la religione e la politica, il mundus e lo Stato, costituiscono le forme – dunque i mondi? – entro cui si regolano le attività umane attraverso l’istituzione di regole e di valori che, differentemente da quanto oggigiorno si predica, non sono indefinitamente rinegoziabili. Se viviamo nell’epoca di crisi dei valori non è perché siamo meno religiosi o perché ci muoviamo in un mondo in cui le scienze “dure” insegnano la prevedibilità dei fenomeni, mostrandoci contemporaneamente la loro fallibilità intrinseca e dunque inducendoci a un certo scetticismo. La crisi dei valori deriva in primo luogo dalla friabilità della postura di chi ritiene che questi siano tutti, indipendentemente, sempre di nuovo rinegoziabili. L’apparente marmoreità di questa posizione vacilla nel momento in cui ne si considera il rovescio, il risvolto pratico: l’equivalenza potenziale di ogni futuro possibile.

Ci siamo domandati in che senso non è sufficiente osservare e domesticare la natura per essere certi che domani ci sarà un mondo. Se il mondo sorge come effetto di un procedimento di tessitura del reale che pone l’uomo al livello di Aracne, non stiamo dando troppo potere all’uomo? Se questo rimane religioso in quanto tessitore, possiamo accettare che il mondo finisca? Eppure, prima di domandarci questo, dobbiamo chiederci, insieme a De Martino, che cosa significa pensare la fine del mondo. Secondo l’etnologo il mondo è primariamente culturale. Il problema della fine sorge anticamente[15]: culture differenti rappresentano secondo le relative divinità, concezioni dello spazio e del tempo, della morte, la loro fine del mondo[16]. Il rischio della fine del mondo è ricorsivo e va affrontato in quanto, secondo l’etnologo, «se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’umanità»[17]. Nel suo contributo De Martino declina gli assi portanti della sua riflessione alla luce dei «200 000 di Hiroshima»[18]. Il 6 agosto 1945, alle otto del mattino, un mondo è finito. Eppure, qualcuno ha preparato questa fine, la ha calcolata scrupolosamente sottomettendola a sperimentazioni, approvazioni e registri; ne ha osservato gli effetti dopo averli previsti più o meno approssimativamente. Il mondo è finito quel giorno per chi ignorava lo spesso tessuto di preparazioni, ma è finito anche per chi pazientemente preparava questo avvenimento, per chi lo ha curato. Un decadimento annoso dunque, le cui manifestazioni terminali indicano che la krisis è già trapassata nell’epoca in cui «l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la possibilità stessa della cultura»[19].

Come armarci contro questo scacco? Una fine senza escaton, in cui alla vastità del mondo sopra e sotto di noi corrisponde la puntuale e calcolata localizzazione di una promessa di salvezza o di condanna. Il mondo non è forse mai stato così aperto.

 


NOTE

[1] Ovidio, Fasti e frammenti, in Opere, materiali a c. di F. Stok, UTET, Torino 1999.

[2] Catone, Commentari, in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), materiali a c. di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Giulio Einaudi editore, Torino 2019, pp. 119-120.

[3] Ovidio, cit., p. 337.

[4] H. J. Rose, “The Mundus”, in Studi e materiali di storia delle religioni, XII, 1931, pp. 115-127, qui p. 121. Traduzione italiana parziale in E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), materiali a c. di M. Massenzio, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021, p. 125.

[5] E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit., p. 225.

[6] Ibid.

[7] Ippocrate di Coo e la sua scuola medica impiegavano il termine krisis per indicare quella fase del decorso della malattia che si impone come discrimine all’interno del percorso di guarigione del paziente. I due esiti possibili che potevano configurarsi anche contraddicendo le previsioni del medico e repentinamente consistevano nel decadimento nella morte o nella risoluzione dell’equilibrio organico nella guarigione. Più che l’alternativa del decorso ci interessa il carattere di imprevedibilità, di sorpresa, che comunque accompagna l’osservazione e la ricerca.

[8] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 65. Corsivo nostro.

[9] Giorgio Agamben ne Il regno e il giardino dedica un capitolo al cosmo dantesco ricostruendone alcune interpretazioni teologiche e reinterpretandone il ruolo alla luce della sua percorribilità da parte di Dante, in forza della quale l’Eden si configurerebbe come “la figura della beatitudine terrena”, cui l’uomo può accedere. G. Agamben, Il regno e il giardino, Neri Pozza, Vicenza 2019, p. 71. Corsivo nostro.

[10] M. Eliade, Il sacro e il profano (1957), tr. it. E. Fadini, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 19.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] L’Inferno dantesco nasce dall’urto di Lucifero sulla terra in seguito alla sua cacciata dal Paradiso. La terra risponde all’urto e alla forza ritirandosi. A questo movimento corrisponde l’emergere della forma conversa: il monte del Purgatorio.

[14] M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., p. 20.

[15] “Il problema della fine del mondo” è il titolo del contributo di De Martino al convegno internazionale organizzato dal filosofo cristiano Pietro Prini nel 1964. Il convegno “Il mondo di domani” ebbe luogo a Perugia tra il maggio e il luglio 1964. Stando a Giordana Charuty al convegno parteciparono anche, tra altri, Paul Ricœur, Gabriel Marcel e Umberto Eco. Il contributo di De Martino venne inserito nel testo che seguì al convegno, dall’omonimo titolo, pubblicato da Prini a Roma nello stesso anno.

