Rete psichiatrica sul territorio - Intervista a uno psichiatra che attuò la legge 180
Nell'ottica di raccontare la legge 180, descritta in altri articoli di questi speciale di Controversie, decido di cercare di farmi raccontare le pratiche di chi ha lavorato nel contesto sociale successivo alla promulgazione della legge. Così incontro Antonio Iraci, medico psichiatra. Mi invita gentilmente a casa sua una sera e fin dalle prime chiacchiere, i convenevoli, ci inoltriamo nel suo lavoro dei primi anni '90 nelle comunità della provincia di Como...
Antonio Iraci: A inizio anni ‘90 lavoravo per l’Unità Operativa di Psichiatria di Menaggio. Avevo l’area di Porlezza che all’epoca coincideva con tre vallate del profondo Nord: la Val Rezzo, la Val Cavargna e la Val Solda.
Ricordo queste case con un’unica stanza, la parte nera per il fumo del camino, un letto, un tavolo e le imprecazioni di chi vi abitava. Si andava anche solo per fare un’iniezione di farmaco depot, per garantire la continuità delle cure.
Racconto sempre di una paziente che si chiamava Nini. Le volevo molto bene e lei ne voleva a me. Non sempre il medico vuole bene al paziente! La Nini diceva di essere la moglie del sindaco dimessosi, ma che lei non si era affatto dimessa! La Nini manteneva il suo ruolo sociale interessandosi a tutto ciò che poteva essere di nocumento ai suoi concittadini. Faceva proclami per il paese e andava in chiesa a seguire ogni messa per poi salire sul pulpito alla fine dichiarando: “Adess parli mi”.
La Nini in una metropoli sarebbe stata rinchiusa. Lì, in effetti, si è riusciti a fare un grosso lavoro. In una riunione col sindaco e col prete spiegai loro che se le avessi dato un antipsicotico si sarebbe buttata dal balcone (era già successo): a volte i sintomi sono meccanismi di difesa e se io non sono più nessuno allora non ha senso vivere e mi butto.
Allora montammo una bacheca all’ingresso del paese dove lei poteva mettere tutti i suoi proclami. Aderì tutta la comunità e questo è l’esempio di un caso gestito tenendo conto di tutte le problematiche del momento. Dovevamo gestirla in termini sociali e ce l’abbiamo fatta. Perché quando i pazienti non sono più rinchiusi e rintanati in una struttura allora devi costruire processi di integrazione del paese.
Jacopo Gibertini: Raccontami per favore come arrivi a questo. Il tuo rapporto con l’antipsichiatria e la legge Basaglia.
AI: La comprensione di tutto parte, per me, verso la fine degli anni ‘70 dove mi arriva fra le mani un libro, che leggo, che si chiama L’io diviso di Laing (edizioni Einaudi, ancora oggi). Avevo 25/26 anni, stavo studiando medicina. Vado a capire chi è Laing, insieme a David Cooper mi intrigano. Erano parte di quella gente che veniva considerata l’antipsichiatria. Non quella di oggi che sono dei beceri ignoranti. Allora l’antipsichiatria era la base di quella che sarebbe diventata la psichiatria sociale.
Cosa diceva l'antipsichiatria? Che i folli non sono dentro al manicomio, ma fuori perché per aderire alle regole di questo modello sociale bisogna essere matti. Che è una posizione estrema, ma come tale riesce a farti vedere le cose in una certa nuova maniera.
Nel ‘78 poi viene approvata la legge 180. Legge Orsini, Basaglia ne fu il consulente. Allora c’era anche questa possibilità d’illuminazione da parte dei democristiani. Uno dei temi fondamentali della legge 180 era la decriminalizzazione del paziente psichiatrico. Banalmente si escluse dal TSO il criterio di pericolosità sociale, riducendolo a criteri esclusivamente clinici.
E questa mi è sembrato un elemento di civiltà, di grande civiltà. I manicomi poi resteranno aperti per altri 20 anni circa, nel ‘98 si arriva alla chiusura completa. Durante questo periodo, a esempio, a Como avvenne ancora qualche ricovero.
JG: A Como quindi c’era ancora la struttura e funzionante?
AI: Io entro nel servizio pubblico nel 1990. Il manicomio era ancora aperto e buona parte dei miei colleghi più anziani venivano dall’esperienza manicomiale. Così anche gli infermieri psichiatrici che dovevano essere forti fisicamente per poter gestire certe situazioni. Qualcuno di questi poi non aveva un grande afflato empatico e capitava che alcune zone del manicomio diventassero pericolose la sera. Per gli infermieri!
Declinare la legge 180 era un bel casino. Questi medici erano tutte persone di grande esperienza, come dicevano loro. Tu arrivavi ideologizzato, coi tuoi capelli lunghi e ti mandavano a cagare in tempo zero. Non ero da solo, ma abbiamo dovuto unirci e studiare. Capire, comprendere cosa volesse dire servizio territoriale.
Noi abbiamo voluto dare al servizio territoriale una logica di presa in carico totale del paziente. Tu sei sul territorio e lui avrà te come riferimento sempre e comunque, per qualsiasi cosa. Se il paziente necessità una visita, lo aiuti fino a prenotargliela tu. Così come si andava per le valli per le iniezioni quando stavo nel CPS di Menaggio. E territorio non è l’ambulatorio. Basaglia diceva che bisogna far entrare in qualche modo la città nel manicomio. Per questo mi piace raccontare l’esempio della Nini.
Abbiamo anche fondato una delle prime comunità della zona, a Montemezzo, nel 1991. Durante la costruzione della casa andavo a prendere 6/7 pazienti con un furgone che aveva ancora il clacson a pedale. Li portavo a Montemezzo durante la costruzione della casa. La logica era quella di una cooperativa orto-floreale, produzione in proprio e altre attività che oggi consociamo perché si sono diffuse. Si trattava di un luogo dove le persone potevano convivere condividendo un quotidiano supportato. Abbiamo anche scritto articoli e fatto un convegno su questo.
JG: Mi piace il fatto che avete dovuto studiare. C’era una teoria e un modo diverso di spiegare la psichiatria a cui avevate accesso, eravate ideologizzati come hai detto tu. Però era una teoria del fare psichiatria irriducibilmente legata alle persone e al territorio. Come lo applichi allora?
AI: L’aspetto di vivacità di quell’epoca è che ognuno diceva “qual è il senso del CPS? (Centro Psico Sociale)”, “qual è il senso di una comunità?”. Dovevamo costruire senso su queste cose. Il reparto psichiatrico - il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) - aveva una sola funzione. Ci ricoveri una persona, fai i colloqui per arrivare a una diagnosi, imposti la terapia e rinvii la persona al servizio territoriale per la continuità delle cure. Lo SPDC poteva e può essere una stazione del percorso terapeutico. La sua funzione è che la persona recuperi delle competenze dopo la fase acuta e di scompenso.
Poi però devi avere una lettura del servizio psichiatrico come rete. In questa rete ci sono dei nodi che sono l’ambulatorio, l’attività domiciliare sul territorio, il CRA (Comunità Riabilitativa ad Alta Assistenza) e le comunità dove fare percorsi più lunghi di risocializzazione. Ognuna di queste realtà doveva produrre un pensiero. Partecipare alla costruzione di una cultura di riferimento che era il modello complessivo. E l’area del territorio era il fulcro della progettualità. Il progetto lo costruivi sulla base di ogni paziente che incontravi, delle sue esigenze, dei suoi bisogni, delle sue criticità e pensando alle strutture a disposizione del territorio.
Nel 1993 entro in reparto a Menaggio. Avevo passato 6 mesi lì in precedenza e mi era piaciuto perché vedevo che si potevano fare delle cose. Al tempo il reparto era gestito da un anziano che aveva una buona filosofia, ma trovavo che l’applicazione fosse carente. Quando lui se n’è andato dopo un anno, il sostituto non c’era e il primario di allora propose a me di prendere la direzione. Io ho detto “sì, se posso fare”. Lui era un illuminato e - a patto che gli parlassi dei miei progetti - mi ha lasciato fare.
Ho recuperato un gruppo di giovani infermieri senza esperienze e abbiamo iniziato a fare riunioni e formazione tra di noi. “Vediamo qual è il modo migliore per poter lavorare qui dentro” ci siamo detti, sulla base delle fantasie che avevamo e del lavoro che volevamo fare. È molto identitaria come cosa. Nel senso che concerne l’identità che ognuno di noi esprime facendo riferimento a sé e al mondo. Come voglio pensarmi lì dentro, come voglio che quel posto venga pensato. Tutti i nodi contribuivano, mi sono venuti dietro in modo esplosivo. Tutti avevano voce in capitolo.
Un giorno ho chiesto al primario illuminato di coinvolgere i familiari. Io stavo facendo la scuola sistemica di terapia della famiglia che prevede un setting di colloquio specifico: lo specchio unidirezionale. In questo modo hai due setting, quello della conduzione del colloquio e quello degli operatori che osservano. Io facevo i colloqui con i pazienti e dietro lo specchio gli infermieri e i familiari si formavano. Registravamo tutto con il loro consenso e quello del paziente e poi lavoravamo tutti insieme su quel materiale. Più teste sono meglio di una si diceva, abbiamo fatto dei lavori bellissimi.
Per avere lo specchio poi avevo avuto qualche difficoltà perché nessuno veniva inviato a costruire la stanza. Così un giorno, con il primario, ci siamo messi a tirare giù la parete! A quel punto l’ospedale ha mandato delle persone a fare il lavoro e abbiamo iniziato.
JG: E i parenti si prestavano volentieri a questo lavoro?
AI: Assolutamente. Eravamo diventati attrattivi, arrivavano pazienti anche da fuori provincia e ci mandavano i casi più impestati. E a noi piaceva perché cercavamo di capire come, in effetti, stessero funzionando le cose lì, in quella persona e in quel contesto familiare.
Noi puntavamo sempre a ridurre il più possibile l’istituzione, a dare un grande supporto ai familiari tirando fuori la persona dal reparto il prima possibile. Il reparto non è che un momento di sgancio in cui ci sistemiamo. Non ha senso se stai bene dentro il reparto. Devi star bene fuori dove c’è il casino. Ci arrivavano tutte le forme di psicosi e dovevi cercare di far sì che il paziente tornasse almeno a galleggiare nel migliore modo possibile, ma nella sua vita quotidiana.
Ti racconto un caso emblematico del lavoro fatto. Arrivano due genitori che avevano ricoverato la propria figlia per mesi in una clinica privata in Svizzera. Volevano valutare come fosse il reparto di Menaggio perché ormai raschiavano il fondo. Menaggio era bellissimo: luminoso, senza il tipico puzzo dolciastro da psichiatria, avevamo camere con vista lago! Se tu sei in un posto dignitoso stai dando dignità alle persone. Avevo anche scritto un articolo, Le mura terapeutiche…
Bene, questa paziente aveva un disturbo ossessivo compulsivo gravissimo. Il suo problema era che qualunque tipo di movimento lei facesse lasciava indietro pezzi di sé. Quindi lei doveva tornare indietro a riprenderli, rifacendo lo stesso movimento, più e più volte.
Abbiamo iniziato a lavorare con l’accordo dei genitori. Anche insieme a loro abbiamo parlato moltissimo con lei cercando di comprenderla. Abbiamo valutato una terapia, modificandola e sistemandola mano mano.
In un mese è passata da non muoversi dal letto – la sua isola – a muoversi e infine tornare a casa con un piano terapeutico e un progetto di psicoterapia, che in quel caso segui direttamente io. Dopo 5 mesi giocava a tennis! Successone! Certo, lei donna intelligente e laureata ha abbassato le sue aspettative professionali. Però si è impegnata, ha fatto del suo meglio riuscendo a vivere una vita più serena.
JG: Un’opinione diffusa e contraria alla legge 180 è quella per cui si è scaricato tutto sulle famiglie. Pensi che questo sia differente dove l’istituzione si adopera verso le famiglie? Non le lascia sole?
AI: Certo, dove questo succede. Sono stato anche responsabile del Servizio territoriale di Como dal 2005. Quando sono arrivato lì ho scoperto che l’ovvio è rivoluzionario.
Ricordo la Presidente dell’associazione delle famiglie dei pazienti psichiatrici arrivare da me entrando adagio con il cappello in mano dicendo “noi siamo i parenti e noi siamo i colpevoli del resto, perché abbiamo prodotto noi il paziente psichiatrico”. Io ho detto “no, voi adesso vi sedete e parliamo perché io ho bisogno di voi!”, “dobbiamo costruire progetti insieme”. Era un contesto che si dimostrava arretrato culturalmente perché abituato al modello ospedaliero, manicomiale.
Dico così ma ho lavorato molti anni in ospedale. Sempre però rimanendo nell’ottica della rete. Io ero un nodo della rete e ogni nodo deve funzionare come si deve. Se anche solo vuoi dare una terapia devi spiegare bene al paziente cosa sta prendendo e perché, devi prenderti il tempo e sapere che ha capito. Come dicono gli analisti con il farmaco si assume anche il medico. E se il medico è un oggetto buono, io assumo un oggetto buono. La famiglia è parte fondamentale di tutto questo, della rete.
JG: In questo rapporto tra istituzione e famiglia mi viene in mente una cosa che ho sentito spesso, cioè che nonostante – anzi contro – Basaglia ci fosse una fetta importante dell’accademia, conservatrice…
AI: La scuola milanese non ha mai amato il modello territoriale. Anche perché nel modello territoriale hai meno potere. Se stai nell’ospedale mantieni potenti i reparti di pischiatria. Era, secondo me, una politica della scuola di Milano quella di favorire il reparto tralasciando il territorio.
Del resto se andavi a Trieste, a Udine o Arezzo trovavi reparti con numeri ridotti di posti letto. A Trieste poi facevano persino la gestione della fase acuta a domicilio. Loro grazie al fatto che lì c’era stato Basaglia riuscivano a fare tutto.
Tu non ti relazioni solo con il paziente. Hai un rapporto con le istituzioni, con i colleghi, con le famiglie e con le città. Se non leggi questa complessità rischi di fare un lavoro come stanno facendo in questo momento.
