Neuroscienze e giudizio morale - Emozione e razionalità appartengono a sistemi distinti?

L’oggetto di questa controversia è il modello di funzionamento dei correlati neurali dei giudizi morali.

Nell’ambito delle neuroscienze (vedi i due articoli precedenti: Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontro con le neuroscienze e Incontri con le scienze empiriche) sono stati fatti numerosi studi che si appoggiano alle tecniche di neuroimaging funzionale, seguendo tre filoni principali di lavoro:

  1. Lo studio di pazienti con danni o lesioni cerebrali e pazienti con patologie psichiatriche (“Bad brains”, Greene 2014a, 2020);
  2. L’analisi della valutazione morale di certi atti o situazioni da parte di individui sani (“Good brains”, ibid.);
  3. Lo studio delle modificazioni cerebrali durante la valutazione di dilemmi morali come il Trolley dilemma, il Footbridge dilemma e il Crying Baby dilemma.

 


Per contestualizzare meglio, ecco qualche definizione e informazione sugli studi con pazienti con lesioni cerebrali e sui tre principali dilemmi morali:

PAZIENTI CON LESIONI CEREBRALI

Le ricerche su pazienti con lesioni cerebrali o patologie psichiatriche offrono dati interessanti per l’indagine sul coinvolgimento di determinate aree del cervello nella realizzazione di varie funzioni cognitive.

Qualsiasi studio relativo a pazienti con lesioni cerebrali connesse alla sfera del comportamento sociale non può non fare riferimento al lavoro di Antonio Damasio. La sua prima opera divulgativa, “L’errore di Cartesio” (1994), è un’esposizione delle ricerche sull’emozione a livello cerebrale e le loro implicazioni in ambito decisionale, soprattutto nella sfera del comportamento sociale. Tali ricerche hanno preso avvio dall’osservazione di soggetti con lesioni alla corteccia prefrontale ventromediale, i quali mostrano un comportamento atipico soprattutto in relazione al giudizio etico e alla condotta sociale. Come sostenuto da Damasio, sembra che questi individui abbiano una “razionalità menomata”, nonostante gli elementi associati convenzionalmente a un buon funzionamento della ragione non siano in alcun modo danneggiati. Tra questi ultimi in genere figurano: la memoria, l’attenzione, il linguaggio, la capacità di calcolo e la capacità di ragionamento logico per problemi astratti (Damasio, 1994, pp.18-19). Il primo caso storicamente registrato di questo tipo di lesioni è quello di Phineas Gage, caposquadra di un gruppo di costruzioni ferroviarie, vissuto in America durante il XIX secolo, e il cui teschio è oggi conservato a Boston, al Warren Medical Musem della Harvard Medical School.

TROLLEY DILEMMA

Il Trolley Dilemma o Dilemma del carrello, proposto originariamente da Philippa Foot nel 1967, descrive un treno che corre senza controllo su un binario dove più avanti sono legate cinque persone, mentre su un binario alternativo c’è una sola persona legata; il quesito è se sia legittimo tirare una leva in modo da deviare il treno sul secondo binario e uccidere una sola persona anziché cinque. Generalmente, le persone tendono a considerare moralmente accettabile tirare la leva in virtù di un’analisi costi-benefici.

I protagonisti della controversia sono tre neuroscienziati: da una parte lo psicologo statunitense J. Greene; dall’altrail filosofo statunitense Shaun Nichols e il filosofo tedesco Hanno Sauer. Essi si concentrano soprattutto sul terzo tipo di studi.

FOOTBRIDGE DILEMMA

Il Footbridge Dilemma è stato formulato da Judith Jarvis Thomson nel 1976 e descrive una situazione analoga alla precedente ma, anziché avere la possibilità di tirare la leva, si chiede se sia legittimo buttare giù da un ponte che passa sopra il binario un uomo molto grasso, il quale fermerebbe il treno perdendo al tempo stesso la vita. In questo caso le persone non considerano moralmente accettabile compiere l’atto, nonostante secondo un’analisi costi-benefici il risultato sarebbe lo stesso del problema precedente. Quindi, i soggetti a cui viene sottoposto i test tendono a ritenere accettabile deviare il treno nel primo caso, ma non ritengono lecito spingere l’uomo dal ponte (Songhorian, 2020, p.77). Perché le persone rispondono in modo diverso ai due scenari?

CRYING BABY DILEMMA

La formulazione del Crying Baby dilemma è la seguente: “In tempi di guerra tu e alcuni concittadini vi state nascondendo da dei soldati nemici in un seminterrato. Tuo figlio comincia a piangere e tu gli copri la bocca per far sì che non se ne senta il suono. Se togli la mano il bambino piangerà, i soldati lo sentiranno, troveranno te e i tuoi compagni e uccideranno tutti quanti, compreso te e il tuo bambino. Se non togli la mano, tuo figlio morirà soffocato. È legittimo soffocare tuo figlio per salvare te stesso e gli altri?”


 

GREENE e il modello della “macchina fotografica” o del doppio processo

Joshua Green ha dedicato gran parte del suo lavoro all’approfondimento del perché i dilemmi del carrello, Footbridge e Crying Baby, apparentemente simili nel risultato, suscitano risposte diverse e reazioni discordanti nei soggetti a cui vengono sottoposti.

Uno dei punti chiave dell’analisi è il fatto che i dilemmi presentano forme diverse di problematiche morali, che interessano in modo differenziato l’area delle “violazioni personali” - violazioni che comportano un grave danno fisico, ad una persona specifica, in modo che il danno non sia il risultato di un effetto collaterale di un’azione rivolta altrove (come dire: “io danneggio te”), e quella dei temi morali impersonali - quelli dell’utilità generale, per esempio, meno coinvolgenti nell’immediato.

Greene ha provato ad osservare, attraverso le tecniche di neuroimaging funzionale, l’attività cerebrale degli individui mentre cercano di rispondere a questi dilemmi.

I risultati del neuroimaging, con tempi diversi – più rapidi per i problemi che implicano le violazioni personali” e più lenti negli altri casi -  e aree cerebrali coinvolte diverse, hanno suggerito a Greene che nel giudizio morale vi sia una dissociazione tra i contributi affettivi e quelli cognitivi, e che le persone tendano a esprimere i loro giudizi morali sulla base di due sistemi cerebrali distinti, uno più emotivo e un altro più razionale. Questa distinzione è stata corroborata – secondo Greene – anche dal fatto che sembra esserci una correlazione tra i sistemi cerebrali e il tipo di giudizi che questi producono: le aree del cervello associate all’emozione tendono a suscitare giudizi impulsivi che prendono la forma di giudizi deontologici, quindi giustificati in termini di diritti e doveri; le aree del cervello associate al ragionamento producono, invece, giudizi fondati su un’analisi costi-benefici.

Green propone, quindi, il modello della “macchina fotografica”; in analogia con le due modalità di funzionamento della fotocamera (una modalità automatica e una manuale, ciascuna con caratteristiche più adatte ed efficienti in situazioni diverse); così l’essere umano giudica moralmente servendosi di due processi differenti, di due sistemi cerebrali distinti che non possono funzionare congiuntamente, ciascuno dei quali funziona meglio in determinate circostanze.

Secondo Greene, l’analogia con la macchina fotografica è in grado di esprimere anche il compromesso tra efficienza e flessibilità di questi sistemi cognitivi: le risposte emotive, infatti, sono efficienti proprio in quanto istintive, mentre le risposte razionali sono flessibili perché si servono del ragionamento per perseguire obiettivi a lungo termine, prevedendo e programmando i comportamenti necessari. L’autore ritiene che a supporto dell’idea che le aree emotive siano automatiche c’è il fatto che sono le stesse aree che presentano attività quando il cervello è a riposo o, come anticipato, quando è coinvolto in attività non tipicamente di “attenzione”. Per queste ragioni, solo le azioni che derivano da giudizi razionali sarebbero da ritenersi pienamente consce, volontarie e frutto di uno sforzo.

 

Le teorie alternative e concorrenti: Nichols e Sauer

Shaun Nichols propone una teoria che integra il ruolo dei due sistemi, basata su due tipi di studi empirici fondamentali (Songhorian, 2020, pp.88-95): il primo, che ha per oggetto la distinzione tra norme morali e norme convenzionali, definisce come non necessario presupporre una teoria della mente per tale distinzione poiché i bambini autistici, i quali non hanno buone capacità di comprensione degli stati mentali altrui, rispondono allo stesso modo dei bambini a sviluppo tipico nei test di riconoscimento dei due tipi di violazione; il secondo è quello relativo ai deficit di empatia degli psicopatici.

Nichols – a differenza di Greene - ritiene che vi siano due componenti integrate che costituiscono i giudizi morali: un meccanismo affettivo (che si attiva quando vediamo o sappiamo che gli altri soffrono) e una teoria normativa che impedisce di danneggiare gli altri.

Inoltre, egli definisce come teoria normativa qualunque insieme di regole interiorizzate che proibiscono certi comportamenti e afferma che sia possibile riscontrare la presenza di questi elementi in tutti quei giudizi che sono condivisi in maniera universale e transculturale.

In tal modo rende conto del perché gli psicopatici e i bambini prima dei due anni non siano in grado di formarsi giudizi morali; infatti, i bambini non dispongono di una teoria normativa e gli psicopatici non hanno un meccanismo emotivo concomitante tale teoria.

