La predizione dell’assassino - La metafora del romanzo giallo per definire la conoscenza
MODELLI DI SAPIENZA
Ogni epoca ha riverito un certo modello di sapiente, e ha interpretato il suo stile di vita, il suo metodo di veridizione, persino i suoi gesti, come un’incarnazione della conoscenza. Gli sciamani nella lunga fase che precede la scrittura, il filosofo nel mondo classico, il monaco nel Medioevo, il fisico dell’età moderna, hanno interpretato questo ruolo. Se si dà retta a un’intervista rilasciata da Ilya Sutskever a Jensen Huang, il sapiente dei nostri giorni sembra coincidere con il detective o il commissario di polizia dei romanzi gialli. La verità precipita nell’istante in cui l’investigatore riunisce i sospettati nella scena finale della storia, e svela l’identità dell’assassino. L’illuminazione coincide con il momento esatto in cui viene pronunciato il nome del criminale, perché la conoscenza non esiste fino a un attimo prima, e non sarebbe apparsa senza la performance discorsiva del protagonista.
Per quanto questo inquadramento del sapere contemporaneo possa sembrare curioso, non può essere sottovalutato né stimato come una farsa, dal momento che Ilya Sutskever è uno dei soci fondatori di OpenAI e il padre tecnologico di ChatGPT, mentre Jensen Huang è uno dei soci fondatori e il CEO di Nvidia, la società più capitalizzata del mondo, e la principale produttrice dei processori per i server dei software di intelligenza artificiale. La loro conversazione prende in esame alcuni passaggi storici dell’evoluzione del deep learning, e i successi degli ultimi anni vengono citati come prove di correttezza per gli assunti da cui il lavoro sulle reti neurali è partito – molto in sordina – alcuni decenni fa: il postulato che questa tecnologia riproduca il funzionamento di base del cervello umano, e rispecchi quindi la struttura materiale della mente. Sutskever, come il suo maestro e premio Nobel per la fisica Geoffry Hinton, è convinto che la realizzazione di un’Intelligenza Artificiale Generale (AGI) sia raggiungibile, e forse non sia nemmeno troppo distante. L’analogia tra le reti neurali e il funzionamento del sistema nervoso centrale fornirebbe una prova a favore di questa tesi, e il livello delle prestazioni raggiunto dalle AI generative trasformative, come ChatGPT, conferma questa suggestione. Vale la pena di approfondire allora in che modo si comporterebbe l’intelligenza umana che Sutskever propone come modello per l’AGI, e in che modo il software di OpenAI la starebbe emulando. Dopo mezz’oretta di chiacchiere Huang e il suo interlocutore arrivano al punto, evocando il fantasma dell’investigatore nei romanzi gialli.
PREDIZIONI LESSICALI
Il discorso dell’ispettore deve permetterci di comprendere anche il modo in cui afferra la verità Newton nel suo laboratorio di fisica, Tommaso d’Aquino nello sviluppo di una questio, o chiunque di noi mentre risponde ad una mail di lavoro.
Nelle battute precedenti dell’intervista, Sutskever chiarisce i principi del funzionamento di ChatGPT e delle altre intelligenze artificiali generative trasformative. Gli zettabyte di dati disponibili online confezionano un archivio di testi per il training delle reti neurali, che agevola il loro compito di individuare le correlazione tra i vocaboli: durante una vita intera, ognuno di noi entra in contatto con circa un miliardo di parole, mentre il volume di quelle censite nelle banche dati delle AI è di un ordine di decine di migliaia maggiore. Lo scopo di questo lavoro del software è identificare lo spazio semantico di ogni lemma, classificandolo sulla base delle «compagnie che frequenta»: per esempio, in italiano la parola |finestra| appare con maggiore probabilità accanto a |casa| e a |porta|; con probabilità di due terzi inferiore occorre accanto a |tempo|, che figura comunque con il doppio della probabilità di |programma|, a sua volta due volte più probabile di |applicazione| e di |giorni|. La frequenza dei termini che si succedono a breve distanza nelle stesse frasi insegnano che |finestra| può riferirsi a un elemento architettonico, a un ambiente di interazione informatico, a un periodo cronologico. Un esame ricorsivo su ciascuna parola permette di ricavare un modello di calcolo che assegna ogni termine ad una famiglia di probabilità di apparizione accanto ad altri lemmi: ogni contesto lessicale viene rappresentato da un vettore nello spazio multidimensionale, che analizza le modalità con cui la parola è stata applicata nei testi dell’archivio.
Quando il software dialoga con l’utente umano, la mappatura delle correlazioni che governano le possibili occorrenze delle parole diventa la matrice da cui viene derivata la composizione delle frasi e del testo generato dall’AI. Sutskever rivendica con fierezza il miglioramento della capacità di ChatGPT-4, rispetto alle versioni precedenti, di predire con correttezza quale debba essere il termine da stampare dopo quello appena scritto. Il compito che viene eseguito dal programma, ogni volta che interagisce con il prompt dell’utente, è partire dalle parole che l’essere umano ha imputato nella domanda e calcolare, uno dopo l’altro, quali sono i vocaboli che deve allineare nelle proposizioni che costituiscono la risposta.
L’immagine dell’intelligenza che viene restituita da questa descrizione somiglia in modo preoccupante a quella di un «pappagallo stocastico», un ripetitore meccanico di termini appresi a memoria, senza alcuna idea di cosa stia dicendo. Ma questo ritratto contrasta sia con il vaticinio di un avvento prossimo dell’AGI, sia con il programma di una migliore comprensione del funzionamento della mente umana, che si trova alla base della carriera di Sutskever fin dagli esordi in Europa. Il modello dell’ispettore e dell’agnizione del colpevole al termine della sua ricostruzione dei fatti e delle testimonianze serve ad aggirare questo fastidio. Il discorso conclusivo dell’investigatore deve convergere verso la predizione di una parola, che si trova alla fine della sua dissertazione, e deve coincidere con il nome del vero assassino.
COS'È LA VERITÀ
Nell’argomentazione dell’ispettore la parola conclusiva è un enunciato che racchiude, nel riferimento ad uno specifico individuo, un intero orizzonte di verità, in cui si svela l’autentico significato di relazioni personali, di comportamenti, di dichiarazioni precedenti, di indizi reali e presunti. In questa eccezionalità si racchiude la suggestione del modello evocato da Sutskever, che nella predizione di un solo nome concentra una storia intera, insieme al successo del metodo empirico di inadagine, e a quello della corrispondenza tra linguaggio e realtà. Dal suo punto di vista il tipo di conoscenza, che si dispiega nella sequenza di parole con cui si raggiunge l’enunciazione del nome dell’assassino, equivale alla forma piena del sapere che può essere elaborata e conquistata dagli esseri umani, dagli anonimi sciamani nelle caverne di Lescaux a Platone, a Tommaso d’Aquino, a Newton. ChatGPT predice di volta in volta la parola che deve occorrere dopo quella appena stampata, come l’investigtore arriva a pronunciare il nome dell’assassino – e questo è tutto quello che si può dire dal punto di vista scientifico e tecnologico sull’intelligenza.
Ho già discusso qui il sospetto che la rete neurale, (in cui ogni unità di calcolo entra in competizione con tutte le altre nella sua conoscenza limitata, e in cui solo il sistema nella sua totalità può disporre di un sapere completo sulla realtà) sia la rappresentazione della struttura neoliberista della società in cui vengono progettati questi dispositivi, più che una proiezione della struttura cerebrale: non insisto quindi su questo tema.
Per quanto riguarda la teoria della verità e la teoria del linguaggio sottesa alle convinzioni di Sutskever, è opportuno che chi è stato battezzato con un nome toccato in sorte di frequente ad assassini e delinquenti di vario genere, provveda a modificare la propria identità all’anagrafe, o ad allestire manovre di sabotaggio preventive, perché i detective artificiali mostreranno una certa inclinazione a imputargli ogni genere di crimini. Pregiudizi in fondo non molto differenti hanno contribuito, con giudici e agenti di polizia umani, a riempire le carceri americane di detenuti neri.