[16] Nel testo del 1977 De Martino analizza una varietà di modi di intendere, prevedere e interpretare, il tema della fine del mondo. Possiamo indicare, tra i numerosi indagati dall’autore, i casi della schizofrenia, del marxismo e della decolonizzazione. Nondimeno, si potrebbe considerare lo studio su Morte e pianto rituale come una propedeutica al testo del 1977: il lutto sancisce la fine di un mondo culturale, necessita la restaurazione di un ordine che può essere riarticolato e riassunto solo entro una dinamica collettiva che si esplica attraverso operazioni e tecniche intersoggettive.

[17] E. De Martino, “Il problema della fine del mondo”, in La fine del mondo, cit., pp. 69-76, qui p. 69.

[18] Ivi, p. 71.

[19] Ivi, p. 70.


Ciò che nasce con buone intenzioni muore di cattive

Il processo di fissione nucleare fu definito con esattezza nel 1939. Probabilmente la vigilia della seconda guerra mondiale non offrì il contesto psicologico e sociale migliore per condurre quella scoperta rivoluzionaria su una strada pacifica, ma questa non deve essere una scusa.

La scelta di progettare la bomba atomica è stata appunto una scelta.

Nessun topo costruirebbe una trappola per topi. Gli esseri umani hanno da sempre concentrato i loro uomini migliori e i loro sforzi più importanti nell'inventare, costruire e far funzionare trappole per altri esseri umani.

Perché?

Ogni specie naturale vive un equilibrio che sarebbe immutabile se non per eventi naturali estremi e comunque esterni alla specie. Una parte in causa dell'equilibrio che lo rompe e lo ripristina, uguale o diverso.

L'uomo ignora qualsiasi forma di equilibrio esterno alla propria specie e rompe qualsiasi equilibrio sociale costruito dalla sua specie dopo un certo tempo.

Perché?

Le altre specie cosiddette dominanti hanno perso il proprio privilegio per cause esterne. Dalla notte dei tempi fino alla comparsa dell'uomo. Noi corrompiamo qualsiasi sistema naturale e sociale forse per darci un futuro. Ci vogliamo mettere in cima a qualsiasi piramide naturale o sociale perché è il posto più sicuro che possiamo immaginare.

Da lì sentiamo il controllo e vediamo il futuro. Finché le buone intenzioni dell'inizio ci suggeriscono qualcosa di diverso. Improvvisamente sentiamo che quella sicurezza non è abbastanza. Qualcosa ci supera, o soltanto ci sembra. E scatta inesorabile l'ennesima trappola per esseri umani costruita da esseri umani.

Il fenomeno che abbiamo innescato a quel punto ci supera. Diventa troppo grande per essere in possesso del singolo e ogni singolo inizia a sentirlo necessario nonostante estraneo a sé. Quindi estraneo a tutti e necessario per ciascuno. L'esigenza specifica e contingente oscura le conseguenze possibili di cui eravamo consapevoli fin dall'inizio. Ma è ormai un moto irrefrenabile, al punto in cui lo mettiamo in discussione già non ci rendiamo più conto o non siamo più in grado di connotare le forze che avevamo evocato e lo stanno conducendo.

Quando la trappola è pronta l'unica opzione è usarla. Ci mettiamo davanti alla valanga e pronunciamo la fatidica frase: Cosa Abbiamo Fatto Stavolta.

Stavolta finora ha sempre avuto un'altra volta. Viviamo un paradosso che ha bisogno di rinnovarsi costantemente per restare valido, e perpetriamo questo paradosso di cui sembra non possiamo più fare a meno. Lo rinnoviamo ogni volta come fosse l'unico futuro che siamo in grado di immaginare.

Achille cercava le battaglie per la gloria che lo attendeva inesorabile. Morì per una flebile lancia.


Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (prima parte)

“La conoscenza (…) comincia con la tensione tra sapere e ignoranza: non c’è problema senza sapere – non c’è problema senza ignoranza. Poiché ogni problema nasce (…), dalla scoperta di un’apparente contraddizione fra quello che riteniamo nostro sapere e quelli che riteniamo fatti”.

Con queste parole si conclude il mio secondo saggio, Cannibalismo, questioni di genere e serialità (2023) edito dalla casa editrice Tab edizioni di Roma nell’aprile dello scorso anno. Non mi sarei mai aspettato che un tema così pregno di timore, tanto da essere annoverato come uno dei più grandi tabù, potesse suscitare tanto interesse… Eppure, è successo! Questo saggio ha vinto una menzione di merito dalla giuria del concorso nazionale Caffè delle arti; è stato collocato al terzo posto tra i migliori saggi sul tema da Notizie scientifiche; è stato attenzionato da testate giornalistiche e culturali di respiro nazionale, etc.

Ricordo, però, che appena mi misi all’opera, molti tra docenti e amici mi chiedevano “che gusto ci trovi a studiare questo tema?”. La mia risposta era, ed è, molto semplice: mi piace tutto ciò che è poco attenzionato, ciò che è di nicchia, perché è in queste intercapedini del sapere che si ha la possibilità di portare alla luce qualcosa di nuovo, o semplicemente qualcosa di cui si conosce molto poco… Ed è proprio il caso del cannibalismo, che per quanto sia stato studiato dall’antropologia, dalla criminologia e dalla stessa psicoanalisi, e vedremo brevemente in che modo, da parte della sociologia, invece, non vi è stato molto interesse.