Nell’anno 2000 eravamo 35 psichiatri in tutta la provincia di Como. Oggi ce ne sono 9 forse 10. È stato chiuso il reparto di Menaggio (nel 2022), stanno chiudendo quello di Cantù. Como avrà 28 posti letto. Pensare ad Arezzo che ne ha 8, Trieste che ne ha una decina ti dice quale livello di arretramento c’è stato. Ed è doloroso perché cosa vuoi fare con 10 colleghi? Arriveranno dei giovani psichiatri, ma qual è la cultura che hanno? C’è un progetto di riproporre una cultura territorialista? Chi la porta avanti? Qualcuno al governo arriva a dire di riaprire i manicomi… io mi incateno.
JG: Pensi che non sia comunque possibile un passaggio culturale tra chi è rimasto e i giovani che arrivano?
AI: In questo momento faccio fatica a pensarlo. Anche perché c’è una fatica generale di chi sta lavorando. L’unica cosa che devi fare adesso è gestire l’emergenza, urgenza per urgenza, non hai tempo di fare altro.
JG: Non pensi che potrebbero essere comunque in atto, in chi si sta specializzando ora, dei nuovi modelli positivi?
AI: Si stanno attivando dei modelli. Devi in ogni caso seguire una scuola di pensiero. Devi comunque approcciarti all’ambito psicoterapico. I milanesi portano avanti però la scuola cognitivo comportamentale. Perché si ritiene sia quella misurabile! Binswanger diceva che la scientificità all’interno della psicologia è il cancro della psicologia. Come puoi pensare di standardizzare l’umano?
Secondo il metodo scientifico quello che io riesco a fare qui, con te, dovrebbe riuscire a farlo un signore negli Stati Uniti con un altro. Non è standardizzabile! È un disastro così come i protocolli di intervento… e i tirocinanti vengono da me dicendo con orgoglio di essere cognitivo-comportamentali.
Va bene, mi dico sempre che son partito sistemico e non so cosa sono ora. Forse è giusto comunque partire da qualcosa, un qualcosa che ti struttura per poi andare oltre.
JG: Quindi in un certo modo i modelli sono utili. Far passare il senso in cui sono nati quei modelli è più difficile?
AI: Devi anche considerare che anche i modelli di patologia psichiatrica si sono evoluti nel tempo. È rarissimo oggi vedere una paziente con una manifestazione isterica di tipo charcotiano. Adesso sono esplosi gli attacchi di panico. Depressioni in quantità notevoli (e c’è da dire che le terapie farmacologiche aiutano molto). Le psicosi sono molto ridotte mentre si ha un aumento vertiginoso delle nevrosi e dei disturbi della condotta alimentare così come delle tossicofilie in comorbilità con le patologie psichiatriche. Un aumento di circa il 30% della casistica, limitandosi a quella misurabile, quindi è una stima per difetto.
Inoltre, è cambiata anche la qualità dei pazienti e in mancanza di una cultura di riferimento anche i modelli organizzativi sono inutili. L’espansione delle sostanze psicoattive, a esempio, l’aumento delle persone intossicate e il relativo aumento delle aggressioni fuori e dentro l’ospedale ne sono un esempio. Il paziente psichiatrico è solitamente dentro a un mondo tale che è difficile riesca a far del male a qualcuno. Al contrario l’intossicato da cocaina o crack può esser molto pericoloso.
Senza un’organizzazione basata sul territorio di riferimento, si cerca poi di scaricare i pazienti socialmente pericolosi sui reparti di psichiatria o sulle CRA (Comunità Riabilitative ad Alta Assistenza). Questo è uno degli effetti del non aver pensato strutture adeguate dopo la chiusura degli Ospedali giudiziari. Quando lavoravo in ospedale c’era una lista di attesa di 70 pazienti per le REMS. Il reparto era diventato l’anticamera delle REMS, ma questo è pericolosissimo e io mi sono sempre opposto.
Torno alla tua domanda. Far passare il modello è una questione più delicata. Sono stato richiamato in servizio per sostenere l'ambulatorio per i disturbi della condotta alimentare, ma credo che a dicembre di quest’anno mi fermerò, in fondo sono un pensionato. Poi credo anche che probabilmente, se arriva il nuovo psichiatra, continuerò a lavorare per affiancarlo nel passaggio. Se mi sta simpatico. Nel frattempo passerò le prossime settimane a costruire un modello per i disturbi del comportamento alimentare. Mi aiuterà la dottoressa Floris, psicoterapeuta con cui lavoro da tempo. Sarà un modello territoriale perché è a casa che ci sono i problemi.
Franco Basaglia e la legge 180: frammenti dello scenario sociale e politico
Franco Basaglia nasce a Venezia nel 1924, un anno e mezzo dopo la presa di potere fascista.
Cresce e studia tra regime fascista e Seconda guerra mondiale. Consegue la maturità classica nel 1943; poi, si iscrive a medicina a Padova, dove svolge anche attività antifascista, che lo porta all’arresto, nel dicembre del 1944. Resta in carcere fino ad aprile del 1945, alla fine della guerra.
Nel 1949 si laurea in medicina e inizia la pratica clinica nel dipartimento per le malattie nervose e mentali di Padova, studia con Roberto Belloni, pioniere della neurofisiologia clinica, della neurochimica applicata e della neuroradiologia, base diagnostica delle neuroscienze cliniche padovane.
Negli anni dell’Università e della pratica clinica si dedica anche allo studio filosofico, all’esistenzialismo di Sartre, alla psichiatria fenomenologia di L. Binswanger.
Nel 1953 si specializza in malattie nervose e mentali e sposa Franca Ongaro, che – a differenza di quanto spesso si pensa – non era medica, né psicologa, ma letterata. Con lei lavora per tutta la vita.
Dal 1953 al 1961, assistente di Belloni a Padova, si dedica alla ricerca e alla pratica clinica, come; nel 1958 ottiene la libera docenza in psichiatria.
Il 1961 è l’anno della svolta: Franco Basaglia inizia il rivoluzionario lavoro di direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia.
Tra il 1961 e il 1970 visita una comunità terapeutica di Maxwell Jones in Scozia e le esperienze di apertura francesi. Nel 1967 cura il volume Che cos'è la psichiatria? e nel 1968 L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, che racconta l'esperienza di Gorizia.
Tra il 1970 e il 1971, dirige – per poco tempo – la struttura psichiatrica di Colorno, vicino a Parma e, nel 1971, accetta la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, enorme struttura che sorge sul colle di San Giovanni e ospita 1182 malati di cui 840 sottoposti a regime coatto.
Trieste è il luogo in cui mette in pratica, in modo ampio e completo, il suo approccio di normalizzazione della malattia mentale e di apertura dell’ospedale psichiatrico alla città e della città all’ospedale psichiatrico.
Nel 1973 fonda la Società Italiana di Psichiatria Democratica; nello stesso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce Trieste come zona pilota per la ricerca sui servizi per la salute mentale.
Il 1978 è l’anno in cui il suo approccio prende forma in termini istituzionali con l’approvazione della legge 13 maggio 1978, n. 180 - la Legge Orsini, chiamata quasi sempre Legge Basaglia – che abroga quasi completamente la legge del 14 febbraio 1904, n.36 e che impone la chiusura dei manicomi, regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio e istituisce i servizi di igiene mentale pubblici.
Franco Basaglia nel 1980 prende servizio come coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio – dove potrebbe mettere in pratica il modello di psichiatria aperta e territoriale ma, colpito da un tumore, muore nel mese di agosto, a 56 anni.
FRAMMENTI DI CONTESTO SOCIALE ED ECONOMICO
Per comprendere “dove e come” nascono ed evolvono il pensiero e l’opera di Franco Basaglia e dei suoi colleghi, abbiamo provato a isolare alcuni frammenti di contesto che esemplificano quale fosse lo stile di pensiero che ha accompagnato questa evoluzione.
FRAMMENTO #1– IL REGIME FASCISTA
Franco Basaglia studia tra fascismo e Seconda guerra mondiale e viene incarcerato per alcuni mesi tra 1944 e 1945, per attività antifascista. È il periodo in cui, gli eccessi fascisti e nazisti, le leggi razziali e la repressione politica stimolano il desiderio di libertà. Durante il regime fascista le libertà fondamentali, di parole, di movimento, di educazione e di professione sono negate e il manicomio – più che nel passato -è usato come strumento politico, di contenimento, non solo della cosiddetta devianza sociale e mentale, ma anche della opposizione politica.
Un caso emblematico è quello di «Giuseppe Massarenti, leader del movimento bracciantile emiliano e poi sindaco socialista di Molinella – ricordato come il Santo del Socialismo italiano – fu mandato al confino nel 1926 e da lì seguirà un doloroso processo di impoverimento e di caduta nella marginalità che si concluse con il trasferimento alla Clinica delle malattie nervose e mentali di Roma prima e al celebre ospedale psichiatrico della capitale – il Santa Maria della Pietà – poi. Delirio paranoico la prognosi. Un classico» (Petracci M., I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, 2014, Donzelli, XVIII, p. 238).
Durante il regime di Mussolini il numero di reclusi psichiatrici quasi raddoppia rispetto ai decenni precedenti, i manicomi italiani passano ad ospitare da 55 mila (dati del 1920) a 95 mila persone (dati del 1941)[1]
FRAMMENTO #2 – L’IMMEDIATO DOPOGUERRA
Il periodo della laurea e degli studi per la specializzazione scorre tra la fine della guerra e i primi anni ’60. Sono gli anni del boom economico, della scoperta del benessere, in Italia, per (quasi) tutti, della condanna delle miserie come quelle dei Sassi di Matera (la visita di P. Togliatti a Matera è del 1948), dell’affermazione di una nuova economia industriale – della Fiat che “importa” manodopera dal sud del Paese, della “fabbrica aperta” di Adriano Olivetti; sono anni in cui – sollevata dall’oppressione del regime, dalle disgrazie della guerra e dalla miseria delle difficoltà economiche - la società italiana può pensare anche a cose marginali: i matti e la malattia mentale, per esempio, le modalità coercitive in cui vengono trattati.
Nel 1957 Sergio Zavoli realizza il documentario radiofonico Clausura all’interno di un monastero di clausura delle Carmelitane scalze e – intervistando Padre Rotondi, cita Pio XII che, nell’enciclica Sponsa Christi aveva definito non più tollerabili certi disagi in cui vivono le monache di clausura.
Questo atteggiamento – però - non sembra toccare la facoltà di medicina di Padova e – in particolare – l’istituto di malattie nervose e mentali, diretto da Belloni, che era «intriso di positivismo scientista e lombrosiano […] fedele alla tesi organicistica che vede la malattia mentale come la conseguenza di tare biologiche congenite».
In quegli stessi anni, la fenomenologia e l’esistenzialismo dominano la scena filosofica e si spingono all’interno del perimetro della psicologia, della medicina, della psichiatria.
FRAMMENTO #3: GLI ANNI ’60, FINO AL 1968
Il periodo in cui Basaglia dirige l’ospedale psichiatrico di Trieste, tra il 1961 e il 1970, è quello in cui maturano le istanze che sfoceranno nella “rivoluzione” del 1968.
È un vero e proprio tentativo di rovesciamento del paradigma sociale, in cui la tradizione e la conservazione dei valori borghesi della fine del XIX secolo e anche del primo dopoguerra – gli stessi valori di ricerca del benessere economico che hanno favorito l’attenzione ai marginali – vengono messi in crisi.
Sono gli anni in cui si parla, si scrive, si canta e si urla – nelle manifestazioni e nei momenti di lotta - di immaginazione al potere, di libertà da ogni costrizione – culturale, sociale, sessuale.
È nel 1968 che il Ministro della Sanità Luigi Mariotti firma la Legge di riforma psichiatrica che porta il suo nome e che abolisce l’obbligo di iscrizione nel Casellario giudiziale e prevede la possibilità del ricovero volontario e i Centri di Igiene Mentale con equipe multi professionali composte da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali [2]
Sono gli anni in cui inizia la fine del boom economico e – sulla scia del libertarismo del ’68 – si affermano le istanze di rivendicazione economica e sociale dei lavoratori delle fabbriche, sostenuti da ampie schiere di studenti liceali e universitari.
Nel 1968, ancora Zavoli, “entra” nel manicomio di Gorizia con le telecamere di TV7 a documentare
FRAMMENTO #4: DAL 1968 AL 1978
Negli anni tra il 1968 e la promulgazione della Legge 180 accadono fatti che possono essere ricordati come elementi rilevanti per la formazione del pensiero di Basaglia e del suo gruppo di co-pensatori, per il favore che questo pensiero può trovare tra società e contesto politico.
Si tratta – ad esempio - della crescita di consenso del Partito Comunista Italiano, che nel 1976 raggiunge il 34% delle preferenze, guadagnando quasi 10 punti percentuali e 5 milioni di voti rispetto al 1963, a solo 4 punti dalla Democrazia Cristiana.
Si tratta anche del tentativo di rovesciare il paradigma di contrapposizione partitica tra DC e PCI, che aveva dominato fino ad allora, attraverso la formula del compromesso storico che si sostanziò prima nel governo di solidarietà nazionale (1976), a guida Andreotti, e nell’ipotesi di entrata del Partito Comunista nella compagine del successivo governo, studiata da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro e sostenuta da Zaccagnini. Il compromesso storico naufragò proprio nel 1978 con il rapimento e la successiva uccisione di Aldo Moro.
Sono anche gli anni del sindacalismo, della promulgazione della Legge 20 maggio 1970, n. 300 nota come Statuto dei lavoratori, che riconosce formalmente e in maniera organica una serie di diritti ai lavoratori di tutti i comparti, diritti fino ad allora spesso negati o ignorati, a partire dal Diritto all’opinione (Art. 1 della Legge Cit.) e del diritto all’Assemblea Sindacale, considerata in molti casi un atto di sedizione.
E del contro-sindacalismo: nel 1969 vengono ufficialmente riconosciuti i consigli di fabbrica; Alla fine del 1970 i CdF sono già 1.374 con 22.609 delegati: nel 1971, 2.566 con 30.493 delegati, nel 1972 un totale di 83.000 delegati; non mancano - però – le forme di opposizione da parte di alcune frange sindacali, che vedono nel Consiglio di Fabbrica un sistema per ingabbiare la protesta e suggeriscono mezzi di espressione con base più ampia e – in alcuni casi – modi più aggressivi.