Ironie a parte, è curioso constatare la svolta epistemologica in corso negli ambienti tecnologici di chi si occupa di scienze della mente. Dopo decenni di stretta osservanza chomskyana, per cui i principi del linguaggio sarebbero cablati nel cervello e sarebbero quindi uguali per tutti gli esseri umani, la passione per l’AGI sta risvegliando l’interesse per la cosiddetta «ipotesi Sapir-Whorf» (2), con un’interpretazione molto più radicale di quella cui avrebbero assentito i due linguisti eponimi. Per Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf la percezione della realtà e il pensiero vengono informati dalle categorie grammaticali e semantiche della lingua parlata dalla comunità; ma la tesi sostenuta da Sutskever (e di fatto condivisa da tutti coloro che riconoscono in ChatGPT l’imminenza dell’AGI) è che la distribuzione statistica delle parole, e la loro linearizzazione in un discorso, esauriscano tutto quello che possiamo sapere sull’intelligenza. La macchina del linguaggio, con la sua struttura sintattica, ma soprattutto con l’archivio dei testi depositati nella tradizione storica, è il dispositivo che produce la nostra percezione della realtà e che genera ogni nuovo enunciato sulla verità, dagli imbonitori nei mercati rionali ai paper dei premi Nobel.
La metafora dell’investigatore chiarisce che il meccanismo funziona solo entro il perimetro di vincoli piuttosto rigidi. Il poliziesco è un genere letterario con assiomi ontologici forti, che includono categorie prive di ambiguità – vittima, colpevole, movente, arma, esecuzione, complice, ispettore, sospettati, innocenti, testimonianze, indizi, prove, spiegazione razionale. Il conflitto di classe, il dibattito sul sistema penale, il rapporto tra potere e scienza, il concetto di individualità, di responsabilità, di causalità, sono tutti elementi che ricadono al di fuori del contratto enunciativo che si stabilisce tra narratore e lettore. Allo stesso modo, nel quadro teoretico che sostiene la tesi di Sutskever, la possibilità che l’intelligenza si interroghi sulle premesse e sugli obiettivi dei problemi è esclusa, a vantaggio di una visione puramente strumentale del pensiero: il processo razionale deve individuare i mezzi per raggiungere l’obiettivo (nella metafora, per smascherare l’assassino), senza domandarsi quali sono le ragioni per farlo, o la validità dell’obiettivo, o chiedersi se esista davvero l’assassino e se sia uno solo, se la responsabilità non debba essere distribuita in modo diverso da quello che impone la tradizione.
La tradizione del corpus storico dei testi apre e chiude la possibilità stessa della veridizione, del pensiero, dell’intelligenza: la combinatoria messa in opera dalla macchina statistica che (secondo Sutskever) è il linguaggio non può, e non deve, coniare nuovi significati per vecchi significanti, cercare nuove espressioni per interpretare la società e la realtà attuali. La riproduzione è il senso della generazione, e non ci sono vie d’uscita al labirinto dell’infinita ricombinazione delle parole che significano sempre le stesse cose.
È questa l’intelligenza che vogliamo?
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Fireside Chat with Ilya Sutskever and Jensen Huang: AI Today and Vision of the Future, Nvidia, 22 marzo 2023, ora disponibile alla url: https://www.nvidia.com/en-us/on-demand/session/gtcspring23-s52092.
- Cfr. in particolare Benjamin Lee Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, tr. It. a cura di Francesco Ciafaloni, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
Enrico Fermi e il premio Nobel controverso
Grazie a un intervento di Carlo Rovelli sul Corriere della Sera sul tema della Bomba Atomica, è tornata alla ribalta una controversia scientifica degli anni ’30 sulle motivazioni del premio Nobel a Enrico Fermi, che assume – rileggendola oggi - risvolti di genere e politici.
Il tema principale della controversia è, appunto, se l’attribuzione del premio Nobel a Enrico Fermi nel 1938 sia giustificata oppure sia stata un errore; di questo parere fu, pochi mesi dopo la consegna del premio, la chimica tedesca Ida Noddack.
Nella puntata della Serie “La bomba atomica” di Rovelli – che aderisce al “partito dell’errore” e al punto di vista di Ida Noddack, e sostiene che la posizione della chimica tedesca sia stata trascurata perché chimica e perché donna - ha dato il via, con molte risposte di fisici e accademici italiani, a una ulteriore controversia, sulla figura di Fermi stesso, dal punto di vista scientifico e morale [1].
LA CONTROVERSIA SUI DUE NUOVI ELEMENTI AUSONIO E ESPERIO
Tralasciando la discussione sulla statura scientifica e morale di Enrico Fermi, proviamo a sintetizzare i termini della discussione sul Nobel – che avvenne a distanza ed ebbe, effettivamente – ben poca risonanza.
Il Nobel per la fisica del 1938 fu assegnato a Fermi perché aveva scoperto – nel 1934 – la radioattività artificiale. Nella motivazione si parla della possibilità di frammentare gli elementi più pesanti della tavola periodica attraverso il bombardamento con neutroni; in sostanza, della fissione nucleare. Associato a questo fenomeno, si legge sempre nella motivazione, ci sono: l’emissione di radiazioni, sotto forma di nuclei di elio e di idrogeno; la generazione di isotopi radioattivi degli elementi bombardati; e – nel caso del bombardamento dell’uranio (che ha numero atomico 92) la probabile produzione di due nuovi elementi, con peso atomico 93 e 94.
Il punto cruciale della controversia è questa ultima “probabile” scoperta: la generazione dei due nuovi elementi, chiamati da Fermi e dai “Ragazzi di via Panisperna” Ausonio e Esperio, antichi nomi dell’Italia preromana.
Fermi e alcuni dei suoi collaboratori furono molto prudenti, non garantiscono la sicurezza defiitiva della produzione dei due elementi; fu Orso Maria Corbino, ex-fisico e ex-senatore del Regno, noto per la sua capacità di cogliere le potenzialità applicative delle scoperte scientifiche ad annunciare la scoperta come certa, all’Accademia dei Lincei; la scoperta fu poi caricata di valore simbolico e politico dalla stampa fascista.
Nel settembre del 1938, Ida Noddack, con un articolo pubblicato sulla Zeitschrift fur Angewandte Chemie (Rivista di Chimica Applicata), contesta che 1) il metodo applicato da Fermi sia corretto dal punto di vista chimico, che 2) sia effettivamente possibile produrre i due nuovi elementi in quel modo e che 3) le osservazioni effettuate ne provino l’effettiva presenza.
Noddak è molto precisa e circostanziata nella sua critica e – nello stesso tempo – molto corretta nel riconoscere a Fermi la prudenza con cui ha dichiarato la possibile scoperta dei due elementi e nell’attribuire la risonanza di questa scoperta ai media del tempo.
E, inoltre, non contesta null’altro dello studio di Fermi e dei suoi colleghi.
CONCLUSIONE DELLA CONTROVERSIA
La controversia non ebbe seguito, evidentemente, poiché il 10 dicembre dello stesso anno il Professor H. Pleijel, Chairman del Comitato Nobel per la Fisica della Royal Swedish Academy of Sciences, pronuncia il discorso di conferimento del premio che include anche la scoperta di Ausonio e Esperio.
Ida Noddack non ebbe modo – nonostante ne avesse i mezzi tecnici – di provare con certezza e sul campo che la sua contro-ipotesi fosse corretta.
Di fatto, è molto probabile che Noddack avesse ragione e che la presenza di isotopi 93 e 94 fosse poco più che casuale, difficilmente correlabile all’esperimento, nel mezzo di una quantità – questa indiscutibile – di prodotti della fissione indotta dal bombardamento neutronico.
I due elementi con peso atomico 93 e 94 furono prodotti poi dal ciclotrone del Lawrence Berkeley National Laboratory dell'Università della California, nel 1940, e chiamati con i nomi di Nettunio e Plutonio (di quest’ultimo fu trovata per la prima volta negli anni settanta la presenza allo stato naturale in Canada).
PRESUNTE QUESTIONI DI GENERE E DI CHIMICA
L’articolo di Rovelli avanza l’ipotesi che questa conclusione della controversia – a favore di Fermi - sia stata dettata da due pregiudizi, il primo di genere e il secondo disciplinare: secondo l’autore la contestazione di Noddack è stata trascurata perché lei era donna e perché era una chimica.
