Enrico Fermi e il premio Nobel controverso
Grazie a un intervento di Carlo Rovelli sul Corriere della Sera sul tema della Bomba Atomica, è tornata alla ribalta una controversia scientifica degli anni ’30 sulle motivazioni del premio Nobel a Enrico Fermi, che assume – rileggendola oggi - risvolti di genere e politici.
Il tema principale della controversia è, appunto, se l’attribuzione del premio Nobel a Enrico Fermi nel 1938 sia giustificata oppure sia stata un errore; di questo parere fu, pochi mesi dopo la consegna del premio, la chimica tedesca Ida Noddack.
Nella puntata della Serie “La bomba atomica” di Rovelli – che aderisce al “partito dell’errore” e al punto di vista di Ida Noddack, e sostiene che la posizione della chimica tedesca sia stata trascurata perché chimica e perché donna - ha dato il via, con molte risposte di fisici e accademici italiani, a una ulteriore controversia, sulla figura di Fermi stesso, dal punto di vista scientifico e morale [1].
LA CONTROVERSIA SUI DUE NUOVI ELEMENTI AUSONIO E ESPERIO
Tralasciando la discussione sulla statura scientifica e morale di Enrico Fermi, proviamo a sintetizzare i termini della discussione sul Nobel – che avvenne a distanza ed ebbe, effettivamente – ben poca risonanza.
Il Nobel per la fisica del 1938 fu assegnato a Fermi perché aveva scoperto – nel 1934 – la radioattività artificiale. Nella motivazione si parla della possibilità di frammentare gli elementi più pesanti della tavola periodica attraverso il bombardamento con neutroni; in sostanza, della fissione nucleare. Associato a questo fenomeno, si legge sempre nella motivazione, ci sono: l’emissione di radiazioni, sotto forma di nuclei di elio e di idrogeno; la generazione di isotopi radioattivi degli elementi bombardati; e – nel caso del bombardamento dell’uranio (che ha numero atomico 92) la probabile produzione di due nuovi elementi, con peso atomico 93 e 94.
Il punto cruciale della controversia è questa ultima “probabile” scoperta: la generazione dei due nuovi elementi, chiamati da Fermi e dai “Ragazzi di via Panisperna” Ausonio e Esperio, antichi nomi dell’Italia preromana.
Fermi e alcuni dei suoi collaboratori furono molto prudenti, non garantiscono la sicurezza defiitiva della produzione dei due elementi; fu Orso Maria Corbino, ex-fisico e ex-senatore del Regno, noto per la sua capacità di cogliere le potenzialità applicative delle scoperte scientifiche ad annunciare la scoperta come certa, all’Accademia dei Lincei; la scoperta fu poi caricata di valore simbolico e politico dalla stampa fascista.
Nel settembre del 1938, Ida Noddack, con un articolo pubblicato sulla Zeitschrift fur Angewandte Chemie (Rivista di Chimica Applicata), contesta che 1) il metodo applicato da Fermi sia corretto dal punto di vista chimico, che 2) sia effettivamente possibile produrre i due nuovi elementi in quel modo e che 3) le osservazioni effettuate ne provino l’effettiva presenza.
Noddak è molto precisa e circostanziata nella sua critica e – nello stesso tempo – molto corretta nel riconoscere a Fermi la prudenza con cui ha dichiarato la possibile scoperta dei due elementi e nell’attribuire la risonanza di questa scoperta ai media del tempo.
E, inoltre, non contesta null’altro dello studio di Fermi e dei suoi colleghi.
CONCLUSIONE DELLA CONTROVERSIA
La controversia non ebbe seguito, evidentemente, poiché il 10 dicembre dello stesso anno il Professor H. Pleijel, Chairman del Comitato Nobel per la Fisica della Royal Swedish Academy of Sciences, pronuncia il discorso di conferimento del premio che include anche la scoperta di Ausonio e Esperio.
Ida Noddack non ebbe modo – nonostante ne avesse i mezzi tecnici – di provare con certezza e sul campo che la sua contro-ipotesi fosse corretta.
Di fatto, è molto probabile che Noddack avesse ragione e che la presenza di isotopi 93 e 94 fosse poco più che casuale, difficilmente correlabile all’esperimento, nel mezzo di una quantità – questa indiscutibile – di prodotti della fissione indotta dal bombardamento neutronico.
I due elementi con peso atomico 93 e 94 furono prodotti poi dal ciclotrone del Lawrence Berkeley National Laboratory dell'Università della California, nel 1940, e chiamati con i nomi di Nettunio e Plutonio (di quest’ultimo fu trovata per la prima volta negli anni settanta la presenza allo stato naturale in Canada).
PRESUNTE QUESTIONI DI GENERE E DI CHIMICA
L’articolo di Rovelli avanza l’ipotesi che questa conclusione della controversia – a favore di Fermi - sia stata dettata da due pregiudizi, il primo di genere e il secondo disciplinare: secondo l’autore la contestazione di Noddack è stata trascurata perché lei era donna e perché era una chimica.
Entrambe le questioni sono degne di considerazione, poiché negli anni ’30 vigeva un deciso atteggiamento maschilista, nelle scienze e ancora di più nella società comune, con accenti ancora più pronunciati in Italia e in Germania, sotto le dittature nazi-fasciste; e poiché quelli erano gli anni in cui la fisica sembrava essere la scienza per eccellenza, anche se i lavori di Fermi e della sua squadra poggiavano su basi chimiche importanti.
Tuttavia, si può sollevare qualche dubbio su una di queste interpretazioni, infatti, Ida Noddack era una chimica di fama, a 26 anni ottenne un posto di visiting scientist nel prestigioso Istituto Fisico-Tecnico di Berlino, con il marito Walter Noddack pubblicò più di 100 articoli scientifici, insieme a lui e a Otto Berg scopre gli elementi con numero atomico 43 e 75, e nel 1931 fu premiata con la medaglia Liebig per la scoperta del Renio e fu candidata al Nobel 4 volte, oltre che essere riconosciuta dal suo gruppo di lavoro, composto da tutti maschi oltre a lei, come la mente e l’ispiritratrice di buona parte dei loro lavori.
Quello di Noddack non sembra, quindi, essere il profilo di una cenerentola della scienza; al contrario, Ida Noddack potrebbe a buon titolo essere considerata un esempio di scienziata che ha ricevuto attenzione e riconoscimento per il suo lavoro, in netta controtendenza rispetto al clima politico e culturale in cui si trovava a lavorare.
Interpretare la prevalenza dell’ipotesi di Fermi come l’effetto di un pregiudizio di genere sembra, quindi, essere azzardato, se non strumentale e finalizzato a collocare nel fil rouge, in voga oggi, delle discriminazioni di genere [2] una vicenda che – a nostro avviso – ha tutt’altro sapore.
POSSIBILI INFLUENZE POLITICHE SULLA DETERMINAZIONE DELLA CONTROVERSIA
La controversia tra Fermi e Noddack, in realtà, sembra essere stata di fatto sommersa, poiché Noddack si limitò a pubblicare l’articolo citato, senza dare seguito alla questione, articolo che probabilmente passò inosservato anche agli stessi scienziati coinvolti nella questione.
Se, al contrario, avesse avuto pubblicità e seguito, sembra fuori di dubbio che avrebbe potuto essere una controversia decisamente di sapore scientifico, giocata sul filo della validità del nesso causale tra struttura sperimentale e presenza degli elementi 93 e 94.
Causalità su cui lo stesso Fermi – come abbiamo già visto – sembrò essere molto prudente e, forse, dubbioso. Ma che fu data per certa dai media italiani, alimentati da O. M. Corbino.
Nel contesto politico degli anni ’30 del XX secolo, infatti, una scoperta comprensibile a tutti come quella di nuovi elementi portava onore alla scienza italiana e al regime; i nomi scelti, Ausonio e Esperio, erano in linea con la retorica romanizzante; l’ambiente accademico tedesco, già in piena fase di nazistizzazione (Heidegger, ricordiamolo, si iscrisse al Partito Nazional Socialista nel 1933), non era certamente favorevole a contrastare il successo scientifico e mediatico dell’alleato italiano.
Questa, a nostro avviso, potrebbe essere la chiave di lettura della risoluzione a favore di Fermi, con l’interpretazione certa della scoperta di Ausonio e di Esperio tra i risultati sperimentali di Fermi e – di conseguenza – sull’inserimento anche di questa tra le motivazioni del Nobel.
NOTE:
[1] Per chi volesse approfondire questa discussione, ecco alcuni link a interventi significativi:
- Commento della Prof.ssa Angela Bracco all’articolo del Prof. Carlo Rovelli su Enrico Fermi. https://associazioneitaliananucleare.it/commento-della-prof-ssa-angela-bracco-allarticolo-del-prof-carlo-rovelli-su-enrico-fermi/
- A. Zaccone, From physicist to physicist: Rovelli, you are wrong about Fermi, https://www.researchgate.net/publication/394926645_From_physicist_to_physicist_Rovelli_you_are_wrong_about_Fermi
- Lettera del prof. Ambrosini, membro del Direttivo AIN, in risposta al Prof. Rovelli su Enrico Fermi, https://associazioneitaliananucleare.it/lettera-del-prof-ambrosini-membro-del-direttivo-ain-in-risposta-al-prof-rovelli-su-enrico-fermi/
- Ugo Amaldi, Riccardo Barbieri, Giorgio Capon, Luciano Maiani, Monica Pepe Altarelli, La vera eredità di Enrico Fermi. Una risposta a Rovelli, https://normalenews.sns.it/la-vera-eredita-di-enrico-fermi-una-risposta-a-rovelli
[2] Si veda, ad esempio, G.M. Santos, A tale of oblivion: Ida Noddack and the 'universal abundance' of matter, DOI:10.1098/rsnr.2014.0009
La “reazione all’oggetto” - Una distorsione in cui (almeno) i politici non dovrebbero cadere.
La “reazione all’oggetto” è un fenomeno (molto?) noto a chi si occupa di costruzione dei questionari. Consiste nel fornire un’opinione che non si basa sul contenuto di una affermazione - sulla reazione a una dichiarazione - ma sull’autrice (in questo articolo viene usato il femminile sovraesteso. Ne abbiamo già parlato qui, qui e qui) della stessa. È un processo inferenziale di tipo cognitivo-emotivo, in cui incorriamo quasi quotidianamente: ascoltando dichiarazioni, sentendo pettegolezzi oppure leggendo notizie su eventi accaduti, spesso ci chiediamo: “chi l’ha detto?”. Siamo, cioè, più interessate alla fonte (l’emittente) che al contenuto del messaggio (enunciato). A volte questo è fondamentale, perché ci fa essere più caute nell’accettare un contenuto. Ma non è sempre bene agire così, dal momento che il contenuto potrebbe essere vero, anche se la fonte ha scarsa legittimazione. Ma non è questo il caso che voglio trattare.
DALLA METODOLOGIA…
La “reazione all’oggetto” è un processo cognitivo abbastanza ovvio, che però è rimasto a lungo ignorato nella letteratura metodologica. Quest’ultima aveva solo evidenziato che alcuni termini (come ad esempio ‘comunismo’, ‘democrazia’, ‘capitalismo’ ecc.) provocavano negli intervistati reazioni emotive che diventavano fonte di distorsione. Erano termini loaded, cioè carichi emotivamente (Kahn e Cannel 1957).
Invece a metà degli anni Ottanta, il metodologo ed epistemologo Alberto Marradi, ascoltando le registrazioni di interviste in cui Salvatore Cacciola somministrava delle scale Likert, scoprì che “una quota cospicua di interrogati non reagisce alle affermazioni, ma ai personaggi, alle azioni, alle situazioni menzionate dalle affermazioni stesse” (Cacciola e Marradi 1988, 86). Marradi battezzò ‘reazione all’oggetto’ questo fenomeno.
La prima forma di reazione all’oggetto, la più facilmente individuabile, si manifesta quando la frase esplicitamente o implicitamente disapprova un comportamento, un’azione o una situazione, che anche l’intervistata disapprova. Lei dovrebbe quindi dichiararsi d’accordo con la frase; invece, inaspettatamente, si dichiara in disaccordo, e solo dai suoi commenti (quando ci sono e sono registrati) si scopre che il disaccordo non riguarda l’affermazione in sé, bensì i personaggi o comportamenti descritti dall’affermazione (Cacciola e Marradi 1988, 87). Un esempio è il seguente: di fronte alla frase “Gli assenteisti sbandierano problemi di salute, ma sono soltanto dei fannulloni”, l’intervistata sceglie la categoria-Likert “del tutto in disaccordo” e poi commenta “Dovrebbero lavorare, non assentarsi dai propri posti di lavoro. Sono in disaccordo con gli assenteisti”.
Una seconda forma di reazione all’oggetto si produce quando la frase disapprova un personaggio o un comportamento che invece l’intervistata approva. Lei dovrebbe quindi dichiararsi in disaccordo con la frase; invece, si dichiara d’accordo e solo dai suoi commenti si scopre l’incongruenza (1988, 88). Ecco un caso: la frase dice “I sindacati italiani fanno troppa politica e così non possono fare gli interessi dei lavoratori”. Un intervistato, dopo aver assegnato (inaspettatamente) su tutte e tre le tecniche punteggi di moderato accordo, dichiara: “No, io dico che i sindacati hanno portato dei miglioramenti, che se non c’erano era peggio. Io mi ricordo, tempo del Duce, che i sindacati non c’erano; dopo, che si sono potuti fare, c’è stato un bel miglioramento. Io dico che non sono la rovina d’Italia”. (esempio riportato in Sapignoli 1992, 112).
