A maggio di quest’anno è uscito un libro, Oltre la tecnofobia, Il digitale dalle neuroscienze all’educazione di Vittorio Gallese, Stefano Moriggi, Pier Cesare Rivoltella, che – dichiaratamente, fin dal titolo – intende proporre una visione in controtendenza rispetto alla tecnofobia che sta dilagando tra media, common sense, e riflessioni accademiche.
Abbiamo accolto con grande interesse la riflessione critica, acuta e articolata, di Simone Lanza che, con il pretesto di confrontarsi con le tesi degli autori, costruisce un ragionamento parallelo su tematiche quali la metafora del cervello come computer, l’identità di rappresentazione dei mondi analogico e digitale, e il presunto autoritarismo celato da divieti e restrizioni dell’uso delle tecnologie digitali a bambini e ragazzi.
In questo primo articolo presentiamo la sintesi della recensione del libro; nei successivi tre seguiremo il ragionamento analitico di Simone Lanza.
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Il saggio di Vittorio Gallese, Stefano Moriggi, Pier Cesare Rivoltella si scaglia contro la tecnofobia, figlia di una lunga tradizione storica che ha visto demonizzare ogni rivoluzione tecnologica “dall’invenzione del fuoco agli smartphone” (p.22), dalla scrittura alfabetica alla fotografia, dal cinema alla televisione, fino all’attuale panico morale. Gli autori si adoperano a smontare con vigore le tesi di Jonathan Haidt (La generazione ansiosa), secondo cui i giovani sarebbero vittime passive di tecnologie portatrici di ansie sociali; a loro avviso, il vero problema non è il digitale ma la paura culturalmente costruita che lo circonda, una nostalgia reazionaria per un passato idealizzato, sostenuta da divieti inefficaci e da un’autorappresentazione sociale che colpevolizza le nuove generazioni.
Il limite più rilevante del saggio è che, credendo di criticare la diffusione della tecnofobia, non analizza il mondo odierno, ben plasmato in profondità dalle piattaforme digitali, che invece mettono a valore le paure sociali, che sono la leva e non la resistenza alla diffusione di massa di queste tecnologie. Il libro, soprattutto, fa un pessimo uso delle sue tre fonti principali chiamate a corroborare l’impostazione teorica: Walter Benjamin, Bernard Stiegler, Paulo Freire. Se quindi in questa recensione si darà eccessivo spazio a questi testi non è tanto per restituire alle tre fonti la loro forza critica, completamente rimossa nel libro in questione, quanto perché questa operazione consolida, con il linguaggio scientifico, una serie di luoghi comuni, che qui si intendono invece sottoporre a critica. Presenterò subito i contenuti.
Nella prima parte (gnoseologica), ispirata alle ricerche delle neuroscienze, gli autori demoliscono la metafora del cervello come computer. L’essere umano è dotato di intersoggettività corporea e i neuroni motori si attivano anche nella percezione di stimoli visivi o tattili senza produrre movimento effettivo. Questa simulazione motoria dimostrerebbe che “i meccanismi cervello-corpo che consentono la nostra relazione fisica e diretta con il mondo (…) e quelli che intervengono nel mondo – analogico e digitale – con cui rappresentiamo il mondo con storie e immagini, sono molto simili” (p.37). Non esiste così una differenza qualitativa o ontologica nel modo in cui “rappresentiamo” (p.41) il mondo perché il primo medium sarebbe il corpo (p.21). Il riferimento principe della prima parte è al filosofo Walter Benjamin, primo critico ad avere compreso che i media trasformano la stessa percezione dell’esperienza del mondo reale. Ne L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica sostiene che i media (essenzialmente fotografia e cinema) hanno cambiato il modo di percepire il reale.[1] Sulla confusione tra esperienza di mondo di Benjamin con la rappresentazione del mondo si tornerà più avanti, perché questa confusione permette di sovrapporre la rappresentazione del mondo analogico a quella digitale, perdendo di vista la dimensione esperienziale del mondo reale, di cui il virtuale è solo una parte.
Nella seconda parte (ontologica) si sostiene la tesi che l’indistinzione percettiva sia anche costitutiva del reale, cioè che virtuale e reale siano sovrapponibili. Un’idea dura a morire per la resistenza del buon senso umanista a cui i nostri autori contrappongono le tesi del filosofo Bernard Stiegler, per il quale la tecnologia non è esterna all’umano, perché l’evoluzione umana è “tecnologico-umana” (p.23). A ulteriore conferma portano una tesi di Debord riproposta in modo forse impreciso: “tutto ciò che un tempo veniva vissuto direttamente è ora semplicemente rappresentato a distanza (sic).” (p.43). Secondo me, la traduzione corretta è “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Che poi è proprio ciò che i nostri autori non vogliono capire: lo schermo trasforma (e allontana) il vissuto in rappresentazione, come si vedrà più avanti.[2] In ogni caso la loro argomentazione è che la contrapposizione tra umano e tecnologia sia sterile, storicamente infondata e filosoficamente inadeguata, seguendo le tesi del filosofo francese Bernard Stiegler, in Italia sicuramente non abbastanza riconosciuto. Stiegler elabora da Derrida la nozione di tecnica come pharmakon (veleno e farmaco insieme): come la scrittura per Platone così anche il digitale è intrinsecamente ambiguo potendo avvelenare o curare a seconda della dose.