Entrambe le questioni sono degne di considerazione, poiché negli anni ’30 vigeva un deciso atteggiamento maschilista, nelle scienze e ancora di più nella società comune, con accenti ancora più pronunciati in Italia e in Germania, sotto le dittature nazi-fasciste; e poiché quelli erano gli anni in cui la fisica sembrava essere la scienza per eccellenza, anche se i lavori di Fermi e della sua squadra poggiavano su basi chimiche importanti.
Tuttavia, si può sollevare qualche dubbio su una di queste interpretazioni, infatti, Ida Noddack era una chimica di fama, a 26 anni ottenne un posto di visiting scientist nel prestigioso Istituto Fisico-Tecnico di Berlino, con il marito Walter Noddack pubblicò più di 100 articoli scientifici, insieme a lui e a Otto Berg scopre gli elementi con numero atomico 43 e 75, e nel 1931 fu premiata con la medaglia Liebig per la scoperta del Renio e fu candidata al Nobel 4 volte, oltre che essere riconosciuta dal suo gruppo di lavoro, composto da tutti maschi oltre a lei, come la mente e l’ispiritratrice di buona parte dei loro lavori.
Quello di Noddack non sembra, quindi, essere il profilo di una cenerentola della scienza; al contrario, Ida Noddack potrebbe a buon titolo essere considerata un esempio di scienziata che ha ricevuto attenzione e riconoscimento per il suo lavoro, in netta controtendenza rispetto al clima politico e culturale in cui si trovava a lavorare.
Interpretare la prevalenza dell’ipotesi di Fermi come l’effetto di un pregiudizio di genere sembra, quindi, essere azzardato, se non strumentale e finalizzato a collocare nel fil rouge, in voga oggi, delle discriminazioni di genere [2] una vicenda che – a nostro avviso – ha tutt’altro sapore.
POSSIBILI INFLUENZE POLITICHE SULLA DETERMINAZIONE DELLA CONTROVERSIA
La controversia tra Fermi e Noddack, in realtà, sembra essere stata di fatto sommersa, poiché Noddack si limitò a pubblicare l’articolo citato, senza dare seguito alla questione, articolo che probabilmente passò inosservato anche agli stessi scienziati coinvolti nella questione.
Se, al contrario, avesse avuto pubblicità e seguito, sembra fuori di dubbio che avrebbe potuto essere una controversia decisamente di sapore scientifico, giocata sul filo della validità del nesso causale tra struttura sperimentale e presenza degli elementi 93 e 94.
Causalità su cui lo stesso Fermi – come abbiamo già visto – sembrò essere molto prudente e, forse, dubbioso. Ma che fu data per certa dai media italiani, alimentati da O. M. Corbino.
Nel contesto politico degli anni ’30 del XX secolo, infatti, una scoperta comprensibile a tutti come quella di nuovi elementi portava onore alla scienza italiana e al regime; i nomi scelti, Ausonio e Esperio, erano in linea con la retorica romanizzante; l’ambiente accademico tedesco, già in piena fase di nazistizzazione (Heidegger, ricordiamolo, si iscrisse al Partito Nazional Socialista nel 1933), non era certamente favorevole a contrastare il successo scientifico e mediatico dell’alleato italiano.
Questa, a nostro avviso, potrebbe essere la chiave di lettura della risoluzione a favore di Fermi, con l’interpretazione certa della scoperta di Ausonio e di Esperio tra i risultati sperimentali di Fermi e – di conseguenza – sull’inserimento anche di questa tra le motivazioni del Nobel.
NOTE:
[1] Per chi volesse approfondire questa discussione, ecco alcuni link a interventi significativi:
- Commento della Prof.ssa Angela Bracco all’articolo del Prof. Carlo Rovelli su Enrico Fermi. https://associazioneitaliananucleare.it/commento-della-prof-ssa-angela-bracco-allarticolo-del-prof-carlo-rovelli-su-enrico-fermi/
- A. Zaccone, From physicist to physicist: Rovelli, you are wrong about Fermi, https://www.researchgate.net/publication/394926645_From_physicist_to_physicist_Rovelli_you_are_wrong_about_Fermi
- Lettera del prof. Ambrosini, membro del Direttivo AIN, in risposta al Prof. Rovelli su Enrico Fermi, https://associazioneitaliananucleare.it/lettera-del-prof-ambrosini-membro-del-direttivo-ain-in-risposta-al-prof-rovelli-su-enrico-fermi/
- Ugo Amaldi, Riccardo Barbieri, Giorgio Capon, Luciano Maiani, Monica Pepe Altarelli, La vera eredità di Enrico Fermi. Una risposta a Rovelli, https://normalenews.sns.it/la-vera-eredita-di-enrico-fermi-una-risposta-a-rovelli
[2] Si veda, ad esempio, G.M. Santos, A tale of oblivion: Ida Noddack and the 'universal abundance' of matter, DOI:10.1098/rsnr.2014.0009
La “reazione all’oggetto” - Una distorsione in cui (almeno) i politici non dovrebbero cadere.
La “reazione all’oggetto” è un fenomeno (molto?) noto a chi si occupa di costruzione dei questionari. Consiste nel fornire un’opinione che non si basa sul contenuto di una affermazione - sulla reazione a una dichiarazione - ma sull’autrice (in questo articolo viene usato il femminile sovraesteso. Ne abbiamo già parlato qui, qui e qui) della stessa. È un processo inferenziale di tipo cognitivo-emotivo, in cui incorriamo quasi quotidianamente: ascoltando dichiarazioni, sentendo pettegolezzi oppure leggendo notizie su eventi accaduti, spesso ci chiediamo: “chi l’ha detto?”. Siamo, cioè, più interessate alla fonte (l’emittente) che al contenuto del messaggio (enunciato). A volte questo è fondamentale, perché ci fa essere più caute nell’accettare un contenuto. Ma non è sempre bene agire così, dal momento che il contenuto potrebbe essere vero, anche se la fonte ha scarsa legittimazione. Ma non è questo il caso che voglio trattare.
DALLA METODOLOGIA…
La “reazione all’oggetto” è un processo cognitivo abbastanza ovvio, che però è rimasto a lungo ignorato nella letteratura metodologica. Quest’ultima aveva solo evidenziato che alcuni termini (come ad esempio ‘comunismo’, ‘democrazia’, ‘capitalismo’ ecc.) provocavano negli intervistati reazioni emotive che diventavano fonte di distorsione. Erano termini loaded, cioè carichi emotivamente (Kahn e Cannel 1957).
Invece a metà degli anni Ottanta, il metodologo ed epistemologo Alberto Marradi, ascoltando le registrazioni di interviste in cui Salvatore Cacciola somministrava delle scale Likert, scoprì che “una quota cospicua di interrogati non reagisce alle affermazioni, ma ai personaggi, alle azioni, alle situazioni menzionate dalle affermazioni stesse” (Cacciola e Marradi 1988, 86). Marradi battezzò ‘reazione all’oggetto’ questo fenomeno.
La prima forma di reazione all’oggetto, la più facilmente individuabile, si manifesta quando la frase esplicitamente o implicitamente disapprova un comportamento, un’azione o una situazione, che anche l’intervistata disapprova. Lei dovrebbe quindi dichiararsi d’accordo con la frase; invece, inaspettatamente, si dichiara in disaccordo, e solo dai suoi commenti (quando ci sono e sono registrati) si scopre che il disaccordo non riguarda l’affermazione in sé, bensì i personaggi o comportamenti descritti dall’affermazione (Cacciola e Marradi 1988, 87). Un esempio è il seguente: di fronte alla frase “Gli assenteisti sbandierano problemi di salute, ma sono soltanto dei fannulloni”, l’intervistata sceglie la categoria-Likert “del tutto in disaccordo” e poi commenta “Dovrebbero lavorare, non assentarsi dai propri posti di lavoro. Sono in disaccordo con gli assenteisti”.
Una seconda forma di reazione all’oggetto si produce quando la frase disapprova un personaggio o un comportamento che invece l’intervistata approva. Lei dovrebbe quindi dichiararsi in disaccordo con la frase; invece, si dichiara d’accordo e solo dai suoi commenti si scopre l’incongruenza (1988, 88). Ecco un caso: la frase dice “I sindacati italiani fanno troppa politica e così non possono fare gli interessi dei lavoratori”. Un intervistato, dopo aver assegnato (inaspettatamente) su tutte e tre le tecniche punteggi di moderato accordo, dichiara: “No, io dico che i sindacati hanno portato dei miglioramenti, che se non c’erano era peggio. Io mi ricordo, tempo del Duce, che i sindacati non c’erano; dopo, che si sono potuti fare, c’è stato un bel miglioramento. Io dico che non sono la rovina d’Italia”. (esempio riportato in Sapignoli 1992, 112).