… AL PROBLEMA DEL TESTIMONIAL…
Questa distorsione si accresce quando le intervistate vengono chiamate a reagire a frasi affermate da persone molto note, come ad esempio il Papa, la Prima Ministra, il Presidente della Repubblica o altri personaggi famosi, non importa se politiche, artiste, scienziate ecc. Anche in questo caso le intervistate prestano poca attenzione alla frase detta dalla testimonial e reagiscono (dichiarandosi d’accordo o in disaccordo) al personaggio stesso. Per cui se vogliamo conoscere il parere (non distorto) delle persone, dovremmo mettere la frase senza farla dire a qualcuna. Ad esempio, somministrare la domanda: “Alcuni dicono che l’eutanasia è un omicidio? Lei è d’accordo o in disaccordo?”, anziché la domanda “Il Papa ha detto che l’eutanasia è un omicidio? Lei è d’accordo o in disaccordo?”.
… ALLA POLITICA
In seguito alle dichiarazioni del presidente francese Macron, che non escludeva l'ipotesi di invio di truppe Nato in Ucraina, sottolineando che bisogna fare "tutto il necessario per garantire che la Russia non possa vincere questa guerra", il 20 agosto, il vice-premier Matteo Salvini ha dichiarato: "A Milano si direbbe taches al tram: attaccati al tram. Vacci tu se vuoi. Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina".
In Italia sono pochi i partiti di opposizione che si sono espressamente dichiarati contrari a mandare armi e soldati in Ucraina. Fra questi il M5S e AVS (Alleanza Verdi e Sinistra).
Ebbene, davanti a una presa di posizione così netta da parte di un importante esponente dell’attuale Governo, ci si sarebbe aspettati un plauso del tipo: “Finalmente un esponente del Governo la pensa come noi” oppure “auspichiamo che la posizione di Salvini trovi ascolto nel governo”.
Invece no. Le reazioni sono state ben diverse.
Angelo Bonelli di AVS ha attaccato dicendo che “Salvini è il vicepremier e se lo dimentica sempre e conseguentemente usa un linguaggio volgare non adeguato al ruolo che riveste. Meloni dovrebbe insegnare o quanto meno ricordare a Salvini come ci si comporta e pertanto dovrebbe censurare le parole del suo vicepremier che hanno provocato un incidente diplomatico tra Italia e Francia”. Poi continua “che i militari italiani non debbano andare in Ucraina è fuori discussione ma con il linguaggio da osteria, Salvini dimostra di non essere adeguato al ruolo che ricopre”.
Meno drastico, ma comunque contorto, l’intervento di Stefano Patuanelli, capogruppo al Senato del M5S, in un punto stampa a margine della sua partecipazione al Meeting di Rimini, il 24 agosto: “… non è soltanto da oggi che il Ministro Tajani e il Ministro Salvini hanno una dialettica piuttosto aspra e contrapposta rispetto ai temi della politica estera. Non mi sorprendono neanche i toni di Matteo Salvini, perché siamo abituati a quel tipo di linguaggio. Come ho detto prima, credo che non sia soltanto Macron che sta in questo momento sta interferendo in un percorso di pace, ma siano la maggior parte dei leader europei, compresa Giorgia Meloni. Le parole che Matteo Salvini ha rivolto a Macron potremmo rivolgerle tranquillamente anche alla premier".
Questi autorevoli esponenti dei due partiti, anziché reagire al contenuto delle dichiarazioni di Salvini hanno reagito al dichiarante (Salvini), al testimonial.
Ma se è comprensibile che in questa distorsione cognitivo-emotiva possano cadere delle intervistate, le persone che fanno politica dovrebbero essere più avvertite. In altre parole, quale scopo si prefiggono di raggiungere? L’affermazione della loro identità (partitica) oppure l’obiettivo di depotenziare sempre più l’ipotesi di inviare truppe in Ucraina?
Purtroppo, questo è solo uno delle centinaia di casi in cui esponenti politiche si comportano strumentalmente: criticare sempre qualunque cosa dica o faccia (saggia o meno, condivisibile o meno) l’avversaria politica.
Ma allora, che credibilità possono avere politici che usano la reazione all’oggetto al posto del discernimento?
Il cosmismo russo e le sue continuazioni
I cosmisti erano guidati dal desiderio di superare l'entropia del mondo e, come conseguenza, raggiungere l'immortalità umana, partendo dall'analogia tra il microcosmo umano e il macrocosmo universale. Se l'universo è infinito nello spazio, allora l'uomo deve essere infinito nel tempo e, dunque, solo nell'unione con il cosmo è possibile realizzare l’idea di immortalità. La realizzazione del progetto deve cominciare con la trasformazione antropologica dell'essere umano, basata su cambiamenti spirituali e morali. In sostanza, il cosmismo russo è una fase dell'evoluzionismo teistico, esistente da tempo, che prese la forma di un progetto dettagliato nel XIX secolo in Russia. Il progetto del XIX è stato seguito da una adozione, seppur modificata, nel pensiero sovietico post-rivoluzionario.
All'interno del grande movimento del cosmismo russo si distinguono tre direzioni:
- quella scientifico-naturale, in cui si poneva maggiore attenzione all'esplorazione scientifica e tecnica dello spazio;
- quella religioso-filosofica, che interpretava il significato dello sviluppo spirituale e morale dell'uomo;
- quella artistico-estetica, che insisteva sul ruolo predominante dell'arte come mezzo per la trasformazione cosmica del mondo.
Queste direzioni non si opponevano l'una all'altra, ma esistevano come tre in uno, con un obiettivo comune, la stessa piattaforma spirituale e un'unica idea della struttura del mondo, dell'uomo e dello spazio.
Il fondatore della direzione scientifico-naturale del cosmismo russo è il filosofo Nikolaj Fëdorov (1829–1903). Egli sosteneva che l'uomo, la natura e lo spazio sono uniti e interconnessi, perciò i cambiamenti nell'uomo, lo sviluppo della sua capacità di controllarsi non solo spiritualmente ma anche fisicamente, porteranno al controllo dell'uomo sulla natura e sullo spazio. E per fare ciò, è necessario superare le mancanze e i peccati che causano divisione tra le persone e ostilità. La direzione dell'evoluzione umana è indicata da Cristo nell'idea della resurrezione. Fëdorov unisce la dottrina cristiana al positivismo: per regolare la natura (stabilire nuove leggi), è necessario ricomporre gli atomi, il che cambierà non solo i fenomeni naturali, ma anche l'organismo umano.
Il più alto stadio di regolazione sarà uno stato della materia, della mente e dello spirito tale da permettere la resurrezione degli antenati defunti: essi appariranno nel mondo in una nuova forma ideale, dotata della capacità di autocreare un corpo a partire da sostanze inorganiche. Fëdorov non parla dell'immortalità cristiana delle anime, ma dell'immortalità dei corpi, che diventeranno come esemplari viventi da museo. Questo stadio dell'evoluzione verrà raggiunto quando l'umanità imparerà a controllare non solo se stessa e la natura, ma anche il Sole e l'Universo, che diventeranno il luogo per il reinsediamento degli antenati resuscitati e dei nuovi nati.
Konstantin Tsiolkovsky (1857–1935) credeva che non ci fosse alcuna frattura ontologica tra la mente e il mondo e, di conseguenza, che il cervello umano fosse una parte materiale dell'universo e che la volontà di un individuo riflettesse la volontà dell'universo.
Tsiolkovsky credeva nell'immortalità come indistruttibilità dell'essenza del mondo, che cambia solo forma. Creò una sua versione del Nuovo Testamento, secondo la quale Dio e l'universo, spirito e materia sono una cosa sola. La futura “beatitudine cosmica” non è immaginabile nello spazio tridimensionale: essa esiste in un oceano multidimensionale di luce, volontà razionale e grazia, abitato da esseri umani ideali. La competizione capitalista e lo sfruttamento devono essere sostituiti dal collettivismo e dalla solidarietà tra le persone.
Per avvicinare la felicità sulla Terra, Tsiolkovsky propose un piano di ricostruzione della società, che consisteva in uno stato totalitario su scala globale con una gestione gerarchica, al cui vertice si trovavano scienziati e artisti.
L'idea di Fëdorov di reinsediare gli antenati resuscitati nello spazio e di viaggiare attraverso le galassie ispirò Tsiolkovsky a sviluppare un modello di astronave. Egli effettuò i calcoli matematici dei parametri tecnici di un razzo in grado di lanciare un veicolo in orbita terrestre. In seguito, questi calcoli furono utilizzati da F.A. Zander, uno dei creatori del primo razzo sovietico a combustibile liquido, e da S.P. Korolev, progettista generale della tecnologia missilistica e spaziale sovietica.
Il “Regno dei Cieli” cosmico nella concezione di Vladimir Vernadsky (1863–1945) si manifesta nella forma della noosfera. Con noosfera (sfera dell'intelligenza), Vernadsky intendeva una fase nello sviluppo della biosfera, in cui l'attività razionale e intellettuale dell'umanità collettiva comincia ad avere una portata geologica, planetaria e poi extraplanetaria. Essa nasce come naturale sviluppo della biosfera in direzione etica e creativa.
L'ideale dello sviluppo noosferico diventa la sua “autotrofia”, cioè la liberazione dal bisogno di ottenere energia dalla biosfera terrestre e l'espansione dello sviluppo evolutivo dell'umanità prima nello spazio vicino (il sistema solare), e poi nello spazio lontano.
(Alla corrente religiosa e filosofica del cosmismo russo appartenevano Vladimir Solov’ëv, Nikolaj Berdjaev, Sergej Bulgakov, Pavel Florenskij e altri.
Il suo principale rappresentante, Vladimir Solov’ëv (1853–1900), affermava che l'umanità può rinascere solo attraverso la verità in Cristo, che comporta la distruzione della «grossolana ignoranza delle masse, la prevenzione della devastazione spirituale delle classi alte e l'umiliazione della violenza brutale dello Stato».
Solov’ëv riponeva le sue speranze nella trasformazione dell'umanità attraverso la teocrazia, ovvero tramite la creazione di uno Stato giusto e di un ordine sociale equo, in grado di realizzare gli ideali cristiani.
Come per gli altri cosmisti russi, nella sua visione l'idea dell'unità universale delle persone è di importanza primaria; questa idea, nella tradizione ortodossa russa, è chiamata "sobornost’" (conciliarità). Essa non è intesa come un'unione meccanica di individui, ma come:
«l'unità di tutti in uno, la coscienza di tutti in sé stessi e di sé stessi in tutti».
Tutti i cosmisti consideravano l'arte come mezzo di trasformazione del mondo, e non in senso metaforico, bensì in senso pratico: l'arte era riconosciuta come capace di trasformare fisicamente la materia.
Questo era il pensiero di Aleksandr Skrjabin (1872–1915), il rappresentante più coerente della corrente artistico-estetica del cosmismo russo. Con la sua ultima composizione (rimasta incompiuta), intitolata “Mistero”, il compositore intendeva completare l'esistenza del mondo attuale, unire lo spirito del mondo con la materia e dare così origine alla nascita di un nuovo mondo in forme non solo spirituali, ma anche materiali.
Quest'opera grandiosa e sincretica era pensata per un'enorme orchestra, un coro di 7.000 cantanti, luci, danza e movimenti plastici, e doveva essere rappresentata sulle rive del fiume Gange, in un tempio che si elevava sopra la Terra. L'intento era quello di unire l'umanità in un amore universale (compreso l'amore erotico), portando questo sentimento a uno stato estatico, in cui la materia si sarebbe fusa in un altro stato, unendosi con lo Spirito Assoluto per dare origine a una nuova vita cosmica in altre dimensioni.
Riassumendo le idee principali del cosmismo russo, possiamo evidenziare alcune proposte fondamentali considerate necessarie per raggiungere la fase cosmica dello sviluppo umano, nel senso più ampio del termine:
- Fede nei valori cristiani come base spirituale dello sviluppo umano.
- Relazione tra spirito e materia: lo sviluppo evolutivo della materia conduce a forme superiori di coscienza, la quale, a sua volta, è in grado di ricostruire la materia in una fase avanzata del progresso.
- Al centro del cosmismo vi è la creazione di un nuovo tipo antropologico di uomo e, di conseguenza, di una nuova umanità:
- Unità tra antropologico, sociale e ontologico: in altre parole, il modo fisico di esistenza dell'umanità è determinato dalle caratteristiche antropologiche dell'uomo, che a loro volta determinano la struttura sociale.
- La società spaziale del futuro si fonda sull'unione fraterna dell'umanità, basata sull'amore, sull'uguaglianza e sulla solidarietà a livello planetario.
- Le utopie cosmiste descrivono una società futura centralizzata, collettivistica e gerarchica, con scienziati e artisti al vertice della gerarchia cosmica, a testimonianza di una dominanza dello spirituale nella scala di valori.
Paradossalmente, ma in modo naturale, uno sviluppo concreto delle idee cosmiste fu rappresentato dalla Repubblica Sovietica nata nel 1917, che mirava alla costruzione di una società senza classi, in cui le differenze tra gli individui fossero superate. L'individualismo venne sostituito dal collettivismo, che trae origine sia dalla fratellanza cosmica che dalla sobornost’ ortodossa.
I comunisti sostituirono l'unità in Dio con l'unità nel collettivo, mettendo gli interessi della società e dello Stato al di sopra di quelli individuali. Questo contribuì al raggiungimento di straordinari risultati in tempi brevi, come i progressi scientifici e spaziali dell'URSS. Il “Codice del Costruttore del Comunismo” – documento ufficiale del Partito Comunista – proponeva una morale affine ai comandamenti cristiani, benché l'ideologia sovietica fosse basata sul materialismo marxista. La morale comunista affermava la prevalenza dello spirituale sul materiale, sia per l'individuo che per la collettività.
Fu così introdotta l'istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, e fu assegnato un ruolo speciale a scienziati, letterati e artisti, che – come nei testi cosmisti – occupavano il vertice della piramide sociale. L'impulso spirituale collettivo, che pervadeva la coscienza popolare, conteneva in sé il potenziale per trasformarsi in risultati materiali concreti. Come affermò Lenin:
«Un'idea che si impadronisce delle masse diventa una forza materiale».
Tuttavia, i comunisti non portarono avanti l'idea di immortalità fisica, forse perché si prefiggevano di costruire il “Paradiso in Terra”, cioè il comunismo come ideale società terrena. È interessante notare come la descrizione dell'utopia terrena di Tsiolkovskij, il più materialista dei cosmisti, anticipi elementi della società sovietica: gerarchia, totalitarismo, collettivismo, centralizzazione.
