1 – Il mito dell’Illuminismo

Esistono libri di intelligenza contagiosa, in cui l’audacia delle tesi e la felicità dell’argomentazione sembrano poter contaminare anche il lettore, e promettere un futuro meno assopito nell’inerzia dei pregiudizi e della noia accademica. L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow appartiene senz’altro a questo manipolo di capolavori, con l’invito a ripensare le categorie di modernità, di democrazia, di barbarie, di organizzazione, di potere – ma soprattutto a rigettare la fede nell’esistenza di una «cultura occidentale», la cui natura giustificherebbe ogni altra distinzione, classificazione, e l’intera epistemologia delle scienze sociali. In effetti il riesame coincide con una ricusazione delle differenze tra la civiltà che gli europei hanno sviluppato sul continente (ed esportato ovunque con la colonizzazione) – e le forme di vita frequentate dalle popolazioni cui assegnamo qualche tipo di minorità, che le rende adatte agli studi di etnologia.

L’Illuminismo è la frattura storica che assegnerebbe all’Occidente alla sua posizione straordinaria nel mondo e nella storia, perché avrebbe reso la nostra civiltà l’unica ad aver ucciso il suo Dio e ad essere sopravvissuta al delitto, con una volontà di potenza accresciuta, e persino con un’autocoscienza più intensa. La fine dell’egemonia religiosa avrebbe avviato la legittimazione della scienza, del potere politico, delle tecniche, solo sul fondamento della sola razionalità umana: avrebbe scisso la neutralità della logica e dell’osservazione empirica da un lato – e gli interessi, le finalità pragmatiche dell’individuo e della collettività dall’altro lato. La lucidità di questo sguardo, purificato dai pregiudizi e dalle pressioni dell’utilità sociale, permetterebbe alle nostre scienze sociali di osservare le altre culture (e naturalmente anche la nostra) con un’obiettività che nemmeno loro possiedono su se stesse.  

Il primo obiettivo di Graeber e Wengrow è denunciare la narrazione sull’Illuminismo come una mitologia patologica, paragonabile a quelle che diagnostichiamo alle altre etnie. Il metodo consiste in una rilettura degli autori Settecenteschi, alla ricerca delle ragioni per cui dalla metà del secolo il dibattito sull’origine della diseguaglianza tra gli uomini, e quello sulla libertà individuale, diventano tanto pressanti. L’indagine è radiologica, individua l’ossatura delle argomentazioni originali, e la nervatura di trasmissione delle idee, al di sotto dei pregiudizi con cui i commentatori successivi hanno rivestito le dichiarazioni di Rousseau, Voltaire, Diderot, Montesquieu. L’esame critico delle istituzioni politiche europee attraverso gli occhi di stranieri, dagli amerindi ai persiani, è stato un genere letterario per tutto il Settecento: ma i suoi contenuti non devono essere intesi come prodotti di finzione. La pubblicistica dei frati missionari che hanno accompagnato gli eserciti spagnoli, francesi e britannici nella colonizzazione delle Americhe, quella dei gesuiti che hanno esplorato l’Oriente – la presenza in territorio europeo di ambasciatori delle tribù indigene d’oltreoceano – hanno contaminato il pensiero dei philosophes con idee non rispettose della teologia politica, delle istituzioni feudali e delle loro estensioni assolutistiche; il contagio si è propagato con il dibattito sulla separazione dei poteri dello stato, l’infiammazione dell’opinione pubblica contro i privilegi dell’aristocrazia, la decapitazione del re, l’elaborazione dei codici napoleonici, le convulsioni rivoluzionarie attraverso tutto il continente.