Gli argomenti trattati in questa opera sono tanti: dall’analisi transdisciplinare del cannibalismo l’antropologia, la sociologia, la criminologia e la psicoanalisi; allo studio di 5 casi di soggetti cannibali Leonarda Cianciulli, Andrei Chikatilo, i coniugi Baksheev, Jeffrey Dahmer, Armin Meiwes, nonché alcune divinità antropofaghe come Śiva, per poi giungere ad una ipotesi  secondo la quale i tratti comuni tra il modus operandi dei serial killer studiati e i culti cannibali vi sarebbe, in soggetti di questo tipo e non solo, un istinto atavico di tipo sociopsicologico e śivaista.

Da notare il fatto che negli ultimi anni il tema del cannibalismo è tornato in auge grazie sul grande e il piccolo schermo, pensiamo alla pellicola cinematografica Bones and Hall, adattamento cinematografico di Luca Guadagnino dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis; la serie tv Dahmer - Monster: The Jeffrey Dahmer Story e molto recentemente La Società della Neve il cui soggetto principale è il caso del disastro aereo sulle Ande in cui vennero praticati atti di cannibalismo per sopravvivenza.

Ma innanzitutto cosa si intende per cannibalismo?

In generale potremmo definirlo come l’atto con il quale un individuo si ciba di un altro suo simile, cioè appartenente alla sua stessa specie. Si tratta di un comportamento presente in molte specie animali, comprese le scimmie, ma anche nella storia del genere umano sia da un punto di vista evolutivo che simbolico. Questo aspetto, infatti, lo considero il grande paradosso del cannibalismo perché da un lato, anche solo menzionarlo stimola sensazioni e reazioni di assoluto ribrezzo e intolleranza, dall’altro però le prove storico-archeologiche sono inconfutabili: il cannibalismo ha accompagnato l’evoluzione della specie umana.

A questo proposito, da un punto di vista antropologico, il cannibalismo sembrerebbe che sia apparso più di 70.000 anni fa. La tendenza cannibalistica dei Neanderthal è stata identificata principalmente grazie all’analisi di teschi su cui erano presenti delle manipolazioni. Famoso è il teschio del Circeo in cui sono stati individuati segni di pratiche rituali funerarie di tipo cannibalistico. Anche sui teschi di Homo pekinensis, risalenti al Pleistocene medio (circa 350.000-450.000 anni) sono state trovate delle fessure e tagli; la prova più evidente del fatto che i nostri antenati fossero dediti al cannibalismo sarebbe il cosiddetto foramen magnum, cioè il foro presente sull'osso occipitale allargato manualmente per estrarre e mangiare il cervello.

Ma il cannibalismo, noto anche come antropofagia, ha caratterizzato anche epoche successive: è stato considerato come uno degli atti tipici della stregoneria, l’accusa con la quale condannare eretici, ma anche uno strumento terapeutico, definito tecnicamente come cannibalismo medico o terapeutico Si tratta di una forma peculiare di cannibalismo dove cuore, midollo e sangue umani venivano ritenuti veri e propri presidi terapeutici, e quindi molto usati nelle pratiche medico-sanitarie. Questa forma di cannibalismo era già nota agli antichi romani i quali erano convinti che l’epilessia si potesse curare succhiando il sangue dalle ferite dei gladiatori. Tale usanza venne mantenuta fino al XVIII secolo. In particolare, si prescriveva l’assunzione di carne umana, generalmente proveniente da morti per decapitazione o impiccagione, per il trattamento dell’epilessia. In Gran Bretagna, addirittura, nacquero i cosiddetti mummy shop, ovvero farmacie che vendevano carne umana mummificata. E sullo scopo terapeutico del cannibalismo, nel suo ultimo saggio Siamo tutti cannibali, uno degli antropologi più autorevoli, Lévi-Strauss, ha sostenuto che il cannibalismo non solo sia presente quotidianamente ma che gran parte delle tecniche terapeutiche che altro non sono che la forma più evoluta del cannibalismo: il trapianto di organi, le trasfusioni, l’impiego di ormoni ipofisari, innesti cutanei o di altre parti del corpo provenienti da cadaveri, ecc. L’obiettivo di Lévi-Strauss, a differenza di altri suoi colleghi, è quello di esorcizzare il concetto di cannibalismo, sottolineando come sia necessario considerare questo fenomeno come “normale” e non come fattore di discrimine fra società selvagge e società civilizzate. Altri suoi colleghi, invece, hanno considerato il cannibalismo o come la manifestazione più evidente della differenza tra i popoli civilizzati e meno civilizzati, o ancora come un mero mito con quale etichettare popoli considerati inferiori.

Nel caso della psicoanalisi, invece, il cannibalismo assume altri significati. Freud lo definisce come la manifestazione più evidente dell’aggressività repressa, che si manifesta, appunto, mediante l’attacco orale, che sarebbe alla base della storia umana e della sua evoluzione, ma al tempo stesso considera l’antropofagia come l’espressione dell’impulso con il quale si intende introiettare l’altro per appropriarsene. Parte di questi atteggiamenti si rilevano nel bambino, durante la fase orale o cannibalica dello sviluppo psichico. L’uomo, ricorda Freud, sin dalla nascita si attacca al seno materno e finché non svilupperà i denti, si limiterà alla suzione, che è comunque fonte di appagamento sessuale per l’infante.

