Come molti sanno, l’ipotesi Gaia è stata formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979, nel libro Gaia. A New Look at Life on Earth e co-sviluppata dalla microbiologa Lynn Margulis negli anni Settanta. Da quel libro sono nate moltissime riflessioni, anche nella sociologia della scienza.
GAIA: NON (SOLO) UN FATTO SCIENTIFICO, MA UN MODO DI IMPARARE A SENTIRE
Quando Lovelock propose l’ipotesi di Gaia, descrisse la Terra come un sistema vivente e autoregolativo: non un organismo unico, ma una rete di processi interdipendenti – oceani, atmosfera, suoli, specie viventi – che si influenzano a vicenda mantenendo condizioni favorevoli alla vita. Gaia, dunque, non è una divinità o un’entità mistica: è una maniera scientifica per dire che il pianeta risponde, reagisce, cambia insieme alle nostre azioni.
Bruno Latour (2014) riprende questo concetto, ma gli dà una torsione decisiva. Per lui il problema non è capire che cosa sia Gaia, ma come impariamo a percepirla. Non basta accumulare dati, grafici o modelli climatici per farci sentire la Terra come un attore con cui siamo in relazione. Gaia, dice Latour, non entra nel mondo attraverso la conoscenza meramente “scientifica”; entra quando diventiamo sensibili ai suoi segnali. E diventare sensibili non è un fatto automatico: è un apprendimento.
Latour parte da una domanda semplice: «Come diventiamo sensibili?» In altre parole: cosa ci fa accorgere che il mondo sta cambiando? Cosa ci fa sentire il ritorno delle nostre azioni sull’ambiente? La risposta è che i dati non bastano. Servono, ma non producono sensibilità da soli. Possiamo conoscere il riscaldamento globale senza percepirlo; sapere tutto delle emissioni senza sentire alcun coinvolgimento morale. Gaia allora non è – o non dovrebbe essere – un’idea astratta: è il nome che diamo a questo nuovo tipo di sensibilità verso il pianeta. È l’esperienza del “feedback” della Terra sulle nostre azioni.
SENZA ESTETICA NON C’È ECOLOGIA: PERCHÉ I DATI NON BASTANO
Qui entra in gioco l’estetica, nel senso originario del termine: aesthesis significa “percepire attraverso i sensi” e “rendere sensibile”. Per questo Latour (2014) rifiuta la separazione rigida tra scienza e arte. Gaia passa attraverso studi geologici e climatici, certo, ma anche attraverso romanzi, film, fotografie, metafore, immagini speculative. Tutto ciò che ci permette di percepire segnali minimi – un cambiamento nella qualità dell’aria, una siccità, una stagione fuori tempo, un paesaggio che non riconosciamo – e di collegarli tra loro, diventa una forma estetica che permette di percepire Gaia.
Anche Timothy Morton, uno dei teorici più radicali dell’ecologia contemporanea, insiste sullo stesso punto: la sensibilità ecologica non cambia semplicemente aggiungendo informazioni. In Hyperobjects (2013) e poi in Being Ecological (2018), Morton si lamenta apertamente del fatto che la crisi climatica continui a essere raccontata come un problema di più dati, più grafici, più evidenze, sottolineando che abbiamo già avuto mezzo secolo di informazioni sempre più precise senza che questo abbia modificato la nostra relazione con il pianeta. Conoscere non significa sentire.
Per Morton, il problema è esattamente quello che Latour vede in Gaia: l’assenza di un vero lavoro estetico, cioè di un cambiamento nella nostra capacità di percepire ciò che accade. I dati, da soli, possono descrivere la temperatura media globale, ma non aprono automaticamente uno spazio affettivo, immaginativo o etico capace di trasformare la nostra attenzione. Il rischio, dice Morton, è che il sovraccarico di informazioni produca l’effetto opposto: una sorta di torpore, una distanza anestetica che ci fa guardare la crisi climatica come un fenomeno astratto.