Le assemblee sono un elemento chiave dei due decenni che seguono il 1960: note solo come momenti di aggregazione partitica o di movimento – molto spesso clandestine - diventano in breve tempo uno degli strumenti teoricamente portatori di democrazia più diffusi nelle fabbriche, nelle aziende, nelle scuole e nelle università; tutto si discute in assemblea, tutto si decide in assemblea, tutti i leader vengono nominato o acclamati in assemblea.
Le assemblee sono un modo per fare sentire la propria voce, per fare partecipare, per sentirsi liberi; Libertà è partecipazione, canta Giorgio Gaber nel 1972.
Far sentire la voce di chi non l’ha mai avuta in pubblico è anche uno dei momenti – chiave delle prime radio libere “impegnate”[3], che fanno intervenire gli ascoltatori al telefono in diretta.
Tra le voci che conquistano il diritto ad essere – finalmente – ascoltate ci sono quelle delle donne che, ad esempio, nonostante dure opposizioni interne, conquistano una propria progressiva rilevanza all’interno dei movimenti sindacali verso la metà degli anni ’70; e lo fanno con assemblee e comitati femminili, non contrapposti ma paralleli a quelli sindacali ufficiali.
E, a Verona, nel 1976, si svolge il primo processo per stupro in cui la vittima rifiuta di interpretare il ruolo passivo di “oggetto” della violenza sessuale per diventare “soggetto” di un’accusa che trascende i suoi stupratori, spiegando quanto la sua vicenda “personale” sia in realtà “politica”. In aula la ragazza è sostenuta dalla presenza di un coordinamento di gruppi femministi e la sua voce – non più silenziata come nei casi analoghi – si fa sentire in una dimensione pubblica, grazie alla copertura dei media più tradizionali e della televisione, che ne fa un documentario trasmesso in prima serata alla fine di ottobre dello stesso anno.
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È in questo scenario o, meglio, questo susseguirsi di scenari sociali e politici – delineato in pochi tratti a cui manca sicuramente molta “storia” – che si forma l’esperienza e la rivoluzione di Franco Basaglia, di Franca Ongaro, di Giovanni Jervis e dei loro colleghi.
Idee ed esperienze che attingono anche a quella che fu chiamata da Pasolini – e non a torto - «ubriacatura di astrazione teorica» ma che ha sicuramente segnato la trasformazione della società italiana dal dopoguerra alla fine degli anni ’70.
NOTE
[1] Cfr. Petracci M., Cit.
[2] Reggio Emilia è in prima fila nell’avvio dell’esperienza territoriale e nel 1968 la Provincia apre i primi Centri di Igiene Mentale, affidati dal 1969 a Giovanni Jervis, psichiatra che aveva lavorato con Basaglia a Gorizia.
[3] Cfr. F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Feltrinelli, 2021
Epistemologia e clinica (oltre la politica) in Franco Basaglia
“Basaglia” è il nome di una rivoluzione quasi universalmente riconosciuta, anche se poco o nulla applicata fuori dall’Italia. I dibattiti sulla legge 180, sulle sue luci impossibili da spegnere, ma anche sui suoi limiti attuali, si susseguono ciclicamente. Spesso il Basaglia clinico tende a essere offuscato dalla, giustamente celebre, portata politica della sua battaglia e del suo gesto. Eppure, clinica e politica, in lui, sono legati.
Figlio della tradizione della psichiatria fenomenologica, esistenziale, dasein-analitica, in lui sono costanti i riferimenti a pensatori ritenuti fondamentali fino agli anni 60’-70’, e oggi un po’ in ombra, come Sartre, Heidegger, Merlau-Ponty, Husserl, Biswanger. Autori politici, ognuno a suo modo, da cui Basaglia trarrà i propri echi; correnti di pensiero appunto, non solo strettamente filosofiche, tali da investire tutti i campi delle scienze cosiddette “umane”.
La psichiatria è chiaramente una scienza limite, avendo come oggetto qualcosa di eternamente sfuggente come l’umano, rimanendo con un piede o entrambi, all’interno di un’altra scienza limite, cioè la medicina.
Medicina: sapere, tecnica, che unisce arte, nel senso ippocratico, e scienza transitata nella cornice del moderno. E sullo psi della iatreia (cura), su cosa sia o come sia quella psyché a salire fino alla nostra “psiche” o “mente” la risposta non è definitiva.
Tantomeno sulle sue malattie e le sue cure. Ne consegue che teoria e prassi, epistemologia e azione sono indissociabili; di qui, il problema storico, sociologico e infine politico non cesserà mai di ripresentarsi.
In Un problema di psichiatria istituzionale e testi vicini (L’ideologia del corpo, Corpo, sguardo e silenzio, ecc), l’originalità dell’intreccio che presenta Basaglia è evidente: emerge una teoria della clinica come specchio di una teoria politico-critica.
Il sottotitolo è eloquente: L’esclusione come categoria socio-psichiatrica. Da un punto di vista di filosofia politica, o anche socio-antropologico, la categoria dell’escluso è inerente a ogni società, e in particolare in quelle dove siano presenti divisioni gerarchiche.
Il capro espiatorio è quel “dispositivo” (politico, sociologico, antropologico) in cui le contraddizioni di una società vanno a concretizzarsi, scaricando l’aggressività che esse comportano.
Ma il malato mentale ha una sua peculiarità: egli è posto fuori dalla dialettica. Quelli che oggi chiameremmo “gruppi marginalizzati” hanno sempre avuto un potenziale attivo di rivolta. Il malato mentale è una figura più enigmatica: se Foucault voleva dare parola alla follia, è perché essa non parla mai in modo univoco, e dunque è al confine col silenzio; ma se il malato mentale è ridotto all’espressione della propria malattia, confine sempre aperto, la sua stessa parola sarà puro silenzio.
Così funziona la realtà di quest’esclusione peculiare: ogni parola di risposta, di tentativo di dialettica, è nuovo rinforzo, motivo per prolungare l’esclusione.
Il tutto comporta per Basaglia, che egli è all’interno della sua stessa epistemologia, cioè nel dispositivo per dire e poi curare, trattare, la follia come malattia mentale. Comporta che la psichiatria può trovare le leve per dialettizzare il malato. Le parole quasi d’ordine dell’impianto degli autori sopracitati sono imperniate intorno alla soggettività, alla libertà, al corpo, alla scelta.
Il problema centrale per quest’approccio è la questione della scelta, scelta di sé come libertà e dell’angoscia che questa comporta, eco esistenzialista, la cui difesa primigenia è l’esclusione. Ma non solo: l’altro da sé è anche la propria “fattità”.
Fattità che si è come corpo, “corpo oggettuale”, opacità, passività, nonché soggetto delle percezioni, corporeità con cui si è nel mondo (Merleau-Ponty), di cui ci si deve appropriare per essere soggetti di scelta propria, cioè per soggettivarsi.
L’opacità è anche, specularmente, quella dell’altro. Dunque, incorporare la propria estraneità è parte dello stesso processo del riconoscere l’altro come altro da sé. Non solo come oggetto, come “concretizzazione” dell’estraneità che si rifiuta, ma come a sua volta luogo di una soggettività. Corpo oggettuale, ma anche – husserlianamente – centro di un “io fungente”.
Al contrario, la mancata appropriazione della propria opacità corporea – della vulnerabilità, della materialità – dell’essere corpo-oggetto sia di se stessi sia dello sguardo altrui porterà alla sua esclusione nell’altro divenuto “osceno”. Altro incomprensibile e dunque riducibile soltanto a oggetto, così come a oggetto dell’altro si è sempre ricondotti in questa dinamica.
La genialità di Basaglia, nell’intrecciare clinica e politica, sta qui nel proporre una diagnosi strutturale tra nevrosi e psicosi, capisaldi freudiani, come due modi di essere-nel-mondo con connotazione politica: esclusione ideologica e utopia psicotica. Se per Freud il conflitto centrale della prima è tra Io ed Es, per accettazione del mondo esterno, quello della seconda tra Io e mondo esterno, per lo strabordare dell’Es, qui il conflitto è frutto di un’esclusione del reale.
Per il nevrotico tale esclusione è ideologica, nel senso che non v’è rinuncia a un rapporto con l’altro, ma comunque rifiuto della propria contingenza, dell’ansia derivante dalla scelta di sé e dell’appropriazione del proprio corpo.
Come risposta – o difesa – edificherà un’ideologia, un’immagine “ideale” del corpo, con cui controllarne l’opacità, potendosi per lo meno relazionare con l’altro per il quale avrà comunque una certa oblatività.
È sull’altro e nel desiderio di essere accettato, che egli la edificherà. Pagando questo al prezzo di un’angoscia che produce inibizione, indeterminazione, restringimento.
L’altro è dunque mantenuto nella sua soggettività, sempre nel filtro di un’ideologia che lo conduce alla malafede sartriana.
Per lo psicotico, invece, il rifiuto è ben più radicale. Il risultato di questo processo non è la costruzione di un’ideologia, ma di un’utopia.
La contestazione che il reale continua a far irrompere, reale come opacità, viene a tal punto mal tollerata che è solo nel delirio – cioè in una costruzione sganciata dall’altro, dal “co-mondano” – che uno psicotico potrà trovare una sorta di stabilizzazione e controllo.
Ma proprio lì è un mondo senza limiti, sotto la costante minaccia di quell’angoscia che non cesserà di tormentarlo, divenendo sempre più schiacciante e distruttiva con conseguenti difese estreme.
Se la terminologia politica è qui esplicita, diviene evidente il problema politico dei manicomi: alla regressione psicotica viene aggiunta, intrecciata, una regressione istituzionale. All’esclusione che il malato opera si aggiunge l’esclusione che la società opera su di lui attraverso le mura del manicomio, difesa non del malato, ma dei sani.
L’opacità, l’incomprensibilità del malato di mente, è ridotta a pericolosità sociale. Egli rimane quell’“osceno” (fuori-scena) privo di qualunque soggettività. Alla malattia si sovrappone dunque una malattia indotta direttamente dall’istituzione, in un circolo vizioso in cui le due diventano indistinguibili, fortificandosi a vicenda e giustificando quindi l’apparato manicomiale.
Il restringimento dell’Io – il rimpicciolimento, il rinchiudersi della soggettività, a cui già fa fronte il malato – è speculare al risultato di quella “carriera morale” a cui è sottoposto dall’istituzione disciplinare. L’Io è ridotto a spettro, uomo privato di tutto, homo sacer o musulmano di Auschiwtz, seguendo la concettualizzazione successiva di Giorgio Agamben: non a caso c’è riferimento esplicito a Primo Levi.
È qui che si innesta una specifica teoria del potere: rifiuto dell’autorità o dell’autoritarismo, ma non rifiuto del potere tout court. Perché il potere contiene in sé anche lo spazio di una dialettica, che non si riduca a quella servo-signore hegeliana.
Da questo breve excursus si può notare come epistemologia, clinica e politica non siano dissociabili. Al netto dell’impossibilità di liberarsi della contingenza, in particolare storica, quando si tratta della prassi, Basaglia offre un originale e si spera non dimenticato esempio di questo gesto di annodamento.
Neuroscienze e giudizio morale - Emozione e razionalità appartengono a sistemi distinti?
L’oggetto di questa controversia è il modello di funzionamento dei correlati neurali dei giudizi morali.
Nell’ambito delle neuroscienze (vedi i due articoli precedenti: Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontro con le neuroscienze e Incontri con le scienze empiriche) sono stati fatti numerosi studi che si appoggiano alle tecniche di neuroimaging funzionale, seguendo tre filoni principali di lavoro:
- Lo studio di pazienti con danni o lesioni cerebrali e pazienti con patologie psichiatriche (“Bad brains”, Greene 2014a, 2020);
- L’analisi della valutazione morale di certi atti o situazioni da parte di individui sani (“Good brains”, ibid.);
- Lo studio delle modificazioni cerebrali durante la valutazione di dilemmi morali come il Trolley dilemma, il Footbridge dilemma e il Crying Baby dilemma.
Per contestualizzare meglio, ecco qualche definizione e informazione sugli studi con pazienti con lesioni cerebrali e sui tre principali dilemmi morali:
PAZIENTI CON LESIONI CEREBRALI
Le ricerche su pazienti con lesioni cerebrali o patologie psichiatriche offrono dati interessanti per l’indagine sul coinvolgimento di determinate aree del cervello nella realizzazione di varie funzioni cognitive.
Qualsiasi studio relativo a pazienti con lesioni cerebrali connesse alla sfera del comportamento sociale non può non fare riferimento al lavoro di Antonio Damasio. La sua prima opera divulgativa, “L’errore di Cartesio” (1994), è un’esposizione delle ricerche sull’emozione a livello cerebrale e le loro implicazioni in ambito decisionale, soprattutto nella sfera del comportamento sociale. Tali ricerche hanno preso avvio dall’osservazione di soggetti con lesioni alla corteccia prefrontale ventromediale, i quali mostrano un comportamento atipico soprattutto in relazione al giudizio etico e alla condotta sociale. Come sostenuto da Damasio, sembra che questi individui abbiano una “razionalità menomata”, nonostante gli elementi associati convenzionalmente a un buon funzionamento della ragione non siano in alcun modo danneggiati. Tra questi ultimi in genere figurano: la memoria, l’attenzione, il linguaggio, la capacità di calcolo e la capacità di ragionamento logico per problemi astratti (Damasio, 1994, pp.18-19). Il primo caso storicamente registrato di questo tipo di lesioni è quello di Phineas Gage, caposquadra di un gruppo di costruzioni ferroviarie, vissuto in America durante il XIX secolo, e il cui teschio è oggi conservato a Boston, al Warren Medical Musem della Harvard Medical School.
TROLLEY DILEMMA
Il Trolley Dilemma o Dilemma del carrello, proposto originariamente da Philippa Foot nel 1967, descrive un treno che corre senza controllo su un binario dove più avanti sono legate cinque persone, mentre su un binario alternativo c’è una sola persona legata; il quesito è se sia legittimo tirare una leva in modo da deviare il treno sul secondo binario e uccidere una sola persona anziché cinque. Generalmente, le persone tendono a considerare moralmente accettabile tirare la leva in virtù di un’analisi costi-benefici.
I protagonisti della controversia sono tre neuroscienziati: da una parte lo psicologo statunitense J. Greene; dall’altrail filosofo statunitense Shaun Nichols e il filosofo tedesco Hanno Sauer. Essi si concentrano soprattutto sul terzo tipo di studi.