Secondo la criminologia, invece, il cannibalismo rientra nelle cosiddette parafilie ossia condizioni in cui si sviluppano interessi sessuali atipici. In questo ambito il cannibalismo, è correlato ad atti commessi da serial killer, ossia individui, che nella maggior parte dei casi, commettono almeno 3 omicidi, spinti da istinti sessuali deviati.

Da un punto di vista sociologico il cannibalismo ha avuto scarsa attenzione, questo perché la stessa sociologia dell’alimentazione ha avuto un suo riconoscimento formale solo di recente. Uno dei pochi tentativi di analisi sociologica dell’antropofagia è stato proposto da Georges Guille-Escuret e nella sua trilogia Sociologie comparée du cannibalisme, in cui il cannibalismo viene analizzato come un evento sociale endogeno alla società. Il concetto di cannibalismo, da questo punto di vista, ricorda quello di incorporazione della cultura, cioè l'introiezione di ciò che proviene dalla società dentro ciascuno di noi. Ma mangiare in generale è un “fatto sociale”, per dirla in termini durkheimiani, rappresenta, cioè, il massimo grado di espressione del volere collettivo e dell’esigenza di relazionalità. Così la rilevanza sociale dell'alimentazione e del suo ruolo relazionale lo si ritrovano già nel termine compagno, dal latino companio, composto da cŭm, con e pānis, pane; letteralmente, quindi, compagno significa "chi mangia il pane con l'altro". Mangiare diventa essenziale per stare in relazione, ecco perché la nutrizione viene considerata in sociologia come uno dei mediatori più importanti, nonché a fattore di incremento e di strutturazione del capitale sociale, cioè dell’insieme più ampio di relazioni di cui ciascuno gode. Ma il cannibalismo ha anche altri significati sociologici: quelli riconducibili al rito, per esempio pensiamo al processo di transustanziazione e al precetto cristiano di cibarsi del corpo e sangue di Cristo; è all’interno di molti miti, leggende, fiabe, si pensi a: Pollicino, Hänsel e Gretel, il conte Ugolino, ecc.

Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per il mio lavoro, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, di cui vi parlerò dettagliatamente nella seconda parte di questo post.


Deus absconditus. Note sull’emancipazione di Homo “sacer”

Nel passaggio mai definitivo dal regno della credenza e della superstizione a quello del sapere laico, razionale e scientifico, ha avuto un ruolo cruciale la progressiva sfiducia nei confronti delle pratiche magiche e religiose, sacrificio compreso. Meno acclarato è il fatto che, nel secolare mondo occidentalizzato, le antiche istanze di homo “sacer” riemergono volentieri sotto mentite spoglie, camuffate da rituali emancipati e tecnologicamente avanzati. In realtà, esse non ci hanno mai abbandonato, in barba alle distinzioni tra sacro e profano, alle diatribe sul primato di struttura e sovrastruttura, al senso della storia in quanto lineare processo di secolarizzazione. Attraverso una moltitudine di pratiche quotidiane apparentemente neutre si rinnovano culti rivolti a divinità misconosciute, le quali donano e tolgono la vita come ogni divinità che si rispetti. Non si tratta di cedere alle fallacie dell’analogia, tali per cui il presente storico è reso anacronistico da una sovrapposizione efficace ma surrettizia con il mondo arcaico. Al contrario, occorre prendere coscienza che tra sacro e laicità non passa alcuno iato necessario. Senza scomodare casi probatori eclatanti quali lo sforzo ingegneristico nazista o l’attacco alle Torri Gemelle, è alla quotidianità che occorre guardare per scongiurare il bias dell’evento, il quale rischia di relegare il sacro contemporaneo all’eccezione in un quadro di normalità. Tre esempi tratti dalla vita di tutti i giorni restituiscono la nemesi in oggetto.

Il centro commerciale

L’isolato centro commerciale, a cui giungono in pellegrinaggio migliaia di devoti ogni giorno, non rappresenta affatto un “nonluogo”. Si tratta, invece, di un’area sacra votata all’odierna religione del consumo. Tempio e Granaio, tradizionalmente distinti, hanno finito per coincidere senza avvicendarsi. Oggi come un tempo, la divinità dona prosperità in cambio di prelievi di sostanza vitale. In luogo del sangue sacrificale, scorre copioso il risparmio finanziario. Se i sacerdoti dei vari templi amministrano offerte equivalenti, i Numi si spartiscono i reparti: ad Afrodite quello della bellezza, a Dioniso i vini e liquori, a Demetra il settore ortofrutticolo, ad Asclepio i prodotti farmaceutici, a Efesto quelli tecnologici, ad Apollo le dispense musicali, ad Atena le librerie, e così via per le varie divinità. Contrassegnate ciascuna dai rispettivi marchi di fabbrica, scambiano le loro merci divine con pellegrini giunti a omaggiarle sulla scia della pubblicità, l’equivalente laico della propaganda religiosa. I doni “in offerta”, degni delle ossa taroccate di Prometeo rifilate alla divinità, ingannano consumatori evidentemente indiati. I sacrifici animali veri e propri, celati sotto l’eufemistica promessa di “carne”, avvengono in un altrove così inattingibile, da evitare di contaminare l’area sacra anche solo con l’immaginazione. Ciò denota ulteriormente il desiderio di identificazione del consumatore con le divinità che viene a venerare, le quali tuttavia sono parzialmente a portata di mano, ché altrimenti non potrebbe tendervi. Rinnovare il gesto d’appropriazione identificante, moltiplicarlo per ogni reparto e condividerlo con l’intera comunità, è renderlo rituale.