Sauer sviluppa la sua idea a partire dai risultati degli esperimenti di Greene sul dilemma dell’incesto consensuale; secondo Sauer, il fatto che dopo un tempo adeguato le persone ritengano accettabile l’incesto tra fratello e sorella è indicativo del fatto che le nostre intuizioni morali sono soggette al ragionamento razionale.

Quello di Sauer è un modello di “sfida e risposta”, per cui le intuizioni morali “sono soggette a continui miglioramenti, sovra-apprendimento e abituazione” (Sauer, 2017, p. 122, citato in Songhorian, 2020, p. 103).

A giudizio di Sauer, i nostri giudizi morali nascono da delle intuizioni emotive che possono essere integrate e corrette dalla riflessione e dal ragionamento, i quali vengono sollecitati proprio in risposta a una sfida; tuttavia, non sono solo frutto di un processo evolutivo soggettivo, ma anche socio-culturale. In questo modo riesce a integrare il ruolo di emozione e ragione nella cognizione morale e rende anche conto del processo evolutivo dei giudizi morali.

 

Differenze tra le tre teorie

Le teorie di Nichols e Sauer propongono entrambe una concezione non oppositiva di emozione e ragione, anche in linea con le tesi di Damasio, ma differiscono nei loro obiettivi polemici: il primo vuole mostrare che anche le regole morali devono essere sentimentali; il secondo compie il percorso inverso, cercando di mostrare che anche l’emozione ha bisogno del supporto del ragionamento (Songhorian, 2020, pp. 102-106).

Ciò che distingue queste teorie da quella di Greene è il fatto che gli autori in questione considerano i giudizi morali dei “processi”, in una prospettiva diacronica; mentre Greene li ritiene degli stati mentali puntuali, e non tiene, quindi, conto del loro carattere evolutivo, del perché i valori morali si modifichino nel corso della storia e del perché anche i singoli individui possano mutare prospettiva nei loro giudizi morali.

 

Conclusione

Le neuroscienze cognitive ci offrono oggi molte possibilità di approfondimento di svariate questioni filosofiche estremamente affascinanti e antiche, ma è evidente che siamo ancora agli inizi di questo nuovo approccio e le teorie che ne emergono devono ancora molto alla dimensione di costruzione sociale e – in alcuni casi – metafisica.

Dal confronto di queste tre prospettive sui giudizi morali sembra emergere anche l’enorme discordanza e opacità che vi è oggi in molte definizioni metaetiche; non certo fonte di scoraggiamento ma, anzi, indice del fatto che c’è un ampio spazio per nuove riflessioni filosofiche e sociologiche.

 

 


Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (seconda parte)

Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per questa opera, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda.

I primi quattro soggetti menzionati possono essere definiti serial killer, ricordando che serialità è la terza parola chiave del titolo della mia opera, poiché un serial killer è un soggetto che compie almeno tre omicidi tra i quali intercorre un periodo di raffreddamento emozionale, il cui agire sottende un insieme ampio e variegato di pulsioni sessuali devianti, tali da indurre, soventemente, durante l’omicidio, anche il coito. Poiché sono soggetti che agiscono sotto l’influsso del desiderio sessuale, sono incapaci di smettere di uccidere, a meno che non sopraggiunga un evento esterno alla loro volontà: l’arresto o la morte. Armin Meiwes, invece non è un serial killer avendo ucciso una sola vittima.

Vediamo alcune principali caratteristiche.

Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, uccise 3 donne, le fece a pezzi per poi ricavarne del sapone, mentre il sangue lo raccolse, lo essiccò per poi farne biscotti che mangiò lei stessa con diversi conoscenti. Nel caso di questa donna, per esempio vi sono elementi tipicamente maschili: l’utilizzo di armi come un martello e una scure, l’atto di sezionare i corpi, ecc. A suo dire fece tutto ciò per annullare una maledizione che le aveva lanciato sua madre, e avendo perso molti figli temeva che gli unici in vita potessero fare la stessa fine.

Andrej Romanovič Čikatilo, il Mostro di Rostov, uccise tra 53 e 56 vittime tra bambini, disabili e giovani donne, cibandosi di diverse parti dei loro corpi, con modalità omicidiarie tra le più brutali ed efferate nella storia della criminologia del cannibalismo. Era solito accanirsi sui polmoni, il cuore e gli organi sessuali; in particolare, asportava e divorava i genitali delle vittime ancora in vita; sembrerebbe aver strappato a morsi e masticato la lingua, il labbro, il naso e i capezzoli di alcune sue vittime. Inoltre, si cibò dell’utero di una donna dove aveva precedentemente rilasciato il suo seme. Dunque, nel suo caso vi sono elementi tipicamente maschili nel modus operandi.

Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva, la Coppia cannibale, il loro caso è uno dei più recenti. Dalle dichiarazioni rilasciate, avrebbero non solo cannibalizzato più di 30 persone, ma anche parte di queste per delle ricette utilizzate per dar da mangiare ai militari nella mensa in cui lavorava Natalia. Nella strutturazione di questa coppia, le questioni di genere sono interessanti. Il loro modo di agire rientra nel disturbo psichiatrico noto disturbo psicotico condiviso. Questa sindrome venne descritta, sotto il nome di Folie à deux, per la prima volta da Lasègue e Falret. Si tratta di un quadro clinico peculiare in cui un soggetto dominante, denominato induttore o caso primario, influenza un soggetto più debole, denominato indotto, arrivando ad imporgli il suo sistema delirante. Normalmente l’uomo è l’induttore e la donna l’indotto, mentre in questo caso Dmitry ha ucciso una donna, Elena Vakhrusheva, su richiesta di Natalia in preda alla gelosia.

Jeffrey Lionel Dahmer, il Mostro di Milwaukee, ha ucciso e cannibalizzato 17 ragazzi. La sua ossessione era quella di trovare qualcuno che non lo abbandonasse, tanto è vero che tentò di realizzare un vero e proprio zombie iniettando varie sostanze nel cranio di una vittima. In Dahmer sono state riscontrare varie peculiarità criminologiche, una fra tutte: la splancnofilia, una tipologia di disturbo parafilico individuato in tutta la storia del serial killer sono in Dahmer appunto, e consiste nell’attrazione sessuale provata per l’involucro esterno degli organi interni. Dahmer infatti ha dichiarato di avere avuto rapporti sessuali non solo con i cadaveri delle vittime, praticando quindi necrofilia, ma a volte con parti di essi come crani, organi ecc. Nel modus operandi di questo serial killer si rilevano elementi tipici della serialità femminile come l’uso di sostanze per avvelenare e/o addormentare le proprie vittime.

Armin Meiwes, il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, si è cibato di un solo soggetto, che si consegnò volontariamente, perché desiderava essere mangiato vivo. Meiwes tagliò il pene della vittima e lo consumarono insieme per poi ucciderlo e mangiarsi la sua carne per diversi mesi. Ha dichiarato che la carne umana ha un gusto simile a quello della carne di maiale ma un po’ più amara.

In realtà molte di queste pratiche fino ad ora descritte si ritrovano nei culti di diverse divinità cannibali come il demone Asmodeo definito come il distruttore, capace di cibarsi delle sue vittime; Lamaštu, divinità di origine mesopotamica; secondo diversi miti, a differenza delle altre divinità mesopotamiche, ella attaccava le sue vittime autonomamente e non per ordine di altre divinità. Le sue vittime predilette erano le donne prossime al parto e i neonati, che venivano rapiti durante l’allattamento per cibarsi delle loro ossa e del loro sangue; Crono, nella denominazione greca, o Saturno, nella denominazione romana, dopo aver sposato sua sorella Rea, la quale partorì i suoi figli, a divorarli uno per uno. Il suo atto antropofagico è stato reso celebre, nel mondo dell’arte, da Francisco Goya e la sua opera Saturno devorando a su hijo.

Nel saggio però, ho dato molto spazio ad una divinità che ha un rapporto peculiare con il cannibalismo ossia Śiva, dio ermafrodito degli umili, i śūdra. Nel culto di questa divinità i sacrifici umani rispecchiano certe credenze dell’essere umano, certi aspetti della natura del mondo che sarebbe imprudente ignorare. Sono parte dell’inconscio collettivo e rischiano di manifestarsi in forme perverse se non osiamo affrontarli. “Esistere vuol dire mangiare ed essere mangiato. L’uomo è ciò che mangia. Ogni essere vivente si nutre di altri esseri e diverrà nutrimento di altri esseri in un ciclo interminabile”. Śiva viene così considerato sia come divorato che come divoratore; Śiva stesso afferma: “Io sono il cibo, io sono il cibo, io sono il cibo! Io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo!… Dal cibo le creature nascono, per opera del cibo una volta generate si mantengono in vita, nel cibo morendo ritornano”. È indubbia la correlazione con le concezioni socio-psicoanalitiche sul cannibalismo seriale, come se negli antropofagi seriali vi fossero delle sopravvivenze inconsce, ovvero una sorta di esternazione di queste concezioni sedimentate nel proprio inconscio, un istinto primitivo e śivaista che si slatentizza.

Primitivo perché l’atto di uccidere e cannibalizzare era tipico delle popolazioni primitive, o meglio ancora del passato, perché spesso in periodi più recenti caratterizzati da grave carestia sono stati praticati atti antropofagi per garantire la propria sopravvivenza. E questo aspetto è abbastanza noto e trattato nella letteratura in generale, soprattutto lombrosiano-freudiana di cui si è fornita una breve panoramica.