La realizzazione di questo “paradiso in terra” era però possibile solo con un nuovo tipo di uomo, l'uomo ideale sovietico, caratterizzato da altruismo, eroismo, volontà, spirito, alto livello di istruzione, disprezzo per il materiale, dedizione al lavoro, modestia e umanesimo. Sebbene nella realtà non fosse possibile trasformare tutta la popolazione in esseri ideali, si ritiene che basti l'8% della popolazione a possedere queste caratteristiche per innescare un salto evolutivo. È ciò che accadde: l'URSS fu la prima a progettare un'astronave e a mandare un uomo nello spazio. È simbolico che il cognome del primo cosmonauta, Gagarin, fosse lo stesso del padre del fondatore del cosmismo, Nikolaj Fëdorov (Fedorov era il figlio illegittimo del conte Gagarin, il suo vero cognome era Gagarin).
Le idee dei cosmisti russi del XIX e XX secolo stanno tornando particolarmente attuali nel XXI secolo. Tra gli obiettivi dichiarati oggi ci sono:
- l'esplorazione dello spazio,
- il controllo dei cataclismi naturali,
- la trasformazione radicale del corpo umano (cambio di sesso, razza, ecc.),
- l'immortalità attraverso clonazione, ingegneria genetica, sostituzione degli organi.
Molti osservano come questo progetto transumanista e spaziale presenti somiglianze con le teorie cosmiste e con le ideologie di sinistra radicale. Tuttavia:
- Il progetto sovietico è un caso unico, in quanto ha unito una visione radicale di sinistra con la mentalità tradizionale russa, dando origine a un fenomeno socio-antropologico irriducibile ad altre teorie precedenti.
- Nonostante le somiglianze apparenti, esiste una differenza fondamentale: i cosmisti ponevano al centro la trasformazione spirituale e morale dell'uomo, come fonte primaria di ogni altro cambiamento, anche materiale. Al contrario, i progetti moderni partono dalla trasformazione fisica del corpo, della Terra e dello spazio. Ma un futuro costruito solo su queste basi potrebbe sembrare più un inferno che un paradiso.
Oggi, lo spazio vicino alla Terra, divenuto campo di competizione corporativa, è una discarica orbitale; si ipotizza perfino il suo uso militare. La gestione “efficiente” del pianeta, ignorando solidarietà e fratellanza, non resuscita i morti, ma uccide i vivi. La ricerca ossessiva dell'immortalità fisica ignora le anime. La disuguaglianza sociale cresce, l'amore fra gli esseri umani diminuisce. Questo vettore di sviluppo dell'umanità moderna è l'opposto di ciò che i filosofi cosmisti auspicavano.
BIBLIOGRAFIA
Fedorov, Nikolai. What Was Man Created For? The Philosophy of the
Common Task. Lausanne: Honeyglen Publishing/L'Age d'Homme, 1990.
Teilhard de Chardin, Pierre. The Phenomenon of Man.
Harper Perennial Modern Classics, November 4, 2008.
Tsiolkovsky, Konstantin Eduardovich. Public organization of mankind.
Kaluga: edition of the author, 1928.
Vernadsky W.I. The biosphere and noosphere. American scientist, vol.3,
January 1945, #1.
Young, George M. The Russian Cosmists: The Esoteric Futurism of Nikolai
Fedorov and his Followers. Oxford University Press, New York, 2012.
Nell’Ottocento, le donne avevano meno talento musicale degli uomini?
Questa che può sembrare oggi un’affermazione ridicola, è stata per un certo periodo la convinzione di molti critici musicali nella Vienna dell'Ottocento.
Ma anche oggi ci sono convinzioni simili. Ad esempio, nel tennis, come Vittorio Pentimalli ha mostrato in un post precedente.
A quel tempo, secondo molti critici musicali, le pianiste non suonavano la musica di Beethoven (1770-1827) bene quanto i pianisti uomini. Essi ritenevano che il motivo risiedesse nel talento. Quindi, se il talento (A) determinava un’esecuzione eccellente (B), allora le donne erano meno talentuose degli uomini.
Tuttavia, questa relazione causale era alquanto sospetta, come la sociologa statunitense Tia DeNora (1995; 2002) ha avuto modo di documentare ricostruendo il contesto sociale dell'epoca. La studiosa osserva, infatti, che nei cinquant’anni prima dell'avvento di Beethoven, sia i pianisti uomini che le donne si esibivano in pubblico con eccellenti performance e valutazioni. Come mai cinquant’anni dopo, si chiede DeNora, le donne erano diventate così mediocri? Lei nota che Beethoven innovò non solo la musica dell'epoca, ma anche il modo di eseguirla, da cui lo stereotipo del musicista romantico: bello, dannato, appassionato, disinvolto, che si esprime liberamente, che lascia andare il suo corpo, si agita, si dimena, da sfogo alle proprie emozioni.
Ci si può chiedere: una donna poteva esibirsi in questo modo? Non proprio, perché le convenzioni sociali dell'epoca non lo permettevano. Infatti, le donne dovevano apparire sobrie e dignitose nelle loro esibizioni pubbliche al pianoforte. Persino il loro abbigliamento era studiato per ricordare loro come muoversi sul palco: corpetti attillati con scollature profonde (per mettere in mostra collane e gioielli) ne limitavano i movimenti.
![]() |
![]() |
![]() |
Capite bene che, dentro questi vestiti, era complicato muoversi liberamente al pianoforte.
Molto più facile se vestite così:
![]() |
![]() |
![]() |
Yuja Wang | Valentina Lisitsa | Irene Veneziano |
DeNora osserva, inoltre, che gli strumenti a fiato erano già stati preclusi alle donne perché suonarli richiedeva posture “poco femminili” e smorfie sconvenienti per una donna, ma accettabili per un uomo.
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
Solo il flauto era compatibile con l’estetica (facciale) femminile del tempo…
![]() |
![]() |
![]() |
In conclusione, era la variabile interveniente (C) ovvero l'etichetta dell'epoca che influenzava sia il (presunto) talento che l'esecuzione musicale. Non era la musica di Beethoven in sé, ma le convenzioni sociali dell'epoca che impedivano alle donne di suonare come richiedeva la moda del momento.
Tuttavia, questa riflessione non riguarda solo il passato. Ma, un po’, vale anche per oggi. Se guardiamo l’attività artistica contemporanea, ci accorgeremo che in certi generi musicali gli uomini sono stranamente sovrarappresentati. Infatti, ci sono relativamente poche donne musiciste (tolte le “semplici” cantanti) nel rock, nel folk, nel jazz, nel trap ecc. Gli uomini sono in misura maggiore. Come mai?
La risposta richiederebbe un altro post…
La cosa “strana” è che la musica classica (genere musicale considerato vecchio, conservatore, del passato) offre alle donne più chance per lavorare ed (eventualmente) emergere che i generi sopra citati, considerati moderni, innovativi, trasgressivi.
È solo un paradosso?
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
DeNora, T. (1995) ‘Gendering the piano: repertory, technology and bodily discipline in Beethoven’s Vienna’. Paper presented to the Center for Research into Innovation, Culture and Technology Workshop, Brunel University, London.
DeNora, T. (2002) ‘Music into action: performing gender on the Viennese concert stage, 1790–1810’, Poetics, 30(2): 19–33.
Le teorie del complotto, quinta parte – Complottismo, positivismo, disincanto
È un caso che si giunga oggi a una demonizzazione – costruita a suon di meme così come di dibattito colto – della stessa capacità di esprimere un pensiero autonomo, senza delegare agli esperti di turno? Oppure questa demonizzazione ha una qualche attinenza, e coerenza, con processi storici ben più lunghi, che attengono alla storia stessa del capitalismo?
Da qui parte la quinta e ultima puntata del nostro viaggio, per arrivare a riflettere sulle strettoie in cui noi stessi rischiamo di ingabbiare la nostra capacità di pensiero critico quando la costringiamo nel solo solco del razionalismo scientifico. E, da qui, proviamo ad esplorare qualche nesso con il tema del disincanto del mondo, per come ne ha scritto S. Consigliere (in “Favole del reincanto”, DeriveApprodi 2020, da cui sono tratte le brevi citazioni seguenti). Quel disincanto che “ci fa preferire un uragano scientifico a un rifugio magico”, una frase che ogni volta mi fa venire in mente istintivamente la famosa scienziata (e senatrice a vita) che attacca duramente l’agricoltura biodinamica salvando però la scientificissima agroindustria a base di monoculture, pesticidi e manipolazioni genetiche. Quel disincanto che ci ha resi, come Occidentali, “i terminatori di un numero altissimo di mondi umani, di modi della conoscenza e forme della presenza”.
Eppure, segni di una nuova consapevolezza affiorano nelle battaglie contro l’estrattivismo, dai Salar dell’America Latina devastati dall’estrazione dei minerali per la transizione green, ai nostri Appennini, alla Sardegna intera, che resistono contro l’assalto delle speculazioni sull’eolico. Il nostro viaggio si chiude così proprio con un pensiero, che vuole essere anche una dedica, accorato e solidale con queste battaglie. Che se certo sanno parlare (giustamente) il linguaggio esperto/scientifico dei danni “quantificabili” apportati dai progetti estrattivi, dall’altra riescono a dare voce anche a dimensioni non quantificabili e però non meno cruciali, incarnando la difesa di territori che, più ancora che marginali e sacrificabili, vengono colpiti forse proprio perché rappresentano gli ultimi scogli da cui è possibile immaginare una vita non del tutto colonizzata dai tristi, disincantati miti della modernità egemone.
Chissà cosa si prova a liberare
La fiducia nelle proprie tentazioni
Allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni
Allontanarli in tempo e prima di trovarsi solo
con la paura di non tornare al lavoro
F. de André, La bomba in testa, 1973
Quest’ultimo punto – l’enfasi sugli aspetti quantificabili che mette in ombra tutto il resto – a mio avviso è cruciale. E si allaccia all’ultima questione dirimente: il complottismo è, in fin dei conti, qualcosa da rivendicare (come fanno gli autori del Manifeste) o da problematizzare? Ognuno darà la sua risposta.
Personalmente, posti tutti i distinguo e le cautele di cui sopra – chi definisce cosa sia complottismo e cosa no, l’uso del complottismo come arma politica, il classismo, le bugie delle élite come terreno di coltura, etc. – tendo a pensare che l’anticomplottismo sia, a conti fatti, più nefasto del complottismo. Perché l’anticomplottismo si traduce in una difesa dell’indifendibile, mentre il complottismo porta in sé una salutare sfiducia e diffidenza verso le narrazioni del potere. E rappresenta il rifiuto di abdicare al tentativo di capire e darsi una ragione.
Anche perché, in fondo, i limiti del complottismo solo in parte sono responsabilità dei “complottisti” stessi. Non dovremmo scordarci che derivano, in buona misura, dal fatto che li abbiamo lasciati da soli a misurarsi con questioni di enorme complessità e rilevanza. Mentre chi avrebbe strumenti ed expertise – e responsabilità… – per scandagliare questi temi troppo spesso preferisce utilizzare quelle risorse per indagare campi meno controversi. Dove non si rischia di passare per complottisti e anzi è più semplice accordarsi alle sensibilità in voga nel clima di opinione del momento. Alimentando, però, la sensazione di autoreferenzialità e irrilevanza del sapere esperto e quindi la delegittimazione di cui poi ci si lamenta.
Questo non significa, però, non riconoscere – e anche qui l’autore di questo libro si muove in modo molto intelligente – le criticità e i problemi che il “complottismo”, come particolare modo di incanalare una potenziale opposizione al potere, pone, e che possono fargli mancare il bersaglio, o persino sviare e curvare il dissenso verso posizioni in fondo comode al potere. Che possono portare a non prendere consapevolezza del rapporto tra mezzi e fini, come testimoniato dall’abuso di tecnologia. A sopravvalutare personaggi che diventano incarnazioni di ogni male e d’altra parte a non vedere dove invece ci sono i veri nemici. Per questo è importante l’operazione che compie M. Amiech in questo libro, cioè superare narrazioni incentrate sulla drammatizzazione di casi o personaggi interpretati nella loro singolarità/straordinarietà per leggere e collocare invece i fatti contemporanei in continuità con processi storici più lunghi. Perché è solo lavorando in questa direzione che possiamo cercare di colmare quel vuoto e produrre interpretazioni teoriche capaci di orientare l’azione collettiva lungo direzioni credibili.
Particolarmente convincente, da questo punto di vista, è la riflessione, negli ultimi capitoli, sulla digitalizzazione come progetto industriale che va collocato in piena continuità con una storia del capitalismo che può e deve essere raccontata anche – sulla scorta di autori come Luxembourg, Illich, Lasch – come una storia di progressiva divisione e specializzazione del lavoro, crescente delega agli esperti e quindi crescente perdita di fiducia nelle proprie competenze: competenze nel costruirsi gli strumenti di lavoro, nel costruire una casa, nella manutenzione degli oggetti, fino al prepararsi il cibo e al prendersi cura della propria salute. Come una storia di progressiva perdita di autonomia e, di converso, di crescita della dipendenza degli individui dal mercato e dagli esperti per rispondere a ogni bisogno della vita. Ma se pensiamo al nostro punto di partenza possiamo vedere come quella spirale di sfiducia/ delega/dipendenza arrivi a coinvolgere, oggi, persino il bisogno di pensare: meglio evitare di farlo, ci sono gli esperti a cui delegare. In fondo, è proprio questo che si teorizza, quando l’idea che sia possibile pensare con la propria testa diventa hybris, e si arriva, come abbiamo visto, a sostenere la necessità di rinunciare a esercitare le proprie facoltà critiche – diventate ingannevoli e pericolose – per affidarci, proprio in nome della divisione del lavoro (scientifico e cognitivo), agli esperti semplicemente perché sono esperti, a scatola chiusa. E più non dimandare.