I mezzi di trasporto

Un’altra divinità misconosciuta è quella delle quattro ruote. Ad essa sono immolate quotidianamente migliaia di vittime in tutto il mondo, umane e non. Il quadrupede della velocità, munito di occhiacci luminosi e prognatismo aerodinamico, è avido di sangue quanto una divinità Azteca. Gli altarini sui cigli delle strade ne sono fedele testimonianza mentre i non umani, si sa, non omaggiano i malcapitati. Gli incidenti da mezzi di trasporto sono tali solo agli occhi di spiriti non avvezzi al sacro ineluttabile. Ancorché inconsci, si tratta di sacrifici umani in piena regola, con le vittime scelte a sorte secondo un copione sacrificale noto e documentato. Non solo i candidati all’immolazione non sono disposti a rinunciare al culto della velocità, ma molti di loro si offrono entusiasti al dio calcando l’acceleratore oltre misura, sovente aiutati dalle stesse sostanze psicoattive che usavano nell’autosacrificio arcaico. Si osserva giustamente come i giovani d’oggi più non pratichino i riti di passaggio all’età adulta, ma si dimentica di aggiungere che sballo e velocità rivestono esattamente tale funzione. Il calcolo utilitaristico dovrebbe convincere iniziati e navigati che la loro fede universalistica va mietendo più vittime delle due guerre mondiali messe assieme, eppure tale verità scandalosa permane inopinata nel diniego collettivo. Ai morti sull’asfalto si sommano quelli di aerei, navi, sottomarini, treni, funivie: un pantheon di divinità zoomorfe adattate ai loro habitat specifici. Se la convergenza evolutiva contempla i veicoli umani, al dio della velocità volentieri si accompagna la dea di altezza e profondità, detta Ubiquità. Così alcuni si schiantano a bordo di uccelli metallici stipati di guano infiammabile, mentre altri si inabissano dentro cetacei a motore che non riemergeranno più, o più prosaicamente scivolano nelle tane degli ascensori.

Archeologia della morte

Un terzo esempio di revival sacrale è dato dall’archeologia della morte. Una volta si andava sottoterra a seppellire i propri cari in loculi più o meno accoglienti, in un misto di nostalgia e terrore che potessero ritornare tra i vivi colmi di risentimento, tanto che prima di sigillare l’accesso venivano forniti di ogni comfort. La nostalgia odierna, viceversa, usa disseppellire quegli stessi resti per riportarli in vita. C’è perfino chi si adopera in preistorici contorcimenti volti a espugnare recessi ancestrali scelti appositamente per l’oblio. L’iter speleologico è identico, ma a ritroso; le torce elettriche. Il ritorno dei morti viventi non fa più paura e anzi sono i benvenuti, quantomeno dal XIX secolo in giù. Antenati immortali lo divengono nuovamente sub specie di mummie e scheletri di progenitori sottoposti all’imperitura ammirazione del pubblico nei musei di storia e scienze naturali. Qui i devoti sono acculturati, la religione ufficiale è quella del sapere storico e scientifico. La collocazione delle suppellettili a fianco delle reliquie è bene che sia la stessa di sottoterra, così la cura certosina nel disporle. Le teche di vetro echeggiano per contrasto l’oscurità delle camere sepolcrali, il controllo dell’umidità è affidato a guardiani tecnologici, i neon evocano la luce dell’aldilà. Un perfetto rovesciamento del culto precedente, allorché erano gli inferi a dover specchiare il mondo supero.

Provvidenza, Immolazione, Velocità, Ubiquità e, dulcis in fundo, Immortalità, sono contrassegni inconfondibili della divinità. Ulteriori marcatori sacrali, per altrettanti culti della contemporaneità, sono rinvenibili nelle odierne società tecnologiche. Rimandiamo la loro investigazione a successivi appuntamenti.


Il dono - Anatomia di una consuetudine, tra libertà e obbligo

Perché ci scambiamo regali? Cosa facciamo, di preciso, quando doniamo? Cosa significa “donare”?

Questi sono interrogativi che ci poniamo di rado, in quanto vediamo l’atto di donare, soprattutto durante una festività, come qualcosa di ovvio e indubitabile; tuttavia, dietro a consuetudini tanto ordinarie e (apparentemente) libere come scambiarci dei regali durante una ricorrenza, esistono meccanismi sotterranei e invisibili, i quali nascondono l’architettura interna di una società.

Per investigare le dinamiche sociali che intervengono nelle pratiche di dono, in questo articolo studieremo le riflessioni di un pensatore di grande importanza: il sociologo francese Marcel Mauss (1872-1950). Esamineremo, in particolare, alcune sezioni di una delle sue opere principali, il Saggio sul dono.