… AL PROBLEMA DEL TESTIMONIAL…
Questa distorsione si accresce quando le intervistate vengono chiamate a reagire a frasi affermate da persone molto note, come ad esempio il Papa, la Prima Ministra, il Presidente della Repubblica o altri personaggi famosi, non importa se politiche, artiste, scienziate ecc. Anche in questo caso le intervistate prestano poca attenzione alla frase detta dalla testimonial e reagiscono (dichiarandosi d’accordo o in disaccordo) al personaggio stesso. Per cui se vogliamo conoscere il parere (non distorto) delle persone, dovremmo mettere la frase senza farla dire a qualcuna. Ad esempio, somministrare la domanda: “Alcuni dicono che l’eutanasia è un omicidio? Lei è d’accordo o in disaccordo?”, anziché la domanda “Il Papa ha detto che l’eutanasia è un omicidio? Lei è d’accordo o in disaccordo?”.
… ALLA POLITICA
In seguito alle dichiarazioni del presidente francese Macron, che non escludeva l'ipotesi di invio di truppe Nato in Ucraina, sottolineando che bisogna fare "tutto il necessario per garantire che la Russia non possa vincere questa guerra", il 20 agosto, il vice-premier Matteo Salvini ha dichiarato: "A Milano si direbbe taches al tram: attaccati al tram. Vacci tu se vuoi. Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina".
In Italia sono pochi i partiti di opposizione che si sono espressamente dichiarati contrari a mandare armi e soldati in Ucraina. Fra questi il M5S e AVS (Alleanza Verdi e Sinistra).
Ebbene, davanti a una presa di posizione così netta da parte di un importante esponente dell’attuale Governo, ci si sarebbe aspettati un plauso del tipo: “Finalmente un esponente del Governo la pensa come noi” oppure “auspichiamo che la posizione di Salvini trovi ascolto nel governo”.
Invece no. Le reazioni sono state ben diverse.
Angelo Bonelli di AVS ha attaccato dicendo che “Salvini è il vicepremier e se lo dimentica sempre e conseguentemente usa un linguaggio volgare non adeguato al ruolo che riveste. Meloni dovrebbe insegnare o quanto meno ricordare a Salvini come ci si comporta e pertanto dovrebbe censurare le parole del suo vicepremier che hanno provocato un incidente diplomatico tra Italia e Francia”. Poi continua “che i militari italiani non debbano andare in Ucraina è fuori discussione ma con il linguaggio da osteria, Salvini dimostra di non essere adeguato al ruolo che ricopre”.
Meno drastico, ma comunque contorto, l’intervento di Stefano Patuanelli, capogruppo al Senato del M5S, in un punto stampa a margine della sua partecipazione al Meeting di Rimini, il 24 agosto: “… non è soltanto da oggi che il Ministro Tajani e il Ministro Salvini hanno una dialettica piuttosto aspra e contrapposta rispetto ai temi della politica estera. Non mi sorprendono neanche i toni di Matteo Salvini, perché siamo abituati a quel tipo di linguaggio. Come ho detto prima, credo che non sia soltanto Macron che sta in questo momento sta interferendo in un percorso di pace, ma siano la maggior parte dei leader europei, compresa Giorgia Meloni. Le parole che Matteo Salvini ha rivolto a Macron potremmo rivolgerle tranquillamente anche alla premier".
Questi autorevoli esponenti dei due partiti, anziché reagire al contenuto delle dichiarazioni di Salvini hanno reagito al dichiarante (Salvini), al testimonial.
Ma se è comprensibile che in questa distorsione cognitivo-emotiva possano cadere delle intervistate, le persone che fanno politica dovrebbero essere più avvertite. In altre parole, quale scopo si prefiggono di raggiungere? L’affermazione della loro identità (partitica) oppure l’obiettivo di depotenziare sempre più l’ipotesi di inviare truppe in Ucraina?
Purtroppo, questo è solo uno delle centinaia di casi in cui esponenti politiche si comportano strumentalmente: criticare sempre qualunque cosa dica o faccia (saggia o meno, condivisibile o meno) l’avversaria politica.
Ma allora, che credibilità possono avere politici che usano la reazione all’oggetto al posto del discernimento?
Tassonomia di guerra - Quasi
1. QUASI- IN MATEMATICA
Quasi, per i matematici è un termine estremamente preciso, che si applica, perlopiù, agli spazi in cui una proprietà matematica è valida.
Per fare un esempio, una funzione è quasi-continua o continua quasi-ovunque, se essa è continua (non ha interruzioni) in tutto il suo spazio di applicazione tranne che in una parte di quello spazio che abbia misura nulla, o su un insieme finito di punti la cui misura sia nulla.
Proviamo a rendere questo concetto più semplice: se una proprietà vale quasi ovunque, questo significa che i luoghi in cui non vale non hanno rilevanza; per un matematico, se una persona di 65 anni è quasi anziana, significa che è da considerarsi anziana sempre e ovunque, tranne per quei pochi luoghi del globo in cui si vive mediamente per 150 anni. Oppure – per metterla in termini relativistici – in un riferimento, una nave spaziale per esempio. che si muove a velocità vicina a quella della luce.
Bisogna ammettere che i matematici si capiscono bene e difficilmente possono trovarsi in disaccordo nell’interpretazione di validità quasi ovunque di una proprietà.
Come abbiamo più di una volta suggerito (qui, e qui), l’accordo sul significato di un termine è fondamentale per comprendere di che si parla e di quale sia il contesto in cui ci si appresta a prendere posizione e ad agire.
2. QUASI, NEL LINGUAGGIO COMUNE
Quasi, nel parlare di tutti i giorni è termine molto meno definito che in matematica: può significare «Circa, pressappoco, poco meno che» (Treccani), imprimendo una accezione di compiutezza non ancora avvenuta ma molto vicina ad esserlo; può – invece - essere usato in maniera paradossale: “Giovanni non è stato quasi bocciato” che sottintende che Giovanni avrebbe dovuto essere bocciato ma invece ha passato l’esame, per un caso; ovvero in modo perlocutorio: “siamo quasi arrivati”, detto da un amico all’altro sul treno, stimola quest’ultimo – magari assorto in una lettura - ad alzarsi e a preparare le proprie cose per scendere ed evitare di trovarsi in un altro paese. È la componente chiave di un atto linguistico che mira ad avere un effetto sull’ascoltatore. Può anche essere usato al negativo: “non ho quasi mangiato”, che significa che ho mangiato poco più che nulla, molto meno di quanto avrei desiderato.
3. QUASI, DA PIÙ DI DIECI ANNI
Il leader del governo dello Stato di Israele sostiene da più di 10 anni che gli scienziati militari iraniani siano quasi arrivati a produrre bombe atomiche, il cui ovvio destino – secondo Netanyahu – è di cadere sullo Stato di Israele.
Giovanni De Mauro, sulle pagine di Internazionale, ci ricorda che Netanyahu lo dice nel 1992, «Entro tre o cinque anni possiamo presumere che l’Iran diventerà autonomo nella sua capacità di produrre una bomba nucleare », lo ripete due volte nel 1995, « l’Iran impiegherà dai tre ai cinque anni per avere quello che serve a produrre armi nucleari» e nel 2006 azzarda una previsione numerica:« l’Iran si sta preparando a produrre venticinque bombe atomiche all’anno»; nel 2009 dichiara che gli iraniani quasi ci sono, hanno «la capacità di fabbricare una bomba» oppure potrebbero «aspettare e fabbricarne più d’una nel giro di un anno o due»; nel 2012 il tempo necessario a fare la bomba sono pochi mesi, forse settimane; nel 2018 parla di «molto rapidamente»; il 13 giugno 2025, annunciando l’attacco agli impianti iraniani il tempo necessario per la produzione di un’arma nucleare è «pochissimo».