Sul secondo aggettivo, ossia śivaista, a oggi non vi è alcun riferimento e legame, se non per gli atti antropofagici, al campo della criminologia. È necessario precisare che non si sta sostenendo che gli śivaisti siano dei serial killer, ma che in questi ultimi sembrerebbe riaffiorare un’attitudine che ricorda la ritualità, i principi, e alcuni aspetti tipici di questo culto; una vera e propria forma di regressione, o forse la dimostrazione del fatto che tutti siano accomunati da un unico grande inconscio collettivo. Una prima prova legata a questa ipotesi potrebbe essere rappresentata da una delle poche popolazioni inclini al cannibalismo ancora in vita, ossia gli Aghori.

Dunque, il gusto del cannibalismo ha molte sfumature perché mette a nudo pensieri e desideri che fanno paura, e ci mettono innanzi ad una domanda difficile da porsi: chi è un mostro? Forse potremmo rispondere con il titolo di un’opera dello psichiatra forense, Robert Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno.


Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontro con le neuroscienze

Redazione: Per riaprire il discorso iniziato il 27 febbraio con il post “Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontri con le scienze empiriche”, è il caso di ricordare come spesso la questione del libero arbitrio sia posta come un’alternativa tra due scenari contrapposti: uno nel quale gli esseri umani sono vincolati in modo rigido ad agire e a scegliere in modo determinato meccanicamente; l’altro, nel quale essi sono agenti con la possibilità di determinare il proprio destino.

In quell’occasione hai delineato in che modo la riflessione filosofica si sia avvicinata alla meccanica quantistica, e come abbia tentato – secondo te senza riuscirci - una interpretazione dei risultati empirici come giustificazione dell’indeterminismo libertario.

Nel tuo lavoro Neurobiologia della volontà (2022), invece, hai parlato degli studi delle neuroscienze sull’esistenza o meno di condizionamenti a cui sono sensibili gli agenti e che condizionano o determinano in anticipo le azioni che verranno dispiegate.

Stella: Sì, da un lato alcuni autori si  sono chiesti se fattori come l’ambiente o la genetica possano determinare le scelte che compie di volta in volta l’individuo; altri si sono chiesti se i sistemi neurali che vengono di solito associati alle deliberazioni individuali siano liberi (nel senso di capaci di iniziare nuove catene causali) o se sono preceduti da altre attività cerebrali sulle quali non abbiamo il controllo.

Tra questi ultimi, ho preso in considerazione il lavoro di Benjamin Libet che ha studiato gli eventi coscienti e la loro relazione con l’iniziazione di atti fisici.

Ricordiamo che, secondo la psicologia del senso comune, l’essere umano concepisca i propri atti liberi e la propria volontà come frutto della propria coscienza.

Seppure tali funzioni siano attribuite in maniera intuitiva alla sfera mentale, dal punto di vista delle neuroscienze non è facile comprendere su quali processi neurali queste si poggino. La ricerca empirica non è stata ancora in grado di fornire evidenze di rilievo che siano in grado di supportare l’ipotesi di processi indeterministici a livello cerebrale. In altre parole, non è stato ancora spiegato se e come il cervello umano possa produrre delle azioni libere, secondo le condizioni di autodeterminazione e non condizionamento esterno, in accordo con il senso comune.[1]

 

Redazione: Secondo te, il lavoro di Libet è da interpretare come una valida confutazione del libero arbitrio oppure come una spiegazione più realistica di come potrebbero funzionare dei meccanismi mentali indeterministici?

Stella: Va sicuramente evidenziato che il lavoro di B. Libet è stato portato avanti nella convinzione che la questione del libero arbitrio sia un tema dalla forte rilevanza speculativa e pratica, per cui Libet ritiene che “una teoria che si limita a interpretare  il fenomeno del libero arbitrio come illusorio e nega la validità di questo fatto fenomenologico è meno interessante di una teoria che accetta o accoglie un tale fatto” (Libet, Mind Time - Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 159). Libet dichiara, inoltre, che la sua “conclusione sul libero arbitrio – libero per davvero, in senso non deterministico – è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi naturali” (p.160).

 

Redazione: Nei suoi lavori Libet ha fornito delle prove sperimentali dell’intuizione che abbiamo di agire in modo libero e conscio?

Stella: Sì, Libet ha cercato di testare sperimentalmente questa intuizione studiando l’esperienza cosciente dell’intenzione di agire in atti motori semplici volontari. Per sorpassare la soggettività dell’esperienza, Libet ha osservato le relazioni temporali che intercorrono fra gli eventi neurali di azioni volontarie specifiche e la percezione che hanno gli agenti mentre le compiono.

Il presupposto per questa ricerca è che – secondo Libet – “il problema dei rapporti mente-cervello e quello delle basi cerebrali dell’esperienza cosciente possono essere studiati sperimentalmente” (cit., p. 1) perché gli eventi fisici e quelli mentali, sono correlati ma

  • costituiscono due categorie fenomenologicamente indipendenti e “nessuno dei due fenomeni può essere ridotto all'altro o descritto da esso” (cit., 21).
  • “la natura non fisica della consapevolezza soggettiva (e dei sentimenti di spiritualità, creatività, volontà consapevole e immaginazione) non è descrivibile o spiegabile direttamente in termini di prove fisiche pure e semplici” (cit., p. 9).

A questo proposito, Libet evidenzia i limiti degli studi morfologici e fisiologici del cervello – basati su ICBF, PET, RM funzionale – per la comprensione dell’esperienza cosciente, perché «forniscono informazioni solo su dove, nel cervello, le attività delle cellule nervose possono essere collegate alle varie operazioni mentali» e non dicono nulla sul genere di attività delle cellule nervose, sulle correlazioni temporali tra attività nervosa e funzione mentale e né, tantomeno, garantiscano che i siti cerebrali localizzati siano davvero quelli di primaria importanza per quelle operazioni mentali.

 

Redazione: In che modo Libet ha indagato questo tema dell’intenzione più o meno cosciente?

Stella: Libet ha deciso di lavorare su soggetti in grado di collaborare e di rispondere alle domande a loro rivolte, sveglie coscienti[2] perché riteneva che un’indagine fenomenologica dell’esperienza cosciente dell’intenzione possa essere svolta solo su un soggetto in grado di riportare la propria esperienza.

L’assetto sperimentale[3] vede, quindi, dei soggetti che devono compiere atti motori semplici, volontari ed endogeni, come flettere un dito o il polso.

Il punto centrale dell’esperimento è la rilevazione – fatta con elettroencefalogramma – del “potenziale di prontezza” cioè di un significativo incremento dell’attività elettrica nell’area motoria supplementare coinvolta nel controllo dei movimenti poco prima e in preparazione di ogni azione; si pensa che questo potenziale sia correlato causalmente, sulla base di analisi statistiche, all’esecuzione delle azioni.[4]

Contestualmente alla rilevazione dell’attività cerebrale associata all’iniziazione dell’atto motorio, viene chiesto al soggetto sperimentale di osservare uno speciale orologio così da poter registrare l’esatto momento in cui ha sentito l’impulso di agire e confrontarlo con i dati sull’attività cerebrale.

Le rilevazioni hanno mostrato che il potenziale di prontezza insorge circa 550 millisecondi prima del dispiegarsi dell’azione, mentre generalmente gli individui riportano di aver sentito l’impulso ad agire 200 millisecondi prima dell’azione stessa.

Pertanto, è possibile osservare uno scarto di 350 millisecondi tra l’attività elettrica di preparazione all’azione e la percezione soggettiva di volerla compiere, sebbene l’individuo non ne avesse alcuna consapevolezza o percezione.[5]

 

Redazione: Cosa conclude Libet sulla base di questi risultati, che sembrano abbastanza indicativi per la riflessione sull’arbitrarietà delle azioni?

Stella: La prima conclusione di Libet è che gli individui non hanno un controllo sull’iniziazione delle proprie azioni, in quanto questa si manifesta  a livello cerebrale già prima di diventare cosciente.

 

Redazione: Parrebbe che questa sia una netta confutazione dell’esistenza dell’arbitrio, o sbaglio?

Stella: In effetti, una prima interpretazione potrebbe essere di questo tenore. Però, lo stesso Libet ha ritenuto meglio riformulare il concetto in una forma ridotta: sebbene l’iniziazione dell’azione non sia frutto del libero arbitrio, gli agenti godono della “libertà di veto” (cit., p. 141). In termini pratici, l’esperienza cosciente si manifesta 200 millisecondi prima dell’azione MA l’agente ha tempo fino a circa 50 millisecondi prima di questa per interromperla.

In estrema sintesi, da una parte Libet conclude che gli esseri umani non decidono né avviano consciamente le proprie azioni e, pertanto, la coscienza non svolge un ruolo diretto nei processi deliberativi (Levy N., Neuroethics. Challenges for the 21st Century, 2007, p. 226) ma, dall’altra parte, osserva che “la volontà liberamente cosciente può controllare il risultato di un processo iniziato in modo non cosciente” (p. 147).

 

Redazione: Ci sono interpretazioni disallineate alle conclusioni di Libet?

Stella: Decisamente! Altri autori hanno considerato poco convincente il lavoro di Libet. Tra le critiche più interessanti c’è senza dubbio quella di Schurger e colleghi, che hanno riprodotto l’assetto sperimentale di Libet per mostrare che l’attività neurale soggiacente la preparazione dell’azione segue delle fluttuazioni spontanee, correlate all’azione solo a livello probabilistico. La loro sperimentazione ha rivelato come tra l’insorgere dell’esperienza cosciente dell’intenzione e l’esecuzione a livello neurale di tale iniziazione ci sia uno scarto di 50 millisecondi, tempo che consentirebbe alla coscienza di avviare e controllare l’esecuzione del processo motorio.