Grazie a questo autore, capiremo come l’habitus di donare non sia solo “nostro”, e che all’interno di altre culture agiscono meccanismi nei quali possiamo identificarci; nel nostro viaggio, pertanto, conosceremo qualcosa di più sia su popolazioni lontane, sia sulla nostra stessa società.

MAUSS E IL “FATTO SOCIALE TOTALE”

Per cogliere al meglio i ragionamenti che analizzeremo a breve, dobbiamo ora soffermarci su un’idea di fondamentale importanza sociologica: il “fatto sociale totale”. Con questo concetto si indica che alcuni organismi sociali sono talmente generali e pervasivi da permettere di spiegare interamente la cultura di un popolo, nonostante siano eventi particolari.

Mauss, nel Saggio sul dono, afferma: «in questi fenomeni sociali “totali”, […], trovano espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali – queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo –, nonché economiche […]; senza contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste istituzioni rivelano»[1].

IL SAGGIO SUL DONO

Il Saggio sul dono, testo fondamentale di Mauss, è stato pubblicato sul primo numero della nuova serie dell’Année Sociologique[2], datata 1923-1924.

L’introduzione è intitolata “Del dono e, in particolare, dell’obbligo di ricambiare i regali”, e inizia con un’epigrafe che riporta alcuni versi dell’Havamal, un poema facente parte dell’Edda scandinava[3]; in particolare, le strofe riportate trattano l’importanza di donare per instaurare e mantenere rapporti sociali e d’amicizia. Questo passaggio iniziale permette all’autore di introdurre il tema principale del libro, indicato come “Programma”: «nella civiltà scandinava e in un buon numero di altre, gli scambi e i contratti vengono effettuati sotto forma di donativi, in teoria volontari, in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente»[4]. Infatti, sotto un’apparenza di disinteresse e generosità, al fondo delle pratiche di dono possiamo trovare «finzione, formalismo e menzogna sociale e, […], obbligo e interesse economico»[5].

Inoltre, Mauss specifica il “fatto sociale totale”, mettendo subito in chiaro che il dono è una delle sue manifestazioni.

Tlingit e Haida

Successivamente, l’autore esamina il caso dei Tlingit e degli Haida, due tribù abitanti la zona nord-occidentale del continente americano; presso di loro e in tutta l’area si riscontra un caso molto particolare di prestazione totale sotto forma di doni: il potlatch.

La specificità di questa cerimonia consiste non tanto in distribuzione di ricchezza ma nella sua distruzione, in quanto le popolazioni che praticano riti potlatch gareggiano senza sosta nello sperpero di beni di prestigio, conquistando tanta superiorità sociale quanto più si dimostrano inclini a privarsi di oggetti di valore, in una continua lotta di disfacimento dalla quale si arriverà a decretare il clan superiore, quello con maggior prestigio nella gerarchia sociale.

Tali fenomeni investono la vita collettiva di tutta la tribù e, nel Saggio sul dono, viene puntualizzato che siamo di fronte a «prestazioni totali di tipo agonistico»[6].

Polinesia

Proseguendo nella sua trattazione, Mauss si concentra poi sull’analisi del dono in Polinesia, affermando che in questi territori non esiste un potlatch compiuto come nel nord-ovest americano; ci sono certamente prestazioni sociali totali organizzate secondo dinamiche di dono ma, a suo dire, non sembrano andare oltre questo primo momento, non sfociando mai, cioè, nella competizione agonistica e nella rivalità esagerata.

Tuttavia, qui Mauss sembra trovare la soluzione al perché si debba obbligatoriamente ricambiare i regali ricevuti: lo hau, o «lo spirito della cosa donata»[7]. È importante specificare che in Polinesia gli oggetti personali, i taonga, sono strettamente legati ai proprietari, veicoli della loro forza spirituale o mana. Lo hau, dunque, è un’energia magica di cui tutti i taonga, proprio in virtù della loro stretta connessione col possessore, sono come imbevuti; quando uno di questi beni viene donato, trasmette con sé una parte sostanziale di chi lo regala, in quanto «la cosa ricevuta non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui»[8]. Al ricevente viene pertanto trasferito un vincolo spirituale, un obbligo che lo costringe a ricambiare il dono, pena la distruzione dell’individuo stesso; secondo la credenza maori è proprio lo hau che desidera tornare al suo luogo d’origine, e ciò può avvenire solo attraverso un controdono.

Tali considerazioni ci fanno quindi capire che «nel diritto maori, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perché la cosa stessa ha un’anima, appartiene all’anima»[9].

Dare, ricevere, ricambiare

A questo punto dell’opera, Mauss spiega la propria catena “dare, ricevere, ricambiare”. Il fatto totale, a suo dire, non solo implica l’obbligo di ricambiare i regali, ma ne determina altri due, di pari livello: da una parte, l’individuo deve necessariamente donare, mentre, dall’altra, il ricevente è costretto ad accettare il regalo. Infatti, «rifiutarsi di donare, […], così come rifiutare di accettare equivalgono ad una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l’alleanza e la comunione»[10].