Il leader israeliano usa una nozione molto ampia e proteiforme del quasi temporale: da 2-5 anni a settimane a pochissimo tempo; e il suo uso è sia locutorio – constata e condivide l’informazione, con il sottinteso del pericolo imminente – che perlocutorio, è un invito a non lasciar passare altro tempo prima di prendere provvedimenti contro la possibilità che il nemico giurato produca il temibile ordigno.
La perlocuzione, nel 1992 non è neanche tanto sottile: «Questa minaccia deve essere sventata da un fronte internazionale guidato dagli Stati Uniti».
4. QUASI, AL 60%
12 giugno 2025. Il Board della Aiea, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – fondata per favorire l’uso pacifico dell’Energia Atomica, a supporto di salute e di prosperità in tutto il mondo, e per vigilare che i materiali e le tecniche nucleari non siano usate per scopi militari (oltre quanto non sia già stato fatto, tana liberi tutti) – dichiara che l’Iran è sul punto di rompere i trattati di non proliferazione poiché ci sono prove che la nazione medio-orientale abbia arricchito una parte delle sue riserve di uranio al 60%, quasi al livello del 90%, utile per produrre una arma atomica, una bomba all’uranio fissile.
L’affermazione della Aiea sembra essere fondata su prove concrete e la dimensione della violazione dei trattati sulla non-proliferazione sembra essere palese, anche alla luce della quantità di uranio, alcune centinaia di chilogrammi - arricchito al 60% - quasi al 90% - che l’Aiea sostiene sia pronto nei siti nucleari iraniani, sufficiente per preparare 4-5 bombe.
Il quasi della Aiea è il catalizzatore della reazione: nel giro di poche ore Israele bombarda tutti i siti di produzione nucleare per tentare di neutralizzare la quasi-minaccia atomica nemica e pochissimi giorni dopo, il 21 giugno, il coinvolgimento americano auspicato da Netanyahu diventa realtà. I bombardieri B2 sorvolano i cieli iraniani e lanciano bombe bunker buster – capaci di colpire in profondità - sugli stessi siti già colpiti dagli israeliani.
L’atto locutorio, informativo, della AIEA, con quel quasi che sembra essere avvolto dall’aura scientifica e dalla neutralità dello scopo di vigilanza dell’Agenzia, si rivela un atto fortemente perlocutorio, i cui effetti sono gli attacchi israeliani e americani.
La forza scatenante del quasi della Aiea risiede anche nel non detto, nella dimensione implicita della locuzione informativa e scientifica: il 60% per un matematico non è quasi il 90%, le due percentuali sono separate da un significativo 30%, eppure è stato detto come se fosse un quasi di linguaggio comune, tacendo il fatto che – seppure in alcune settimane o mesi quell’uranio avrebbe, forse, potuto essere arricchito al 90% - non è noto se l’Iran possieda o meno le tecnologie per farne davvero un’arma atomica.
Un quasi, quindi, perlocutorio al punto da scatenare una guerra.
5. QUASI, I RISULTATI DELL’ATTACCO
Cosa ne è stato, dei siti nucleari iraniani, dopo gli attacchi americani, dopo il Midnight Hammer?
Secondo il Presidente USA, D. Trump, l’attacco ha obliterato la produzione nucleare iraniana; secondo il Segretario alla Difesa Pete Hegseth, i bombardamenti hanno «devastato» il programma nucleare iraniano; secondo la stessa AIEA potrebbero non esserci stati danni rilevanti agli impianti e, con molta probabilità, l’uranio arricchito era stato spostato altrove prima dell’arrivo delle bombe americane.
Si può dire che l’operazione isreaeliano-americana mirata a fermare la quasi-produzione di bombe atomiche da parte dell’Iran, sia stata quasi un successo.
Tassonomia di guerra - Diritto di Autodifesa
1. PREMESSA
Molti termini e concetti di uso quotidiano – in particolare quando si parla di guerre e conflitti - come ha già scritto Giampietro Gobo (qui e qui) «hanno in comune lo stesso problema: prima di rispondere (aprir bocca) bisognerebbe definire con chiarezza che cosa si intende». Il diritto di autodifesa è certamente uno di questi.
L’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite rappresenta una delle disposizioni più dibattute del diritto internazionale contemporaneo. Esso riconosce il diritto naturale degli Stati all’autodifesa in caso di attacco armato, configurandosi come eccezione al divieto generale dell’uso della forza sancito dall’art. 2(4). La tensione tra sicurezza nazionale e legalità internazionale ha alimentato un dibattito giuridico e politico che si è intensificato alla luce di recenti crisi, come quelle in Ucraina e nella Striscia di Gaza.
2. STRUTTURA E FUNZIONE DELL’ARTICOLO 51
Il testo dell’articolo 51 recita: «Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fino a che il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali.»
Questa clausola assume la funzione di deroga condizionata al divieto dell’uso della forza. La sua applicazione è subordinata a tre criteri fondamentali:
- Attacco armato effettivo come presupposto giuridico;
- Temporalità dell’autodifesa, limitata all’intervento del Consiglio di Sicurezza;
- Rispetto dei principi di necessità, proporzionalità e notifica.
Tali condizioni sono state progressivamente consolidate nella giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia (CIG), in particolare nella sentenza Nicaragua vs. Stati Uniti (1986).
3. LEGITTIMITÀ DELL’AUTODIFESA: CHI DECIDE?
Nel sistema internazionale manca un’autorità centralizzata con competenza vincolante ex ante sull’uso della forza. Le valutazioni di legittimità si articolano su tre livelli:
- il livello del Consiglio di Sicurezza ONU: è formalmente deputato a qualificare atti di aggressione (art. 39), ma è spesso paralizzato dal veto dei membri permanenti;
- quello della Corte Internazionale di Giustizia: la CIG ha delineato i confini normativi dell’articolo 51, ribadendo la necessità di un attacco armato, la proporzionalità della risposta e l’obbligo di notifica. Tuttavia, la sua giurisdizione è volontaria;
- quello delle Soft law e delle valutazioni politiche: si tratta di risoluzioni non vincolanti, dichiarazioni di ONG e organismi regionali contribuiscono alla costruzione di una legittimità percepita, sebbene priva di effetti giuridici diretti.
4. CRITERI INTERPRETATIVI: IMMEDIATEZZA, PROPORZIONALITÀ E PREVENZIONE
Immediatezza: La reazione armata deve seguire l’attacco senza ritardi ingiustificati, per evitare la degenerazione in rappresaglia. Tuttavia, la prassi mostra una crescente flessibilità temporale.
Proporzionalità: La risposta deve essere calibrata rispetto alla minaccia, non necessariamente simmetrica nei mezzi. Il principio è soggetto a interpretazioni divergenti e spesso politicizzate.
Autodifesa Preventiva: La teoria dell’autodifesa anticipata, fondata sul caso *Caroline* (1837), richiede una minaccia “istantanea, travolgente, senza scelta di mezzi e senza tempo per la deliberazione”. Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno ampliato il concetto di “imminenza”, giustificando interventi contro minacce latenti (es. Iraq 2003). La comunità internazionale, tuttavia, non ha accolto unanimemente questa estensione, e la CIG continua a rigettare l’autodifesa contro minacce potenziali.
5. DUE CASI SOTTO AGLI OCCHI DI TUTTI
Ucraina (2022): l’invasione russa è stata giustificata da Mosca come intervento protettivo per la popolazione del Donbass. L’Ucraina ha notificato l’attivazione dell’articolo 51 il giorno stesso. La comunità internazionale ha riconosciuto l’esistenza di un attacco armato, legittimando le forme di autodifesa collettiva. Tuttavia, permangono dubbi sulla proporzionalità delle risposte militari.
Israele e Hamas (2023): l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha causato oltre 1.200 vittime civili. Israele ha reagito invocando il diritto all’autodifesa. La risposta militare, estesa e con elevato impatto sulla popolazione civile, ha sollevato interrogativi sulla proporzionalità e sul rispetto del diritto internazionale umanitario. Il caso evidenzia le difficoltà interpretative dell’articolo 51 in contesti di conflitto asimmetrico e urbano.
5. CONCLUSIONI
L’articolo 51 rimane un pilastro del sistema di sicurezza collettiva, ma la sua applicazione è segnata da ambiguità normative e da una forte politicizzazione. In particolare:
- le valutazioni di legittimità sono condizionate da equilibri geopolitici;
- i criteri giuridici sono suscettibili di estensioni ad hoc;
- la teoria dell’autodifesa preventiva rischia di erodere il principio del divieto dell’uso della forza.