Questa prospettiva smaschererebbe la tecnofobia umanista, radicata al contrario in una nostalgia metafisica che contrappone artificiosamente l’uomo alla macchina, il naturale al tecnologico. Da questa prospettiva teorica, per altro assolutamente condivisibile, anche alla luce del dibattito filosofico in corso sul post-umano (dibattito non menzionato), si passa però velocemente a polemizzare con le soluzioni di “buon senso” derivate da questa visione semplicista: ecco che il concetto di “benessere digitale” è una trappola che scarica sulle macchine responsabilità umane, mentre i divieti (come gli smartphone vietati sotto i 14 anni, le circolari del Ministero, etc…) ignorano la complessità del rapporto coevolutivo tra essere umano e tecnica. Qui gli autori si buttano nelle braccia dello psicologo Matteo Lancini: per gli adolescenti in ritiro sociale (hikikomori), i media digitali non sarebbero la causa del male, ma il farmaco che evita esiti psicotici, permettendo loro di restare agganciati al mondo. Viviamo ormai in una realtà onlife, dove ogni distinzione tra on line e off line sarebbe obsoleta. Gli autori ci invitano ad “abitare farmacologicamente (e dunque consapevolmente) la catastrofe” (p.107): riconoscere le tossicità del digitale senza rinunciare alle sue potenzialità curative. Questa parte teorizza l’inseparabilità di umano e tecnologico deducendone la polemica contro il buon senso umanista sulle misure da prendere per gli abusi degli smartphone in età adolescenziale. Da un lato polemizzano contro le misure di buon senso dall’altro si limitano a segnalare solo alcune storture delle tecnologie informatiche nominando essenzialmente i rischi dei deepfake e della disinformazione delle fake news che viaggiano più veloci delle notizie vere. Gli autori sono fermamente convinti che “l’avvento dei media digitali ha democratizzato l’accesso alle informazioni” (p. 56) e che “l’ascesa delle piattaforme sociali ha permesso ai politici di interagire direttamente [sic] con gli elettori” (p.57): convinzione quest’ultima che forse alla fine del XX secolo poteva essere anche condivisibile, ma che dopo la Brexit e il ruolo di Cambridge Analytica, per non parlare della fine di ogni regolamentazione avanzata da Trump, suona quanto meno goffa, se non persino collusa.
La critica si fa totalmente pedagogica nella terza parte, dove ogni suggerimento pratico volto a limitare l’uso delle tecnologie è definito autoritario. Per questa operazione si scomoda il pedagogista Paulo Freire citandolo in esergo e avvalendosene nell’argomentazione: secondo gli autori i divieti inibiscono la capacità critica e deresponsabilizzano gli adulti e chi si vuole educare. Portano l’esempio di genitori cattivi che negano le carte Pokémon ai propri figli, i quali finiscono però per riceverle dai loro pari per una sorta di giustizia compensativa, traendo questa conclusione: “i divieti non reggono all’urto dei gruppi di pari” (p.144). L’ansia di controllo – già evidente in Platone con la sua diffidenza verso la scrittura – sarebbe il vero male: vietare informazioni ai minori è un modello fallimentare, poiché il gruppo dei pari compensa sempre le privazioni. Qui proprio gli autori abbracciano una posizione molto netta: “ogni scelta di protezione [sic] o di divieto, in senso proprio, non è educativa” (p.147). Anche qui mi sia lecito approfondire la questione per capire come Freire la pensasse davvero, ma soprattutto se l’antiautoritarismo non sia oggi qualcosa che potremmo ritenere inadeguato nonché anche abbondantemente superato dai dibattiti pedagogici contemporanei sulla crisi dell’autorità genitoriale.
Questo libro ci dà l’occasione per criticare sette luoghi comuni di cui questo manifesto “tecno-ottimista” sarebbe la versione “scientifica”. Lo sforzo dei nostri autori consiste nel convincere che ciò che viene vissuto sia sostanzialmente identico a ciò che viene rappresentato a distanza: stare tutto il giorno davanti a uno schermo sarebbe la stessa cosa che fare esperienze nel mondo reale, a due anni come a novanta, senza curarsi di dire qualcosa di critico sul fatto che ciò che passa oggi attraverso lo schermo è selezionato e personalizzato da algoritmi progettati da un pugno di miliardari che stanno aumentando le loro ricchezze e che non hanno alcuna finalità pedagogica se non quella di modellare i comportamenti di miliardi di persone.
NOTE
[1] Gallese aveva già ampiamente sviluppato queste tesi con M. Guerra in Lo Schermo Empatico. Cinema e Neuroscienze, Milano 2015. Su Walter Benjamin cf. anche: V. Gallese, Digital visions: the experience of self and others in the age of the digital revolution, in “International Review of Psychiatry”, n. 36, 2024, pp. 656–666. Per una ricostruzione analitica di Benjamin mi sia consentito rimandare a: S. Lanza, L’educazione nell’epoca della riproducibilità tecnica. note su Walter Benjamin, in “Quaderni Materialistici”, n. 23, 2024, pp. 155-176
[2] La traduzione della Società dello spettacolo proposta autonomamente dai nostri autori è quanto meno discutibile: meglio sarebbe stato conservare la traduzione dal francese di Stanziale “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione [c’est éloigné dans une raprésentation]”. La traduzione di questo passaggio diventa pertanto proprio il tradimento proprio di ciò che Debord denuncia: con la società capitalistica l’esperienza vissuta viene mercificata e sostituita da una rappresentazione, spettacolo è quindi “il movimento autonomo del non-vivente”, etc.… proprio perché Debord auspicava una società diversa capace di usare in modo migliore le tecnologie.
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