Ma forse la perdita di autonomia si spinge ancora più in là del pensare: arrivando a coinvolgere la sfera del sentire, la fiducia nelle proprie percezioni, l’ancoramento del soggetto alla realtà. Affascinanti, a questo proposito, le riflessioni del Manifeste (p. 22-25) a proposito dell’adozione di politiche, durante il Covid-19, che hanno costretto le persone a sospendere le loro attività e a chiudersi nell’isolamento, ma che le hanno anche precipitate in un regno dell’assurdo e del nonsense quotidiano con le mille regole, restrizioni e raccomandazioni che si contraddicevano tra loro giorno dopo giorno, evidenziando in questo qualcosa di più di mera casualità/ disordine legati alla circostanza, il cui effetto è farci perdere il filo di ogni certezza, farci dubitare della nostra presa sulla realtà, delle nostre percezioni elementari.[1] La stessa direzione cui ha condotto il chiederci di adottare uno sguardo statistico per guidare i nostri comportamenti (Ivi, p. 241-246). Il che è un nonsense in sé, visto che la statistica si basa necessariamente sulla distruzione della soggettività per costruire aggregati fittizi che hanno finalità di gestione e governo, e da quel livello non è dato tornare indietro, alla soggettività: che, all’opposto, è sempre incontro sensoriale del particolare col particolare, del soggettivo con il soggettivo, cioè esattamente quello che la statistica deve depurare per poter essere rappresentativa e generalizzabile. Solo individui deprivati di soggettività, intercambiabili, possono essere guidati dalla statistica. Ma in fondo, quando ci è stato chiesto di diventare insensibili di fronte agli anziani lasciati a morire da soli, senza congedo dai propri cari, e in alcuni momenti/Paesi senza nemmeno i riti dell’inumazione, mentre ci si estorceva un sentimento di compassione verso le cifre dei decessi riportate nei bollettini quotidiani, proprio questo ci è stato chiesto di fare: lasciare che altro si intrudesse tra noi e le nostre percezioni, fino ad adottare, al loro posto, uno sguardo statistico.
Un tema, questo, che si collega con un’ultima immagine particolarmente stimolante evocata da M. Amiech, che ci riporta ai limiti del complottismo: quest’ultimo visto come feticismo dei fatti e delle cifre portato all’estremo, come “positivismo impazzito”. Una critica, cioè, che si perde nello sparare disperato ed estenuante di dati e documenti da fonti sempre più difficilmente verificabili che, in fondo, deriva dal nostro stesso – “nostro” come movimenti, come sinistra antagonista nelle sue diverse anime, come studiosi più o meno militanti e prima ancora, semplicemente, come persone – aver idolatrato il razionalismo tanto da non saper vedere i pericoli derivanti dal porre la scienza al centro della politica. Ancora di più, tanto da non renderci conto della misura in cui abbiamo lasciato che la nostra capacità di critica venisse fagocitata dalle strettoie della degenerazione positivista dell’Illuminismo già individuata da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo (1966), giustamente ripresa dall’autore.
Dovremmo allora imparare a motivare le nostre opposizioni – agli OGM/TEA, al nucleare, all’estrattivismo, alla digitalizzazione di tutto, all’ibridazione uomo/macchina… – uscendo dalla logica dei dati, e ribadendo che anche qualora non ci fossero evidenze scientifiche di danni e nocività accertate o accertabili per la salute o l’ambiente, quelle innovazioni non le vogliamo ugualmente. E non le vogliamo perché rifiutiamo quel sistema economico che le rende necessarie allo stesso modo in cui rifiutiamo i valori e la visione del mondo che quel sistema economico innervano e legittimano. E che ce lo fanno apparire, come ci spiega Stefania Consigliere nelle Favole del reincanto, come l’unico possibile e ancor prima desiderabile, in una dinamica totalizzante, di sbarramento persino delle porte dell’immaginario, che è necessaria alla sua stessa esistenza.
Si tratta di riconoscere come la reductio ad unum da una pluralità o ecologia dei regimi conoscitivi esistenti ed esistiti nel mondo alla monocultura della scienza occidentale faccia parte di quella stessa dinamica totalizzante che ha fatto dei moderni i «terminatori di un numero altissimo di mondi umani, di modi della conoscenza e forme della presenza» (Ivi, p. 28); tanto da darci l’illusione che solo il nostro modo di essere al mondo è il punto di arrivo universale, a cui gli altri non sono ancora pervenuti, e a cui non è quindi dato, neppure a noi, immaginare alternative. È la stessa reductio ad unum che ha ridotto la pluralità dei regimi ontologici al naturalismo, dei regimi economici al plus-valore, dei regimi terapeutici alla medicina di stato (Ivi, p. 23).
Eppure, questa pretesa superiorità della modernità occidentale e della forma di conoscenza ad essa propria è esattamente ciò che ci ha portati al limite del collasso. Di fronte alla distruzione del vivente e al dominio dei pochissimi sulle moltitudini resi entrambi possibili in una portata inedita nella storia umana proprio dalla scienza e dalla tecnologia, ma di fronte anche ai vicoli ciechi in cui si è lasciata ingabbiare la nostra capacità di pensiero e di critica rendendoci tanto consapevoli quanto impotenti, quello che dovremmo problematizzare è il disincanto del mondo. Il disincanto indagato, in un passaggio bellissimo del libro, come precipitato etimologico in cui il silenziamento del mondo non umano e la sua riduzione a cieca meccanica si incontrano e si fondono con quelle passioni tristi – avidità, egoismo, sopraffazione, il leggere del mondo solo la grettezza – che devono esautorare la natura umana affinché l’organizzazione capitalista possa continuare la sua corsa (Ivi, p. 46-47).
Si tratta, dunque, di problematizzare quell’inganno che ci porta a preferire «un uragano scientifico a un rifugio magico» (Ivi, 15-16), di riaccogliere l’irrazionale e il sacro.[2] Riammettere anche le «presenze non umane», che in culture differenti dalla nostra rappresentano presenze con cui negoziare, limiti che demarcano orizzonti di non appropriabilità (Ivi, p. 28-29). Riconoscere, nella visione per cui fuori dalla socialità umana non ci sono senso o intenzionalità possibili ma solo cieco movimento meccanico, precisamente ciò che fa di noi esseri speciali autorizzati a qualunque forma di violenza sul non umano: è il disincanto che «rende accettabili le spoliazioni che incrementano i godimenti fungibili» (Ivi, 38), spazzando via ogni limite alla piena appropriabilità del reale.
Si tratta, anche, di considerare con distacco, e per fare questo di prendere atto delle vicende storiche e politiche, più che scientifiche, che hanno portato al suo affermarsi, la visione molecolare della vita basata su una biologia meccanicistica, combinazione in fondo ottimale – come ricostruiscono gli autori del Manifeste (p. 247-257) – tra visione tecnocratica della manipolazione tecnologica della vita e controllo sociale finalizzato all’estirpazione di quei “vizi” che rischiavano di frenare l’espansione capitalistica; terreno di incontro tra ingegneria genetica e sociale.
Se, come ci ricorda l’autore riprendendo Rosa Luxembourg, il capitale ha incessantemente bisogno di un ambiente non capitalistico per proseguire la sua necessaria espansione, dovendo colonizzare nuovi spazi geografici e sociali, mercificare ciò che merce non era, imporre la logica mercantile dove la produzione di beni e servizi avveniva fuori dal mercato, è utile anche ricordare, con le parole non parafrasabili di Stefania, che
Lo sbarramento dell’immaginario è indispensabile alla dinamica della totalizzazione. Le frontiere da superare e le terre da recintare non sono solo quelle geografiche: partite altrettanto rilevanti si giocano intorno a quelle psichiche, simboliche, oniriche e narrative. Nell’assoggettamento integrale niente deve arrivare, da fuori, a spezzare la continuità tra individui e mercato […]. Del mercato, infatti, sentiamo ogni sussulto, i suoi fremiti riverberano in noi: desideriamo ciò che desidera, temiamo ciò che teme. Per contro, alberi, lupi, fonti, fantasmi, mulini a vento, stelle, dèi e demoni hanno smesso di parlare. Nei sogni e nell’ebbrezza non c’è conoscenza ma solo sragione. Nel destino del mondo non ne va più di noi, nel destino nostro non ne va del mondo. È il disincanto. (Ivi., p. 33)
Forse è per questo che nelle battaglie contemporanee contro l’estrattivismo – dai Salars dell’America Latina devastati dalle estrazioni di minerali e terre rare alle periferie europee che iniziano a fare i conti con lo stesso assalto, fino, in Italia, alle proteste che nelle campagne del meridione, lungo tutto l’Appennino e in Sardegna si oppongono alle speculazioni sulle rinnovabili – mi sembra di cogliere voci che si assomigliano tanto da potersi vicendevolmente riconoscere. Sensibilità che giustamente denunciano i danni quantificabili e reclamano ricerca indipendente che possa metterli in luce, ma che imparano a parlare anche altri linguaggi. Linguaggi con cui cercare di dare parole ed espressione all’identità, alla storia, alla dimensione spirituale, ai simboli in cui ci si riconosce e in cui si riflette la propria appartenenza; alla scelta di un mo(n)do di vita nei suoi aspetti non solo materiali; alla difesa del paesaggio, e non solo per farne un prodotto da immettere nel mercato del turismo. Linguaggi capaci di riconoscere il senso di un attaccamento non quantificabile a una montagna, a un fiume, a una fonte; o al muro a secco, al complesso nuragico, alla Domus de Janas che rischiano di venire coperti dal cemento della piattaforma su cui verrà installata la prossima megapala.
Del resto, è vero che il nuovo assalto green del capitalismo ricalca e approfondisce diseguaglianze geografiche consolidate, svelando il suo volto più famelico nei territori marginalizzati, impoveriti, nelle green sacrifice zones (zone di sacrificio verdi, cfr. Zografos e Robbins 2020). Dove il ricatto della disoccupazione e della mancanza di futuro, unito alla mancanza di voce e rappresentanza, rende plausibile (e spesso, ma per fortuna non sempre, veritiera) l’ipotesi che si possano incontrare meno resistenze.
Tuttavia, se proviamo a rovesciare la prospettiva, vediamo altro. Perché non sempre, e comunque non solo, si tratta di luoghi marginalizzati e impoveriti. Anzi, a volte quella della marginalità e della mancanza di futuro diventa una retorica cavalcata da governi e investitori perché funzionale alla logica del “sacrificio”. Quegli stessi luoghi, prima che marginali – o meglio, proprio perché marginali nella prospettiva della modernità egemone – sono anche gli ultimi avamposti di biodiversità, ma soprattutto sono gli ultimi luoghi dove la modernità fa ancora i conti con qualcosa di pre-esistente e duro a morire; dove è ancora possibile dialogare con quelle parti dell’umano che non si lasciano ridurre al ciclo di produzione e consumo; e dove più attenuato arriva l’eco delle sirene dell’attivismo urbano più spettacolarizzato. Gli ultimi scogli da cui sarebbe forse possibile immaginare una vita diversa, al riparo dall’inferno tardocapitalista che ci avvolge, e che forse proprio qui, non potendo tollerare alternative che possano anche solo prefigurare resistenze al suo dover tutto ingoiare, mostra il suo volto più feroce. Ma proprio qui è anche dove incontra e suscita resistenze che ancora accendono una speranza.
NOTE
[1] Ne hanno trattato Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni, riprendendo in particolare Micheal Taussig (1986): La cognizione del terrore. Ritrovarci tra noi, ritrovare la fiducia che l’Emergenza pandemica ha distrutto, 22 settembre 2021, <www.wumingfoundation.com/giap>.
[2] Su questo, decisivo è il rifiuto di una necessaria, automatica associazione tra incanto/irrazionale e fascismo. Su questo rimando al testo di S. Consigliere, in cui l’autrice chiarisce in modo assai convincente come l’incanto possa essere, ma non sia necessariamente, strumento di dominio; e come, d’altra parte, la modernità non ha certo cessato di farne uso, a sua volta in modo malevolo (Ivi, p. 37 e, in particolare, p. 62-72).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
La dimensione morale delle scienze e delle tecnologie
In questi 18 mesi di attività, prima come blog e ora – finalmente – come rivista settimanale, abbiamo cercato – come ci eravamo ripromessi con il programma di lavoro - di presentare una visione più equilibrata delle scienze e delle tecnologie, riconoscendone la specificità ma anche facendo luce sulla loro natura di impresa umana, storicizzate e sociologizzate. Attraverso il riconoscimento del carattere sociale sia delle scienze che delle tecnologie abbiamo proposto un rapporto più bilanciato e un atteggiamento più tollerante verso le opinioni e ipotesi diverse, a beneficio sia della società che delle scienze.
Come scrivono lucidamente Collins e Pinch (1993), la scienza – e lo stesso vale per la tecnologia - è un’attività controversa: da una parte ci fornisce i mezzi per curare gli ammalati; dall’altra produce l’infido veleno causato dagli incidenti nucleari; da una parte ci offre migliori condizioni di vita e dall’altra il rischio di trovare la morte a causa degli effetti collaterali di un farmaco.
In questo tragitto, come ricorda Teo Donolato, abbiamo affrontato ― e continueremo ad affrontare ― una serie di tematiche scientifiche evidenziando l’illusione del piedestallo epistemico, della deificazione laica delle scienze e della ricerca di verità assolute; abbiamo mostrato controversie, errori e non sequitur nello sviluppo delle scienze; e, abbiamo provato a ripensare le concezioni limitanti e banalizzanti, sia delle scienze che delle tecnologie, dando spazio a pluralità di voci.
Parallelamente, sottolinea Paolo Bottazzini, abbiamo sottoposto ad analisi critica la narrazione delle più recenti tecnologie e del soluzionismo tecnologico, svelando alcune false assunzioni e la sottrazione dello sviluppo tecnologico alle decisioni collettive e responsabili, in nome del progresso, sviluppando una visione – anche in questo caso – non banalizzante e nello stesso tempo non luddista.