2 – Il mito delle origini

Ma il fine di Graeber e Wengrow è proprio quello di riportare alla luce il brulichio di esperienze culturali animate da una coscienza laica, da un’esperienza politica raffinata, da una complessità concettuale sull’organizzazione sociale, sui fondamenti di legittimazione del potere e della ricerca della verità, che si sono sviluppate al di fuori (e prima) dell’Europa illuministica. Le prodezze del politologo wendat Kondiaronk inaugurano un’anamnesi di fonti dimenticate e di nuove scoperte archeologiche, che sollecita una diagnosi differenziale rispetto alle tesi di Hobbes sulla condizione di guerra di tutti contro tutti nello «stato di natura», e alla storia evolutiva che Rousseau ha raccontato nel Discorso sull’origine della diseguaglianza (e che tutti hanno continuato a ripetere per oltre due secoli). 

Il filosofo ginevrino riconosce senza reticenza che la sua ricostruzione non si fonda su alcuna prova empirica; ma l’impianto di fondo della sua favola non è mai stato contestato. L’uomo delle origini giacerebbe inerte presso le radici degli alberi che possono alimentarlo, privo di linguaggio, di pensiero e di società, dedito alla soddisfazione dei bisogni primari con il minor dispendio possibile di energia. La razionalità avrebbe fatto irruzione (insieme alla coscienza della mortalità, agli interessi sessuali e sociali, alla tecnica e alle funzioni verbali) nell’istante in cui imitazione e vocazione di perfezionamento hanno corrotto la natura umana e hanno avviato la sua decadenza. Libertà e uguaglianza sarebbero proprietà solo delle comunità più antiche, limitate a pochi individui e ad una struttura priva di articolazione funzionale e di necessità politiche. La complessità inoculata dall’agricoltura e dalle tecniche di canalizzazione delle acque, di gestione dei magazzini per le scorte, avrebbe provocato la remissione della democrazia comunitaria e la degenerazione verso le gerarchie degli imperi autoritari. L’evoluzione avrebbe condotto alla schiavitù e alla degradazione morale, a causa della corruzione dei costumi – effetto collaterale dell’articolazione sociale.

3 – Creatività politica

Al contrario, Graeber e Wengrow scoprono una creatività politica che scardina la complessità dei bisogni e delle azioni collettive dalla struttura del potere. Le comunità hanno sempre elaborato una comprensione esplicita della loro configurazione sociale, e della costituzione che legittima l’autorità di chi esercita il potere: probabilmente una delle meno consapevoli è stata proprio quella europea del Medioevo, che ha subito la tirannia di feudatari e imperatori, e che ha creduto nei principi della teologia politica. L’interpretazione dei reperti archeologici, con nuove domande e nuovi dati, permette di distillare una nuova comprensione delle società amerinde e orientali, dove la proliferazione delle forme di vita e la tassonomia delle identità politiche hanno tentato ibridazioni di ogni genere. Gli uomini non hanno rispettato i confini della differenza linguistica, della distanza geografica, della differenza di abitudini tecniche e alimentari, per sentirsi parte dello stesso popolo: le generalità dell’antenato totemico hanno permesso a uomini e donne di ottenere accoglienza fraterna presso gruppi dislocati anche dall’altra parte del continente Al contempo, la mancanza di infrastrutture di comunicazione di massa ha impedito ovunque, a qualunque forma di tiranno, di raggiungere con il suo potere assoluto individui distanti anche solo qualche chilometro dalla sua dimora. 

Peraltro la configurazione stessa delle comunità, e del loro coordinamento politico, è stata modellata da esigenze di vario tipo: molte popolazioni hanno obbedito a due ordinamenti diversi ogni anno, secondo cadenze stagionali, disperdendosi in piccoli gruppi durante il periodo propizio per la caccia, e riunendosi in città o villaggi nel periodo dei raccolti. Hanno anche abbracciato, e poi abbandonato, tecniche che la narrazione di Rousseau dispiega in un ordine storico sequenziale e irreversibile – come è accaduto per l’agricolutura, che diverse civiltà del Medio Oriente e delle Americhe hanno prima esercitato, poi trascurato per recuperare strategie economiche fondate sulla caccia e sulla raccolta. 