Tlingit, Haida e Kwakiutl

Tornando ai casi del nord-ovest americano, Mauss approfondisce ora lo studio del potlatch; afferma che presso le popolazioni interessate non esiste forma di scambio diversa da questo cerimoniale di distruzione. In particolare, le tribù prese in esame sono, da una parte, i sopraccitati Tlingit e Haida, abitanti sulle coste canadesi e dell’Alaska, mentre dall’altra vengono analizzati i Kwakiutl, stanziati nella regione canadese della Columbia Britannica e sull’Isola di Vancouver.

Come sappiamo, il potlatch è un esempio di “fatto sociale totale” di tipo agonistico, e viene da Mauss indicato, nei suoi fondamenti, come un semplice sistema di scambio di doni; tuttavia, esso rappresenta un caso etnografico molto interessante, per via della violenza e degli esagerati antagonismi che stimola.

Credito e onore

Per quanto riguarda i meccanismi sociali che sottendono il potlatch, Mauss ne identifica due: il credito e l’onore.

Il primo termine in Europa ha un significato essenzialmente economico ma lo possiamo trovare, con una diversa semantica, anche presso popolazioni e culture non europee. L’autore ritiene che il dono sia collegato al credito, specificando inoltre che «la natura peculiare del dono è […] di obbligare nel tempo»[11]; infatti, i doni non possono essere ricambiati immediatamente (come in un comune scambio di beni) ma in un momento successivo, secondo una dialettica che coinvolge un creditore e un debitore.

La seconda nozione che abbiamo menzionato è quella di onore. Nei potlatch, oltre agli oggetti, vengono messi in gioco il prestigio, la “faccia” di un capo e di tutto il suo clan, in un continuo torneo nel quale «consumazione e distruzione sono veramente senza limiti. In certi potlàc bisogna dare tutto ciò che si possiede, senza conservare niente. Si gareggia nel dimostrarsi i più ricchi e i più follemente prodighi»[12].

Il potlatch in dettaglio

A questo punto, Mauss approfondisce le motivazioni del rituale ed elenca le strutture comunitarie coinvolte. Il potlatch è una cerimonia religiosa, in quanto vengono rappresentati gli dèi e gli antenati attraverso danze e rituali sciamanistici, detiene inoltre un carattere economico, poiché possiamo osservare transazioni di beni di valore anche molto elevato, e costituisce infine un’istituzione di morfologia collettiva, perché i vari gruppi hanno la possibilità di incontrarsi ed esprimere i propri organismi sociali.

L’autore legge poi i dati sul potlatch attraverso la catena “dare, ricevere, ricambiare”, collegandola a tale fenomeno punto per punto.

«L’obbligo di dare è l’essenza del “potlàc”»[13]. Il primo dovere impone a un capo di organizzare questa competizione, sia per i vivi che per i morti, per conservare il proprio rango nella comunità, il suo “blasone”. Invitando gli avversari alla sfida, un leader dimostra la propria forza, in virtù del fatto che «il potlàc, la distribuzione dei beni, è l’atto fondamentale del “riconoscimento” militare, giuridico, economico, religioso»[14]; se un capo non allestisce delle lotte cerimoniali perde il proprio prestigio, l’autorità e l’onore di fronte al suo clan e a quelli rivali. Assumersi questa responsabilità è tassativo: un leader deve invitare gli avversari e dimostrare la propria ricchezza, distribuendola o distruggendola, per elevare la tribù e umiliare i contendenti, «mettendoli all’“ombra del suo nome”»[15]. Se non organizza tali manifestazioni di superiorità, dunque, rischia di perdere tutto ciò che possiede e di non essere riconosciuto all’interno e all’esterno del proprio clan. Mauss racconta che «di uno dei grandi capi mitici, che non usava dare potlàc, si dice che aveva la “faccia marcia”»[16], e precisa che «nel Nord-ovest americano, […], perdere il prestigio è proprio come perdere l’anima: ciò che veramente viene messo in gioco, ciò che si perde al potlàc, o al gioco dei doni, così come in guerra o per una colpa rituale, è la “faccia”, la maschera di danza, il diritto di incarnare uno spirito, di portare un blasone, un totem, è la persona»[17].

«L’obbligo di ricevere non è meno forte. Non si ha il diritto di respingere un dono, di rifiutare il potlàc»[18]. Il secondo anello della catena impone al donatario di accettare l’invito, di partecipare alla gara; una rinuncia dimostrerebbe timore, sottomissione e povertà, ovvero non possedere ricchezze sufficienti per poter entrare nel gioco dei doni. Un rifiuto equivale quindi a una sconfitta totale, con la grave conseguenza di perdere il proprio nome e il proprio potere. Un caso particolare prevede la possibilità per un capo di ricusare un invito senza le pesanti ripercussioni sociali descritte: nel caso in cui abbia offerto, in passato, dei potlatch dai quali ne è uscito vincitore. Tuttavia, tale rinuncia è solo temporanea, in quanto l’individuo che attua questa scelta è comunque obbligato a organizzare feste più ricche di quella che ha respinto.

«L’obbligo di ricambiare è tutto il “potlàc” nella misura in cui non consiste in una mera distruzione»[19]. Il terzo momento chiude il cerchio. Mauss riporta che il potlatch deve essere ricambiato a usura, secondo un tasso di interesse che può raggiungere il 100%. Se un capo non può contraccambiare perde non solo la propria autorità ma anche lo status di uomo libero, poiché «la sanzione dell’obbligo di ricambiare è la schiavitù per debiti»[20].