La conclusione di Shurger e colleghi è che le affermazioni di Libet sul libero arbitrio siano infondate e che una volontà libera sia in linea teorica perfettamente compatibile con un modello di attività neurale ad onde, come quello da loro illustrato.

 

Redazione: Mi pare che sia Libet, con il suo tentativo di salvare la coscienza dall’etichetta di mero epifenomeno proponendo la teoria della libertà di veto, che i suoi oppositori cerchino di escludere elementi deterministici che agiscano a livello neurale, come dei processi mentali inconsci, e che possano influenzare e condizionare le nostre azioni. Se ne esce in qualche modo?

Stella: Credo che sia bene ricordare che questi risultati offrono un contributo speculativo esclusivamente nell’ambito dei determinismi locali, che - come in questo caso per l’attività neurale – potrebbero condizionare la nostra volontà libera.

Mi pare chiaro che questi contributi non siano  in grado di sciogliere la questione sul piano del determinismo universale e che rappresentano un contributo limitato all’interno del dibattito filosofico sul libero arbitrio.

Ritengo – però - che questo tipo di studi possa mantenere vivo l’interesse sulla riflessione morale sulla responsabilità e sui nostri giudizi di liceità o illiceità di una determinata azione.

Inoltre, i risultati di questo tipo di studi potrebbero supportare la formulazione di teorie etiche normative informate e adeguate rispetto al nostro modo di agire, ragionare e giudicare moralmente.

 

 


NOTE

[1] A tal proposito, Libet suggerisce che vi siano due modi per configurare un’attività mentale conscia che si sottrae alle leggi fisiche note: “La prima è che le violazioni non sono rilevabili, dal momento che le azioni della mente possono essere a un livello inferiore a quello dell'indeterminazione permessa dalla meccanica quantistica. (Se quest'ultima ipotesi condizionale possa in effetti essere sostenuta è un tema che deve essere ancora risolto.) Quest'idea permetterebbe, quindi, l'esistenza di un libero arbitrio non deterministico senza una violazione percepibile delle leggi fisiche. Un secondo punto di vista sostiene che le violazioni delle leggi fisiche note sono abbastanza grandi da essere rilevate, almeno in linea di principio. Ma si può supporre che le effettive possibilità di rilevazione in pratica siano nulle. Le difficoltà nella rilevazione sono particolarmente vere se la volontà cosciente è in grado di esercitare la sua influenza attraverso azioni minimali su elementi neurali relativamente poco numerosi, cioè se queste azioni possono servire come innesco per schemi amplificati di cellule nervose dell'attività del cervello. In ogni caso, non abbiamo una risposta scientifica alla questione di quale teoria (deterministica o non deterministica) descriva in maniera corretta la natura del libero arbitrio.

[2] Per approfondimenti su queto punto, si veda Boncinelli, Chi prende le mie decisioni?, 2007.

[3] Il setting di Libet era ispirato agli esperimenti degli anni Sessanta (1969) di Deecke, Scheid e Kornhuber, Distribution of Readiness Potential, Pre-motion Positivity, and Motor Potential of the Human Cerebral Cortex Preceding Voluntary Finger Movements.

[4] Si veda Benini, Neurobiologia della volontà, 2022.

[5] Gli esperimenti di controllo sostenuti da Libet hanno escluso che la disparità sia dovuta semplicemente al tempo supplementare necessario per notare e riferire il momento indicato dal puntino mobile dell’orologio (si veda Kosslyn, 2007, p. XVI); inoltre Libet ha affermato che, sebbene gli esperimenti riguardassero atti motori semplici, i risultati possono essere generalizzati e assunti come validi per qualsiasi atto motorio volontario.


Classificazioni e standardizzazioni - Un modo di regolare la vita sociale

Ogni giorno gli esseri umani mettono in pratica, spesso inconsapevolmente, forme di classificazione e standardizzazione per raccogliere informazioni, trasmetterle e farle interagire tra di loro. Si tratta di un lavoro che è prevalentemente tacito o inconsapevole. Ad esempio in una libreria o biblioteca i libri vengono sistemati in base al tema di cui trattano; per cui i temi più comuni saranno facilmente visibili, mentre altri verranno collocati in spazi specifici o meno visibili. Oppure basti pensare alle email che ci arrivano: alcune le contrassegniamo come Speciali, altre come Spam e altre le eliminiamo immediatamente; o alla classificazione dei servizi igienici in base al genere.

Le categorizzazioni non sono solo dei concetti astratti che contribuiscono a mantenere un ordine sociale, ma sono delle entità invisibili che influenzano la nostra vita. Secondo Michel Foucault (L’ordine del discorso e altri interventi, 1971) le categorie e le tecnologie producono una forza materiale sulla vita degli individui; essa è in grado di produrre oggetti di sapere, soggetti, istituzioni, pratiche, chi può parlare per dire un enunciato vero e come deve parlare per dire la verità. Dunque, classificare produce degli effetti, valorizza certi elementi e ne rende invisibili altri; per alcuni individui possono rappresentare un vantaggio mentre per altri rappresentano un danno.

Ma cos’è una classificazione?

“Una classificazione è una segmentazione spaziale, temporale o spazio-temporale del mondo. Un “sistema di classificazione” è un insieme di scatole (metaforiche o letterali) in cui si possono mettere le cose per poi svolgere una sorta di lavoro burocratico o di produzione di conoscenza” (Bowker, G. C., e Star S. L.. Sorting Things out: Classification and Its Consequences 1999, p. 10).

In ogni attività quotidiana abbiamo a che fare con la progettazione e la selezione di categorie, con l’inserimento di nuove informazioni all’interno di esse e confrontarci con cose che non si adattano. Tutte le nostre azioni fanno riferimento a un sistema di classificazione che in astratto, possiede le seguenti proprietà:

  • Principi classificatori coerenti e unici in funzione: si possono ordinare una serie di elementi in modi differenti, come ad esempio un ordine temporale, un ordine in base alla funzione oppure in base all’origine;
  • Le categorie sono mutuamente esclusive: in astratto le categorie possiedono dei confini chiari, all’interno dei quali ogni sistema di classificazione riesce ad inserire gli oggetti in modo ordinato. Ad esempio, la concezione di un figlio avviene attraverso una madre e un padre che rientrano automaticamente all’interno della categoria dei genitori. Questo modo di categorizzare esclude una serie di altre situazioni come, ad esempio, la presenza di madri surrogate, donne che donano i propri ovuli, uomini che donano il proprio seme, oppure situazioni di affidamento condiviso;
  • Il sistema è esaustivo: il sistema di classificazione fornisce comunque una rappresentazione ideale della realtà che prova a descrivere. In altre parole, anche se ci sono degli oggetti che non si adattano perfettamente alle categorie esistenti, il sistema di classificazione agisce in modo da assorbirli al suo interno creando un ordine.

Nella vita quotidiana, nessun sistema di classificazione funzionante soddisfa contemporaneamente questi tre requisiti. Nella pratica le persone possono deliberatamente ignorare le classificazioni esistenti, fraintenderle rinegoziarle (Cit.).

Uno standard è innanzitutto un modo di classificare il mondo, un insieme di regole concordate da vari attori per produrre artefatti. Gli standard attraversano diverse comunità di pratica (Lave, J., & Wenger, E. Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, 1991), mettendole in comunicazione, creando relazioni stabili nel tempo, superando così differenze locali e parametri eterogenei. La standardizzazione è un processo attivo che aspira alla stabilità e all’ordine. Qualsiasi ordine è un risultato conquistato a fatica che richiede la collaborazione di diversi attori.

Ma cos’è uno standard?

“Definiamo la standardizzazione come il processo volto a rendere le cose uniformi, e la standardizzazione sia come mezzo che come risultato della standardizzazione. Nel senso più generale, una norma si riferisce a una misura stabilita dall'autorità, dalle dogane o dal consenso generale da utilizzare come punto di riferimento” (Timmermans S. e Berg M., The Gold Standard, 2003).

Dunque, gli standard non nascono dal nulla, ma vengono costruiti nella pratica da un insieme eterogeneo di attanti,1 permettendo a diversi mondi sociali di cooperare nonostante i differenti interessi. È proprio questa caratteristica che conferisce agli standard una forza e autori “superiori”; ma non si tratta di una caratteristica innata, “calata dall’alto”, bensì il risultato di conflitti e negoziazioni tra differenti gruppi sociali. Lo standard viene costruito situazionalmente senza però perdere la capacità di mettere in relazione i vari elementi delle infrastrutture. Lampland e Star (Standards and Their Stories: How Quantifying, Classifying, and Formalizing Practices Shape Everyday Life, 2010) identificano 5 caratteristiche degli standard:

  • La nidificazione: gli standard sono compenetrati l’un l’altro, sono incorporati in altri standard, protocolli o sistemi tecnici;
  • Distribuiti in modo non uniforme: il significato e gli effetti di uno standard dipendono dal regime politico e dalla posizione di classe. In alcuni contesti si adattano bene; in altri costituiscono un problema;
  • Fanno riferimento a comunità di pratica: ciò che rappresenta uno standard favorevole per una persona può rappresentare un incubo per un'altra: “le forme standard sono (ineguali) (...) anche nel loro impatto, significato e portata nella vita individuale e organizzativa. Gli standard e le azioni che li circondano non si verificano in modo acontestuale. C’è sempre una sorta di economia ed ecologia degli standard che circonda ogni individuo in una posizione” (Cit. p.7);
  • Sono sempre più integrati tra loro in molte organizzazioni, nazioni e sistemi tecnici: generano relazioni sociotecniche identiche, in grado di dare vita ad assemblaggi eterogenei in contesti differenti;
  • Incarnare e prescrivere etica e valori: standardizzare significa includere certe cose, ed escluderne altre. Gli standard sono carichi di iscrizioni morali che contribuiscono a rendere alcune cose visibili in un modo positivo e altre in modo negativo con grandi conseguenze per gli individui.