Questa critica rafforza l’idea che Gaia non sia solo un concetto scientifico, ma una questione di arte e di politica – o di “arte politica”. Per questo la sensibilizzazione a Gaia è un processo collettivo. Si costruisce nelle famiglie, nelle scuole, nelle discussioni quotidiane, ma soprattutto negli spazi della società civile: associazioni, movimenti, gruppi locali, comunità che sperimentano nuovi modi di stare a contatto con i problemi. Sono quelle che Kosnoski (2005) chiama “enclavi estetiche” (aesthetic enclaves): luoghi dove si impara a sentire insieme, a dialogare, a trasformare il nostro modo di preoccuparci per qualcosa.
QUANDO L’“AMBIENTALISMO SCIENTIFICO” ANESTETIZZA INVECE DI SENSIBILIZZARE
Negli anni Ottanta e Novanta molte organizzazioni ambientaliste costruivano il proprio messaggio sull’idea di “ambientalismo scientifico”: più dati, più misurazioni, più evidenze. Era una strategia comprensibile, nata nel tentativo di mostrare che i problemi ecologici non erano opinioni, ma fatti. L’intenzione era nobile: rendere oggettivo l’allarme climatico. Ma questa impostazione, centrata quasi esclusivamente sulle evidenze, ha prodotto un effetto collaterale imprevisto: una sorta di anestesia percettiva.
Con l’accumulo continuo di grafici, curve della CO₂, report sempre più tecnici, il rischio è stato quello di ridurre la crisi ecologica a un problema di calcolo, depurandola delle dimensioni affettive, morali, immaginative che permettono alle persone di sentirsi coinvolte. L’idea che “la scienza parlerà da sola” ha finito per lasciare “senza voce” i problemi ecologici. E infatti i dati, presi da soli, non convincono nessun climascettico: chi non vuole sentire, non sente nemmeno di fronte a migliaia di pagine dell’IPCC. Non perché i dati siano sbagliati, ma perché la sensibilità non si modifica per la mera accumulazione di informazioni.
L’ambientalismo scientifico, nel suo insistere sulla neutralità dei fatti, ha spesso trascurato il lavoro estetico necessario a trasformare la percezione. Questa stagione dell’ambientalismo “tecnico” mostra che la questione ecologica non è una questione di quantità di dati, ma di qualità dell’attenzione. Non basta mostrare: bisogna rendere sensibili. Senza questo passaggio, la scienza rimane un rumore di fondo, incapace di attivare responsabilità, immaginazione o cura. È proprio qui che Gaia, come figura estetica e sensoriale, offre un’alternativa: non un mondo da “dimostrare”, ma un mondo che si impara a sentire.
CONCLUSIONE: GAIA COME ARTE POLITICA
Se Gaia non è qualcosa da conoscere di più, ma qualcosa da percepire meglio, allora la sfida che abbiamo davanti non riguarda l’informazione, ma la risposta. La sensibilità a Gaia non nasce nei laboratori o nei report, ma nelle forme di vita che rendono possibile quell’attenzione condivisa che il solo sapere non produce. È in questo spazio intermedio – tra percezione, immaginazione e pratica – che la questione ecologica diventa veramente politica: perché ci chiede non soltanto di capire il mondo, ma di imparare a rispondergli.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Kosnoski, J. (2005). John Dewey’s Social Aesthetics. Polity, 37(2), 193–215.
Latour, B. (2014). Sensitizing. In C. Jones (Ed.), Experience: Culture, Cognition, and the Common Sense (pp. 315–338). Cambridge, MA: MIT Press.
Lovelock, J. E. (1979). Gaia: A New Look at Life on Earth. Oxford: Oxford University Press.
Morton, T. (2013). Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World. Minneapolis: University of Minnesota Press.
Morton, T. (2018). Being Ecological. Cambridge, MA: MIT Press.
Autore
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Assegnista di ricerca in sociologia presso il Dipartimento di Filosofia "Piero Martinetti" dell'Università Statale di Milano. I suoi studi si concentrano sulla sociologia delle emozioni, l’etica della cura e i processi di politicizzazione della vita civica.
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