FOOTBRIDGE DILEMMA
Il Footbridge Dilemma è stato formulato da Judith Jarvis Thomson nel 1976 e descrive una situazione analoga alla precedente ma, anziché avere la possibilità di tirare la leva, si chiede se sia legittimo buttare giù da un ponte che passa sopra il binario un uomo molto grasso, il quale fermerebbe il treno perdendo al tempo stesso la vita. In questo caso le persone non considerano moralmente accettabile compiere l’atto, nonostante secondo un’analisi costi-benefici il risultato sarebbe lo stesso del problema precedente. Quindi, i soggetti a cui viene sottoposto i test tendono a ritenere accettabile deviare il treno nel primo caso, ma non ritengono lecito spingere l’uomo dal ponte (Songhorian, 2020, p.77). Perché le persone rispondono in modo diverso ai due scenari?
CRYING BABY DILEMMA
La formulazione del Crying Baby dilemma è la seguente: “In tempi di guerra tu e alcuni concittadini vi state nascondendo da dei soldati nemici in un seminterrato. Tuo figlio comincia a piangere e tu gli copri la bocca per far sì che non se ne senta il suono. Se togli la mano il bambino piangerà, i soldati lo sentiranno, troveranno te e i tuoi compagni e uccideranno tutti quanti, compreso te e il tuo bambino. Se non togli la mano, tuo figlio morirà soffocato. È legittimo soffocare tuo figlio per salvare te stesso e gli altri?”
GREENE e il modello della “macchina fotografica” o del doppio processo
Joshua Green ha dedicato gran parte del suo lavoro all’approfondimento del perché i dilemmi del carrello, Footbridge e Crying Baby, apparentemente simili nel risultato, suscitano risposte diverse e reazioni discordanti nei soggetti a cui vengono sottoposti.
Uno dei punti chiave dell’analisi è il fatto che i dilemmi presentano forme diverse di problematiche morali, che interessano in modo differenziato l’area delle “violazioni personali” - violazioni che comportano un grave danno fisico, ad una persona specifica, in modo che il danno non sia il risultato di un effetto collaterale di un’azione rivolta altrove (come dire: “io danneggio te”), e quella dei temi morali impersonali - quelli dell’utilità generale, per esempio, meno coinvolgenti nell’immediato.
Greene ha provato ad osservare, attraverso le tecniche di neuroimaging funzionale, l’attività cerebrale degli individui mentre cercano di rispondere a questi dilemmi.
I risultati del neuroimaging, con tempi diversi – più rapidi per i problemi che implicano le violazioni personali” e più lenti negli altri casi - e aree cerebrali coinvolte diverse, hanno suggerito a Greene che nel giudizio morale vi sia una dissociazione tra i contributi affettivi e quelli cognitivi, e che le persone tendano a esprimere i loro giudizi morali sulla base di due sistemi cerebrali distinti, uno più emotivo e un altro più razionale. Questa distinzione è stata corroborata – secondo Greene – anche dal fatto che sembra esserci una correlazione tra i sistemi cerebrali e il tipo di giudizi che questi producono: le aree del cervello associate all’emozione tendono a suscitare giudizi impulsivi che prendono la forma di giudizi deontologici, quindi giustificati in termini di diritti e doveri; le aree del cervello associate al ragionamento producono, invece, giudizi fondati su un’analisi costi-benefici.
Green propone, quindi, il modello della “macchina fotografica”; in analogia con le due modalità di funzionamento della fotocamera (una modalità automatica e una manuale, ciascuna con caratteristiche più adatte ed efficienti in situazioni diverse); così l’essere umano giudica moralmente servendosi di due processi differenti, di due sistemi cerebrali distinti che non possono funzionare congiuntamente, ciascuno dei quali funziona meglio in determinate circostanze.
Secondo Greene, l’analogia con la macchina fotografica è in grado di esprimere anche il compromesso tra efficienza e flessibilità di questi sistemi cognitivi: le risposte emotive, infatti, sono efficienti proprio in quanto istintive, mentre le risposte razionali sono flessibili perché si servono del ragionamento per perseguire obiettivi a lungo termine, prevedendo e programmando i comportamenti necessari. L’autore ritiene che a supporto dell’idea che le aree emotive siano automatiche c’è il fatto che sono le stesse aree che presentano attività quando il cervello è a riposo o, come anticipato, quando è coinvolto in attività non tipicamente di “attenzione”. Per queste ragioni, solo le azioni che derivano da giudizi razionali sarebbero da ritenersi pienamente consce, volontarie e frutto di uno sforzo.
Le teorie alternative e concorrenti: Nichols e Sauer
Shaun Nichols propone una teoria che integra il ruolo dei due sistemi, basata su due tipi di studi empirici fondamentali (Songhorian, 2020, pp.88-95): il primo, che ha per oggetto la distinzione tra norme morali e norme convenzionali, definisce come non necessario presupporre una teoria della mente per tale distinzione poiché i bambini autistici, i quali non hanno buone capacità di comprensione degli stati mentali altrui, rispondono allo stesso modo dei bambini a sviluppo tipico nei test di riconoscimento dei due tipi di violazione; il secondo è quello relativo ai deficit di empatia degli psicopatici.
Nichols – a differenza di Greene - ritiene che vi siano due componenti integrate che costituiscono i giudizi morali: un meccanismo affettivo (che si attiva quando vediamo o sappiamo che gli altri soffrono) e una teoria normativa che impedisce di danneggiare gli altri.
Inoltre, egli definisce come teoria normativa qualunque insieme di regole interiorizzate che proibiscono certi comportamenti e afferma che sia possibile riscontrare la presenza di questi elementi in tutti quei giudizi che sono condivisi in maniera universale e transculturale.
In tal modo rende conto del perché gli psicopatici e i bambini prima dei due anni non siano in grado di formarsi giudizi morali; infatti, i bambini non dispongono di una teoria normativa e gli psicopatici non hanno un meccanismo emotivo concomitante tale teoria.
Sauer sviluppa la sua idea a partire dai risultati degli esperimenti di Greene sul dilemma dell’incesto consensuale; secondo Sauer, il fatto che dopo un tempo adeguato le persone ritengano accettabile l’incesto tra fratello e sorella è indicativo del fatto che le nostre intuizioni morali sono soggette al ragionamento razionale.
Quello di Sauer è un modello di “sfida e risposta”, per cui le intuizioni morali “sono soggette a continui miglioramenti, sovra-apprendimento e abituazione” (Sauer, 2017, p. 122, citato in Songhorian, 2020, p. 103).
A giudizio di Sauer, i nostri giudizi morali nascono da delle intuizioni emotive che possono essere integrate e corrette dalla riflessione e dal ragionamento, i quali vengono sollecitati proprio in risposta a una sfida; tuttavia, non sono solo frutto di un processo evolutivo soggettivo, ma anche socio-culturale. In questo modo riesce a integrare il ruolo di emozione e ragione nella cognizione morale e rende anche conto del processo evolutivo dei giudizi morali.
Differenze tra le tre teorie
Le teorie di Nichols e Sauer propongono entrambe una concezione non oppositiva di emozione e ragione, anche in linea con le tesi di Damasio, ma differiscono nei loro obiettivi polemici: il primo vuole mostrare che anche le regole morali devono essere sentimentali; il secondo compie il percorso inverso, cercando di mostrare che anche l’emozione ha bisogno del supporto del ragionamento (Songhorian, 2020, pp. 102-106).
Ciò che distingue queste teorie da quella di Greene è il fatto che gli autori in questione considerano i giudizi morali dei “processi”, in una prospettiva diacronica; mentre Greene li ritiene degli stati mentali puntuali, e non tiene, quindi, conto del loro carattere evolutivo, del perché i valori morali si modifichino nel corso della storia e del perché anche i singoli individui possano mutare prospettiva nei loro giudizi morali.
Conclusione
Le neuroscienze cognitive ci offrono oggi molte possibilità di approfondimento di svariate questioni filosofiche estremamente affascinanti e antiche, ma è evidente che siamo ancora agli inizi di questo nuovo approccio e le teorie che ne emergono devono ancora molto alla dimensione di costruzione sociale e – in alcuni casi – metafisica.
Dal confronto di queste tre prospettive sui giudizi morali sembra emergere anche l’enorme discordanza e opacità che vi è oggi in molte definizioni metaetiche; non certo fonte di scoraggiamento ma, anzi, indice del fatto che c’è un ampio spazio per nuove riflessioni filosofiche e sociologiche.
Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (seconda parte)
Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per questa opera, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda.
I primi quattro soggetti menzionati possono essere definiti serial killer, ricordando che serialità è la terza parola chiave del titolo della mia opera, poiché un serial killer è un soggetto che compie almeno tre omicidi tra i quali intercorre un periodo di raffreddamento emozionale, il cui agire sottende un insieme ampio e variegato di pulsioni sessuali devianti, tali da indurre, soventemente, durante l’omicidio, anche il coito. Poiché sono soggetti che agiscono sotto l’influsso del desiderio sessuale, sono incapaci di smettere di uccidere, a meno che non sopraggiunga un evento esterno alla loro volontà: l’arresto o la morte. Armin Meiwes, invece non è un serial killer avendo ucciso una sola vittima.
Vediamo alcune principali caratteristiche.
Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, uccise 3 donne, le fece a pezzi per poi ricavarne del sapone, mentre il sangue lo raccolse, lo essiccò per poi farne biscotti che mangiò lei stessa con diversi conoscenti. Nel caso di questa donna, per esempio vi sono elementi tipicamente maschili: l’utilizzo di armi come un martello e una scure, l’atto di sezionare i corpi, ecc. A suo dire fece tutto ciò per annullare una maledizione che le aveva lanciato sua madre, e avendo perso molti figli temeva che gli unici in vita potessero fare la stessa fine.
Andrej Romanovič Čikatilo, il Mostro di Rostov, uccise tra 53 e 56 vittime tra bambini, disabili e giovani donne, cibandosi di diverse parti dei loro corpi, con modalità omicidiarie tra le più brutali ed efferate nella storia della criminologia del cannibalismo. Era solito accanirsi sui polmoni, il cuore e gli organi sessuali; in particolare, asportava e divorava i genitali delle vittime ancora in vita; sembrerebbe aver strappato a morsi e masticato la lingua, il labbro, il naso e i capezzoli di alcune sue vittime. Inoltre, si cibò dell’utero di una donna dove aveva precedentemente rilasciato il suo seme. Dunque, nel suo caso vi sono elementi tipicamente maschili nel modus operandi.
Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva, la Coppia cannibale, il loro caso è uno dei più recenti. Dalle dichiarazioni rilasciate, avrebbero non solo cannibalizzato più di 30 persone, ma anche parte di queste per delle ricette utilizzate per dar da mangiare ai militari nella mensa in cui lavorava Natalia. Nella strutturazione di questa coppia, le questioni di genere sono interessanti. Il loro modo di agire rientra nel disturbo psichiatrico noto disturbo psicotico condiviso. Questa sindrome venne descritta, sotto il nome di Folie à deux, per la prima volta da Lasègue e Falret. Si tratta di un quadro clinico peculiare in cui un soggetto dominante, denominato induttore o caso primario, influenza un soggetto più debole, denominato indotto, arrivando ad imporgli il suo sistema delirante. Normalmente l’uomo è l’induttore e la donna l’indotto, mentre in questo caso Dmitry ha ucciso una donna, Elena Vakhrusheva, su richiesta di Natalia in preda alla gelosia.
Jeffrey Lionel Dahmer, il Mostro di Milwaukee, ha ucciso e cannibalizzato 17 ragazzi. La sua ossessione era quella di trovare qualcuno che non lo abbandonasse, tanto è vero che tentò di realizzare un vero e proprio zombie iniettando varie sostanze nel cranio di una vittima. In Dahmer sono state riscontrare varie peculiarità criminologiche, una fra tutte: la splancnofilia, una tipologia di disturbo parafilico individuato in tutta la storia del serial killer sono in Dahmer appunto, e consiste nell’attrazione sessuale provata per l’involucro esterno degli organi interni. Dahmer infatti ha dichiarato di avere avuto rapporti sessuali non solo con i cadaveri delle vittime, praticando quindi necrofilia, ma a volte con parti di essi come crani, organi ecc. Nel modus operandi di questo serial killer si rilevano elementi tipici della serialità femminile come l’uso di sostanze per avvelenare e/o addormentare le proprie vittime.
Armin Meiwes, il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, si è cibato di un solo soggetto, che si consegnò volontariamente, perché desiderava essere mangiato vivo. Meiwes tagliò il pene della vittima e lo consumarono insieme per poi ucciderlo e mangiarsi la sua carne per diversi mesi. Ha dichiarato che la carne umana ha un gusto simile a quello della carne di maiale ma un po’ più amara.
In realtà molte di queste pratiche fino ad ora descritte si ritrovano nei culti di diverse divinità cannibali come il demone Asmodeo definito come il distruttore, capace di cibarsi delle sue vittime; Lamaštu, divinità di origine mesopotamica; secondo diversi miti, a differenza delle altre divinità mesopotamiche, ella attaccava le sue vittime autonomamente e non per ordine di altre divinità. Le sue vittime predilette erano le donne prossime al parto e i neonati, che venivano rapiti durante l’allattamento per cibarsi delle loro ossa e del loro sangue; Crono, nella denominazione greca, o Saturno, nella denominazione romana, dopo aver sposato sua sorella Rea, la quale partorì i suoi figli, a divorarli uno per uno. Il suo atto antropofagico è stato reso celebre, nel mondo dell’arte, da Francisco Goya e la sua opera Saturno devorando a su hijo.
Nel saggio però, ho dato molto spazio ad una divinità che ha un rapporto peculiare con il cannibalismo ossia Śiva, dio ermafrodito degli umili, i śūdra. Nel culto di questa divinità i sacrifici umani rispecchiano certe credenze dell’essere umano, certi aspetti della natura del mondo che sarebbe imprudente ignorare. Sono parte dell’inconscio collettivo e rischiano di manifestarsi in forme perverse se non osiamo affrontarli. “Esistere vuol dire mangiare ed essere mangiato. L’uomo è ciò che mangia. Ogni essere vivente si nutre di altri esseri e diverrà nutrimento di altri esseri in un ciclo interminabile”. Śiva viene così considerato sia come divorato che come divoratore; Śiva stesso afferma: “Io sono il cibo, io sono il cibo, io sono il cibo! Io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo!… Dal cibo le creature nascono, per opera del cibo una volta generate si mantengono in vita, nel cibo morendo ritornano”. È indubbia la correlazione con le concezioni socio-psicoanalitiche sul cannibalismo seriale, come se negli antropofagi seriali vi fossero delle sopravvivenze inconsce, ovvero una sorta di esternazione di queste concezioni sedimentate nel proprio inconscio, un istinto primitivo e śivaista che si slatentizza.