Quello che promettiamo è di investigare e anche la dimensione morale e, quindi, politica, della pratica scientifica e dello sviluppo tecnologico.
Quando parliamo di pluralità di voci, infatti, non lo facciamo per allinearci a una moda di democratizzazione delle scienze ma perché ogni scoperta scientifica - e ogni relativa applicazione – si basa su dei presupposti nati da scelte morali e porta con sé degli effetti morali su individui e su collettività. Individui e collettività che hanno istanze di benessere e di sopravvivenza, istanze che la ricerca scientifica e – soprattutto – le sue applicazioni devono sempre prendere in considerazione.
Facciamo un esempio: il Progetto Life Ursus di reinserimento degli orsi nell’habitat del Trentino, progetto il cui carattere scientifico – tra studio di fattibilità e organizzazione preliminare - è indiscutibile, risponde in maniera primaria all’istanza morale di preservare la presenza della specie nel territorio, portando un certo numero di esemplari dalle montagne slovene. Il rilascio di 10 “nuovi orsi” è avvenuto tra il 1999 e il 2002 con l’obiettivo di arrivare a 40 – 60 individui nel giro di alcune decine d’anni. Il progetto ha funzionato e nel 2024 la popolazione di orsi nel 2024 è stimata in un centinaio di esemplari. Ma, c’è un “ma” importante, oltre a numerosi casi di danni a strutture antropiche e numerosi incontri con gli umani, ci sono state delle vittime umane: il giovane Andrea Papi ucciso da un ‘orsa nell’aprile del 2023 e un turista francese ferito nel 2024 (e almeno 6 orsi abbattuti per ragioni di sicurezza della popolazione). Oggi, in Trentino, una elevata percentuale della popolazione sembra essere favorevole allo spostamento degli orsi altrove.
Lo studio scientifico di fattibilità comprendeva, oltre a più di 60 parametri ambientali, delle valutazioni socioeconomiche, tra cui:
- l’analisi del favore degli abitanti verso la reintroduzione degli orsi nel territorio (che è risultata statisticamente superiore al 70%, su un campione di 1.500 abitanti, il 1,25 % della popolazione del Trentino, intervistati telefonicamente[1]);
- la valutazione economica (effettuata da una Società di consulenza di Roma che ha suggerito una serie di misure di protezione e di risarcimento verso le attività economiche potenzialmente vulnerabili);
È stata poi organizzato una Emergency team, «squadra di persone appositamente addestrate potrà applicare misure dissuasive per gli orsi, procedere alla loro eventuale cattura e trasferimento ed infine sarà anche pronta ad abbattere individui che mostreranno comportamenti devianti».
In questo caso il lavoro di Controversie è di evidenziare che, probabilmente, le scienze – in nome del principio morale di «riportare l’orso su queste montagne» – hanno trascurato una serie di istanze morali non irrilevanti: quelle degli allevatori e della popolazione che abita densamente le montagne interessate, ei turisti, delle forze politiche di opposizione (che oggi sono al potere in Trentino e agiscono contro la presenza degli orsi), degli scienziati ecologisti che non riconoscono nella specie un soggetto morale rilevante e, infine, degli orsi, che sono stati tolti dal loro habitat in Slovenia e trapiantati in un territorio con una densità antropica drammaticamente superiore.
Come direbbe Bruno Latour, tutti questi attanti sono inseriti in una rete, e per ciascuno di essi occorre pensare una traduzione (o traslazione) dei loro interessi/bisogni in quelli degli altri. Pena la prevaricazione di alcuni su altri e l’entropia che si introduce nella rete e nella catena di associazioni/relazioni.
Allo stesso modo, quando si parla di sviluppo e di progresso tecnologico è necessario chiedersi “in nome di cosa e di chi” si realizzano gli sviluppi tecnologici? Chi godrà di questo progresso e come? Se c’è un prezzo da pagare per il progresso, chi lo pagherà?
La dimensione morale della tecnologia è sotto i nostri occhi ogni giorno: un bot intelligente che risponde a un cliente di un’azienda del gas allevia il lavoro degli operatori telefonici – che possono, quindi, svolgere lavori più qualità e competenza – oppure li sostituisce, creando disoccupazione? Una automobile a guida automatica permette al proprietario di fare meno fatica ma come decide in caso di emergenza?
Poiché il desiderio di una scienza intonsa, perfetta, che proponga verità assolute e di tecnologie che portino sempre e solo benessere per tutti, è legittimo ma sta nella sfera dell’impossibile, ecco che Controversie si impegna anche a lavorare sul versante della dimensione morale, evitando posizioni di negazione tecnoscientifica ma – al contrario – cercando di tracciare e di suggerire dei percorsi di ricerca e di sviluppo che tengano conto delle lateralità, delle istanze morali di benessere, se non di sopravvivenza, degli attori meno rappresentati e meno capaci di far sentire la propria voce.
NOTA
[1] Sondaggio affidato alla DOXA di Milano. Più di 1500 abitanti dell’area sono stati intervistati telefonicamente, per analizzare la loro attitudine verso l’orso, la percezione verso questa specie e la possibile reazione di fronte ai problemi che l’orso porrà. I risultati sono stati sorprendenti: più del 70% degli abitanti si sono dimostrati a favore del rilascio di orsi nell’area. Questa percentuale sale fino all’80% di fronte all’assicurazione che verranno prese misure di prevenzione dei danni e che se un orso si dimostrerà potenzialmente pericoloso per l’uomo verrà immediatamente allontanato o abbattuto. (Le probabilità di successo del Progetto di immissione di E. Duprè, P. Genovesi, L. Pedrotti Tratto da: "Adamello Brenta Parco" anno 1998 n. 2 pag. 2)
Le teorie del complotto, quarta parte – I miti della scienza intonsa e della politica senza bias
Questa è la quarta puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte, terza parte). Qui ci parliamo del fatto che una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non è altro che un mito, alimentato anche dalla credenza che possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
IL MITO DELLA SCIENZA INTONSA
Se quella appena vista – la scienza può venire corrotta e strumentalizzata – è la ragione in fondo più facile da individuare tra quelle che dovrebbero indurci alla prudenza nel mettere la scienza al centro della politica, il problema è però decisamente più complesso. Perché il punto è che non è solo quando è corrotta, o volutamente strumentalizzata, che la scienza è influenzata da valori, interessi economici o politici, condizionamenti di tipo culturale, sociale o religioso. Anzi, in ogni sua fase – dalla scelta del tema, a quella dei metodi e della prospettiva, fino alla produzione e interpretazione dell’evidenza empirica – la produzione di conoscenza scientifica è condizionata da fattori altri, extra-scientifici. Molte/i colleghe/i all’interno delle scienze sociali, per parlare del mio campo disciplinare, rivendicano la propria identità di ricercatrici/tori militanti partendo proprio dalla consapevolezza che la posizione di chi fa ricerca non possa essere neutrale e dall’acquisizione che ogni sapere non possa che essere “situato”. Anche e forse soprattutto quello che si pretende oggettivo. Quello di una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non sarebbe che un mito, come fa notare Sarewitz (1996), sulla scia di lunghe tradizioni di ricerca in diverse discipline.
Un mito pericoloso, tra l’altro: perché mentre certi tipi di condizionamento vengono stigmatizzati e destano scandalo (per esempio, le ricerche che dimostrano l’innocuità del fumo passivo o di certi pesticidi, di cui risulti la sponsorizzazione a opera delle lobby dei rispettivi settori), altre forme di influenza non meno importanti non destano alcun allarme, anzi sono naturalizzate come parte del normale così vanno le cose. Per esempio, il fatto che gli investimenti per la ricerca si concentrino nelle direzioni dove si addensano importanti interessi del complesso militare-industriale (per esempio, la costruzione di armi, la digitalizzazione, l’IA) lasciando sprovvisti aree e filoni di indagine che pure sarebbero più rispondenti alle esigenze di vita di ampi settori della popolazione mondiale; o la sproporzione di investimenti nella ricerca medica a favore di patologie che colpiscono i paesi più ricchi e bianchi rispetto a quelli più poveri e abitati da maggioranze con altre gradazioni del colore della pelle. Ecco: proprio il mito di una scienza intonsa, non condizionata, “pura”, impedirebbe, sottolinea ancora Dotson (2021), l’avviarsi di un dibattito circa le misure che potrebbero continuare a condizionare, ma questa volta in modo più democratico, equo ed emancipativo, la produzione della conoscenza scientifica. Per esempio, aprendo una discussione su quali aree e filoni di ricerca serve effettivamente privilegiare, e su chi sia chiamato a prendere decisioni in merito; o favorendo la partecipazione di scienziati e cittadini di paesi del Sud del mondo nell’elaborazione dell’agenda di ricerca. E molti altri esempi potrebbero seguire.
I BIAS INTRODOTTI DALLA PRETESA DI UNA POLITICA SENZA BIAS (SCIENTIZZATA)
La credenza fasulla e insidiosa che dovremmo aggredire è dunque quella secondo cui ci sarebbe una netta separazione tra scienza e politica, laddove è vero piuttosto il contrario, cioè che è difficile capire dove l’una finisca e l’altra inizi. Anche perché proprio questa falsa credenza costituisce il presupposto della crescente scientizzazione della politica (Pielke 2005) – da qui discendono le aporie e contraddizioni che questa pone.
Con scientizzazione della politica si intende la tendenza che si va affermando sempre più a descrivere controversie che contemplano aspetti sociali, etici e politici in termini esclusivamente scientifici; pretendendo che una scienza suppostamente oggettiva possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi (unbiased): meglio, dunque, di quanto farebbe quel vecchio e screditato arnese della politica, ambito della ricerca di sintesi e compromessi.
Se è vero che la ricerca scientifica può essere di utilità nell’elaborazione delle politiche, il punto è mettere a fuoco le criticità che si aprono qualora si decida di mettere la scienza al centro della politica e dei processi decisionali. Per iniziare, se è facile dire che è la scienza che deve decidere, le cose si complicano quando ci chiediamo quali expertise mobilitare, o quali discipline. È evidente come la controversia legata agli OGM – di vecchia o di nuova generazione che siano – venga letta in modo differente, e dia quindi risposte sempre scientifiche ma diverse e contrapposte, a seconda se utilizziamo le lenti dell’ingegneria genetica o quelle dell’ecologia (Dotson 2021). Altro effetto nefasto della scientizzazione della politica è la tendenza a marginalizzare conoscenze differenti da quelle degli esperti. Il non tenere conto, per esempio, che persone che non hanno titoli di studio specifici in un determinato campo detengano conoscenze, expertise, informazioni che possono essere non visibili alla disciplina scientifica degli esperti di turno, eppure decisamente rilevanti. Nella storia dei disastri e delle nocività industriali è una costante la denuncia, da parte delle popolazioni colpite, del diffondersi anomalo di patologie che vengono a lungo screditate come mera “aneddotica” (o isteria e fobia, dalla “radiofobia” dei cittadini di Černobyl, alle patologie delle vittime del piombo e dell’amianto… e che dire della mancanza di sorveglianza attiva e quindi di dati affidabili sull’epidemia di “nessuna correlazione” recente?)[1] dagli esperti di turno, e che saranno poi riconosciute come fondate e reali solo molto più tardi, solitamente quando è troppo tardi.
Infine, la scientizzazione in sé introduce a sua volta bias e distorsioni. Perché induce a dare importanza solo agli aspetti che più facilmente possono essere analizzati, misurati e tradotti in numeri e grafici.[2] Un punto, questo, di cui dovremmo essere consapevoli sia per imparare a maneggiare le narrative del potere, sia – e questo forse è ancora più cruciale, e meno evidente, ci torno in chiusura – nel mettere a punto le nostre risposte e resistenze.
Per esempio, basare le decisioni politiche sugli OGM (o sui TEA) su una valutazione puramente scientifica della loro pericolosità accertata per la salute umana o per l’ambiente significa far slittare verso i margini altre questioni che non sono certo meno importanti. Significa, per esempio, non vedere né prendere in considerazione i diritti dei coltivatori biologici, o delle società tradizionali o indigene, a coltivazioni non contaminate e alla conservazione, trasmissione e scambio non monetario di sementi tradizionali. Significa preferire la via del soluzionismo tecnologico – manteniamo il modello agroindustriale che mina la biodiversità e impone abuso di diserbanti e pesticidi e poi tamponiamo (forse) il problema creando varietà che ne richiedano minori quantità – anziché mettere in discussione il modello di agricoltura che è all’origine di quei problemi. Significa marginalizzare valutazioni circa la perdita di autonomia – e quindi la dipendenza sempre più forte dalle multinazionali, la diminuzione del numero di aziende e la concentrazione della proprietà etc. – che queste tecnologie impongono al settore, assestando l’ennesimo colpo ferale all’agricoltura contadina, che poi è la stessa direzione verso cui spinge la digitalizzazione dell’agricoltura 4.0.[3] E significa escludere qualunque possibilità di discutere circa la desiderabilità della visione del mondo che è sottesa a quelle tecnologie.
Ma anche il riduzionismo climatico può essere individuato come esempio. Se quella che attraversiamo è una crisi ecologica estremamente complessa, data dall’intrecciarsi di più dimensioni dell’inquinamento – dell’aria, delle acque superficiali e delle falde, del suolo, luminoso, elettromagnetico… – con i cambiamenti climatici, con la perdita di biodiversità e con questioni come il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo, le nocività industriali, le servitù e l’industria militari, l’agroindustria, il sistema della logistica e della distribuzione (eccetera), è arduo mettere a punto strumenti di misurazione così come è politicamente scomodo e complicato elaborare risposte: perché queste, per essere efficaci, non possono eludere l’intreccio con la dimensione sociale né evitare di mettere al centro della critica il modello di sviluppo e quindi l’idea stessa di crescita.