 

In conclusione, classificare e standardizzare necessitano complesse negoziazioni necessarie per creare protocolli, materiali e strumenti. La creazione di uno standard è un atto sociale che dipende dalle interazioni tra le molteplici parti (attanti) coinvolte nel processo di creazione. In questo senso degli “standard flessibili”, caratterizzati da grande adattabilità possono funzionare meglio di standard rigidamente definiti, consentendo la comunicazione tra sistemi incompatibili generando tipi specifici di uniformità, oggettività e universalità. L’uniformità degli standard porta con sé tracce delle impostazioni locali, ma allo stesso tempo altri elementi locali vengono cancellati attraverso la standardizzazione. Il processo di standardizzazione permette di stabilire nuovi standard, ma rende invisibile il tutto il lavoro necessario per generarli. Il ruolo dello scienziato sociale è quello di riflettere criticamente l’ubiquità degli standard, anziché darli per scontati. Evidenziando come la scelta di uno standard rispetto a un altro è condizionata da interessi pragmatici differenti, mettendo in luce l’effetto performativo. Perché la scelta di uno standard implica un modo di regolare e coordinare la vita sociale a scapito di modalità alternative. Utilizzando le parole di Timmermans e Epstein “coesistiamo in un mondo pieno di standard ma non in un mondo standard” (Annu. Rev. Sociol. 36:69–89, 2010, p.84).

 

 


NOTE

1 Ad agire possono essere non solo gli umani ma anche non-umani come tecnologie e oggetti materiali.


Il complottismo degli anti-complottisti. Le trappole mentali dei debunkers

Da quasi un decennio i temi della post-verità, delle fake-news e delle teorie del complotto sono diventati un’ossessione non solo per i giornalisti, ma anche per gli accademici. Per alcuni sociologi, psicologi, filosofi ecc. sembra che tutti i mali del mondo vengano dai cospirazionisti, persone malate, irrazionali e anti-scientifiche, carbonari dei nostri giorni, che passano il loro tempo a fornicare sui social media, a costruire ad arte notizie false per poi diffonderle.

 

Un po’ di casi storici

Poi dopo qualche decennio si scopre, ad esempio, che il super testato dietilstilbestrolo (una specie di estrogeno prescritto tra il 1938-1971 per prevenire l'aborto spontaneo) causa centinaia di casi di adenocarcinoma (un tumore, solito insorgere mediamente intorno ai 17 anni) in donne nate (chiamate poi figlie DES) da madri che l’avevano assunto. Oppure che il super testato talidomìde, prescritto in particolar modo alle donne in gravidanza, provoca migliaia di nascituri con deformazioni (es. focomèlia); o, più recentemente (2004), che il super testato Vioxx, “un farmaco per l’artrite, largamente prescritto, fu scoperto aumentare il rischio di infarto e ictus, soltanto dopo esser stato sul mercato per cinque anni” (Conis, 2015: 233).

Per fare un altro esempio, ricordo che Albert Sabin, medico e virologo (inventore di uno dei due vaccini contro la polio), almeno sin dal 1980 (fino al 1993, anno della sua morte), manifestò più volte, mediante interviste stampa e TV, diverse perplessità su alcuni vaccini, sui vaccini antinfluenzali e sulle politiche vaccinali, anche italiane, come quella dell’obbligatorietà del vaccino antiepatite B, come ebbe a dire il 4 dicembre 1991 a RAI 3: «A mio giudizio si tratta di un errore grossolano e sono certo che il ministro della Sanità è stato molto mal consigliato. In realtà in Italia oltre l’80% di casi si verificano tra i tossicodipendenti che fanno uso di siringhe infette o che non cambiano siringhe (…) Affrontando questi aspetti del problema si otterrebbero risultati migliori di quelli garantiti dalla vaccinazione obbligatoria previsti dalla legge appena approvata...». Quel “mal consigliato” fu più chiaro vent’anni dopo, quando la magistratura accertò (con sentenza definitiva nel 2012) che l’allora ministro, il medico e liberale De Lorenzo, nel febbraio 1991 aveva ricevuto una tangente di 600 milioni di lire dalla Smith Kline Beechm (Glaxo), l’azienda produttrice proprio del vaccino Engerix B. Non risulta che De Lorenzo sia stato poi radiato dall’ordine dei medici.

Proprio quest’ultimo episodio ci insegna che i sociologi, psicologi, filosofi così ferventemente anti-complottismi dovrebbero avere un atteggiamento meno manicheo e più laico, aperto e tollerante.

Perché i complottismi di oggi potrebbero (ripeto cento volte ‘potrebbero’) essere le verità di domani.
In altre parole, un approccio cauto e “storico” non farebbe male. Come suggeriscono diversi autori (Di Piazza, Piazza e Serra 2018, Veltri e Di Caterino 2017, Cuono 2018, Lorusso 2018, Adinolfi 2019, Gerbaudo 2019, Ottonelli 2019) che hanno individuato diversi limiti epistemologici, descrittivi, normativi e strategici del concetto di post-verità.

Un caso per tutti è quello dell’amianto (ma si potrebbe parlare del tabacco, del DDT, dei coloranti per le bevande ecc.). Un minerale naturale conosciuto e usato sin dall'antichità e fino all'epoca moderna, per gli scopi più disparati: da magici e rituali fino a quelli industriali. In Italia il suo uso è proibito solo dal 1992. Ma “risale agli inizi del ’900 il primo processo in Italia (in Piemonte) nel quale venne condannato il titolare di un’azienda che lavorava amianto perché la pericolosità del minerale era stata ritenuta circostanza di conoscenza comune. La prima nazione al mondo a riconoscere la natura cancerogena dell'amianto, dimostrandone il rapporto diretto tra utilizzo e tumori e a prevedere un risarcimento per i lavoratori danneggiati, fu la Germania nazista nel 1943”[1]. Ma si sa: i nazisti facevano propaganda.

 

Patologizzare la critica sociale, comprimere il dissenso

Dal punto di vista scientifico, ‘complottismo’[2] è un termine che richiama un concetto con uno statuto epistemologico molto incerto e controverso. Tant’è che risulta essere un termine molto carico politicamente. Infatti secondo l’antropologo Didier Fassin (2021) esiste una tendenza crescente, nelle scienze umane, ad assimilare la critica sociale al pensiero cospirativo, utilizzando il secondo per delegittimare la prima. Per cui, mediante questo termine, abbiamo un inquinamento della sfera pubblica e un disincentivo alla partecipazione.

Allo stesso modo, il politologo greco Yannis Stavrakakis, parlando di ‘populismo’, argomentava che che è una categoria, più che descrittiva, normativa, e di conseguenza ‘performativa’, nel senso che è una costruzione di coloro che governano (gli anti-populisti) per imporre i loro “regimi di verità”, come li chiamava Michel Foucault (un autore che gli studiosi anti-complottisti sembrano aver dimenticato).

A tal fine, il filosofo della scienza Paul Feyerabend (1975), a cui il dibattito sul complottismo avrebbe probabilmente fatto ridere, diceva che “nella scienza occorre dar voce a tutti, anche ai punti di vista che in quel momento possono sembrare errati”. E continuava “è opportuno conservare tutte le teorie, anche quelle che nel corso del tempo sono state scartate, perché è sempre possibile che tornino attuali”, perché ogni teoria non è mai sviscerata in tutti i suoi aspetti: la deriva dei continenti, un tempo ritenuta una teoria pseudoscientifica, è oggi parte integrante del patrimonio scientifico, soprattutto dopo la scoperta delle prove paleomagnetiche che sostengono il concetto di tettonica a zolle. Anche l'evoluzione della specie o l'eliocentrismo furono inizialmente sottoposte a feroci critiche scientifiche.

E la filosofa femminista Sandra Harding sosteneva che “anche le scienze naturali (es. fisica e chimica), e non solo le scienze umane (es. sociologia e antropologia), sono influenzate anche dalle credenze e opinioni personali degli scienziati”.

 

Le trappole mentali dei debunkers e fact checkers

Sembrerebbe che solo i complottisti ragionino in modo surreale. Ed è compito dei debunkers e fact checkers, i Roland Freisler o gli Andrej Vyšinskij del XXI secolo, scoprire l’infondatezza di quelle che poi saranno definite fake news.

C’è però un particolare. Inquietante. I debunkers sono strabici: fanno il pelo sempre ai critici dello status quo, e quasi mai ai governanti o coloro che gestiscono il sistema dell’informazione. Per cui operano all’interno dei “regimi di verità” e dei “regimi di discorso”.

Altrimenti avrebbero indagato e scoperto l’infondatezza (per fare uno degli esempi più clamorosi) delle dichiarazione del Segretario di Stato americano, Colin Powell, che il 5 febbraio 2003 all’assemblea generale dell’ONU aveva mostrato le fotografie di laboratori mobili (si scoprì poi che erano dei modellini) di costruzione di armi biologiche (le famose armi di “distruzione di massa”) e avrebbero guardato cosa conteneva (talco anziché antrace) quella fialetta esibita teatralmente durante il suo discorso.