Persino l’autorità andrebbe ripensata in modo radicale, dal momento che all’investitura divina dovrebbero sostituirsi altre modalità di legittimazione, spesso riconducibili a qualche forma di talento, come l’abilità agonistica (che include anche, ma non solo, l’uso delle armi). L’aristocrazia degli Olmechi amava farsi ritrarre in tenuta da giocatore di palla, e ha consegnato questa cultura competitiva a bassorilievi che sono giunti fino a noi. In generale la dedizione alla combattività ha plasmato tutte le civiltà oligarchiche, e il peso della loro visione del mondo deve essere stata all’origine non della formazione – ma più spesso, della dissoluzione di città e di interi regni. La diaspora della popolazione di aree urbane e di percorsi commerciali può essere motivata dal bisogno di sottrarsi al controllo e alle pratiche di violenza con cui i gruppi nobiliari si sono sovrapposti alle organizzazioni precedenti; la gente ha preferito tornare a condizioni di autorganizzazione diverse (stagionali, totemiche, repubblicane), ignorando il precetto dello schema evolutivo di Rousseau, che le assegnerebbe ad una fase più antica, e disgregando regni e imperi. Le città sono un prodotto dell’immaginazione, non conglomerati di abitazioni, e la Teotihuacan priva di un governo secoli fa, come la Milano lottizzata di oggi, si estendono sul progetto e sulla visione del mondo in cui crediamo; la distribuzione in classi può essere l’effetto del gioco, dello sport, della conoscenza, della ritualità, senza essere per forza una mappatura della distribuzione del potere coercitivo.

La verità, di cui i reperti archeologici sono solo dei sintomi, rimarrà forse insondabile per sempre. Ma l’esercizio diagnostico di Graeber e Wengrow è prima di tutto una terapia contro l’inerzia della nostra immaginazione intellettuale. Combatte l’atrofia concettuale con cui ripetiamo la stessa storia sull’evoluzione della civiltà, delle tecniche, della politica e dell’economia; è un integratore di ipotesi e di informazioni che rianima un modello di umanità più intelligente e più affezionata alla libertà, alla ricerca della felicità, rispetto a quello che si è sclerotizzato nel mondo in cui noi ci siamo condannati a sopravvivere: quello dove «non ci sono alternative» al nichilismo del lavoro fine a se stesso, dell’arricchimento fine a se stesso, della fine della storia. Ma un universo dove non si attende più un futuro, che non sia la ripetizione vegetativa del presente, non ha nemmeno un passato da ricordare: è per questo che soffriamo la nevrosi della favola di Rousseau, senza cercare di uscirne. Il merito di Graeber e Wengrow è di aver tentato una cura, con uno scavo entusiasmante che attraversa ogni angolo del mondo, e che sollecita la nostra curiosità a far rifluire energie concettuali dove il pensiero era rimasto paralizzato, irrigidendosi nella fede della corrispondenza tra evoluzione tecnica e configurazione politica, dell’irreversibilità del percorso storico, della permanenza dell’umanità in un’infanzia della ragione, da cui solo l’Illuminismo europeo ci avrebbe educato a crescere. Gli uomini sono sempre stati adulti, e hanno sempre saputo scegliere l’alternativa migliore per loro: con buona pace della signora Thatcher, è ora che torniamo a esserlo anche noi.

Autore

  • Si occupa di media digitali dal 1999: è co-fondatore di Pquod e VentunoLab, società specializzate nella comunicazione web e nell’analisi di dati. Ha svolto attività di docenza per il Politecnico di Milano e l’Università degli Studi di Milano. Dal 2011 pubblica sulle testate Linkiesta, pagina99, Gli Stati Generali. È il direttore responsabile di Controversie. Per le pubblicazioni: https://scholar.google.com/citations?hl=it&user=zSiJu3IAAAAJ

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