La maggior parte degli articoli scritti sull’argomento “Intelligenza Artificiale e Arte”, compresi quelli di questa rivista, suonano ottimisti. Il loro pathos si riduce all’idea che l’intelligenza artificiale sostituisca il creatore umano solo nei livelli inferiori e tecnici del processo creativo, ma che l’uomo mantenga la funzione di operatore: è lui a impostare gli algoritmi secondo i quali l’IA opera, e quindi conserva lo status di soggetto del processo creativo.
Tuttavia, questa conclusione è ingannevole: i praticanti e i teorici dell’arte che vi aderiscono sono, consapevolmente o meno, vittime di un’autoillusione, e vi sono alcuni argomenti che lo confermano.
Già nel 1992, Neil Postman scriveva che le tecnologie non sono neutrali, esse cambiano chi le utilizza, e nella fase attuale, che Postman definisce “tecnocrazia”, le tecnologie si sono trasformate in un sistema che ha sottomesso tutte le altre aree della cultura. Yanis Varoufakis richiama l’attenzione su questo schema in relazione all’uso dell’IA nell’economia: l’IA “cloud” non produce nulla, controlla solo il comportamento umano, spingendo le persone ad acquistare ciò che l’algoritmo suggerisce. Nelle impostazioni di base dell’IA, indipendentemente dall’ambito in cui viene usata, l’obiettivo principale incorporato è vendere (beni, idee, storie, pensieri), manipolando la coscienza adulando gli utenti. Usando l’IA anche nelle operazioni più semplici, la persona cede gradualmente le proprie posizioni, cominciando ad agire secondo l’algoritmo dato e perdendo progressivamente la propria soggettività. Da gestore si trasforma in controllato, da soggetto diventa oggetto di un processo che non è più regolato da lui. Negli ultimi anni, Hollywood è stata scossa da proteste da parte degli sceneggiatori, il cui lavoro è stato massicciamente sostituito dai prodotti dell’IA. Le ragioni della protesta non sono solo la perdita del lavoro e, di conseguenza, del reddito, ma anche l’eccessiva qualità delle sceneggiature scritte dall’IA. Il regista Todd Haynes afferma che le storie create dalla rete neurale sono troppo levigate, prive di errori, imprevedibilità, incoerenze, cioè prive della vita stessa. E la cosa peggiore, secondo lui, è che gli stessi sceneggiatori hanno iniziato a scrivere storie altrettanto “senza vita”, come se fossero create da un’IA.
L’intelligenza artificiale, in qualsiasi forma e volume di utilizzo, è controindicata per l’arte, perché con la sua illimitata capacità di imitazione si oppone all’essenza stessa dell’arte, sia dal punto di vista del processo creativo che dal punto di vista della percezione. Prima di tutto, la rete neurale rompe l’unità di corpo, anima e mente (l’entelechia di Aristotele), che è la base di qualsiasi arte: i primi due componenti di questa triade non sono rilevanti per l’IA. Pertanto, l’IA non ha e non può avere emozioni: può solo imitarle. L’interazione di mente, sentimento e corpo crea una polisemia intrinseca, che è uno dei criteri più importanti del valore artistico di un’opera d’arte. Più un testo – nel senso ampio del termine – è polisemico, più è aperto a interpretazioni, più è significativo, più è importante per l’umanità. Qualunque cosa crei l’IA, per quanto tecnicamente complessa possa essere, è semplice nel contenuto, o meglio, primitiva, unilineare e non implica alcuna interpretazione. Queste sono solo alcune delle differenze fondamentali tra la vera arte e l’arte creata dall’IA. La questione di come far sì che le persone apprezzino un’arte che non è arte è l’argomento di questo articolo.
La storia della cultura ha stabilito il seguente schema costante: per l’introduzione ampia e universale di nuove tecnologie che cambiano significativamente il mondo, non è necessaria innanzitutto la corrispondente evoluzione tecnica, ma piuttosto la disponibilità della coscienza collettiva ad accettarle. In altre parole, i cambiamenti nella coscienza precedono la diffusione capillare delle tecnologie. I cambiamenti di coscienza che si muovono verso l’IA sono iniziati con la nascita della cultura di massa e di tutti i suoi attributi. Il primo di questi è la semplificazione delle idee e delle forme, che porta a un vuoto concettuale. Generi semplici, come la canzone, la danza o il disegno a matita, non sono necessariamente legati a contenuti primitivi (e viceversa). Ma nella cultura di massa diventano un percorso verso pensieri e sentimenti superficiali, che non richiedono alcun lavoro interiore per essere compresi e vissuti. Il successo facile e rapido in ogni cosa è uno degli slogan principali della cultura di massa, e questo vale anche per l’arte. Al posto del lavoro mentale su significati e interpretazioni – rilassamento nel consumo di soluzioni già pronte; al posto della catarsi che sconvolge l’anima – piacere facile e intrattenimento. I sentimenti e i pensieri evocati dall’arte di massa sono standardizzati e superficiali, come scriveva J. Ortega y Gasset: “l’uomo-massa rivendica il diritto alla mediocrità.” Un altro attributo è la replicabilità, con lo scopo di rendere fisicamente disponibile l’arte a tutti, il che in realtà porta a sfumare la distinzione tra originale e copia. Oggi, l’IA può generare qualsiasi immagine esteriormente indistinguibile dall’originale realizzato dal più brillante degli artisti, e per rendere il prodotto di una rete neurale legittimo quanto l’opera originale, è necessario delegittimare e poi distruggere fisicamente le differenze tra i due: se non possiamo distinguere un dipinto di Leonardo da uno disegnato da una rete neurale, allora perché dovremmo aver bisogno di Leonardo? Distruggere il criterio con cui il reale si distingue dal falso è la strategia principale per abituare le persone all’IA.