In altre parole, i debunkers e gli anti-complottisti soffrono delle stesse trappole mentali dei cosiddetti complottisti. Essi cadono nel fenomeno della “reazione all’oggetto” (Cacciola e Marradi 1988), fenomeno socio-cognitivo-emotivo, per cui nel dare un giudizio su una notizia si guarda alla fonte PRIMA che al contenuto. Per cui se la fonte è un’istituzione rispettata, allora le sue notizie non possono essere che vere (così successe per Colin Powell, mentre Saddam Hussein faceva propaganda). E’ viceversa.

Ma il contenuto della notizia non viene quasi mai esaminato senza preconcetti.

In conclusione, anti-complottisti “di terra, di mare e dell'aria”… datevi una calmata.

 


NOTE E BIBLIOGRAFIA

[1] https://www.inail.it/cs/internet/docs/dossier_storia_amianto-pdf.pdf

[2] Un tempo si chiamava “dietrologia” (vedi https://www.ilpost.it/2024/02/08/sgobba-quando-il-complottismo-si-chiamava-dietrologia/)

Adinolfi, M. (2019). Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia. Roma: Salerno Editrice.

Cacciola Salvatore e Marradi Alberto (1988), Contributo al dibattito sulle scale Likert basato sull’analisi di interviste registrate, in Marradi (a cura di), Costruire il dato, Milano: Angeli, 63-105.

Conis, Elena (2015), Vaccine Nation. America’s Changing Relationship with Immunization, Chicago: University of Chicago Press.

Cuono, M. (2018). “Post-verità o post-ideologia: un problema politico,online e offline”. In Web e società democratica: un matrimonio difficile, a cura di E. Vitale and F. Cattaneo, 66–82. Torino: Accademia University Press.

Di Piazza, S., Piazza, F., and Serra, M. (2018). “Retorica e post-verità: una tesi controcorrente”. Siculorum Gymnasium 71 (4): 183–205.

Fassin, Didier (2021) Of Plots and Men. The Heuristics of Conspiracy theories,in Current Anthropology, 62(2), pp. 128-137.

Feyerabend, Paul K. (1975) Against Method, Londra: Verso Book. Trad. It. Contro il Metodo. Milano: Feltrinelli, 1979.

Gerbaudo, P. (2019). “Una falsità scomoda: fake news e crisi di autorità”. In Fake news, post-verità e politica, edited by G. Bistagnino and C. Fumagalli, 74–91. Milano: Fondazione Giangiacomo, Feltrinelli.

Harding, Sandra (1993). “Rethinking Standpoint Epistemology: What is Strong Objectivity” Feminist Epistemologies (a cura di) Alcoff L., Potter E., New York e Londra: Routledge.

Lorusso, A. M. (2018). Postverità: fra reality tv, social media e storytelling. Bari: Laterza.

Ottonelli, V. (2019). “Disinformazione e democrazia. Che cosa c’è di fake nelle fake news?”. In Fake news, post-verità e politica, a cura di G. Bistagnino and C. Fumagalli, 92–115. Milano: Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Stavrakakis, Y. (2017). “How did ‘populism’ become a pejorative concept? And why is this important today? A genealogy of double hermeneutics”. POPULISMUS Working Papers 6.
http://www.populismus.gr/wp-content/uploads/2017/04/stavrakakis-populismus-wp-6-upload.pdf

Veltri, G. A., and Di Caterino, G. (2017). Fuori dalla bolla: politica e vita quotidiana nell’era della post-verità. Sesto San Giovanni: Mimesis.


Conversazioni sull’Intelligenza Artificiale – Si prova qualcosa ad essere una macchina?

Redazione: Riccardo, in questo tuo post hai condensato almeno tre punti molto rilevanti per la discussione sull’Intelligenza Artificiale e sulle macchine che agiscono guidate da sistemi intelligenti:

  • il primo – sulla bocca di tutti in questi giorni – è quello della trasparenza,
  • il secondo è quello della responsabilità di questi agenti in qualche modo autonomi, di cui abbiamo già scritto più volte nel blog, e che coinvolge un’intera filiera di soggetti
  • e il terzo è quello della soggettività degli automi.

È evidente che gli elementi più innovativi che stai introducendo in questo discorso sono:

1) quello che chiami “monologo interiore”, intimamente correlato al tema della trasparenza, e

2) la domanda, per me assolutamente inattesa, “ma sta succedendo qualcosa là dentro?”, che suggerisce di non trascurare la possibilità di una reale soggettività dell’automa.

Ritieni quindi che “monologo interiore”, “interiorità”, “soggettività” possano essere caratteri attribuibili ad un robot?

Riccardo: Per rispondere a questa domanda provo a definire chiaramente questi termini, perché spesso il guaio è che parlando di questi temi si utilizzano dei termini resi così laschi dagli anni di dibattiti che ognuno finisce un po’ per tirarseli dalla propria parte, con il risultato che tutti hanno ragione perché stanno parlando da soli.

E allora: il “monologo interiore” è l’idea di applicare ad un soggetto che si muove nello spazio (ad un robot nel nostro caso) un modo, uno spazio di lavoro, per connotare il proprio ambiente; e grazie a questo processo di continuo aggiornamento del proprio mondo, poter agire sempre più efficacemente sullo stesso.

Bene: su questo punto, a livello funzionale - ritengo che sia il caso di evitare un’analisi filogenetica - per me sia difficile trovare grosse differenze rispetto a ciò che una persona fa. Per quanto riguarda l’“interiorità”, definita come lo spazio in cui quel monologo interiore accade, mi pare chiaro che sia una condizione necessaria per l’esistenza di un monologo, avendo appunto un’azione bisogno di un luogo in cui svolgersi.

La “soggettività” è invece la dimensione più scivolosa. Però possiamo intenderla come il fantomatico “provare qualcosa ad essere (un soggetto)”.

Ecco, credo che questa dimensione soggettiva possa essere accessibile solo tramite due tratti essenziali: un qualche tipo di auto-narrazione e una fiducia nei confronti di quella narrazione e di quel narratore. A conti fatti ognuno di noi ha accesso soggettivamente solo alla propria soggettività e quella degli altri se la può, al massimo e ragionevolmente, immaginare.

Cosa è ragionevole però pensare quando vedo un cane con gli occhi chiusi che muove le gambe? E un polpo che si nasconde nella sua tana foderata di conchiglie? Sta succedendo qualcosa lì dentro?

È una questione di vita mi si dirà, di vita organica persino. Io credo, senza dire niente di nuovo rispetto alle riflessioni di Maturana Romesín e Varela García (1972, De máquinas y seres vivos), che si giri intorno alla questione, tutta individuale e privata, di “accettare emotivamente” o meno il fatto che la vita sia poco più che il tentativo di un sistema di riuscire a conservarsi.

Redazione: E tu Paolo, che hai speso anni in mezzo a queste macchine e queste domande, cosa ne pensi?

Paolo: Tendiamo ad attribuire un significato compiuto alle parole del nostro interlocutore, anche se il suo discorso è privo di senso; lo insegna Paul Grice, che segnala anche l’attitudine a riconoscere al partner intenzioni di veridicità e pertinenza. Credo che la nostra propensione al principio di carità si estenda al comportamento delle macchine, soprattutto a quelle di AI generativa, cui accordiamo intelligenza, coscienza e creatività, nel senso ordinario di questi termini.

Eppure, software di grande raffinatezza, come ChatGPT o AlexNet, mostrano con le «allucinazioni» che la loro presa su qualunque realtà esterna ai processi del codice è nulla.

Non possiamo pretendere che l’intelligenza artificiale possa diventare «generale» (AGI), e sia quindi in grado di paragonarsi a quella umana, a causa della definizione stessa che è stata adottata per la loro progettazione.

Il modello cognitivo che guida la pianificazione delle AGI è fondato su potenza di calcolo, quantità e stratificazione delle connessioni tra unità di calcolo. Si è dimenticato che invece l’intelligenza parte sempre da una domanda preliminare, e da una precomprensione del mondo e dell’ambiente: lo rilevano su ambiti di indagine differenti sia Popper sia Husserl.

Senza l’autonomia dello stimolo a porre interrogativi non c’è nessuna intelligenza (coscienza, creatività, ecc.) nel senso comune del termine. Credo invece che le Intelligenze Artificiali siano dispositivi nel senso pieno indagato da Agamben (2006, Che cos'è un dispositivo?): pongono in essere un dominio di esperienze che prima non esisteva, stabilendo un nuovo campo di poteri e saperi.

Se le si osserva nella prospettiva del loro contributo alla storicità e al potenziamento dell’intelligenza (senza aggettivi di specificazione), assumono un profilo meno fantascientifico ma più ricco di senso, rientrando nella tradizione del pensare per segni che trova la sua fondazione in Leibniz e nei suoi studi sulla characteristica – ma soprattutto che prosegue il percorso di riflessione e di progettazione che Doug Engelbart ha inaugurato insieme ad English nel 1968 (A Research Center for Augmenting Human Intellect).

Redazione: Grazie a entrambi, più che darmi delle risposte, avete delineato due veri programmi di lavoro, distinti e complementari, uno fenomenologico e l’altro più analitico e cognitivista. Programmi che possono convergere o divergere.