IL WELFARE SOCIALE COME DONO: UNA CRITICA ALL’HOMO OECONOMICUS

La parte finale del Saggio sul dono si apre con questo ragionamento: «le osservazioni che precedono possono essere estese alle nostre società»[21]; la sezione conclusiva dell’opera è infatti incentrata sull’analisi delle dinamiche di dono all’interno della cultura europea moderna. Secondo Mauss, «una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme, della libertà»[22]; non tutto, pertanto, è ridotto ai soli termini del mercato economico: egli crede che «le cose hanno ancora un valore sentimentale oltre al loro valore venale»[23].

L’autore era socialista e osserva con gioia la realizzazione di ciò che chiama «socialismo di Stato»[24]. Esamina come l’istituzione governativa si prenda cura dei bisogni del lavoratore, spiegando anche questo passaggio storico in un’ottica di dono; infatti, poiché il dipendente, attraverso la propria fatica, ha offerto sé stesso alla comunità e al suo datore di lavoro, è dovere dello Stato ricambiare, in quanto moralmente in debito verso il proprio occupato, attraverso la concessione di «una certa sicurezza durante la vita contro la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la morte»[25].

Dal punto di vista economico, Mauss riflette inoltre su come il dono sia molto diverso dall’utilitarismo, in quanto ciò che in una comunità è davvero importante non si lascia inquadrare nelle astrazioni e nei calcoli degli economisti. Per esempio, nelle culture indigene studiate nel Saggio esistono sicuramente concetti come quello di valore e di bene prestigioso, ma tali denominazioni non hanno alcuna affinità col sistema di mercato occidentale; oltre a ciò, presso queste popolazioni la circolazione dei beni è legata all’aspetto religioso e mitologico, peculiarità assenti nel nostro sistema di mercato. La polemica di Mauss si concentra così contro l’economicismo che vuole inglobare la totalità del reale. Le considerazioni sul dono e sulle società indigene mostrano l’impossibilità di questo progetto totalizzante: «a più riprese, si è visto quanto il sistema economico dello scambio-dono fosse lontano dal rientrare nel quadro dell’economia cosiddetta naturale, dell’utilitarismo»[26]. L’essere umano come “animale economico” sarebbe una costruzione recente ancora non totalmente realizzata, e lo stesso autore scrive che «l’homo oeconomicus non si trova dietro di noi, ma davanti a noi»[27], aggiungendo che «l’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice»[28].

In conclusione, secondo Mauss il dono rappresenta il fondamento sociale primitivo, poiché rendeva possibile lo scambio e la reciprocità prima ancora che potesse esistere il mercato propriamente detto; inoltre, il dono è quel fenomeno che, in virtù della sua capacità di instaurare legami, ha permesso di creare delle società pacifiche ed equilibrate, dove si è potuto deporre le armi e avviare processi commerciali, generando così ricchezza e benessere. Mauss ritiene infatti che «le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti, donare, ricevere e, infine, ricambiare.

Per potere commerciare, è stato necessario, innanzitutto, deporre le lance.

Solo allora è stato possibile scambiare i beni e le persone, non più soltanto da clan a clan, ma anche fra tribù e tribù, fra nazione e nazione e – soprattutto – fra individui e individui»[29].

 

 

BIBLIOGRAFIA

– Mauss, M., Essais sur le don, Paris, PUF, 1950. Trad. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. di Franco Zannino, intr. di Marco Aime, Torino, Einaudi, 2002.

 

PER APPROFONDIRE

– Boas, F., The Social Organization and the Secret Societies of the Kwakiutl Indians, Washington, US National Museum, 1897. Trad. it. L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl, trad. di Christina Scarmato, pref. e cura di Enrico Comba, Roma, Centro Informazione Stampa Universitaria (CISU), 2001.

 

NOTE

[1] Marcel Mauss, Saggio sul dono, trad. it., Torino, Einaudi, 2002, p. 5.

[2] Rivista di sociologia fondata da Émile Durkheim (1858-1917), zio di Mauss e anch’egli sociologo.

[3] Edda, canti dell' nell'Enciclopedia Treccani - Treccani - Treccani

[4] Marcel Mauss, op. cit., p. 4.

[5] Ivi, p. 5.

[6] Ivi, p. 10. Corsivi dell’autore.

[7] Ivi, p. 13. Corsivi dell’autore.

[8] Ivi, p. 15.

[9] Ivi, p. 16.

[10] Ivi, p. 17.

[11] Ivi, p. 44.

[12] Ivi, p. 45. Corsivo dell’autore.

[13] Ivi, p. 48. Corsivi dell’autore.

[14] Ivi, p. 50. Corsivo dell’autore.

[15] Ivi, p. 48.

[16] Ibidem. Corsivo dell’autore.

[17] Ibidem. Corsivi dell’autore.

[18] Ivi, p. 50. Corsivi dell’autore.

[19] Ivi, p. 51. Corsivi dell’autore.

[20] Ivi, p. 52.

[21] Ivi, p. 80.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 83.

[25] Ibidem.

[26] Ivi, p. 88.

[27] Ivi, p. 94. Corsivi dell’autore.

[28] Ivi, p. 95.

[29] Ivi, p. 102.