Primitivo perché l’atto di uccidere e cannibalizzare era tipico delle popolazioni primitive, o meglio ancora del passato, perché spesso in periodi più recenti caratterizzati da grave carestia sono stati praticati atti antropofagi per garantire la propria sopravvivenza. E questo aspetto è abbastanza noto e trattato nella letteratura in generale, soprattutto lombrosiano-freudiana di cui si è fornita una breve panoramica.
Sul secondo aggettivo, ossia śivaista, a oggi non vi è alcun riferimento e legame, se non per gli atti antropofagici, al campo della criminologia. È necessario precisare che non si sta sostenendo che gli śivaisti siano dei serial killer, ma che in questi ultimi sembrerebbe riaffiorare un’attitudine che ricorda la ritualità, i principi, e alcuni aspetti tipici di questo culto; una vera e propria forma di regressione, o forse la dimostrazione del fatto che tutti siano accomunati da un unico grande inconscio collettivo. Una prima prova legata a questa ipotesi potrebbe essere rappresentata da una delle poche popolazioni inclini al cannibalismo ancora in vita, ossia gli Aghori.
Dunque, il gusto del cannibalismo ha molte sfumature perché mette a nudo pensieri e desideri che fanno paura, e ci mettono innanzi ad una domanda difficile da porsi: chi è un mostro? Forse potremmo rispondere con il titolo di un’opera dello psichiatra forense, Robert Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno.
Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontro con le neuroscienze
Redazione: Per riaprire il discorso iniziato il 27 febbraio con il post “Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontri con le scienze empiriche”, è il caso di ricordare come spesso la questione del libero arbitrio sia posta come un’alternativa tra due scenari contrapposti: uno nel quale gli esseri umani sono vincolati in modo rigido ad agire e a scegliere in modo determinato meccanicamente; l’altro, nel quale essi sono agenti con la possibilità di determinare il proprio destino.
In quell’occasione hai delineato in che modo la riflessione filosofica si sia avvicinata alla meccanica quantistica, e come abbia tentato – secondo te senza riuscirci - una interpretazione dei risultati empirici come giustificazione dell’indeterminismo libertario.
Nel tuo lavoro Neurobiologia della volontà (2022), invece, hai parlato degli studi delle neuroscienze sull’esistenza o meno di condizionamenti a cui sono sensibili gli agenti e che condizionano o determinano in anticipo le azioni che verranno dispiegate.
Stella: Sì, da un lato alcuni autori si sono chiesti se fattori come l’ambiente o la genetica possano determinare le scelte che compie di volta in volta l’individuo; altri si sono chiesti se i sistemi neurali che vengono di solito associati alle deliberazioni individuali siano liberi (nel senso di capaci di iniziare nuove catene causali) o se sono preceduti da altre attività cerebrali sulle quali non abbiamo il controllo.
Tra questi ultimi, ho preso in considerazione il lavoro di Benjamin Libet che ha studiato gli eventi coscienti e la loro relazione con l’iniziazione di atti fisici.
Ricordiamo che, secondo la psicologia del senso comune, l’essere umano concepisca i propri atti liberi e la propria volontà come frutto della propria coscienza.
Seppure tali funzioni siano attribuite in maniera intuitiva alla sfera mentale, dal punto di vista delle neuroscienze non è facile comprendere su quali processi neurali queste si poggino. La ricerca empirica non è stata ancora in grado di fornire evidenze di rilievo che siano in grado di supportare l’ipotesi di processi indeterministici a livello cerebrale. In altre parole, non è stato ancora spiegato se e come il cervello umano possa produrre delle azioni libere, secondo le condizioni di autodeterminazione e non condizionamento esterno, in accordo con il senso comune.[1]
Redazione: Secondo te, il lavoro di Libet è da interpretare come una valida confutazione del libero arbitrio oppure come una spiegazione più realistica di come potrebbero funzionare dei meccanismi mentali indeterministici?
Stella: Va sicuramente evidenziato che il lavoro di B. Libet è stato portato avanti nella convinzione che la questione del libero arbitrio sia un tema dalla forte rilevanza speculativa e pratica, per cui Libet ritiene che “una teoria che si limita a interpretare il fenomeno del libero arbitrio come illusorio e nega la validità di questo fatto fenomenologico è meno interessante di una teoria che accetta o accoglie un tale fatto” (Libet, Mind Time - Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 159). Libet dichiara, inoltre, che la sua “conclusione sul libero arbitrio – libero per davvero, in senso non deterministico – è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi naturali” (p.160).
Redazione: Nei suoi lavori Libet ha fornito delle prove sperimentali dell’intuizione che abbiamo di agire in modo libero e conscio?
Stella: Sì, Libet ha cercato di testare sperimentalmente questa intuizione studiando l’esperienza cosciente dell’intenzione di agire in atti motori semplici volontari. Per sorpassare la soggettività dell’esperienza, Libet ha osservato le relazioni temporali che intercorrono fra gli eventi neurali di azioni volontarie specifiche e la percezione che hanno gli agenti mentre le compiono.
Il presupposto per questa ricerca è che – secondo Libet – “il problema dei rapporti mente-cervello e quello delle basi cerebrali dell’esperienza cosciente possono essere studiati sperimentalmente” (cit., p. 1) perché gli eventi fisici e quelli mentali, sono correlati ma
- costituiscono due categorie fenomenologicamente indipendenti e “nessuno dei due fenomeni può essere ridotto all'altro o descritto da esso” (cit., 21).
- “la natura non fisica della consapevolezza soggettiva (e dei sentimenti di spiritualità, creatività, volontà consapevole e immaginazione) non è descrivibile o spiegabile direttamente in termini di prove fisiche pure e semplici” (cit., p. 9).
A questo proposito, Libet evidenzia i limiti degli studi morfologici e fisiologici del cervello – basati su ICBF, PET, RM funzionale – per la comprensione dell’esperienza cosciente, perché «forniscono informazioni solo su dove, nel cervello, le attività delle cellule nervose possono essere collegate alle varie operazioni mentali» e non dicono nulla sul genere di attività delle cellule nervose, sulle correlazioni temporali tra attività nervosa e funzione mentale e né, tantomeno, garantiscano che i siti cerebrali localizzati siano davvero quelli di primaria importanza per quelle operazioni mentali.
Redazione: In che modo Libet ha indagato questo tema dell’intenzione più o meno cosciente?
Stella: Libet ha deciso di lavorare su soggetti in grado di collaborare e di rispondere alle domande a loro rivolte, sveglie coscienti[2] perché riteneva che un’indagine fenomenologica dell’esperienza cosciente dell’intenzione possa essere svolta solo su un soggetto in grado di riportare la propria esperienza.
L’assetto sperimentale[3] vede, quindi, dei soggetti che devono compiere atti motori semplici, volontari ed endogeni, come flettere un dito o il polso.
Il punto centrale dell’esperimento è la rilevazione – fatta con elettroencefalogramma – del “potenziale di prontezza” cioè di un significativo incremento dell’attività elettrica nell’area motoria supplementare coinvolta nel controllo dei movimenti poco prima e in preparazione di ogni azione; si pensa che questo potenziale sia correlato causalmente, sulla base di analisi statistiche, all’esecuzione delle azioni.[4]
Contestualmente alla rilevazione dell’attività cerebrale associata all’iniziazione dell’atto motorio, viene chiesto al soggetto sperimentale di osservare uno speciale orologio così da poter registrare l’esatto momento in cui ha sentito l’impulso di agire e confrontarlo con i dati sull’attività cerebrale.
Le rilevazioni hanno mostrato che il potenziale di prontezza insorge circa 550 millisecondi prima del dispiegarsi dell’azione, mentre generalmente gli individui riportano di aver sentito l’impulso ad agire 200 millisecondi prima dell’azione stessa.
Pertanto, è possibile osservare uno scarto di 350 millisecondi tra l’attività elettrica di preparazione all’azione e la percezione soggettiva di volerla compiere, sebbene l’individuo non ne avesse alcuna consapevolezza o percezione.[5]
Redazione: Cosa conclude Libet sulla base di questi risultati, che sembrano abbastanza indicativi per la riflessione sull’arbitrarietà delle azioni?
Stella: La prima conclusione di Libet è che gli individui non hanno un controllo sull’iniziazione delle proprie azioni, in quanto questa si manifesta a livello cerebrale già prima di diventare cosciente.
Redazione: Parrebbe che questa sia una netta confutazione dell’esistenza dell’arbitrio, o sbaglio?
Stella: In effetti, una prima interpretazione potrebbe essere di questo tenore. Però, lo stesso Libet ha ritenuto meglio riformulare il concetto in una forma ridotta: sebbene l’iniziazione dell’azione non sia frutto del libero arbitrio, gli agenti godono della “libertà di veto” (cit., p. 141). In termini pratici, l’esperienza cosciente si manifesta 200 millisecondi prima dell’azione MA l’agente ha tempo fino a circa 50 millisecondi prima di questa per interromperla.
In estrema sintesi, da una parte Libet conclude che gli esseri umani non decidono né avviano consciamente le proprie azioni e, pertanto, la coscienza non svolge un ruolo diretto nei processi deliberativi (Levy N., Neuroethics. Challenges for the 21st Century, 2007, p. 226) ma, dall’altra parte, osserva che “la volontà liberamente cosciente può controllare il risultato di un processo iniziato in modo non cosciente” (p. 147).
Redazione: Ci sono interpretazioni disallineate alle conclusioni di Libet?
Stella: Decisamente! Altri autori hanno considerato poco convincente il lavoro di Libet. Tra le critiche più interessanti c’è senza dubbio quella di Schurger e colleghi, che hanno riprodotto l’assetto sperimentale di Libet per mostrare che l’attività neurale soggiacente la preparazione dell’azione segue delle fluttuazioni spontanee, correlate all’azione solo a livello probabilistico. La loro sperimentazione ha rivelato come tra l’insorgere dell’esperienza cosciente dell’intenzione e l’esecuzione a livello neurale di tale iniziazione ci sia uno scarto di 50 millisecondi, tempo che consentirebbe alla coscienza di avviare e controllare l’esecuzione del processo motorio.
La conclusione di Shurger e colleghi è che le affermazioni di Libet sul libero arbitrio siano infondate e che una volontà libera sia in linea teorica perfettamente compatibile con un modello di attività neurale ad onde, come quello da loro illustrato.
Redazione: Mi pare che sia Libet, con il suo tentativo di salvare la coscienza dall’etichetta di mero epifenomeno proponendo la teoria della libertà di veto, che i suoi oppositori cerchino di escludere elementi deterministici che agiscano a livello neurale, come dei processi mentali inconsci, e che possano influenzare e condizionare le nostre azioni. Se ne esce in qualche modo?
Stella: Credo che sia bene ricordare che questi risultati offrono un contributo speculativo esclusivamente nell’ambito dei determinismi locali, che - come in questo caso per l’attività neurale – potrebbero condizionare la nostra volontà libera.
Mi pare chiaro che questi contributi non siano in grado di sciogliere la questione sul piano del determinismo universale e che rappresentano un contributo limitato all’interno del dibattito filosofico sul libero arbitrio.
Ritengo – però - che questo tipo di studi possa mantenere vivo l’interesse sulla riflessione morale sulla responsabilità e sui nostri giudizi di liceità o illiceità di una determinata azione.
Inoltre, i risultati di questo tipo di studi potrebbero supportare la formulazione di teorie etiche normative informate e adeguate rispetto al nostro modo di agire, ragionare e giudicare moralmente.
NOTE
[1] A tal proposito, Libet suggerisce che vi siano due modi per configurare un’attività mentale conscia che si sottrae alle leggi fisiche note: “La prima è che le violazioni non sono rilevabili, dal momento che le azioni della mente possono essere a un livello inferiore a quello dell'indeterminazione permessa dalla meccanica quantistica. (Se quest'ultima ipotesi condizionale possa in effetti essere sostenuta è un tema che deve essere ancora risolto.) Quest'idea permetterebbe, quindi, l'esistenza di un libero arbitrio non deterministico senza una violazione percepibile delle leggi fisiche. Un secondo punto di vista sostiene che le violazioni delle leggi fisiche note sono abbastanza grandi da essere rilevate, almeno in linea di principio. Ma si può supporre che le effettive possibilità di rilevazione in pratica siano nulle. Le difficoltà nella rilevazione sono particolarmente vere se la volontà cosciente è in grado di esercitare la sua influenza attraverso azioni minimali su elementi neurali relativamente poco numerosi, cioè se queste azioni possono servire come innesco per schemi amplificati di cellule nervose dell'attività del cervello. In ogni caso, non abbiamo una risposta scientifica alla questione di quale teoria (deterministica o non deterministica) descriva in maniera corretta la natura del libero arbitrio.
[2] Per approfondimenti su queto punto, si veda Boncinelli, Chi prende le mie decisioni?, 2007.
[3] Il setting di Libet era ispirato agli esperimenti degli anni Sessanta (1969) di Deecke, Scheid e Kornhuber, Distribution of Readiness Potential, Pre-motion Positivity, and Motor Potential of the Human Cerebral Cortex Preceding Voluntary Finger Movements.
[4] Si veda Benini, Neurobiologia della volontà, 2022.
[5] Gli esperimenti di controllo sostenuti da Libet hanno escluso che la disparità sia dovuta semplicemente al tempo supplementare necessario per notare e riferire il momento indicato dal puntino mobile dell’orologio (si veda Kosslyn, 2007, p. XVI); inoltre Libet ha affermato che, sebbene gli esperimenti riguardassero atti motori semplici, i risultati possono essere generalizzati e assunti come validi per qualsiasi atto motorio volontario.