Lo capiremo, forse, nella prossima parte della conversazione, dalla risposta che Riccardo darà a questa domanda:
il requisito di essere incorporata in un robot, è obbligatorio per riconoscere ad una IA generativa come, ad esempio, Chat GPT, il diritto all'integrità di cui parli? Le altre istanze, quelle esclusivamente dialoganti che troviamo sul web, non hanno diritto a questo riconoscimento?

A tra due settimane!


Giocattoli di genere - Psicologia e influenza sociale

La psicologia, la filosofia e la sociologia hanno documentato come i giocattoli per l’infanzia siano portatori di modelli sociali legati al genere. In questa sede, ci concentreremo prevalentemente sul gioco in età infantile, cercando di esaminare non solo come esso trasmetta stereotipi di genere già in questa fase della vita, ma anche come sia un momento molto importante nei processi di sviluppo per bambini e bambine.

Innanzitutto, cos’è il gioco? La Treccani lo definisce così: “esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche”[1]. Se diamo a questa definizione generica una sfumatura, funzionale allo scopo di questo post, potremmo aggiungere che il gioco non è un’entità statica ma si modifica, mutando i propri contenuti e la loro fruizione, al variare dei contesti (socioculturali, anagrafici ecc.).

Andiamo ad approfondire il discorso esaminando alcune riflessioni psicologiche sul fenomeno del gioco:

  • Secondo H. Spencer (1820-1903), attraverso il gioco si bruciano le energie che si dovrebbero consumare nella lotta per la sopravvivenza; lotta che gli esseri umani non attuano più, in quanto “evoluti”. C’è dunque un patrimonio energetico che non si sfrutta più, ma che deve essere scaricato «in modo istintivo»[2]; il suo sfogo è individuato nell’attività ludica, grazie alla quale «il bambino sprigiona l’eccesso di energia psichica accumulata»[3].
  • La “teoria catartica” di S. Freud (1856-1939) e A. Adler (1870-1937) afferma che «il gioco avrebbe la funzione di liberare l’individuo da tendenze o istinti incompatibili con le esigenze della vita sociale»[4]. Inoltre, lo stesso Freud «per primo ha posto in evidenza la funzione del gioco come manifestazione simbolica di disturbi profondi, di un conflitto psichico inconscio che richiede risoluzione»[5].
  • Winnicott (1896-1971) «ha studiato lo sviluppo del bambino e le diverse fasi che lo contraddistinguono a partire dal grado di dipendenza del bambino dalla figura di accudimento. Egli ha sottolineato come il gioco permetta al bambino di prendere consapevolezza di sé stesso e, attraverso la creatività, di imparare a conoscersi»[6].

Per quanto riguarda le teorie dello sviluppo, citiamo:

  • Per K. Groos (1861-1946), il gioco è un bisogno innato che ha valore di esercizio preparatorio alla vita adulta (spesso, infatti, i bambini si divertono a imitare il comportamento dei “grandi”). Pertanto, «con il gioco, […] il bambino acquisisce abilità e schemi mentali man mano più complessi che risultano indispensabili per condurre una vita autonoma»[7].
  • Vygotskij (1896-1934) ritiene che il gioco abbia una funzione fondamentale per lo sviluppo del bambino su più livelli (cognitivo, emotivo e sociale)[8]. Egli evidenzia, inoltre, «come nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenti per il bambino un utile strumento per la gestione dell’emotività ansiogena e per la realizzazione di desideri insoddisfatti, mentre si sta relazionando con difficili compiti evolutivi, quali la differenziazione e il distacco dalla figura materna, la scoperta del Sé, la dilazione dei propri desideri»[9].
  • Secondo J. Piaget (1896-1980), il gioco ha «la funzione di palestra di sviluppo, di esercitazione attiva e interattiva con l’ambiente, in grado di apportare competenze e abilità all’individuo in stretta correlazione con lo sviluppo neurobiologico e cognitivo del medesimo»[10]. In breve: «il giocare muta nella sua forma con il crescere del fanciullo»[11]; rimarcando così «una corrispondenza diretta tra gioco e sviluppo mentale del bambino»[12]. La teoria di questo autore prevede dunque degli stadi, secondo cui «il bambino matura superando una serie di tappe»[13].

Dal punto di vista sociale, infine, riportiamo:

  • Fröbel (1782-1852) ritiene che il gioco sia lo strumento grazie al quale il bambino si relaziona sia col mondo esterno, sia con gli altri individui[14].
  • Huizinga (1872-1945) «ha considerato il gioco come il fondamento della cultura e della vita umana organizzata in società»[15]; per questo autore, l’essere umano «è soprattutto Homo ludens più che sapiens»[16].
  • Caillois (1913-1978) distingue quattro categorie:
    • «Giochi di competizione (agon): tutte le gare in generale»[17], fisiche e mentali;
    • «Giochi di fortuna (alea): dove il fattore primario è il caso»[18] (lotterie, scommesse, gioco dei dadi, “testa o croce” ecc);
    • «I giochi incentrati sulla finzione e il mimetismo»[19], definiti «di simulacro (mimicry)»[20], nei quali si imita qualcun altro (rientrano in questa categoria, per esempio, anche i giochi dove i bambini emulano le attività degli adulti);
    • «Giochi di vertigine (ilinx)»[21], dove vengono sfidati il pericolo e le leggi fisiche come, per esempio, gli sport estremi.

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Questa carrellata di teorie e di pensatori permette di capire come il gioco sia un’attività complessa, dalle infinite finalità e sfaccettature, e che sia un’occupazione decisamente più “seria” di quanto saremmo portati a pensare a prima vista. Essa coinvolge numerose abilità, impegnandoci sotto diversi punti di vista. Non a caso, «la principale caratteristica delle ricerche psicologiche degli ultimi decenni del 20° sec. è la rinuncia a una spiegazione unitaria ed esaustiva del significato psicologico del gioco»[22]; pertanto, «viene riconosciuta l’esistenza di forme distinte di gioco: ciascuna di esse assolverebbe diverse funzioni psicologiche, utili alla crescita fisica e psichica dell’individuo, oltre che all’adattamento e alla sopravvivenza della specie»[23]. Ricordiamo, inoltre, che i giochi di gruppo e i giochi sociali permettono relazioni interpersonali e stimolano attività condivise, ma possono creare ruoli e gerarchie; ed è proprio su questi concetti (ruoli e gerarchie) che ci dobbiamo soffermare per proseguire nell’esposizione.

Esaminiamo ora la nostra società, approfondendo il tema dei giocattoli e analizzando le imposizioni sociali che essi trasmettono a bambini e bambine, con particolare riferimento al genere.

Sotto un punto di vista evoluzionistico anche il genere sessuale e le caratteristiche temperamentali svolgono un ruolo discriminante a livello dell’evoluzione e della sperimentazione ludica, creando differenze tra maschi e femmine evidenti già dall’età infantile: i maschi sono infatti più orientati ad attività aggressive, competitive, realizzate singolarmente e basate sul movimento, sulla scoperta, sull’azione e la sperimentazione concreta, mentre le bambine appaiono propense a giochi realizzati in gruppo e fondati sull’accudimento, l’immaginazione, la cooperazione; tale differenza sembra generalmente dovuta ad una serie di influenze ambientali/esperienziali che rendono le femmine soggette ad un’educazione più improntata al controllo emotivo e alla bassa competizione rispetto al corrispondente maschile.[24]

Il discorso che ora dobbiamo affrontare prende le mosse dalla consapevolezza che i giocattoli sono (anche) uno strumento di controllo e conformismo sociale, costruiti per trasmettere (nonché conservare) modelli, ruoli e gerarchie fin dall’infanzia. Infatti, «è chiaro che anche i giocattoli sono fruitori di stereotipi di genere, intesi come rappresentazioni semplificate e riduzionistiche della realtà, socio-culturalmente condivise, che attribuiscono determinate caratteristiche agli uomini, alle donne e ai rapporti tra loro»[25]. Finalmente ci siamo: anche i giocattoli sono fautori di binarismo di genere! (Per intenderci: «si definisce binarismo di genere quella rigida distinzione tra maschile e femminile, uomo e donna, da cui deriva una altrettanto rigida aspettativa su quali debbano essere i comportamenti, gli atteggiamenti, l'aspetto, l'abbigliamento, i compiti di uomini e donne, chi debbano amare»[26]).

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Come si applicano le osservazioni e le analisi compiute fino a questo punto con uno sguardo su possibili sviluppi futuri?

Iniziamo parlando di “COFACE Families Europe”. Esso è un network che lavora per garantire pari opportunità e benefici a tutte le famiglie; co-fondato dall’Unione Europea, tra i suoi valori fondanti troviamo, per esempio, la non-discriminazione (il riconoscere tutte le forme di famiglia), il rispetto dei diritti umani e l’inclusione sociale. Vediamo adesso uno studio che ha coinvolto questa organizzazione:

"Con COFACE Families Europe lo scorso dicembre 2015 abbiamo lanciato una campagna sui social media, chiedendo a genitori e a chiunque volesse partecipare di inviarci foto di giocattoli e pubblicità, che mostrassero esempi positivi o stereotipi. La campagna, con l’hashtag #ToysAndDiversity ha avuto un buon successo e abbiamo deciso di andare più a fondo, con uno studio che ci facesse avere un’immagine più chiara di cosa ci fosse in Europa.