Sarebbe auspicabile un dibattito accademico, politico e diplomatico che, pur riconoscendo le esigenze di sicurezza, riaffermi la centralità del diritto positivo e la necessità di un controllo multilaterale sull’uso della forza.
Il dogma della costruzione dal basso
(Avviso ai naviganti, questo è un articolo pre vacanze, diversamente serio)
Chi segue il calcio sa benissimo cos’è la costruzione dal basso. Provo a spiegare per chi non segue questo sport; la questione infatti è più seria di quel che si potrebbe pensare…
Bene, tutte e tutti coloro che hanno guardato calcio e giocato anche ai livelli più infimi (e divertenti), sanno cosa succedeva fino a pochi anni fa quando la palla arrivava al portiere.
Costui aveva due opzioni per far riiniziare il gioco: passare la palla ad un giocatore della propria squadra posizionato abbastanza vicino e senza giocatori avversari nei dintorni (condizione importante per non crearsi pericoli da soli), oppure tirare un gran calcio in avanti cercando di mandare il pallone il più possibile lontano dalla propria porta e il più possibile vicino alla porta avversaria.
L’obiettivo di questa seconda opzione era chiaro; da lì qualcuno avrebbe respinto la palla e con qualche rimpallo fortunato per gli attaccanti della squadra a cui apparteneva il portiere, poteva nascere un’azione da gol subito, senza dover attraversare tutto il campo da gioco e dover superare tanti giocatori avversari.
Logico? Sì. Semplice? Pure.
Ma non si fa più. Anzi, non si può più fare. Chi lo fa è esposto al pubblico ludibrio.
Perché? Perché adesso, se non vuoi passare per zotico e ignorante, il gioco deve ripartire con la “costruzione dal basso”.
L’hanno asserito i nuovi scienziati del gioco del calcio, quelli che, appunto, ci hanno spiegato che il calcio non è un gioco ma una scienza, quelli che per far giocare a pallone 11 giovani usano algoritmi, riprese in 3D, droni e teoremi.
Loro hanno gravemente sentenziato: l’azione deve ripartire dal basso, ovvero il portiere deve passare la palla a un suo difensore, anche se questi è circondato da avversari, e questi, a sua volta, non deve “spazzare” ma deve passare a un compagno, anche se pure lui circondato da avversari. Anzi, ancora meglio, si dimostra maggior coraggio e sprezzo del pericolo! Pertanto, accade spesso di vedere la palla stazionare nell’area di rigore del portiere mentre i difensori (della squadra del portiere) tentano freneticamente a suon di passaggetti di uscire dalla pressione degli avversari.
Chi ha inventato questa immane sciocchezza? Direi lo spagnolo Pep Guardiola, il più famoso e vincente allenatore degli ultimi dieci anni, che però è uomo di grande intelligenza e pure di grande ironia. Peraltro, uomo che ha imparato anche dal più ruspante e meno incline ai sofismi degli allenatori italiani, quel Carletto Mazzone che è stato un grandissimo ed era lontano anni luce dal prototipo dell’allenatore scienziato. Uno, Mazzone, che amava i giocatori di talento, mentre gli scienziati amano solo gli schemi e i dogmi.
Pep la costruzione dal basso se l’è inventata per due motivi: uno certo, ha sempre allenato squadre di fenomeni, giocatori dotati di un controllo di palla eccezionale; quindi, per lui, la costruzione dal basso aveva un senso. Grazie ai fenomeni l’azione risaliva il campo lentamente, a volte terribilmente lentamente, (il famigerato tiki taka) ma sempre ben in mano ai suoi giocatori, finché questi trovavano lo spazio giusto per l’azione da gol.
Sul secondo motivo non ho alcuna certezza ma un forte sospetto, la costruzione dal basso Pep se l’è inventata anche per prendere in giro i tanti pseudo scienziati di questo gioco, sicuro che l’avrebbero imitato come masse di pecoroni beoti.
E infatti, l’effetto di questa “rivoluzione” è stato che adesso tutti, in tutti i campionati del mondo, in tutte le categorie, si sono adeguati, pena la messa al bando come reazionari, retrivi, inetti.
Nessun portiere osa più rilanciare lontano. Il risultato è che i difensori si ritrovano a palleggiare a pochi metri dalla propria porta con addosso i giocatori avversari e al primo mezzo errore o rimpallo sfortunato è gol… per gli avversari.
Però, nonostante l’evidenza empirica che per fare con efficacia la costruzione dal basso devi avere tutti giocatori di altissima qualità, il dogma impone che lo facciano tutti. Con risultati opposti all’obiettivo e direi anche un po’ patetici.
Ma, mi chiederete, che c’entra tutto questo col declino della civiltà occidentale?
C’entra, c’entra… . L’occidente è percorsa da anni da correnti di pensiero che non è lecito discutere. È così, punto. E se non sei d’accordo o hai qualche timido dubbio sei bollato come antidemocratico, sei un nemico del Progresso (cosa sia il progresso lo decidono “loro”, ovviamente), infine, sei fascista! E su questo cala la pietra tombale, non hai più alcun diritto di replica.
La storia umana è stata sempre percorsa dallo scontro di idee, valori, ideali, ma a me sembra che negli ultimi anni il livello di intransigenza nel voler imporre la propria visione del mondo da parte di gruppi che si sentono investiti dal “possesso della verità” sia enormemente aumentato, di pari passo con la semplificazione rozza dei ragionamenti.
Nessun tema della vita politica, sociale ed economica viene valutato per i suoi contenuti, su nessun tema si prova a costruire una riflessione sulle conseguenze di lungo periodo. Si ragiona per assiomi: da una parte il bene assoluto, dall’altra il male assoluto. La complessità non è contemplata, forse la complessità è anche lei un po’ fascista.
Personalmente non mi riconosco tra quelle persone attaccate a un’idea malinconicamente idilliaca del passato; la nostra civiltà, nonostante tutto, garantisce un livello di vita e di giustizia sociale molto superiore a quella del novecento ante guerra e ancora più indietro.
È certo, però, che i dogmi imperanti in tutti campi del pensiero umano, calcio compreso, non fanno ben sperare per il futuro.
Stiamo a vedere se qualche allenatore, non solo di calcio, avrà il coraggio di dire al proprio portiere: “fregatene dei dogmi, fai quello che serve di più per la squadra”.
La dura verità. Dalla sodomia della lettura alla veridizione nell’epoca della riproducibilità tecnica
SODOMIE
In molte iscrizioni del V secolo a.C., distribuite tra la Magna Grecia e l’Attica, il lettore viene etichettato katapúgōn, sodomizzato, e viene additato alla comunità come l’individuo che si è lasciato possedere dall’autore dell’epigrafe. Si comprende perché Platone nel Teeteto raccomandi prudenza e moderazione nel rapporto con i testi scritti, e perché abbia sospettato di questa forma di comunicazione per tutta la vita – sebbene i suoi Dialoghi abbiano contribuito a rendere per noi il libro la fonte di conoscenza più autorevole. Jesper Svenbro, in uno dei suoi saggi più brillanti di antropologia della lettura (1), rileva che l’esercizio di decodificare il testo, e di ricostruire il significato delle frasi, incorra per gran parte dell’antichità nelle difficoltà della scriptio continua, senza stacchi tra le parole e senza interpunzioni: fino al Medioevo, la maggior parte degli interpreti deve compitare ad alta voce le lettere, come fanno i bambini alle prime armi con la decifrazione della scrittura, per ascoltare il senso di ciò che sta pronunciando – più che riconoscerlo in quello che sta vedendo. Il lettore quindi presta la propria voce, il proprio corpo, al desiderio di espressione dello scrittore: il testo esiste nella proclamazione orale del contenuto, mentre il suo formato tipografico resta lettera morta.
Nella cultura greca, molto agonistica, questa subordinazione di ruoli non può rimanere inosservata. Per di più, la sua forma è congruente con quella che si stabilisce tra il giovane che deve seguire il suo percorso di formazione e l’amante adulto che finanzia i suoi studi, visto che non è il padre né la famiglia naturale a sostenere questi costi: al termine della paideia il ragazzo deve testimoniare in pubblico se l’erastḗs abbia abusato del suo corpo, degradandolo al rango passivo di uno schiavo. L’adolescente deve conquistare un protettore di età più matura, senza però concedersi rinunciando alle prerogative del cittadino libero.