Di fronte a tutto questo, isolare invece il cambiamento climatico dal suo contesto ambientale e sociale è una strategia che, se da una parte si presta meglio all’elaborazione di indicatori quantitativi, parametri e scenari predittivi che possano fungere da base per politiche evidence-based, dall’altra supporta una narrativa utile a un capitalismo che sussume nella sua logica di espansione perpetua la crisi ecologica stessa. Non solo la crisi ecologica non basta a mettere in discussione l’espansione capitalista: essa diventa un pretesto per la creazione di nuovi mercati e per dare nuovo slancio all’estrattivismo dipinto di green.
NOTE
[1] Un aspetto rilevante di questa vicenda è relativo ai cambiamenti nelle procedure e negli algoritmi utilizzati in seno all’OMS per rilevare il nesso di causalità tra vaccini ed effetti avversi, un tema trattato da Osimani e Ilardo (2022).
[2] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).
[3] Si veda il contributo de l’Atelier Paysan, Agricoltura 4.0 e nuovi OGM: la tecnoscienza all'assalto del vivente, 1 novembre 2023, <www.laterratrema.org>.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
Le teorie del complotto, terza parte - Che si tratti di ossessione per la verità?
Questa è la terza puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte). Qui ci interroghiamo sulla corrente, ed epidemica, ossessione per la verità scientifica e per i (presunti) deficit cognitivi dei rispettivi oppositori politici, malattia che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
ROVESCIANDO LA PROSPETTIVA: E SE IL PROBLEMA FOSSE INVECE L'OSSESSIONE PER LA VERITÀ?
Un rovesciamento di prospettiva dalle potenzialità decisamente più fertili ci viene indicato da Dotson (2021), quando, rifiutando l’intera lettura basata sull’avvento dell’era della post-verità, suggerisce che il problema non sia tanto che le persone trascurerebbero i fatti privilegiando pregiudizi e opinioni soggettive, ma consista proprio nella corrente, epidemica, ossessione per la verità scientifica.
La malattia contemporanea da cui ben pochi di noi possono sinceramente dirsi immuni, che provoca polarizzazioni estreme e mette a repentaglio ogni possibilità di confronto democratico, consisterebbe, nella sua prospettiva, proprio nell’abitudine a dare per scontato che solo una fazione – la propria, ovviamente – sia quella in grado di pensare razionalmente e con la scienza a supporto delle proprie tesi. Quindi l’altra, inevitabilmente, è in errore, s-ragiona, è in preda a deliri, allucinazioni e alle “buche” del complottismo. È così che siamo diventati ossessionati dai (presunti) deficit cognitivi dei nostri oppositori politici.
Una malattia, questa, che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici: come le persone preoccupate per i cambiamenti climatici accusano i cosiddetti “negazionisti” di ignoranza e anti-scienza, specularmente chi contesta la matrice umana o l’emergenzialità della questione climatica si richiama a ricerche scientifiche ritenute più affidabili per dimostrare che la scienza mainstream sarebbe prona a interessi politici/economici e rea di soffocare il dissenso interno alla comunità scientifica. Tuttavia, questo atteggiamento così sprezzante e liquidatorio è particolarmente prevalente nelle retoriche liberal nei confronti dei conservatori, perché si sa, «the facts have a liberal bias» (Dotson 2021, p. 42): i fatti tenderebbero cioè per loro stessa natura a dare ragione ai progressisti.
Questo atteggiamento mentale, che viene indicato come scientismo politico, ha come corollario il diagnostic style of politics di cui parla lo storico Ted Steinberg (2006, cit. in Dotson 2021, p. 43), ovvero la tendenza a liquidare il dissenso politico come conseguenza di deficit cognitivi o problemi psicologici. In questo modo, il dissenso non è più dissenso: non più posizioni differenti e contrapposte con cui cercare un dialogo o esplorare, almeno, margini di compromesso. Anzi, la possibilità stessa del compromesso diventa un anatema. Perché con quella gente non si può, né si deve, ragionare. In questo modo il fanatismo scientista mina la democrazia, o almeno – suggerirei, ritenendo la democrazia già ampiamente minata di suo – compromette ulteriormente qualunque possibilità di confronto democratico e pure di trattazione con un’ambizione minima di approfondimento dei temi di cui si parla.
Nel trattare quindi in modo meno superficiale e sbrigativo del rapporto complesso tra scienza, “ignoranza” e politica, al cui interno inevitabilmente il tema del complottismo si inserisce, occorre tenere presente almeno tre questioni principali.
LA CORRUZIONE DELLA SCIENZA
La prima, per certi versi la più evidente – anche se tutt’altro che evidente è la portata delle sue conseguenze – ragione per cui dovremmo essere cauti di fronte al “l’ha detto la scienza, e quindi se non sei d’accordo sei ignorante”, riguarda la possibile strumentalizzazione della scienza a opera di interessi industriali e politici. Matthieu Amiech vi dedica opportuno spazio, riferendosi in particolare al bel libro di Foucart, Horel e Laurens, Les guardiens de la raison (2020). Ciò che mi preme mettere a fuoco qui è come sono cambiate le strategie di lobbismo politico: la fase dei “mercanti del dubbio”, quando le multinazionali reclutavano ricercatori e scienziati per produrre conoscenza scientifica solida, cioè capace di mettere in dubbio la credibilità delle ricerche che dimostravano la pericolosità dei loro prodotti, è ampiamente superata.[1] Oggi, infatti, gli interessi dell’industria, e in particolare quelli delle industrie maggiormente nocive, sono sostenuti in nome della scienza e della sostenibilità; come, cioè, se fossero non i desiderata delle corporations, ma verdetti oggettivi della scienza che finalmente ci permettono di superare le parzialità dell’opinione e le fallacie della politica. La professionalizzazione dell’influenza digitale fa poi sì che, grazie a raffinate tecniche di inbound marketing, a ribadire le ragioni dell’industria camuffate da verità scientifiche inattaccabili non siano solo scienziati, politici o celebrità, bensì persone (quasi) comuni, che ci appaiono più credibili perché disinteressate, cioè sinceramente interessate solo a difendere e valorizzare il ruolo della scienza nel dibattito pubblico. È un gioco di specchi, che fa sì che al green/pink/ethics-washing oggi si aggiunga l’insidia del participatory-washing: la sottile arte di far passare gli interessi del settore industriale come se fossero verità scientifiche e per giunta sostenute dal basso, un tappeto di erba sintetica (in inglese astroturf, il termine tecnico per designare questa strategia) a simulare l’erba vera (grassroots, cioè le rivendicazioni popolari, di movimento, genuinamente dal basso).[2]
Credo che non abbiamo ancora preso consapevolezza della portata del problema: della potenza, cioè, con cui il combinato disposto di questi meccanismi consolida ulteriormente il potere delle élite tecnocratiche e parallelamente indebolisce i movimenti e le proteste dal basso, delegittimandoli e sottraendo loro le loro stesse parole.
Perché nel momento in cui movimenti genuinamente emancipativi, grassroots, si battono contro ciò che veste i panni di una scienza addirittura legittimata e richiesta dal basso, le loro parole ancora più facilmente potranno venire negate come forme di partecipazione e invece fraintese, e liquidate, come semplice fatto di ignoranza e complottismo. Siamo consapevoli, giustamente, della repressione sempre più feroce che si abbatte contro chi protesta: fatichiamo invece a scorgere come il dissenso sempre più spesso venga prima ancora sterilizzato a monte, delegittimato sul piano semantico, e quindi non visto, scambiato per altro. Ma la delegittimazione semantica rafforza e giustifica la repressione legislativa e giudiziaria: perché, in fondo, se non è dissenso ma solo odiosa ignoranza, perché scomodarsi a denunciare la sproporzionalità di idranti, misure di privazione della libertà, sanzioni o se a chi protesta viene negato l’accesso al proprio conto bancario (come accaduto con il Freedom Convoy canadese)…?
«Qual è la differenza tra la verità e una teoria del complotto? Tra gli otto e i nove mesi». Questa battuta, che secondo gli estensori del Manifeste circolava all’interno dell’OMS (p. 34), richiama causticamente l’intervallo di tempo che troppe volte è intercorso tra la dismissione di posizioni minoritarie o critiche come mero complottismo e la constatazione che forse queste contenevano qualcosa di più di qualche «nucleo di verità», per riprendere l’espressione coniata da Wu Ming 1 (2021). Peccato che quegli otto-nove mesi siano anche l’intervallo di tempo fatale, quello in cui si sarebbe potuto discutere e agire, e chissà forse anche imprimere un diverso corso agli eventi. Se solo l’etichettamento delle critiche come “complottismo”, e spesso dell’intera controversia come “roba da complottisti”, non avesse reso impraticabile il terreno – troppo alto il rischio di essere scambiati per complottisti, meglio parlare d’altro – minando ogni possibilità di critica e dibattito. Così che la consapevolezza, se arriva, arriva troppo tardi. Quando ormai l’ennesima “innovazione” è diventata elemento del paesaggio del new normal, e indietro non si torna.
Un esempio emblematico è quello della protesta contro i TEA (Tecniche di evoluzione assistita), culminata nel recente episodio di Mezzana Bigli (Pavia), dove il gesto dei falciatori notturni di una coltura sperimentale di riso promossa dall’Università di Milano è stato oggetto di un coro unanime di attacchi dal mondo politico, scientifico e “ambientalista”, che l’hanno dipinto come esito di oscurantismo anti-scientifico, ignoranza e addirittura terrorismo. Impedendo così non solo il riconoscimento della dignità di azione politica a quel gesto, ma sbarrando anche la strada allo svilupparsi di un dibattito intorno a un tema che infatti oggi non mobilita che uno sparuto gruppo di coraggiose/i attiviste/i, laddove non più di vent’anni fa intorno agli OGM una certa compattezza del mondo ambientalista era stata capace di imprimere una svolta significativa sul corso degli eventi.[3]
Ma molti altri esempi possono essere individuati, nel Sud globale, dove i saperi contadini e le resistenze ai programmi di modernizzazione ecologica – targati Monsanto e sostenuti dai filantrocapitalisti alla Bill Gates – diventano superstizioni anti-moderne da estirpare. Nel Sud come nel Nord del mondo, le resistenze contro gli impatti devastanti della corsa ai minerali necessari per la transizione green e digitale, così come le proteste contro le speculazioni legate alle rinnovabili, devono oggi vedersela non più solo con la vecchia accusa di egoismo Nimby, ma anche con lo stigma di essere contro la scienza, negazionisti, ignoranti. Infine, come non evocare l’occasione persa conseguente all’incapacità di cogliere l’importanza (e di rispondere alla domanda di tematizzazione pubblica, prima che sia troppo tardi) di alcune questioni sollevate dalle proteste contro la gestione pandemica – dai rischi dell’ipermedicalizzazione a quelli dell’identità digitale e della sorveglianza tecnologica. Un’occasione persa che è difficile non attribuire all’ansia di non provare nemmeno a parlare di ciò di cui parlano “i complottisti”.
NOTE
[1] È salutare ricordare che è proprio così che nasce la nozione di sound science: introdotta dall’industria del tabacco, per screditare la trash science (scienza spazzatura) prodotta dalla ricerca indipendente e accademica che metteva in luce la pericolosità del fumo passivo.
[2] Ne abbiamo parlato in modo più articolato in Lello e Saltelli (2022).
[3] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
Le teorie del complotto, seconda parte - Il populismo epistemologico e le sue aporie
Questa è la seconda puntata della riflessione avviata la settimana scorsa. Qui ci interroghiamo sulle ragioni del crescente scetticismo popolare verso la - o meglio, verso una parte della - scienza, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni delle risposte oggi largamente prevalenti nel dibattito pubblico e in quello accademico, incentrate sulla post-verità, sul populismo e sulla divisione del lavoro scientifico. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
IL POPULISMO EPISTEMOLOGICO E LE SUE APORIE
Del resto quelle letture sbrigative che riducono il problema all’analfabetismo funzionale e all’ignoranza del popolo trovano pieno supporto nelle chiavi di lettura prevalenti nel dibattito accademico, che sono decisamente significative. Vediamole.
Molta elaborazione accademica sul tema ha preso le mosse dall’accettazione pressoché acritica della categoria di post-verità. Si è così sviluppata un’ampia letteratura che spiega come siamo entrati in un’era nuova, in cui le persone tendono ad attribuire peso a emozioni e sentimenti più che alla razionalità, a credenze soggettive più che a dati oggettivi, a opinioni più che a fatti, a discorsi seduttivi più che a spiegazioni analitiche, alle esperienze dirette e al senso comune dell’uomo/donna della strada più che a generalizzazioni e astrazioni.[1] Molti lavori hanno così introdotto concetti come quelli di pseudo-science o troll-science (Ylä-Anttila 2018), al punto che l’intero dibattito tende a ruotare intorno ai perni del populismo epistemologico (Saurette e Gunster 2011) e del science-related populism (Mede e Schäfer 2020).
Si parte cioè da un concetto, quello di populismo, per poi stirarlo in modo che il classico risentimento popolare verso le élite finisca per abbracciare, insieme ai detentori del potere politico ed economico, anche università, esperti, istituzioni scientifiche e sapere accreditato. Il problema è che già nella sua accezione propriamente politica, l’uso corrente del concetto di “populismo” appare problematico: in una fase in cui è difficile trovare un partito/leader che non faccia ricorso a strategie e registri discorsivi “populisti”, quella categoria tende a perdere la sua utilità analitica, e piuttosto ad ampliare, di converso, la sua valenza normativa (Schadee et al. 2019; Bazzoli e Lello 2022). Diventa, cioè, un modo per tenere insieme e distinguere tutti quegli attori politici che non piacciono (al mainstream), perché alternativi – o presunti tali – ad esso; e, al contempo, per scaricare la responsabilità di mutamenti e terremoti elettorali sgraditi (sempre ai partiti tradizionali) sugli elettori, che voterebbero partiti populisti perché sono diventati gretti, ignoranti e razzisti, o nella versione più edulcorata – ma la sostanza non cambia – per la rabbia e la frustrazione di essere stati abbandonati, impoveriti, espropriati. In ogni caso, la responsabilità è degli elettori, che non agiscono in base a ragioni ragionevoli ma sarebbero agiti da pulsioni di rabbia e frustrazione. Isolando in questo modo le élite e i partiti tradizionali di centro sinistra e centro destra da qualunque dovere di auto-critica rispetto al loro essersi trasformati in oligarchie intercambiabili in difesa degli interessi del capitalismo estrattivista nelle sue diverse facce.