I primi anni della vita di un bambino sono fondamentali per il suo sviluppo e il gioco e i giocattoli contribuiscono a formare la personalità e gli interessi del bambino, influenzando così anche le scelte che farà nel suo futuro. Abbiamo quindi deciso, per cominciare, e per avere materiale abbastanza omogeneo, di guardare i cataloghi di giocattoli in diversi paesi europei. Con l’aiuto delle ONG che sono membri [sic] della rete di COFACE, con l’esperienza della campagna inglese “Let Toys Be Toys” e con il supporto scientifico di due professoresse universitarie, abbiamo raccolto i cataloghi e creato un questionario, composto da oltre 200 domande) che ci servisse per analizzarli."

Un anno dopo, ecco i risultati.

"Abbiamo analizzato le immagini di 3125 bambini in 32 cataloghi di 9 paesi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.

  • 12 cataloghi erano divisi in sezioni “per maschi” e “per femmine”. 20 cataloghi non avevano questa divisione formale ma le sezioni e i giocattoli per maschio/femmina erano facilmente individuabili con il colore delle pagine (rosa e colori pastello per le bambine, colori più scuri e marcati per i bambini), dall’associazione di giocattoli nella stessa pagina (bambole e peluche per le femmine, treni e dinosauri per i maschi).
  • i maschi erano almeno due terzi dei bambini presenti in 5 sezioni (su 13 in cui era diviso il nostro questionario): videogames (67%), costruzioni [sic] (69%), droni (72%), macchine e mezzi di trasporto (74%), guerra e armi (88%). Le femmine erano più di due terzi del totale solo in due sezioni: attività di cura, bambole (87%) e prodotti di bellezza (94,5%). Nelle altre sezioni, sebbene i numeri siano più bilanciati, si possono vedere delle grandi differenze guardando con quali giochi sono rappresentati i maschi e le femmine all’interno della stessa sezione (es. nella sezione “animali” i maschi giocano con dei dinosauri, le femmine coi peluche).
  • La sezione dei costumi e maschere è particolarmente interessante: nei cataloghi divisi tra […] maschi/femmine, la sezione per maschi aveva costumi per supereroi, personaggi di film e cartoni animati e professioni, come dottore, pompiere, poliziotto…, la sezione per femmine aveva un numero ridotto di personaggi dei cartoni e professioni e un altissimo numero di principesse. Nei cataloghi formalmente non divisi, maschi e femmine apparivano vestiti, in pagine diverse, con lo stesso tipo di vestiti proposti nei cataloghi con categorie separate. Due proposte quindi completamente diverse. Ma se scegliamo noi per loro, proponendo solo una parte delle maschere e dei costumi disponibili, non stiamo influenzando le loro scelte? Non stiamo già dicendo come “è normale” che si immaginino?

[…]

  • Sui 3125 bambini, 2908 sono stati identificati come bianchi, 120 neri, 59 di famiglie miste, 31 asiatici, 7 medio-orientali. Su 3125 bambini, nessuno aveva disabilità visibili." [27]

COFACE Families Europe si è impegnata, nel tempo, a promuovere campagne di sensibilizzazione sugli stereotipi trasmessi nei giocattoli rivolgendosi a diversi settori chiave, con lo scopo di sottolineare quanto sia importante che bambini e bambine decidano liberamente con cosa giocare, che non vengano limitati nel loro divertimento da imposizioni e pregiudizi[28].

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Esaminiamo adesso altri casi, che mostrano come (forse) le cose stiano cambiando:

  • Il 25 settembre 2019, l’azienda di giocattoli Mattel lancia sul mercato una nuova bambola “gender free”, descritta come «né maschio né femmina» e «libera di essere come vuole, senza etichette»; l’idea alla base di questo prodotto è quella di pensare un mondo più inclusivo, che oltrepassi i vecchi stereotipi. Infatti, si può creare un numero elevato di bambole, grazie alle molteplici possibilità di personalizzazione (il colore della pelle, i capelli, gli indumenti ecc.), nonché a una corporatura definita “neutra”, permettendo così a bambini e bambine di liberare la propria fantasia[29].
  • In Francia, nel 2019, una spiacevole consapevolezza ha portato a dei cambiamenti importanti. Infatti, «la mancanza di rappresentazione femminile scoraggerebbe le bambine nel perseguire una carriera nei campi delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)»[30]; tra i responsabili di questo problema sono stati individuati anche i messaggi trasmessi dai giocattoli per l’infanzia, i quali possono portare a cattiva comunicazione, ponendo il focus su una ristretta narrazione del mondo: «molto spesso, infatti, le bambine vengono associate a cucine, bambole, casette, che rimandano all’ambiente domestico, come a dire che da adulte saranno madri e donne di casa, al contrario dei maschietti, più di frequente raffigurati davanti a un microscopio»[31]. Così, il cambio di rotta: «l’accordo per una rappresentazione nel mondo del giocattolo più equilibrata è stato firmato dal governo francese, dalla Federazione Francese dei produttori di giocattoli e dalle associazioni di settore»[32]; uno statuto, quindi, che dovrebbe abbattere gli stereotipi di genere. Infatti, «i giocattoli legati alla scienza e alla tecnologia prodotti d’ora in avanti dovranno […] includere le ragazze e, che bella novità, i giochi legati alla sfera domestica dovranno includere anche i maschietti»[33]. Infine, sottolineiamo che «le nuove linee guida punteranno […] a spostare le attenzioni dei giocattolai verso il potenziale dei bambini e ciò che amano»[34].
  • Nel 2021, dopo aver commissionato un sondaggio internazionale, la Lego annuncia che eliminerà gli stereotipi di genere dai suoi giocattoli. È emerso, infatti, che «mentre le bambine sono sicure di sé e pronte a giocare anche con le confezioni di mattoncini pensate per i maschi, il 71% dei bambini intervistati ha confessato di temere di essere presi in giro qualora avessero utilizzato scatole descritte come “giocattoli per ragazze”»; l’articolo riporta, inoltre, che questa è «una paura […] condivisa se non più accentuata nei genitori». La Lego, insieme al togliere le etichette di genere sui suoi giocattoli, ha diviso i giochi per “passione”.[35]

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È giunto il momento di tirare le conclusioni. Lo scopo di questo articolo è di esporre il delicato tema dei giocattoli per l’infanzia, cercando di mostrare il grande potere che tali strumenti hanno nella creazione di un conformismo collettivo, che ci influenza fin da piccoli. Per esporre le mie riflessioni in modo efficace, ho voluto iniziare con un’analisi del fenomeno “gioco”, in modo da falsificare i miti che lo vogliono vedere solo come un momento di svago fine a sé stesso; successivamente, ho voluto studiare la società in cui ci muoviamo. Come ho cercato di mostrare, le influenze sociali sono ovunque, immateriali e silenziose, ma ci plasmano in ogni momento della nostra vita dicendoci, per esempio, cosa pensare, dove andare, chi vedere ecc. E’ il prezzo da pagare per vivere in una società ordinata e non caotica. Tuttavia, voler comprendere questi schemi intorno a noi è il primo passo per una maggiore consapevolezza, grazie alla quale si può fendere il velo che avvolge la superficie delle cose, scavando più in profondità e accedendo così a un mondo completamente nuovo, invisibile e sotterraneo. È fondamentale, infatti, imparare a riflettere e a decostruire i modelli sociali, guardare la realtà con occhio attento e critico, non pensare che sia tutto immutabile, ma capire che la linea di demarcazione può essere rinegoziata e spostata «sempre un po’ più in là...» (per citare una raccolta di storie di Corto Maltese). I giocattoli, per tornare a noi, sono dunque uno dei tanti modi con cui siamo bombardati da influenze e scelte che (forse) in realtà non ci appartengono, tra l’altro in un periodo della nostra vita davvero importante: avere (o non avere) determinati stimoli in età infantile può plasmare gli adulti che saremo. Se è vero che il giocare prepara i piccoli alla vita “da grandi”, è innegabile che molti giocattoli in commercio assolvono a questa funzione, ma al costo di incanalare bambini e bambine nei ruoli che la società ha costruito per loro e per la loro vita futura, stabilendo che tipo di adulti saranno e discriminando chiunque non si conformi a questa collocazione. I giocattoli, pertanto, aprono un’interessante finestra sulla nostra stessa realtà sociale, sul mondo in cui viviamo, con tutti i suoi stereotipi da individuare (sono ben nascosti), esaminare, comprendere e, lo ripeto, decostruire.

 

Note e Bibliografia

[1] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[2] https://www.studenti.it/gioco-in-pedagogia-come-strumento-educativo.html

[3] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[4] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[5] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[6] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[7] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[8] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[9] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[10] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[11] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[12] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it)

[13] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[14] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[15] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[16] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivi in origine)

[17] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[18] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[19] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[20] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[21] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[22] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[23] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[24] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[25] Sinapsi - Spiderman non è una principessa e non è rosa... eppure ad Emma piace! Gli stereotipi di genere nei giocattoli (unina.it)

[26] Sinapsi - Binarismo di genere: fin dove possono spingersi le sue conseguenze? (unina.it)

[27] Stereotipi di genere: l'educazione inizia dai giocattoli - Netural Family-Attività per bambini a Matera e proposte innovative per famiglie felici.

[28] #ToysAndDiversity | COFACE Families Europe (coface-eu.org)

[29] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: Barbie, arriva la bambola "gender free": "Libera da ogni etichetta perché i bambini sono contrari agli stereotipi" - Il Fatto Quotidiano

[30] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[31] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe

[32] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[33] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe

[34] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[35] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: La Lego annuncia, niente più etichette di genere sui giocattoli - Notizie - Ansa.it