Il lettore incauto, o troppo appassionato, abbandona il proprio corpo all’io parlante dello scrittore: un’abdicazione al dominio di sé cui le persone perbene costringono gli schiavi, sottraendosi ad ogni rischio. Per un greco classico la verità è una caratteristica di quello che è stato visto con i propri occhi, come viene comprovato dagli storici Erodoto e Tucidide; Socrate e Platone hanno affidato il loro insegnamento al dialogo dal vivo. L’Accademia, e anche il Liceo di Aristotele, sorgono accanto a palestre dedicate alla preparazione atletica e militare degli ateniesi; Platone è un soprannome che indica le «spalle larghe» del maestro di dialettica.
IL POTERE DI VERIDIZIONE
Il potere di dire la verità, all’atto di nascita della filosofia, si legittimava su requisiti che appaiono del tutto diversi da quelli che lo hanno ratificato negli ultimi secoli, e che come osserva Sergio Gaiti in un recente articolo su Controversie, sono in affanno nel mondo contemporaneo.
Per i greci la formazione dell’uomo libero coinvolgeva i valori della prestanza fisica, del coraggio, dell’obbedienza alle leggi patrie, della frequentazione di buone compagnie: la verità poteva emergere solo in un contesto che rispettasse questi requisiti – che dal nostro punto di vista sembrano più indicati per un raduno neofascista, che per un seminario di intellettuali, o per la consulenza ad un board aziendale, o per i principi di una disposizione di governo. Eppure l’epoca di Platone e Aristotele è senza dubbio una delle massime espressioni del talento intellettuale dell’Occidente, e il momento assiale per la nascita della tradizione scientifica. Nella nostra epoca, almeno fino all’irruzione dei social media e dei portali di ricerca, nessuno avrebbe mosso obiezioni all’assunto che i garanti della verità sono i metodi di peer review delle riviste scientifiche, la sorveglianza delle commissioni di concorso e di esame per le carriere universitarie, il vaglio della comunità degli intellettuali su qualunque dichiarazione relativa alla natura, alla storia e alla società, il filtro degli editori di stampa, radio, televisione, cinema e musica, su quali temi meritino l’attenzione pubblica e cosa sia invece trascurabile. In altre parole, anche per l’epoca contemporanea esiste (esisteva?) una cerchia di individui, che rappresenta la classe delle buone compagnie da frequentare per accedere all’Acropoli della verità, il luogo in cui si sa di cosa ci si debba occupare e in che modo si debba farlo. Al di là delle dichiarazioni di intenti e dei cardini ideologici, in tutti i paesi avanzati è tendenzialmente sempre la stessa classe sociale ad alimentare le fila degli accademici, dei politici, dei manager, dei giornalisti – è lo stesso cluster economico e culturale a formare controllori e controllati del potere, in tutte le sue forme (2).
Ma più che l’appartenenza ad una élite per censo e discendenza, ciò che conta è l’affiliazione ad una categoria accomunata dalla formazione universitaria, con la condivisione dei valori sullo statuto della verità, sui metodi della sua esplorazione, sui criteri di accesso ai suoi contenuti, sulle procedure della sua archiviazione, riproduzione, comunicazione. Come osserva Bruno Latour (3), l’adesione a queste prescrizioni coincide con l’accesso ad una comunità di pari, fondata sull’addestramento a vedere le stesse cose quando i suoi membri si raccolgono nel laboratorio dello scienziato – qualunque sia la disciplina in causa. Restano fuori tutti coloro che non sono iniziati alla percezione di questo grado del reale.
DIVISIONE DEL LAVORO LINGUISTICO
Nei termini di Foucault (4), ripresi da Agamben (5), questi processi di legittimazione e di produzione del sapere sono dei dispositivi, in grado di porre in essere esperienze che hanno riconoscimento intersoggettivo e consistenza pubblica. Le piattaforme digitali come Google e Facebook, nonché le varie tipologie di social media da cui è colonizzato il nostro mondo, non hanno fatto altro che automatizzare i meccanismi alla base del loro funzionamento, estendendo la base di accesso a tutti. Ma questo gesto di apertura ha innescato una rivoluzione di cui nessuno avrebbe potuto sospettare la portata.
L’algoritmo dal quale si è sviluppato Google, PageRank, misura la rilevanza di un contenuto partendo dal calcolo della quantità di link in ingresso da altre pagine web, e dalla ponderazione della loro autorevolezza, sulla base di un calcolo ricorsivo. L’algoritmo è la traduzione in chiave digitale del principio della bibliometria accademica, con cui il valore di un saggio (anche per la carriera del suo autore) corrisponde al numero di citazioni in altri studi scientifici (6)(7). Ma nel circuito delle università, l’autorevolezza di riviste e collane editoriali è stabilito a priori da altre istituzioni, quali ministeri o agenzie di rating, che giudicano il loro credito scientifico.
La strategia di Google e dei giganti della tecnologia è consistita nell’imposizione di una democrazia dal basso, fondata sul riconoscimento empirico del modo in cui la fiducia si distribuisce di fatto nel pubblico più ampio. L’assunto è che, in quella che Hilary Putnam ha descritto come la divisione sociale del lavoro linguistico (8), ciascuna nicchia di interesse coltiva autori specialistici, in grado di valutare (ed eventualmente linkare) i contenuti degli altri – e lettori occasionali o devoti, immersi in un movimento di approfondimento non gerarchico e non lineare tra i testi. L’esistenza stessa di Google incentiva chiunque a divulgare il proprio contributo sugli argomenti di cui si ritiene esperto, in virtù della possibilità di incontrare un pubblico di curiosi o di entusiasti che lo consulteranno. Wikipedia, l’enciclopedia «nata dal basso», ha raggiunto in questo modo un’autorevolezza di fatto superiore all’Enciclopedia Britannica, e conta su oltre 7 milioni di voci (in inglese), contro le 120 mila della concorrente più antica e più blasonata.
Il meccanismo di controllo sulla validità dei contenuti – per la comunità di riferimento – è rimasto lo stesso di prima, ma si sono moltiplicate le congregazioni di esperti, i temi di competenza, ed è in via di dissoluzione la capacità di governare l’agenda setting di interesse collettivo da parte della classe che disponeva del monopolio di veridizione, almeno fino a un paio di decenni fa. In italiano le voci di Wikipedia sono poco meno di 2 milioni, e 2.711 di queste sono dedicate al mondo immaginario di Harry Potter, 1.643 a quello Dragon Ball, 951 a quello di Naruto; la voce Naruto conta 9.245 parole, contro le 5.557 della voce Umberto Eco, e le 6.686 di Cesare Pavese. I focus dell’attenzione e l’intensità del coinvolgimento sono distanti da quelli un tempo decretati dalle istituzioni, sono molto più numerosi, e le comunità che li coltivano possono ignorarsi o entrare in conflitto, ricorrendo a criteri del tutto divergenti di selezione dei dati, modalità di analisi, interessi pragmatici, sostegni ideologici.
L’ORIENTAMENTO DELLA CIVETTA
Quando l’11 dicembre 2016 The Guardian ha denunciato che i primi dieci risultati di Google per la domanda «Did the Holocaust really happen?» linkavano pagine negazioniste, i fondatori del motore di ricerca, Larry Page e Sergey Brin (entrambi di famiglia ebraica), hanno immaginato di risolvere il problema modificando il codice del software. Il progetto di aggiornamento Owl dell’algoritmo avrebbe dovuto trovare un metodo automatico per discriminare i contenuti veri da quelli falsi, eliminando le fake news dalla lista delle risposte (9). Un obiettivo così ambizioso dal punto di vista epistemologico non è mai stato raggiunto, sebbene Google abbia implementato da allora decine di aggiornamenti per premiare contenuti «di maggiore qualità».