Lo stesso esito che è possibile rinvenire nel populismo legato alla scienza, o epistemologico: in fondo, un modo per spiegare le critiche e la crescente diffidenza popolare verso le istituzioni del sapere accreditato facendo leva su questa stessa rabbia “irrazionale”, psicopatologica, nutrita da patetiche nostalgie dell’eden perduto, esentando quelle stesse istituzioni dal doversi porre domande scomode, ma molto serie, circa la propria crescente autoreferenzialità e sulle ragioni profonde che ne stanno intaccando credibilità e prestigio.
Poco importa se queste letture auto-assolutorie basate su populismo e post-verità aprono contraddizioni evidenti. Una principale: come è possibile che proprio la diffusione della scolarizzazione e l’accresciuta facilità di accesso a fonti di informazione scientifica abbiano prodotto crescente sfiducia nella scienza stessa e il proliferare dei complottismi?
Anche perché, nel frattempo, assistiamo al recupero surrettizio del vecchio Deficit Model, risalente agli anni Ottanta dello scorso secolo e ormai superato da decenni di studi nell’ambito della filosofia e sociologia della scienza e degli STS (Bucchi e Neresini 2002; Coniglione 2010). Quel modello assumeva che le critiche popolari verso le innovazioni tecnoscientifiche fossero riconducibili all’ignoranza del pubblico e alla sua incapacità di capire il metodo scientifico. Secondo quella visione paternalista della cittadinanza, è dunque sufficiente comunicare meglio le innovazioni che si intende introdurre e promuovere l’alfabetizzazione scientifica per superare resistenze e diffidenze popolari.
E invece, proprio oggi che l’accesso a PubMed e SciHub, la fruizione di programmi di divulgazione scientifica e l’apprendimento quanto meno dei rudimenti del metodo si sono democratizzati quanto mai prima, monta la diffidenza popolare verso la scienza: com’è possibile?[2]
Da notare, per inciso, che il recupero di una teoria anacronistica come il Deficit Model costituisce il pilastro “teorico” del burionismo, ovvero di quel modo – altrettanto fuori dal tempo – di concepire la relazione tra scienza e società massimamente rappresentato, in Italia, dall’autoproclamatosi paladino della lotta in difesa della scienza contro le fake news. Eppure, proprio il fatto che le perplessità verso le politiche vaccinali o l’adesione a medicine alternative siano derubricabili a questione di «asini raglianti» è, questa sì, una fake news, come dimostra una consolidata tradizione di studi che ha chiarito le differenti ragioni per cui la scienza debba essere democratica. Riassumendole: primo, perché non è plausibile né fondato ri(con)durre le ragioni di critica e perplessità all’ignoranza, e anzi quelle ragioni vanno prese in considerazione, visto che le innovazioni tecnoscientifiche in discussione andranno a ricadere sulla vita dei cittadini non-esperti, che quindi devono avere voce in capitolo (Coniglione 2010). E, secondo, perché il coinvolgimento dei non esperti nella produzione scientifica è fondamentale per conseguire risultati che avranno maggiori probabilità di godere di legittimazione sociale, dunque di essere accettati socialmente (Jasanoff 2021), ma che saranno anche di migliore affidabilità e qualità da un punto di vista propriamente conoscitivo (Harambam 2021, Dotson 2021).
Ancora più improbabili, quasi acrobatici, sono i tentativi di darsi una spiegazione nei casi in cui l’analisi empirica individui atteggiamenti critici verso le innovazioni tecnoscientifiche più diffusi presso settori sociali che difficilmente possono essere sospettati di essere affetti da ressentiment populista in conseguenza di disagio sociale o impoverimento; né che possano essere liquidati come ignoranti o incapaci di comprendere il metodo scientifico a causa di presunti deficit culturali.
Prendiamo, ancora, il caso della esitanza vaccinale, che diverse ricerche hanno rilevato essere maggiormente diffusa all’interno di segmenti sociali che possono contare sia su redditi che su livelli di istruzione più elevati della media (per es., Smith et al. 2004; Wei et al. 2009; Lello 2020), tanto che in alcuni casi se ne è parlato come di una scelta legata a situazioni di privilegio (Reich 2014). E non a torto, perché, come fa notare Goldenberg (2021), se dubbi e perplessità sono diffusi nei diversi gradini della scala sociale, sono però soprattutto le persone che possono fare affidamento su più risorse – economiche, culturali, relazionali etc. – quelle più attrezzate per sostenere i costi (economici e non solo) conseguenti alla scelta di non rispettare le prescrizioni vaccinali previste per sé (nel caso del Covid-19) o e/o per i propri figli (nel caso delle vaccinazioni pediatriche).
Ebbene: in questi casi, si tende a fare ricorso (per es.: Grignolio 2016) a spiegazioni complesse e contorte, facendo leva sulla teoria della razionalità limitata di Kahneman (2012) e sugli studi di Gigerenzer (2015), per cui l’abbondanza informativa non porta necessariamente a compiere scelte ottimali. Ma anche in questo modo non si riesce a spiegare perché mai proprio le persone più acculturate dovrebbero anche essere le più sprovviste delle risorse necessarie per distinguere tra fake news e notizie attendibili, finendo così per diventare addirittura vittime privilegiate delle «trappole cognitive» e dei vari bias (distorsioni, pregiudizi) che vengono associati a modelli cognitivi chiusi e dogmatici.
Ogni genere di piroetta, insomma, pur di non riconoscere l’ovvio. Cioè, che assistiamo ormai da anni, a livello di organizzazioni sovranazionali deputate all’elaborazione delle strategie di global health, a un impoverimento esiziale del concetto di salute, che si è tanto assottigliato da arrivare a coincidere sempre più con quello di immunizzazione; e che tale impoverimento dipende da motivazioni di ordine politico ed economico, più che da ragioni scientifiche (Dentico e Missoni 2021). È dall’assenza di dibattito e trasparenza sulle commistioni tra ricerca e finanziamenti privati che occorrerebbe partire per trovare spiegazioni più plausibili dell’esitanza vaccinale e delle proteste ad essa correlate, più che dalla post-verità o dai deficit cognitivi. Tanto più che sono diverse le ricerche empiriche (Goldenberg 2016) che da tempo mostrano come dietro all’esitanza vaccinale e alle proteste conseguenti non ci sia anti-scienza, bensì una richiesta di apertura della black box – cioè di chiarire gli intrecci tra scienza, politica e interessi – insieme a una domanda di più ricerca indipendente e di coinvolgimento nella definizione delle linee di indagine scientifica (per esempio, orientando i finanziamenti sulla ricerca sugli effetti avversi e sulle variabili soggettive che incidono sulla probabilità del loro manifestarsi).
Più raffinata – e ancora più significativa, nell’economia del nostro ragionamento – la posizione di quegli studiosi che, avendo potuto constatare, sulla base di ricerche statistiche, come un aumento dell’esposizione all’informazione scientifica non “protegga” di per sé le persone da teorie pseudoscientifiche e complottiste, invocano una maggiore enfasi, nelle scelte comunicative, sull’importanza della «divisione del lavoro scientifico» tra specialisti e profani. Si tratterebbe, cioè, di fornire alle persone comuni «ragioni preventive» (Zagzebski 2012) perché queste possano credere nelle affermazioni degli esperti. Come sostiene Keren (2018), «una migliore comprensione dei contenuti scientifici, non accompagnata da una comprensione appropriata della divisione del lavoro cognitivo, potrebbe tentare alcune persone comuni a basare le proprie credenze su questioni scientifiche sulle loro proprie valutazioni delle evidenze scientifiche più che sull’autorità degli esperti».[3] Occorre, cioè, spiegare alle persone che devono credere agli esperti a scatola chiusa, e diffidare delle proprie pericolosissime capacità di pensiero critico.
Sulla stessa linea, solo portate più esplicitamente alle loro conseguenze, le posizioni, riprese in un noto articolo del “New York Times”, di Micheal Caulfield, un esperto di Digital Literacy.[4] Il modo in cui ci è stato insegnato a usare il pensiero critico – consultando, comparando, soppesando diverse fonti informative per approfondire un tema, risalendo alle fonti primarie, senza fermarci alla prima apparenza – sarebbe, sostiene l’accademico, essenzialmente sbagliato e del tutto inadatto di fronte al caos informativo prodotto da Internet. Perché tentare di ragionare con la propria testa può rivelarsi pericoloso e controproducente. Inoltre, la nostra attenzione è una merce rara, che dobbiamo imparare a spendere saggiamente. Quindi, siccome sarebbe lungo e faticoso costruirsi una propria opinione su questioni controverse – e si sa, il tempo è denaro – meglio evitare di fare ricorso a fonti primarie e soprattutto evitare come la peste il pericolo di prestare ascolto a più campane. Meglio limitarsi a una ricerca di 15 secondi (riporto letteralmente) che si riduce al googlare un nome o una parola chiave: se – senza leggere, bene inteso, lo studioso ci intima di limitarci allo scrolling – da questa edificante attività si ricava una maggioranza di titoli che asseriscono che quella persona o teoria non è credibile, ci si deve fermare qui. Il metodo ha anche un nome, SIFT.[5] E si basa sulla premessa del tutto oggettiva secondo cui l’informazione più credibile è quella che troviamo in cima alla pagina della ricerca su Google (…). L’unità didattica che serve a insegnarlo – di sei ore, che effettivamente dovrebbero essere più che sufficienti – è stata adottata da decine di università negli Stati Uniti e in alcune scuole superiori canadesi. L’orgoglio del metodo è che il fact-checking basato su SIFT deve portare a esprimere un giudizio sulla veridicità o meno di una teoria, o sull’attendibilità di un personaggio pubblico, in 30, 60 o 90 secondi. Rivelatori anche i presupposti psicologici su cui si basa: i diffusori di conspiracy theories avrebbero successo perché cercano di lusingare le capacità intellettive delle persone comuni trattandole come adulti che potrebbero – non a caso si parla di informational hybris – (ambire a) capire ciò di cui si parla e ragionare con la propria testa: manco fossero esseri senzienti. Ma no, non ce la puoi fare, se conservi qualche autonomia critica inevitabilmente cadi nella rabbit hole. Per contrastare quell’attraente ma fallace lusinga, allora il metodo SIFT cerca a sua volta di adularti, ma lo fa ricordandoti che il tuo tempo e la tua attenzione sono preziosi: dicendoti insomma che, anche se sei tonto e meriti di essere trattato come un bambino (o meglio come nessun bambino andrebbe trattato), ciononostante “Tu vali”. Ti rimette, insomma, al tuo posto, nell’unico ruolo che puoi legittimamente reclamare: quello di consumatore. E alla fine del corso, tra gli apprezzabili “risultati di apprendimento”, si nota che nelle discussioni è meno probabile che gli studenti ricorrano a ragionamenti motivati. Che sollievo, eh?
NOTE
[1] È un tema che abbiamo affrontato in modo articolato e critico in Lello e Raffini (2023)
[2] Un’ipotesi interessante che può rispondere a questo (apparente) paradosso, radicalmente alternativa rispetto alle letture focalizzate sulla post-verità, è quella della democratizzazione del boundary work, sviluppata da Harambam e Aupers (2015), secondo cui alla radice della crescente critica popolare verso il sapere esperto e scientifico non ci sarebbe tanto l’ignoranza quanto il fatto che, proprio per via delle maggiori possibilità di accesso alla conoscenza scientifica, i conflitti anche radicali intorno a questioni epistemologiche e metodologiche escano dalla torre d’avorio delle professioni deputate alla produzione di conoscenza e trovino una via per essere dibattuti e combattuti anche tra i non-specialisti, in contesti della vita quotidiana. Ne abbiamo parlato in modo più analitico in Lello e Raffini (2023).
[3] Keren (2018), citato in Bordignon (2023), traduzione e corsivi miei.6 Charlie Warzel, Don’t go down the rabbit hole, “New York Times”, 18 febbraio 2021, <https://www.nytimes.com>.
[4] Charlie Warzel, Don’t go down the rabbit hole, “New York Times”, 18 febbraio 2021, <https://www.nytimes.com>.
[5] Acronimo dei 4 principi/fasi del metodo: 1) Stop. 2) Investigate the source. 3) Find better coverage. 4) Trace claims
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
Le teorie del complotto, prima parte - Tra populismo, scientizzazione della politica e disincanto del mondo
Quella che segue è la prima di cinque puntate di un testo sul complottismo, indagato al crocevia tra populismo, scientizzazione della politica e disincanto del mondo. Il testo originale è stato pubblicato come prefazione al volume di Matthieu Amiech, "L'industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente" (Edizioni Malamente, 2024). Elisa Lello
--------
Scrivo queste pagine durante un soggiorno a Coimbra come pesquisadora (ricercatrice) visitante presso un Centro universitario che deve molto del suo prestigio a una importante tradizione di studi che ha avuto il merito di fare luce sul ruolo cruciale della dimensione epistemologica nei rapporti di dominio. In particolare, nel mettere sotto esame critico il ruolo che la scienza occidentale ha avuto nel legittimare e implementare le forme della dominazione coloniale storica – e che continua a esercitare attraverso la colonialità (Quijano 2005) – alla luce del fatto che il modo in cui vediamo e descriviamo il mondo determina anche i modi in cui pensiamo sia possibile, o non possibile, agire su di esso per trasformarlo. Una tradizione che si è dunque concentrata sull’epistemologia come strumento di potere, che spoglia la scienza della sua pretesa neutralità mostrando come questa risponda ai rapporti di forza in campo e questi contribuisca a consolidare, marginalizzando, invisibilizzando o ridicolizzando modi altri di stare al mondo, di conoscerlo e rappresentarlo (Chalmers 2017; Nunes e Louvison 2020; Santos et al. 2022).