Classificazioni e standardizzazioni - Un modo di regolare la vita sociale
Ogni giorno gli esseri umani mettono in pratica, spesso inconsapevolmente, forme di classificazione e standardizzazione per raccogliere informazioni, trasmetterle e farle interagire tra di loro. Si tratta di un lavoro che è prevalentemente tacito o inconsapevole. Ad esempio in una libreria o biblioteca i libri vengono sistemati in base al tema di cui trattano; per cui i temi più comuni saranno facilmente visibili, mentre altri verranno collocati in spazi specifici o meno visibili. Oppure basti pensare alle email che ci arrivano: alcune le contrassegniamo come Speciali, altre come Spam e altre le eliminiamo immediatamente; o alla classificazione dei servizi igienici in base al genere.
Le categorizzazioni non sono solo dei concetti astratti che contribuiscono a mantenere un ordine sociale, ma sono delle entità invisibili che influenzano la nostra vita. Secondo Michel Foucault (L’ordine del discorso e altri interventi, 1971) le categorie e le tecnologie producono una forza materiale sulla vita degli individui; essa è in grado di produrre oggetti di sapere, soggetti, istituzioni, pratiche, chi può parlare per dire un enunciato vero e come deve parlare per dire la verità. Dunque, classificare produce degli effetti, valorizza certi elementi e ne rende invisibili altri; per alcuni individui possono rappresentare un vantaggio mentre per altri rappresentano un danno.
Ma cos’è una classificazione?
“Una classificazione è una segmentazione spaziale, temporale o spazio-temporale del mondo. Un “sistema di classificazione” è un insieme di scatole (metaforiche o letterali) in cui si possono mettere le cose per poi svolgere una sorta di lavoro burocratico o di produzione di conoscenza” (Bowker, G. C., e Star S. L.. Sorting Things out: Classification and Its Consequences 1999, p. 10).
In ogni attività quotidiana abbiamo a che fare con la progettazione e la selezione di categorie, con l’inserimento di nuove informazioni all’interno di esse e confrontarci con cose che non si adattano. Tutte le nostre azioni fanno riferimento a un sistema di classificazione che in astratto, possiede le seguenti proprietà:
- Principi classificatori coerenti e unici in funzione: si possono ordinare una serie di elementi in modi differenti, come ad esempio un ordine temporale, un ordine in base alla funzione oppure in base all’origine;
- Le categorie sono mutuamente esclusive: in astratto le categorie possiedono dei confini chiari, all’interno dei quali ogni sistema di classificazione riesce ad inserire gli oggetti in modo ordinato. Ad esempio, la concezione di un figlio avviene attraverso una madre e un padre che rientrano automaticamente all’interno della categoria dei genitori. Questo modo di categorizzare esclude una serie di altre situazioni come, ad esempio, la presenza di madri surrogate, donne che donano i propri ovuli, uomini che donano il proprio seme, oppure situazioni di affidamento condiviso;
- Il sistema è esaustivo: il sistema di classificazione fornisce comunque una rappresentazione ideale della realtà che prova a descrivere. In altre parole, anche se ci sono degli oggetti che non si adattano perfettamente alle categorie esistenti, il sistema di classificazione agisce in modo da assorbirli al suo interno creando un ordine.
Nella vita quotidiana, nessun sistema di classificazione funzionante soddisfa contemporaneamente questi tre requisiti. Nella pratica le persone possono deliberatamente ignorare le classificazioni esistenti, fraintenderle rinegoziarle (Cit.).
Uno standard è innanzitutto un modo di classificare il mondo, un insieme di regole concordate da vari attori per produrre artefatti. Gli standard attraversano diverse comunità di pratica (Lave, J., & Wenger, E. Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, 1991), mettendole in comunicazione, creando relazioni stabili nel tempo, superando così differenze locali e parametri eterogenei. La standardizzazione è un processo attivo che aspira alla stabilità e all’ordine. Qualsiasi ordine è un risultato conquistato a fatica che richiede la collaborazione di diversi attori.
Ma cos’è uno standard?
“Definiamo la standardizzazione come il processo volto a rendere le cose uniformi, e la standardizzazione sia come mezzo che come risultato della standardizzazione. Nel senso più generale, una norma si riferisce a una misura stabilita dall'autorità, dalle dogane o dal consenso generale da utilizzare come punto di riferimento” (Timmermans S. e Berg M., The Gold Standard, 2003).
Dunque, gli standard non nascono dal nulla, ma vengono costruiti nella pratica da un insieme eterogeneo di attanti,1 permettendo a diversi mondi sociali di cooperare nonostante i differenti interessi. È proprio questa caratteristica che conferisce agli standard una forza e autori “superiori”; ma non si tratta di una caratteristica innata, “calata dall’alto”, bensì il risultato di conflitti e negoziazioni tra differenti gruppi sociali. Lo standard viene costruito situazionalmente senza però perdere la capacità di mettere in relazione i vari elementi delle infrastrutture. Lampland e Star (Standards and Their Stories: How Quantifying, Classifying, and Formalizing Practices Shape Everyday Life, 2010) identificano 5 caratteristiche degli standard:
- La nidificazione: gli standard sono compenetrati l’un l’altro, sono incorporati in altri standard, protocolli o sistemi tecnici;
- Distribuiti in modo non uniforme: il significato e gli effetti di uno standard dipendono dal regime politico e dalla posizione di classe. In alcuni contesti si adattano bene; in altri costituiscono un problema;
- Fanno riferimento a comunità di pratica: ciò che rappresenta uno standard favorevole per una persona può rappresentare un incubo per un'altra: “le forme standard sono (ineguali) (...) anche nel loro impatto, significato e portata nella vita individuale e organizzativa. Gli standard e le azioni che li circondano non si verificano in modo acontestuale. C’è sempre una sorta di economia ed ecologia degli standard che circonda ogni individuo in una posizione” (Cit. p.7);
- Sono sempre più integrati tra loro in molte organizzazioni, nazioni e sistemi tecnici: generano relazioni sociotecniche identiche, in grado di dare vita ad assemblaggi eterogenei in contesti differenti;
- Incarnare e prescrivere etica e valori: standardizzare significa includere certe cose, ed escluderne altre. Gli standard sono carichi di iscrizioni morali che contribuiscono a rendere alcune cose visibili in un modo positivo e altre in modo negativo con grandi conseguenze per gli individui.
In conclusione, classificare e standardizzare necessitano complesse negoziazioni necessarie per creare protocolli, materiali e strumenti. La creazione di uno standard è un atto sociale che dipende dalle interazioni tra le molteplici parti (attanti) coinvolte nel processo di creazione. In questo senso degli “standard flessibili”, caratterizzati da grande adattabilità possono funzionare meglio di standard rigidamente definiti, consentendo la comunicazione tra sistemi incompatibili generando tipi specifici di uniformità, oggettività e universalità. L’uniformità degli standard porta con sé tracce delle impostazioni locali, ma allo stesso tempo altri elementi locali vengono cancellati attraverso la standardizzazione. Il processo di standardizzazione permette di stabilire nuovi standard, ma rende invisibile il tutto il lavoro necessario per generarli. Il ruolo dello scienziato sociale è quello di riflettere criticamente l’ubiquità degli standard, anziché darli per scontati. Evidenziando come la scelta di uno standard rispetto a un altro è condizionata da interessi pragmatici differenti, mettendo in luce l’effetto performativo. Perché la scelta di uno standard implica un modo di regolare e coordinare la vita sociale a scapito di modalità alternative. Utilizzando le parole di Timmermans e Epstein “coesistiamo in un mondo pieno di standard ma non in un mondo standard” (Annu. Rev. Sociol. 36:69–89, 2010, p.84).
NOTE
1 Ad agire possono essere non solo gli umani ma anche non-umani come tecnologie e oggetti materiali.
Il complottismo degli anti-complottisti. Le trappole mentali dei debunkers
Da quasi un decennio i temi della post-verità, delle fake-news e delle teorie del complotto sono diventati un’ossessione non solo per i giornalisti, ma anche per gli accademici. Per alcuni sociologi, psicologi, filosofi ecc. sembra che tutti i mali del mondo vengano dai cospirazionisti, persone malate, irrazionali e anti-scientifiche, carbonari dei nostri giorni, che passano il loro tempo a fornicare sui social media, a costruire ad arte notizie false per poi diffonderle.
Un po’ di casi storici
Poi dopo qualche decennio si scopre, ad esempio, che il super testato dietilstilbestrolo (una specie di estrogeno prescritto tra il 1938-1971 per prevenire l'aborto spontaneo) causa centinaia di casi di adenocarcinoma (un tumore, solito insorgere mediamente intorno ai 17 anni) in donne nate (chiamate poi figlie DES) da madri che l’avevano assunto. Oppure che il super testato talidomìde, prescritto in particolar modo alle donne in gravidanza, provoca migliaia di nascituri con deformazioni (es. focomèlia); o, più recentemente (2004), che il super testato Vioxx, “un farmaco per l’artrite, largamente prescritto, fu scoperto aumentare il rischio di infarto e ictus, soltanto dopo esser stato sul mercato per cinque anni” (Conis, 2015: 233).
Per fare un altro esempio, ricordo che Albert Sabin, medico e virologo (inventore di uno dei due vaccini contro la polio), almeno sin dal 1980 (fino al 1993, anno della sua morte), manifestò più volte, mediante interviste stampa e TV, diverse perplessità su alcuni vaccini, sui vaccini antinfluenzali e sulle politiche vaccinali, anche italiane, come quella dell’obbligatorietà del vaccino antiepatite B, come ebbe a dire il 4 dicembre 1991 a RAI 3: «A mio giudizio si tratta di un errore grossolano e sono certo che il ministro della Sanità è stato molto mal consigliato. In realtà in Italia oltre l’80% di casi si verificano tra i tossicodipendenti che fanno uso di siringhe infette o che non cambiano siringhe (…) Affrontando questi aspetti del problema si otterrebbero risultati migliori di quelli garantiti dalla vaccinazione obbligatoria previsti dalla legge appena approvata...». Quel “mal consigliato” fu più chiaro vent’anni dopo, quando la magistratura accertò (con sentenza definitiva nel 2012) che l’allora ministro, il medico e liberale De Lorenzo, nel febbraio 1991 aveva ricevuto una tangente di 600 milioni di lire dalla Smith Kline Beechm (Glaxo), l’azienda produttrice proprio del vaccino Engerix B. Non risulta che De Lorenzo sia stato poi radiato dall’ordine dei medici.
Proprio quest’ultimo episodio ci insegna che i sociologi, psicologi, filosofi così ferventemente anti-complottismi dovrebbero avere un atteggiamento meno manicheo e più laico, aperto e tollerante.
Perché i complottismi di oggi potrebbero (ripeto cento volte ‘potrebbero’) essere le verità di domani.
In altre parole, un approccio cauto e “storico” non farebbe male. Come suggeriscono diversi autori (Di Piazza, Piazza e Serra 2018, Veltri e Di Caterino 2017, Cuono 2018, Lorusso 2018, Adinolfi 2019, Gerbaudo 2019, Ottonelli 2019) che hanno individuato diversi limiti epistemologici, descrittivi, normativi e strategici del concetto di post-verità.
Un caso per tutti è quello dell’amianto (ma si potrebbe parlare del tabacco, del DDT, dei coloranti per le bevande ecc.). Un minerale naturale conosciuto e usato sin dall'antichità e fino all'epoca moderna, per gli scopi più disparati: da magici e rituali fino a quelli industriali. In Italia il suo uso è proibito solo dal 1992. Ma “risale agli inizi del ’900 il primo processo in Italia (in Piemonte) nel quale venne condannato il titolare di un’azienda che lavorava amianto perché la pericolosità del minerale era stata ritenuta circostanza di conoscenza comune. La prima nazione al mondo a riconoscere la natura cancerogena dell'amianto, dimostrandone il rapporto diretto tra utilizzo e tumori e a prevedere un risarcimento per i lavoratori danneggiati, fu la Germania nazista nel 1943”[1]. Ma si sa: i nazisti facevano propaganda.
Patologizzare la critica sociale, comprimere il dissenso
Dal punto di vista scientifico, ‘complottismo’[2] è un termine che richiama un concetto con uno statuto epistemologico molto incerto e controverso. Tant’è che risulta essere un termine molto carico politicamente. Infatti secondo l’antropologo Didier Fassin (2021) esiste una tendenza crescente, nelle scienze umane, ad assimilare la critica sociale al pensiero cospirativo, utilizzando il secondo per delegittimare la prima. Per cui, mediante questo termine, abbiamo un inquinamento della sfera pubblica e un disincentivo alla partecipazione.
Allo stesso modo, il politologo greco Yannis Stavrakakis, parlando di ‘populismo’, argomentava che che è una categoria, più che descrittiva, normativa, e di conseguenza ‘performativa’, nel senso che è una costruzione di coloro che governano (gli anti-populisti) per imporre i loro “regimi di verità”, come li chiamava Michel Foucault (un autore che gli studiosi anti-complottisti sembrano aver dimenticato).
A tal fine, il filosofo della scienza Paul Feyerabend (1975), a cui il dibattito sul complottismo avrebbe probabilmente fatto ridere, diceva che “nella scienza occorre dar voce a tutti, anche ai punti di vista che in quel momento possono sembrare errati”. E continuava “è opportuno conservare tutte le teorie, anche quelle che nel corso del tempo sono state scartate, perché è sempre possibile che tornino attuali”, perché ogni teoria non è mai sviscerata in tutti i suoi aspetti: la deriva dei continenti, un tempo ritenuta una teoria pseudoscientifica, è oggi parte integrante del patrimonio scientifico, soprattutto dopo la scoperta delle prove paleomagnetiche che sostengono il concetto di tettonica a zolle. Anche l'evoluzione della specie o l'eliocentrismo furono inizialmente sottoposte a feroci critiche scientifiche.
E la filosofa femminista Sandra Harding sosteneva che “anche le scienze naturali (es. fisica e chimica), e non solo le scienze umane (es. sociologia e antropologia), sono influenzate anche dalle credenze e opinioni personali degli scienziati”.
Le trappole mentali dei debunkers e fact checkers
Sembrerebbe che solo i complottisti ragionino in modo surreale. Ed è compito dei debunkers e fact checkers, i Roland Freisler o gli Andrej Vyšinskij del XXI secolo, scoprire l’infondatezza di quelle che poi saranno definite fake news.
C’è però un particolare. Inquietante. I debunkers sono strabici: fanno il pelo sempre ai critici dello status quo, e quasi mai ai governanti o coloro che gestiscono il sistema dell’informazione. Per cui operano all’interno dei “regimi di verità” e dei “regimi di discorso”.