Ma se ciò è facile da fare nella cultura pop, l’arte classica sembra rappresentare un serio ostacolo su questa strada, e sono state sviluppate strategie speciali contro di essa. Spiegherò il mio punto con un esempio. Negli ultimi decenni, la musica accademica europea è stata investita dalla moda della cosiddetta “regia d’opera” – allestimenti liberi di opere classiche che impongono trame che non hanno nulla a che vedere con la fonte originale. Ci sono moltissimi esempi: i registi di tutti i teatri d’opera del mondo competono nel mostrare la loro immaginazione. Ne cito uno: la produzione del Parsifal di R. Wagner da parte del regista alla moda C. Serebrennikov all’Opera di Vienna, dove sul palco viene mostrato il GULAG accompagnato dalla musica del grande compositore tedesco. Ricordo che la trama di quest’opera, come di molte altre di Wagner, si basa sull’epica medievale tedesca e che la partitura dell’opera è un complesso lavoro sinfonico con un vasto sistema di leitmotiv e una drammaturgia musicale intricata, attraverso cui si rivelano le idee di Wagner. Mettere in scena un’opera – qualsiasi opera, e in particolare un’opera wagneriana – significa decifrare la partitura musicale, ma il regista Serebrennikov (come la stragrande maggioranza dei registi moderni) non ha una formazione musicale. In questo spettacolo egli adula il pubblico: invece di cercare di comprendere i leitmotiv, di seguire il movimento dei simboli musicali, di approfondire la filosofia di Wagner, il pubblico viene intrattenuto da scene di GULAG – è così di moda, “spiega” direttamente ciò di cui Wagner parlava! È evidente l’introduzione di attributi della cultura di massa nell’arte classica, la vendita del primitivo sotto la veste del complesso.
Così, al posto dell’arte, compaiono simulacri di arte, simili nell’aspetto ma opposti nell’essenza. Vediamo la stessa situazione non solo nell’arte, ma anche in altri ambiti della nostra vita. Viviamo già in un mondo di simulacri totali, senza la possibilità di correlazione con l’autentico, perché la rete neurale può generare qualsiasi “prova” per i falsi diffusi dai media. Perciò non sappiamo chi sia l’aggressore e chi la vittima nella politica internazionale, non sappiamo chi sia il vincitore e chi lo sconfitto nella storia passata, talvolta non sappiamo neppure chi sia un uomo e chi una donna, e infine non sappiamo chi siamo. Per manipolare la coscienza collettiva, imponendole qualsiasi fantasma sotto le sembianze della verità, è necessario distruggere l’idea stessa di verità nella coscienza e sostituirla con un simulacro, e l’unico modo per farlo è cancellare i criteri di distinzione tra il simulacro e l’originale. Non è forse questo ciò di cui scriveva J.W. Goethe nel Faust?
Ma dove tutti sono orgogliosi della depravazione,
Mescolando i concetti,
L’onesto sarà colpevole,
E il colpevole avrà ragione.
Nulla era più sacro.
Ognuno è disperso e si divide.
Le fondamenta vengono scosse,
Quelle che crearono ogni cosa.
Sicuramente molti diranno che, sullo sfondo dei problemi globali moderni, la distinzione tra arte reale e arte finta non è così importante. Non posso essere d’accordo, perché l’arte riflette in forma concentrata tutti i problemi del nostro mondo: l’arte è la principale fonte per mantenere l’identità e l’integrità dell’essere umano. Nel 1986, il grande regista sovietico Georgij Danelija realizzò la profetica distopia Kin-dza-dza. Essa mostra una società incredibilmente avanzata dal punto di vista tecnico, su un pianeta lontano, dove le persone volano liberamente tra le galassie, hanno armi sofisticate, leggono i pensieri altrui e comprendono qualsiasi lingua senza interprete. Ma le loro vite sono terribili, il loro mondo interiore è orribilmente primitivo, il pianeta è diventato un deserto senza acqua e aria, e la regola principale della società è che l’uomo è nemico dell’altro uomo. Tutto perché sul pianeta non esiste arte né alcunché legato all’estetica: le persone hanno perso la capacità di apprezzare e produrre una vera bellezza umana, e ciò ha trasformato le loro vite in un simulacro di vita, e loro stessi in simulacri di persone. Più introduciamo l’IA nell’arte, più ci avviciniamo alla civiltà di Kin-dza-dza.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
- Postman, Neil. Technopoly: The Surrender of Culture to Technology. New York: Vintage Books, 1993
- Rottenberg, Josh. Hollywood’s being reshaped by generative AI. What does it mean for screenwriters? // Los Angeles Times, July, 17, 2025.
- Varoufakis Yanis. Technofeudalism: What Killed Capitalism, Bodley Head UK, 2023
Autore
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PhD, professore Associato, laureata al Conservatorio di Mosca con specializzazione in Estetica, ha insegnato al Conservatorio di Mosca, all'Università Internazionale di Mosca e all'Università Statale Sociale Russa. La sua dissertazione tratta delle strutture spazio-temporali e della sintesi nelle arti multimediali. Si interessa anche dei problemi della cultura moderna, della teoria e della storia dell'arte, della filosofia della creatività. Ha pubblicato in riviste internazionali e ha parlato a conferenze scientifiche internazionali.
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