Eppure, anche in un contesto come questo, quando mi capita di raccontare a colleghe/i i temi intorno cui gravitano i miei studi durante questi ultimi anni – essenzialmente: movimenti sociali e tecnoscienze, i rapporti tra politica e scienza, tra critica sociale e complottismo, tra epistemologia e populismo – quasi sempre mi imbatto in reazioni a cui sono fin troppo abituata. Dopo sorrisi e attestazioni di quanto tutto questo sia interessante, quella che mi si cerca (senza successo) di proporre è una complicità fondata sull’indignazione, e sullo scherno, a partire da qualche aneddoto che invariabilmente vorrebbe dimostrare quanto ci sia gente, là fuori – e, ça va sans dire, soprattutto tra chi ha orientamenti conservatori – così irrimediabilmente ignorante e anti-scientifica che ha completamente perso il lume della ragione, che crede in teorie strampalate, risibili e complottiste, e come è possibile che costoro abbiano diritto di parola e, quel che è peggio, pure di voto.
La mia perplessità, ma a volte è quasi scoramento, nasce non solo dal constatare la mancanza di qualunque cautela nel trattare del rapporto tra scienza, “ignoranza” e politica – ancor di più qui, appunto. Ma anche dal vedere come si tratti quasi sempre di ricercatrici/tori che si autodefiniscono militanti, di sinistra, che rivendicano un’attenzione estrema all’inclusività nelle pratiche e nel linguaggio quando si parla di identità di genere, orientamenti sessuali o body-shaming, eppure tutta questa inclusività, sensibilità e attenzione letteralmente svaniscono quando si è di fronte a opinioni non del tutto allineate, per esempio, sulla crisi eco-climatica o, a maggior ragione, quando si tratta di scelte sanitarie. Non solo svaniscono: peggio, troppo spesso si trasformano in un disprezzo profondo, antropologico, che apre la porta a battute feroci, che rivolte ad altre categorie desterebbero, giustamente, scandalo e reazioni ben sicure di sé. Il tutto senza poi indugiare troppo sulla eterogeneità delle critiche né sulle ragioni che vengono mosse, appunto, dai non allineati; senza interrogarsi sulla complessità delle questioni che pongono e che tutti ci dovremmo porre. Ci si accontenta invece, troppo spesso, di alzare steccati identitari per frapporre una distanza netta tra sé e gli “altri”: anti-vax, antiscientifici, trumpiani, complottisti, negazionisti, terrapiattisti. Un po’ tutti in odore di estrema destra e fascismo.
Sollevando, con ciò, contraddizioni che gridano giustizia, ma che raramente vengono affrontate. Per iniziare col piede giusto, prendiamo la sineddoche per eccellenza del vasto panorama del complottismo: gli odiatissimi “anti-vax”, categoria che finisce per catalizzare indignazioni, ironie e disprezzo, nonché solitamente inclusiva di chiunque per qualunque ragione abbia dubbi sulle politiche pandemiche. Bene, l’avere (più di) qualcosa da ridire sul fatto che le linee politiche essenziali che hanno guidato la gestione globale del Covid-19 siano state scritte da CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness) – Fondazione B. & M. Gates, DARPA (NATO) e Wellcome Trust – è una posizione in perfetta continuità con ciò che denunciava il “movimento dei movimenti” tra Seattle e Genova al volgere del millennio e con ciò che qualunque movimento di sinistra variamente intesa dovrebbe ancora combattere oggi: com’è possibile che questa posizione non solo non sia più (percepita come) coerente con ideali di sinistra ed emancipativi, ma sia addirittura diventata patologica e pure fascista?
Poi, però, in questi stessi ambienti accademici (come in molti della militanza di sinistra) ci si straccia le vesti di fronte all’“onda nera” che travolge Europa e Stati Uniti, spesso, ancora una volta, con studi che, se finalmente prendono in considerazione il ruolo delle “emozioni”, il più delle volte lo fanno per dare una spiegazione tendenzialmente psico-patologica del voto a destra, che lascia a intendere quanto sia invece “razionale” quello progressista.
Sono convinta che ci sia un nodo da affrontare, qui. E che questo nodo abbia a che fare con ciò che impedisce un dialogo tra sinistra e classi popolari, dove la prima non fa nulla per dissimulare il suo disprezzo verso i valori e i modi di vita delle seconde proprio mentre si dispera perché queste non le tributano più i loro consensi e preferiscono cercare e inseguire altre narrative.
Ma è un nodo che riguarda anche l’accademia. La quale, muovendosi lungo percorsi in fondo molto simili, denuncia con tanta veemenza quanta superficialità i pericoli delle fake news e del complottismo, malattie che ovviamente contagerebbero di preferenza il “popolino”, e nel contempo si allarma di fronte alla perdita di credibilità delle “autorità epistemiche consolidate”, cioè università e istituzioni scientifiche, agli occhi (di parti rilevanti) del popolo stesso. Tendendo però a liquidare ogni problema, come vedremo, attraverso le interpretazioni auto-assolutorie del populismo, politico ed epistemologico, e della post-verità.
Per questi motivi credo sia importante affrontare in modo serio, finalmente, un tema come quello del complottismo, di ciò che lo produce, delle dinamiche storiche in cui si inserisce, e di ciò che esso stesso alimenta. E, in questo senso, il libro di Matthieu Amiech, come cercherò di evidenziare nelle prossime pagine, fornisce parecchi elementi preziosi, illuminanti. Quello che invece farò io, in queste pagine, sarà provare a introdurre il tema partendo dall’individuare aporie e contraddizioni nelle sue interpretazioni oggi largamente prevalenti (da parte del giornalismo, ma anche della sinistra e del sapere accademico), per poi contestualizzarlo all’interno del più ampio problema del rapporto tra scienza e politica, rintracciandone alcune connessioni con la scientizzazione della politica e con il disincanto del mondo.
In questo percorso, seguirò principalmente il filo argomentativo del libro; cercherò però anche di intessere un dialogo tra questo e alcune ricerche e pubblicazioni che ho portato avanti negli ultimi anni, con amici/he e colleghi/e, su temi affini o contigui; e con varie altre letture recenti. Tra queste, in particolare, si potranno riconoscere le impronte significative del Manifeste conspirationniste (Seuil 2022), di The divide: how fanatical certitude is destroying democracy (di Taylor Dotson, MIT Press 2021) e di Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione (di Stefania Consigliere, Derive Approdi 2020).
INIZIAMO A SFATARE QUALCHE LUOGO COMUNE
Cosa c’è dunque che non va in quelle reazioni così frequenti e automatiche? Cosa non funziona in quelle diagnosi che in modo così lineare, e semplice, individuano quasi tutti i problemi dell’oggi nell’ignoranza e nell’“analfabetismo funzionale” che rende il popolo (o comunque sempre “gli altri”) facile preda di fake news e complottismo?
Proviamo a sollevare qualche velo. Un primo problema è dato dal focalizzarsi su una fotografia istantanea senza tenere in considerazione come siamo arrivati a questo punto. Quando invece occorrerebbe partire dalla presa di consapevolezza, suggerita da Frédérique Lordon e ripresa da M. Amiech, della colpevole confisca del dibattito pubblico che ha sistematicamente privato la cittadinanza della possibilità e dei mezzi per capire le forze storiche che la dominano e per partecipare ai processi decisionali che disegnano gli scenari in cui dovrà vivere. Il complottismo, in questa prospettiva, appare piuttosto come sintomo di un’espropriazione, e come rifiuto, al tempo stesso e nonostante tutto, ad abdicare alla volontà di capire, di darsi una spiegazione.
Ci imbattiamo, continuando a sollevare qualche velo, nell’inadeguatezza e nella parzialità dell’informazione offerta dalle testate del mainstream, che in maniera crescente e accelerata negli ultimi anni si è intrecciata con dinamiche di militarizzazione del confronto, conformismo, censura e autocensura, dove su troppi temi i punti di vista dissonanti vengono immediatamente respinti come fake news, in un dibattito chiuso prima ancora di averlo aperto. Il complottismo, dunque – o meglio, l’etichettamento di posizioni critiche come complottiste – usato come arma politica per screditare il dissenso. Ma questa stigmatizzazione di posizioni minoritarie non si limita al piano verbale: come nel caso dei vaccini (per ora), ha legittimato soluzioni autoritarie nel segno dell’esclusione, della privazione di diritti essenziali, della separazione della cittadinanza tra meritevoli e non, sulla base dell’adesione e dell’obbedienza. È chiaro, e pure un’abbondante letteratura scientifica lo dimostra, che questo tipo di scelte – sia comunicative che politiche e legislative – determina un effetto boomerang (Attwell e Smith 2017; Goldenberg 2021), provocando la rottura della sfera pubblica come luogo di confronto di habermasiana memoria e, quindi, radicalizzazione delle posizioni (da entrambe le parti però, anche se si tende a dimenticarlo). Ma, tra chi viene escluso, si tratta di molto di più: di un senso di crescente estraniazione dal sistema di valori dominante e dalle sue categorie di lettura della realtà, di vissuti di lacerazione profonda e sofferta di legami e appartenenze, di «continenti percettivi che si allontanano, di forme di vita che diventano inconciliabili» (Manifeste, p. 31). Da qui occorre partire per capire come mai, a volte, si possa anche passare da una salutare diffidenza verso le narrazioni del potere alla convinzione, più problematica, che “tutto ciò che ci è stato insegnato è falso”.
Se solleviamo un altro velo, ci imbattiamo questa volta nella superficialità che conduce a un classismo evidentemente ignaro di sé. Quando parliamo di persone, e magari studiose/i, di sinistra, colpisce lo sbrigativo appiattimento sulle categorie ipersemplificanti e stigmatizzanti introdotte dal giornalismo mainstream (anti-vax, complottista e tutte le altre richiamate sopra). Soprattutto perché sono diversi gli studi che hanno invitato a uno sguardo più attento e cauto quando si parla di “complottismo”. Sottolineando, innanzitutto, come questo tenda a proliferare dove lo scostamento tra la realtà esperita dalle persone e la sua rappresentazione da parte di media e istituzioni supera una soglia critica. Il complottismo – o quello che molti definiscono con questa categoria, comunque problematica – prospera, insomma, sulle bugie delle élite. E ancor prima, sul non detto: prospera, cioè, laddove questioni che hanno un peso cruciale sulle nostre vite non diventano oggetto di un dibattito pubblico, aperto e capace di dare cittadinanza e legittimità ai diversi punti di vista.[1] Che è come dire, rovesciando la prospettiva, che sempre più spesso i presunti “complottisti” sono (lasciati) i soli a trattare, con mezzi e risorse eterogenei, questioni assolutamente vitali: dalle tecnologie 5(6)G all’impatto della più generale digitalizzazione della società, dal transumanesimo alle politiche sanitarie emergenziali.
E poi, soprattutto: chi decide quali teorie sono complottiste? Cosa distingue una teoria sociale critica da una conspiracy theory? Puntando l’attenzione sulle traiettorie seguite delle teorie sociali, Pelkmans e Machold (2011) mostrano come siano quelle promosse e sostenute dalle classi subalterne quelle che, con maggiore probabilità, finiranno per essere etichettate come complottiste. Non è insomma questione di fondatezza o razionalità, poiché non è agevole né forse possibile individuare criteri di distinzione su un mero piano epistemologico. Alla fine, la differenza la fanno i rapporti di potere. Tanto che una teoria del complotto, se sostenuta da attori in posizioni di potere, difficilmente sarà riconosciuta e ricordata come tale, anche qualora ne venga chiaramente dimostrata l’infondatezza, la strumentalità, talvolta la portata nefasta dei risultati (classico l’esempio delle “armi di distruzione di massa” suppostamente detenute da Saddam Hussein).
Del resto, a proposito di classismo, non ha destato le reazioni che avrebbe meritato la presa fortissima che ha recentemente acquisito, sugli scambi comunicativi di tutti i giorni, l’idea per cui solo chi ha un titolo di studio specifico sia titolato a parlare. Frutto avvelenato (uno dei tanti) del burionismo. Eppure, una tale idea è stata accolta e fatta propria, anche, o forse soprattutto, a sinistra. Senza la minima preoccupazione di quanto ciò significasse legittimare il silenziamento di quanti non hanno un titolo di studio elevato, il che poi sottende evidenti implicazioni di classe e giustizia sociale; né di quanto, in questo modo, si alimenti acriticamente la logica pericolosa per cui tanto si riserva il potere di decidere agli “esperti”, quanto inevitabilmente si spinge verso la depoliticizzazione delle questioni, restringendo lo spazio del dissenso e del confronto (ci tornerò più avanti).
Ma continuiamo a scavare. Siamo sicuri che sia (solo) il complottismo il problema? Non sarebbe urgente problematizzare anche, o forse soprattutto, quello che alcuni hanno battezzato il “dispositivo anti-complottista” e le sue implicazioni politiche?[2] Un’operazione, questa, che svolge il Manifeste conspirationniste, mostrando le vicende storiche che legano strettamente le origini della retorica anti-complottista – quindi fin da Karl Popper – con la genesi del neoliberalismo e del suo There Is No Alternative. Se tentare di produrre una intelligibilità storica del corso degli eventi è una presunzione fatale; se chiunque tenti di dire qualcosa su questo mondo che questo non dica già da sé oltrepassa i suoi diritti epistemologici: allora, non resta che adattarvisi. La funzione del dispositivo anti-complottista è fin dalle sue origini, questa la tesi degli autori, quella di legittimare l’ordine sociale esistente, ambendo a riservare per sé la facoltà di cospirare.
NOTE
[1] Cfr. Pelkmans e Machold (2011), Lagalisse (2020); sul tema del prosperare del complottismo sulle bugie dei potenti si può vedere anche la mia intervista a Erica Lagalisse, Teorie della cospirazione e critica sociale. Come il complottismo prospera, non sempre a torto, sulle bugie delle élite, “Malamente”, n. 20, gennaio 2021, p. 47-62, <https://rivista.edizionimalamente.it>.
[2] In Italia se ne è occupato per es. Lolli (2023)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.