Altrimenti avrebbero indagato e scoperto l’infondatezza (per fare uno degli esempi più clamorosi) delle dichiarazione del Segretario di Stato americano, Colin Powell, che il 5 febbraio 2003 all’assemblea generale dell’ONU aveva mostrato le fotografie di laboratori mobili (si scoprì poi che erano dei modellini) di costruzione di armi biologiche (le famose armi di “distruzione di massa”) e avrebbero guardato cosa conteneva (talco anziché antrace) quella fialetta esibita teatralmente durante il suo discorso.
In altre parole, i debunkers e gli anti-complottisti soffrono delle stesse trappole mentali dei cosiddetti complottisti. Essi cadono nel fenomeno della “reazione all’oggetto” (Cacciola e Marradi 1988), fenomeno socio-cognitivo-emotivo, per cui nel dare un giudizio su una notizia si guarda alla fonte PRIMA che al contenuto. Per cui se la fonte è un’istituzione rispettata, allora le sue notizie non possono essere che vere (così successe per Colin Powell, mentre Saddam Hussein faceva propaganda). E’ viceversa.
Ma il contenuto della notizia non viene quasi mai esaminato senza preconcetti.
In conclusione, anti-complottisti “di terra, di mare e dell'aria”… datevi una calmata.
NOTE E BIBLIOGRAFIA
[1] https://www.inail.it/cs/internet/docs/dossier_storia_amianto-pdf.pdf
[2] Un tempo si chiamava “dietrologia” (vedi https://www.ilpost.it/2024/02/08/sgobba-quando-il-complottismo-si-chiamava-dietrologia/)
Adinolfi, M. (2019). Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia. Roma: Salerno Editrice.
Cacciola Salvatore e Marradi Alberto (1988), Contributo al dibattito sulle scale Likert basato sull’analisi di interviste registrate, in Marradi (a cura di), Costruire il dato, Milano: Angeli, 63-105.
Conis, Elena (2015), Vaccine Nation. America’s Changing Relationship with Immunization, Chicago: University of Chicago Press.
Cuono, M. (2018). “Post-verità o post-ideologia: un problema politico,online e offline”. In Web e società democratica: un matrimonio difficile, a cura di E. Vitale and F. Cattaneo, 66–82. Torino: Accademia University Press.
Di Piazza, S., Piazza, F., and Serra, M. (2018). “Retorica e post-verità: una tesi controcorrente”. Siculorum Gymnasium 71 (4): 183–205.
Fassin, Didier (2021) Of Plots and Men. The Heuristics of Conspiracy theories,in Current Anthropology, 62(2), pp. 128-137.
Feyerabend, Paul K. (1975) Against Method, Londra: Verso Book. Trad. It. Contro il Metodo. Milano: Feltrinelli, 1979.
Gerbaudo, P. (2019). “Una falsità scomoda: fake news e crisi di autorità”. In Fake news, post-verità e politica, edited by G. Bistagnino and C. Fumagalli, 74–91. Milano: Fondazione Giangiacomo, Feltrinelli.
Harding, Sandra (1993). “Rethinking Standpoint Epistemology: What is Strong Objectivity” Feminist Epistemologies (a cura di) Alcoff L., Potter E., New York e Londra: Routledge.
Lorusso, A. M. (2018). Postverità: fra reality tv, social media e storytelling. Bari: Laterza.
Ottonelli, V. (2019). “Disinformazione e democrazia. Che cosa c’è di fake nelle fake news?”. In Fake news, post-verità e politica, a cura di G. Bistagnino and C. Fumagalli, 92–115. Milano: Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Stavrakakis, Y. (2017). “How did ‘populism’ become a pejorative concept? And why is this important today? A genealogy of double hermeneutics”. POPULISMUS Working Papers 6.
http://www.populismus.gr/wp-content/uploads/2017/04/stavrakakis-populismus-wp-6-upload.pdf
Veltri, G. A., and Di Caterino, G. (2017). Fuori dalla bolla: politica e vita quotidiana nell’era della post-verità. Sesto San Giovanni: Mimesis.
Conversazioni sull’Intelligenza Artificiale – Si prova qualcosa ad essere una macchina?
Redazione: Riccardo, in questo tuo post hai condensato almeno tre punti molto rilevanti per la discussione sull’Intelligenza Artificiale e sulle macchine che agiscono guidate da sistemi intelligenti:
- il primo – sulla bocca di tutti in questi giorni – è quello della trasparenza,
- il secondo è quello della responsabilità di questi agenti in qualche modo autonomi, di cui abbiamo già scritto più volte nel blog, e che coinvolge un’intera filiera di soggetti
- e il terzo è quello della soggettività degli automi.
È evidente che gli elementi più innovativi che stai introducendo in questo discorso sono:
1) quello che chiami “monologo interiore”, intimamente correlato al tema della trasparenza, e
2) la domanda, per me assolutamente inattesa, “ma sta succedendo qualcosa là dentro?”, che suggerisce di non trascurare la possibilità di una reale soggettività dell’automa.
Ritieni quindi che “monologo interiore”, “interiorità”, “soggettività” possano essere caratteri attribuibili ad un robot?
Riccardo: Per rispondere a questa domanda provo a definire chiaramente questi termini, perché spesso il guaio è che parlando di questi temi si utilizzano dei termini resi così laschi dagli anni di dibattiti che ognuno finisce un po’ per tirarseli dalla propria parte, con il risultato che tutti hanno ragione perché stanno parlando da soli.
E allora: il “monologo interiore” è l’idea di applicare ad un soggetto che si muove nello spazio (ad un robot nel nostro caso) un modo, uno spazio di lavoro, per connotare il proprio ambiente; e grazie a questo processo di continuo aggiornamento del proprio mondo, poter agire sempre più efficacemente sullo stesso.
Bene: su questo punto, a livello funzionale - ritengo che sia il caso di evitare un’analisi filogenetica - per me sia difficile trovare grosse differenze rispetto a ciò che una persona fa. Per quanto riguarda l’“interiorità”, definita come lo spazio in cui quel monologo interiore accade, mi pare chiaro che sia una condizione necessaria per l’esistenza di un monologo, avendo appunto un’azione bisogno di un luogo in cui svolgersi.
La “soggettività” è invece la dimensione più scivolosa. Però possiamo intenderla come il fantomatico “provare qualcosa ad essere (un soggetto)”.
Ecco, credo che questa dimensione soggettiva possa essere accessibile solo tramite due tratti essenziali: un qualche tipo di auto-narrazione e una fiducia nei confronti di quella narrazione e di quel narratore. A conti fatti ognuno di noi ha accesso soggettivamente solo alla propria soggettività e quella degli altri se la può, al massimo e ragionevolmente, immaginare.
Cosa è ragionevole però pensare quando vedo un cane con gli occhi chiusi che muove le gambe? E un polpo che si nasconde nella sua tana foderata di conchiglie? Sta succedendo qualcosa lì dentro?
È una questione di vita mi si dirà, di vita organica persino. Io credo, senza dire niente di nuovo rispetto alle riflessioni di Maturana Romesín e Varela García (1972, De máquinas y seres vivos), che si giri intorno alla questione, tutta individuale e privata, di “accettare emotivamente” o meno il fatto che la vita sia poco più che il tentativo di un sistema di riuscire a conservarsi.
Redazione: E tu Paolo, che hai speso anni in mezzo a queste macchine e queste domande, cosa ne pensi?
Paolo: Tendiamo ad attribuire un significato compiuto alle parole del nostro interlocutore, anche se il suo discorso è privo di senso; lo insegna Paul Grice, che segnala anche l’attitudine a riconoscere al partner intenzioni di veridicità e pertinenza. Credo che la nostra propensione al principio di carità si estenda al comportamento delle macchine, soprattutto a quelle di AI generativa, cui accordiamo intelligenza, coscienza e creatività, nel senso ordinario di questi termini.
Eppure, software di grande raffinatezza, come ChatGPT o AlexNet, mostrano con le «allucinazioni» che la loro presa su qualunque realtà esterna ai processi del codice è nulla.
Non possiamo pretendere che l’intelligenza artificiale possa diventare «generale» (AGI), e sia quindi in grado di paragonarsi a quella umana, a causa della definizione stessa che è stata adottata per la loro progettazione.
Il modello cognitivo che guida la pianificazione delle AGI è fondato su potenza di calcolo, quantità e stratificazione delle connessioni tra unità di calcolo. Si è dimenticato che invece l’intelligenza parte sempre da una domanda preliminare, e da una precomprensione del mondo e dell’ambiente: lo rilevano su ambiti di indagine differenti sia Popper sia Husserl.
Senza l’autonomia dello stimolo a porre interrogativi non c’è nessuna intelligenza (coscienza, creatività, ecc.) nel senso comune del termine. Credo invece che le Intelligenze Artificiali siano dispositivi nel senso pieno indagato da Agamben (2006, Che cos'è un dispositivo?): pongono in essere un dominio di esperienze che prima non esisteva, stabilendo un nuovo campo di poteri e saperi.
Se le si osserva nella prospettiva del loro contributo alla storicità e al potenziamento dell’intelligenza (senza aggettivi di specificazione), assumono un profilo meno fantascientifico ma più ricco di senso, rientrando nella tradizione del pensare per segni che trova la sua fondazione in Leibniz e nei suoi studi sulla characteristica – ma soprattutto che prosegue il percorso di riflessione e di progettazione che Doug Engelbart ha inaugurato insieme ad English nel 1968 (A Research Center for Augmenting Human Intellect).
Redazione: Grazie a entrambi, più che darmi delle risposte, avete delineato due veri programmi di lavoro, distinti e complementari, uno fenomenologico e l’altro più analitico e cognitivista. Programmi che possono convergere o divergere.
Lo capiremo, forse, nella prossima parte della conversazione, dalla risposta che Riccardo darà a questa domanda:
il requisito di essere incorporata in un robot, è obbligatorio per riconoscere ad una IA generativa come, ad esempio, Chat GPT, il diritto all'integrità di cui parli? Le altre istanze, quelle esclusivamente dialoganti che troviamo sul web, non hanno diritto a questo riconoscimento?
A tra due settimane!
Giocattoli di genere - Psicologia e influenza sociale
La psicologia, la filosofia e la sociologia hanno documentato come i giocattoli per l’infanzia siano portatori di modelli sociali legati al genere. In questa sede, ci concentreremo prevalentemente sul gioco in età infantile, cercando di esaminare non solo come esso trasmetta stereotipi di genere già in questa fase della vita, ma anche come sia un momento molto importante nei processi di sviluppo per bambini e bambine.
Innanzitutto, cos’è il gioco? La Treccani lo definisce così: “esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche”[1]. Se diamo a questa definizione generica una sfumatura, funzionale allo scopo di questo post, potremmo aggiungere che il gioco non è un’entità statica ma si modifica, mutando i propri contenuti e la loro fruizione, al variare dei contesti (socioculturali, anagrafici ecc.).
Andiamo ad approfondire il discorso esaminando alcune riflessioni psicologiche sul fenomeno del gioco:
- Secondo H. Spencer (1820-1903), attraverso il gioco si bruciano le energie che si dovrebbero consumare nella lotta per la sopravvivenza; lotta che gli esseri umani non attuano più, in quanto “evoluti”. C’è dunque un patrimonio energetico che non si sfrutta più, ma che deve essere scaricato «in modo istintivo»[2]; il suo sfogo è individuato nell’attività ludica, grazie alla quale «il bambino sprigiona l’eccesso di energia psichica accumulata»[3].
- La “teoria catartica” di S. Freud (1856-1939) e A. Adler (1870-1937) afferma che «il gioco avrebbe la funzione di liberare l’individuo da tendenze o istinti incompatibili con le esigenze della vita sociale»[4]. Inoltre, lo stesso Freud «per primo ha posto in evidenza la funzione del gioco come manifestazione simbolica di disturbi profondi, di un conflitto psichico inconscio che richiede risoluzione»[5].
- Winnicott (1896-1971) «ha studiato lo sviluppo del bambino e le diverse fasi che lo contraddistinguono a partire dal grado di dipendenza del bambino dalla figura di accudimento. Egli ha sottolineato come il gioco permetta al bambino di prendere consapevolezza di sé stesso e, attraverso la creatività, di imparare a conoscersi»[6].
Per quanto riguarda le teorie dello sviluppo, citiamo:
- Per K. Groos (1861-1946), il gioco è un bisogno innato che ha valore di esercizio preparatorio alla vita adulta (spesso, infatti, i bambini si divertono a imitare il comportamento dei “grandi”). Pertanto, «con il gioco, […] il bambino acquisisce abilità e schemi mentali man mano più complessi che risultano indispensabili per condurre una vita autonoma»[7].
- Vygotskij (1896-1934) ritiene che il gioco abbia una funzione fondamentale per lo sviluppo del bambino su più livelli (cognitivo, emotivo e sociale)[8]. Egli evidenzia, inoltre, «come nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenti per il bambino un utile strumento per la gestione dell’emotività ansiogena e per la realizzazione di desideri insoddisfatti, mentre si sta relazionando con difficili compiti evolutivi, quali la differenziazione e il distacco dalla figura materna, la scoperta del Sé, la dilazione dei propri desideri»[9].
- Secondo J. Piaget (1896-1980), il gioco ha «la funzione di palestra di sviluppo, di esercitazione attiva e interattiva con l’ambiente, in grado di apportare competenze e abilità all’individuo in stretta correlazione con lo sviluppo neurobiologico e cognitivo del medesimo»[10]. In breve: «il giocare muta nella sua forma con il crescere del fanciullo»[11]; rimarcando così «una corrispondenza diretta tra gioco e sviluppo mentale del bambino»[12]. La teoria di questo autore prevede dunque degli stadi, secondo cui «il bambino matura superando una serie di tappe»[13].
Dal punto di vista sociale, infine, riportiamo:
- Fröbel (1782-1852) ritiene che il gioco sia lo strumento grazie al quale il bambino si relaziona sia col mondo esterno, sia con gli altri individui[14].
- Huizinga (1872-1945) «ha considerato il gioco come il fondamento della cultura e della vita umana organizzata in società»[15]; per questo autore, l’essere umano «è soprattutto Homo ludens più che sapiens»[16].
- Caillois (1913-1978) distingue quattro categorie:
- «Giochi di competizione (agon): tutte le gare in generale»[17], fisiche e mentali;
- «Giochi di fortuna (alea): dove il fattore primario è il caso»[18] (lotterie, scommesse, gioco dei dadi, “testa o croce” ecc);
- «I giochi incentrati sulla finzione e il mimetismo»[19], definiti «di simulacro (mimicry)»[20], nei quali si imita qualcun altro (rientrano in questa categoria, per esempio, anche i giochi dove i bambini emulano le attività degli adulti);
- «Giochi di vertigine (ilinx)»[21], dove vengono sfidati il pericolo e le leggi fisiche come, per esempio, gli sport estremi.
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Questa carrellata di teorie e di pensatori permette di capire come il gioco sia un’attività complessa, dalle infinite finalità e sfaccettature, e che sia un’occupazione decisamente più “seria” di quanto saremmo portati a pensare a prima vista. Essa coinvolge numerose abilità, impegnandoci sotto diversi punti di vista. Non a caso, «la principale caratteristica delle ricerche psicologiche degli ultimi decenni del 20° sec. è la rinuncia a una spiegazione unitaria ed esaustiva del significato psicologico del gioco»[22]; pertanto, «viene riconosciuta l’esistenza di forme distinte di gioco: ciascuna di esse assolverebbe diverse funzioni psicologiche, utili alla crescita fisica e psichica dell’individuo, oltre che all’adattamento e alla sopravvivenza della specie»[23]. Ricordiamo, inoltre, che i giochi di gruppo e i giochi sociali permettono relazioni interpersonali e stimolano attività condivise, ma possono creare ruoli e gerarchie; ed è proprio su questi concetti (ruoli e gerarchie) che ci dobbiamo soffermare per proseguire nell’esposizione.
Esaminiamo ora la nostra società, approfondendo il tema dei giocattoli e analizzando le imposizioni sociali che essi trasmettono a bambini e bambine, con particolare riferimento al genere.
Sotto un punto di vista evoluzionistico anche il genere sessuale e le caratteristiche temperamentali svolgono un ruolo discriminante a livello dell’evoluzione e della sperimentazione ludica, creando differenze tra maschi e femmine evidenti già dall’età infantile: i maschi sono infatti più orientati ad attività aggressive, competitive, realizzate singolarmente e basate sul movimento, sulla scoperta, sull’azione e la sperimentazione concreta, mentre le bambine appaiono propense a giochi realizzati in gruppo e fondati sull’accudimento, l’immaginazione, la cooperazione; tale differenza sembra generalmente dovuta ad una serie di influenze ambientali/esperienziali che rendono le femmine soggette ad un’educazione più improntata al controllo emotivo e alla bassa competizione rispetto al corrispondente maschile.[24]
Il discorso che ora dobbiamo affrontare prende le mosse dalla consapevolezza che i giocattoli sono (anche) uno strumento di controllo e conformismo sociale, costruiti per trasmettere (nonché conservare) modelli, ruoli e gerarchie fin dall’infanzia. Infatti, «è chiaro che anche i giocattoli sono fruitori di stereotipi di genere, intesi come rappresentazioni semplificate e riduzionistiche della realtà, socio-culturalmente condivise, che attribuiscono determinate caratteristiche agli uomini, alle donne e ai rapporti tra loro»[25]. Finalmente ci siamo: anche i giocattoli sono fautori di binarismo di genere! (Per intenderci: «si definisce binarismo di genere quella rigida distinzione tra maschile e femminile, uomo e donna, da cui deriva una altrettanto rigida aspettativa su quali debbano essere i comportamenti, gli atteggiamenti, l'aspetto, l'abbigliamento, i compiti di uomini e donne, chi debbano amare»[26]).
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Come si applicano le osservazioni e le analisi compiute fino a questo punto con uno sguardo su possibili sviluppi futuri?
Iniziamo parlando di “COFACE Families Europe”. Esso è un network che lavora per garantire pari opportunità e benefici a tutte le famiglie; co-fondato dall’Unione Europea, tra i suoi valori fondanti troviamo, per esempio, la non-discriminazione (il riconoscere tutte le forme di famiglia), il rispetto dei diritti umani e l’inclusione sociale. Vediamo adesso uno studio che ha coinvolto questa organizzazione:
"Con COFACE Families Europe lo scorso dicembre 2015 abbiamo lanciato una campagna sui social media, chiedendo a genitori e a chiunque volesse partecipare di inviarci foto di giocattoli e pubblicità, che mostrassero esempi positivi o stereotipi. La campagna, con l’hashtag #ToysAndDiversity ha avuto un buon successo e abbiamo deciso di andare più a fondo, con uno studio che ci facesse avere un’immagine più chiara di cosa ci fosse in Europa.
I primi anni della vita di un bambino sono fondamentali per il suo sviluppo e il gioco e i giocattoli contribuiscono a formare la personalità e gli interessi del bambino, influenzando così anche le scelte che farà nel suo futuro. Abbiamo quindi deciso, per cominciare, e per avere materiale abbastanza omogeneo, di guardare i cataloghi di giocattoli in diversi paesi europei. Con l’aiuto delle ONG che sono membri [sic] della rete di COFACE, con l’esperienza della campagna inglese “Let Toys Be Toys” e con il supporto scientifico di due professoresse universitarie, abbiamo raccolto i cataloghi e creato un questionario, composto da oltre 200 domande) che ci servisse per analizzarli."
Un anno dopo, ecco i risultati.
"Abbiamo analizzato le immagini di 3125 bambini in 32 cataloghi di 9 paesi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.
- 12 cataloghi erano divisi in sezioni “per maschi” e “per femmine”. 20 cataloghi non avevano questa divisione formale ma le sezioni e i giocattoli per maschio/femmina erano facilmente individuabili con il colore delle pagine (rosa e colori pastello per le bambine, colori più scuri e marcati per i bambini), dall’associazione di giocattoli nella stessa pagina (bambole e peluche per le femmine, treni e dinosauri per i maschi).
- i maschi erano almeno due terzi dei bambini presenti in 5 sezioni (su 13 in cui era diviso il nostro questionario): videogames (67%), costruzioni [sic] (69%), droni (72%), macchine e mezzi di trasporto (74%), guerra e armi (88%). Le femmine erano più di due terzi del totale solo in due sezioni: attività di cura, bambole (87%) e prodotti di bellezza (94,5%). Nelle altre sezioni, sebbene i numeri siano più bilanciati, si possono vedere delle grandi differenze guardando con quali giochi sono rappresentati i maschi e le femmine all’interno della stessa sezione (es. nella sezione “animali” i maschi giocano con dei dinosauri, le femmine coi peluche).
- La sezione dei costumi e maschere è particolarmente interessante: nei cataloghi divisi tra […] maschi/femmine, la sezione per maschi aveva costumi per supereroi, personaggi di film e cartoni animati e professioni, come dottore, pompiere, poliziotto…, la sezione per femmine aveva un numero ridotto di personaggi dei cartoni e professioni e un altissimo numero di principesse. Nei cataloghi formalmente non divisi, maschi e femmine apparivano vestiti, in pagine diverse, con lo stesso tipo di vestiti proposti nei cataloghi con categorie separate. Due proposte quindi completamente diverse. Ma se scegliamo noi per loro, proponendo solo una parte delle maschere e dei costumi disponibili, non stiamo influenzando le loro scelte? Non stiamo già dicendo come “è normale” che si immaginino?
[…]
- Sui 3125 bambini, 2908 sono stati identificati come bianchi, 120 neri, 59 di famiglie miste, 31 asiatici, 7 medio-orientali. Su 3125 bambini, nessuno aveva disabilità visibili." [27]
COFACE Families Europe si è impegnata, nel tempo, a promuovere campagne di sensibilizzazione sugli stereotipi trasmessi nei giocattoli rivolgendosi a diversi settori chiave, con lo scopo di sottolineare quanto sia importante che bambini e bambine decidano liberamente con cosa giocare, che non vengano limitati nel loro divertimento da imposizioni e pregiudizi[28].
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Esaminiamo adesso altri casi, che mostrano come (forse) le cose stiano cambiando:
- Il 25 settembre 2019, l’azienda di giocattoli Mattel lancia sul mercato una nuova bambola “gender free”, descritta come «né maschio né femmina» e «libera di essere come vuole, senza etichette»; l’idea alla base di questo prodotto è quella di pensare un mondo più inclusivo, che oltrepassi i vecchi stereotipi. Infatti, si può creare un numero elevato di bambole, grazie alle molteplici possibilità di personalizzazione (il colore della pelle, i capelli, gli indumenti ecc.), nonché a una corporatura definita “neutra”, permettendo così a bambini e bambine di liberare la propria fantasia[29].
- In Francia, nel 2019, una spiacevole consapevolezza ha portato a dei cambiamenti importanti. Infatti, «la mancanza di rappresentazione femminile scoraggerebbe le bambine nel perseguire una carriera nei campi delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)»[30]; tra i responsabili di questo problema sono stati individuati anche i messaggi trasmessi dai giocattoli per l’infanzia, i quali possono portare a cattiva comunicazione, ponendo il focus su una ristretta narrazione del mondo: «molto spesso, infatti, le bambine vengono associate a cucine, bambole, casette, che rimandano all’ambiente domestico, come a dire che da adulte saranno madri e donne di casa, al contrario dei maschietti, più di frequente raffigurati davanti a un microscopio»[31]. Così, il cambio di rotta: «l’accordo per una rappresentazione nel mondo del giocattolo più equilibrata è stato firmato dal governo francese, dalla Federazione Francese dei produttori di giocattoli e dalle associazioni di settore»[32]; uno statuto, quindi, che dovrebbe abbattere gli stereotipi di genere. Infatti, «i giocattoli legati alla scienza e alla tecnologia prodotti d’ora in avanti dovranno […] includere le ragazze e, che bella novità, i giochi legati alla sfera domestica dovranno includere anche i maschietti»[33]. Infine, sottolineiamo che «le nuove linee guida punteranno […] a spostare le attenzioni dei giocattolai verso il potenziale dei bambini e ciò che amano»[34].
- Nel 2021, dopo aver commissionato un sondaggio internazionale, la Lego annuncia che eliminerà gli stereotipi di genere dai suoi giocattoli. È emerso, infatti, che «mentre le bambine sono sicure di sé e pronte a giocare anche con le confezioni di mattoncini pensate per i maschi, il 71% dei bambini intervistati ha confessato di temere di essere presi in giro qualora avessero utilizzato scatole descritte come “giocattoli per ragazze”»; l’articolo riporta, inoltre, che questa è «una paura […] condivisa se non più accentuata nei genitori». La Lego, insieme al togliere le etichette di genere sui suoi giocattoli, ha diviso i giochi per “passione”.[35]
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È giunto il momento di tirare le conclusioni. Lo scopo di questo articolo è di esporre il delicato tema dei giocattoli per l’infanzia, cercando di mostrare il grande potere che tali strumenti hanno nella creazione di un conformismo collettivo, che ci influenza fin da piccoli. Per esporre le mie riflessioni in modo efficace, ho voluto iniziare con un’analisi del fenomeno “gioco”, in modo da falsificare i miti che lo vogliono vedere solo come un momento di svago fine a sé stesso; successivamente, ho voluto studiare la società in cui ci muoviamo. Come ho cercato di mostrare, le influenze sociali sono ovunque, immateriali e silenziose, ma ci plasmano in ogni momento della nostra vita dicendoci, per esempio, cosa pensare, dove andare, chi vedere ecc. E’ il prezzo da pagare per vivere in una società ordinata e non caotica. Tuttavia, voler comprendere questi schemi intorno a noi è il primo passo per una maggiore consapevolezza, grazie alla quale si può fendere il velo che avvolge la superficie delle cose, scavando più in profondità e accedendo così a un mondo completamente nuovo, invisibile e sotterraneo. È fondamentale, infatti, imparare a riflettere e a decostruire i modelli sociali, guardare la realtà con occhio attento e critico, non pensare che sia tutto immutabile, ma capire che la linea di demarcazione può essere rinegoziata e spostata «sempre un po’ più in là...» (per citare una raccolta di storie di Corto Maltese). I giocattoli, per tornare a noi, sono dunque uno dei tanti modi con cui siamo bombardati da influenze e scelte che (forse) in realtà non ci appartengono, tra l’altro in un periodo della nostra vita davvero importante: avere (o non avere) determinati stimoli in età infantile può plasmare gli adulti che saremo. Se è vero che il giocare prepara i piccoli alla vita “da grandi”, è innegabile che molti giocattoli in commercio assolvono a questa funzione, ma al costo di incanalare bambini e bambine nei ruoli che la società ha costruito per loro e per la loro vita futura, stabilendo che tipo di adulti saranno e discriminando chiunque non si conformi a questa collocazione. I giocattoli, pertanto, aprono un’interessante finestra sulla nostra stessa realtà sociale, sul mondo in cui viviamo, con tutti i suoi stereotipi da individuare (sono ben nascosti), esaminare, comprendere e, lo ripeto, decostruire.
Note e Bibliografia
[1] gioco nell'Enciclopedia Treccani
[2] https://www.studenti.it/gioco-in-pedagogia-come-strumento-educativo.html
[3] gioco nell'Enciclopedia Treccani
[4] gioco nell'Enciclopedia Treccani
[5] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)
[6] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[7] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[8] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[9] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)
[10] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)
[11] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[12] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it)
[13] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[14] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[15] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[16] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivi in origine)
[17] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)
[18] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)
[19] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it
[20] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)
[21] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)
[22] gioco nell'Enciclopedia Treccani
[23] gioco nell'Enciclopedia Treccani
[24] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)
[25] Sinapsi - Spiderman non è una principessa e non è rosa... eppure ad Emma piace! Gli stereotipi di genere nei giocattoli (unina.it)
[26] Sinapsi - Binarismo di genere: fin dove possono spingersi le sue conseguenze? (unina.it)
[27] Stereotipi di genere: l'educazione inizia dai giocattoli - Netural Family-Attività per bambini a Matera e proposte innovative per famiglie felici.
[28] #ToysAndDiversity | COFACE Families Europe (coface-eu.org)
[29] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: Barbie, arriva la bambola "gender free": "Libera da ogni etichetta perché i bambini sono contrari agli stereotipi" - Il Fatto Quotidiano
[30] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)
[31] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe
[32] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)
[33] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe
[34] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)
[35] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: La Lego annuncia, niente più etichette di genere sui giocattoli - Notizie - Ansa.it