È probabile che la ricognizione degli ingegneri abbia seguito una pista sbagliata: la verità non è una proprietà formale degli enunciati che possa essere catturata con una struttura di calcolo, complesso a piacere. Per restaurare una forma univoca di verità si sarebbe dovuto ripristinare il monopolio delle istituzioni che ne stabilivano il perimetro, la gerarchia della rilevanza, il dizionario e i criteri di valutazione. La sconfinata periferia delle comunità che circondano e che assediano l’Acropoli del sapere non è popolata da gruppi che hanno sempre allignato in qualche tipo di latenza, in modo informale e sottotraccia: senza una piattaforma che permetta agli individui di riconoscere le proprie passioni (o le proprie ossessioni) come un mondo intersoggettivo, che è possibile ammobiliare e abitare con altri che le condividono, non esiste identità collettiva, confraternita, aggregazione in qualche modo individuabile. La rintracciabilità universale di qualunque contenuto, la trasformazione dei media, ha modificato il panorama della verità, in cui si muove con smarrimento solo la classe che in precedenza ne deteneva il monopolio. Lo sconcerto peraltro non riguarda i contenuti, che nella prospettiva della classe intellettuale sono rimasti gli stessi di prima – ma la denegazione della perdita di potere, il rifiuto di accettarne le conseguenze, un po’ come è capitato a Page e Brin nella loro veste di clerici. Le altre comunità appaiono invece sicure nell’elezione delle loro fonti accreditate, nell’interazione con i modelli di comportamento e di pensiero, nei criteri di discriminazione del plausibile – che non riguardano i processi di adaequatio intellectus et rei, ma il miglior adattamento all’ambiente sociale e informativo di appartenenza. Dai ragazzi di Atene a quelli che si chillano scorrendo le bacheche di TikTok nella Milano di oggi, è questa la competenza che guida in modo infallibile al riconoscimento della |verità| (10).
BIBLIOGRAFIA
(1) Svenbro, Jesper, Phrasikleia: Anthropologie de la lecture en Grece ancienne, Editions La Decouverte, Paris, 1988.
(2) Ventura, Raffaele Alberto, Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Einaudi, Torino, 2020.
(3) Latour, Bruno, Non siamo mai stati moderni, tr. it. di Guido Lagomarsino e Carlo Milani, Eleuthera, Milano 2018.
(4) Foucault, Michel, L'Archéologie du savoir, Gallimard, Parigi 1969.
(5) Agamben, Giorgio, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006.
(6) Page, Larry; Brin, Sergey; Motwani, Rajeev; Winograd, Terry, The PageRank Citation Ranking: Bringing Order to the Web, in Technical Report, Stanford InfoLab 1999.
(7) Bottazzini, Paolo, Anatomia del giudizio universale. Presi nella rete, Mimesis, Milano 2015.
(8) Putnam, Hilary,The Meaning of Meaning, in Mind, Language and Reality: Philosophical Papers, Cambridge University Press, Londra 1975, pp. 215-271.
(9) Sullivan, Danny, Google’s ‘Project Owl’ — a three-pronged attack on fake news & problematic content, «Search Engine Land», 25 aprile 2017 (https://searchengineland.com/googles-project-owl-attack-fake-news-273700)
(10) Arielli, Emanuele; Bottazzini, Paolo, Idee virali. Perché i pensieri si diffondono, Il Mulino, Bologna 2018.
I disturbi neurologici funzionali: oltre il dualismo mente-corpo
I disturbi neurologici funzionali (o FND, dall'inglese Functional Neurological Disorders) rappresentano una delle condizioni mediche più affascinanti e complesse del panorama neurologico contemporaneo; caratterizzati da sintomi reali e invalidanti, non spiegati da alterazioni strutturali del sistema nervoso, costituiscono un caso di studio emblematico per comprendere l'intricata relazione tra mente e corpo.
DEFINIZIONE E CARATTERISTICHE CLINICHE
I disturbi neurologici funzionali sono definiti come condizioni causate da alterazioni nel funzionamento delle reti cerebrali piuttosto che da cambiamenti nella struttura del cervello stesso. Questa distinzione fondamentale è spesso illustrata attraverso l'analogia del computer: mentre in altre patologie neurologiche si osserva un danno all'"hardware" cerebrale (come la degenerazione dei neuroni nella substantia nigra nei Parkinsonismi), nei disturbi neurologici funzionali il problema risiede nel "software", ovvero nei “programmi” che regolano il funzionamento del sistema nervoso.
La sintomatologia dei disturbi neurologici funzionali è estremamente variegata e può comprendere debolezza o paralisi degli arti, disturbi del movimento come tremori e distonie, crisi epilettiche non epilettiche, problemi sensoriali, difficoltà del linguaggio, problemi visivi e uditivi, dolore cronico e alterazioni cognitive, interferendo notevolmente con la qualità di vita dei pazienti, dei loro caregiver e comportando una spesa notevole per il SSN; l’esordio può avvenire a qualsiasi età, sebbene sia più comune tra l'adolescenza e l'età adulta precoce, con una maggiore incidenza nel sesso femminile (in rapporto 3:1).
NEUROBIOLOGIA TRA FUNZIONE E STRUTTURA
Le neuroscienze hanno fornito evidenze crescenti che i disturbi neurologici funzionali non sono disturbi "immaginari" ma rappresentano condizioni neurobiologiche genuine con correlati neurali identificabili. In questo senso, appare straordinariamente attuale l’intuizione di Jean-Martin Charcot, che già alla fine del XIX secolo ipotizzava nei pazienti con isteria l’esistenza di una “lesione funzionale”, ovvero una disfunzione reale del sistema nervoso priva di una base strutturale visibile. Sebbene privo degli strumenti della neurologia moderna, Charcot riconobbe che l’assenza di una lesione anatomica non implicava l’inesistenza di un disturbo neurologico autentico - un’intuizione che trova oggi conferma nei dati neurobiologici contemporanei. Particolarmente significative sono le alterazioni osservate a carico del salience network, del default mode network e nelle connessioni tra aree cortico-limbiche e regioni motorie. Il salience network, composto principalmente dall'insula anteriore e dalla corteccia cingolata anteriore dorsale, è responsabile del rilevamento e del filtraggio degli stimoli rilevanti e della regolazione emotiva. Nei pazienti con disturbo neurologico funzionale, questo sistema mostra iperattivazione e connettività alterata con le aree motorie, suggerendo un'influenza eccessiva dei processi emotivi sul controllo motorio. Il default mode network, attivo durante il riposo cosciente e coinvolto nei processi di auto-riferimento e nella costruzione del senso di sé, presenta anch'esso alterazioni in questi pazienti. Queste modificazioni potrebbero riflettere disturbi nei processi di integrazione dell'esperienza soggettiva e nella percezione di agency, ovvero nella sensazione di controllo sulle proprie azioni.
I DISTURBI NEUROLOGICI FUNZIONALI COME PARADIGMA DEL RAPPORTO MENTE-CORPO
Storicamente, l’approccio cartesiano alla medicina ha portato a una netta distinzione tra cause organiche e psicogene, relegando i disturbi neurologici funzionali nell’ambito delle patologie “senza base organica”. Tuttavia, le evidenze attuali dimostrano che questa dicotomia è riduttiva: gli stati mentali, come lo stress, il trauma o i conflitti emotivi, possono indurre alterazioni misurabili nei circuiti cerebrali, nei pattern di attivazione neuronale e nei processi di integrazione sensomotoria, senza che vi sia necessariamente un danno strutturale rilevabile con le tecniche diagnostiche convenzionali.
La definizione storica di “disturbo di conversione” o “di somatizzazione” per quelli che oggi chiamiamo disturbi neurologici funzionali, radicata nella teoria freudiana della conversione di conflitti psichici in sintomi somatici, rifletteva una comprensione limitata e spesso stigmatizzante della condizione. Oggi, la ricerca riconosce che questi disturbi non sono semplicemente manifestazioni di conflitti inconsci, ma il risultato di una complessa interazione tra vulnerabilità biologiche (come predisposizioni genetiche o alterazioni neurochimiche), fattori psicologici (traumi, stili di coping, attenzione selettiva ai sintomi) e contesti sociali (stress ambientali, dinamiche familiari, influenze culturali).
L’approccio attuale è quindi multidisciplinare e integrato: la diagnosi si basa su criteri clinici positivi e segni neurologici specifici, mentre il trattamento prevede interventi personalizzati che possono includere la riabilitazione neurologica, la psicoterapia e, quando necessario, il supporto farmacologico. Questa visione supera la dicotomia cartesiana, promuovendo una comprensione più ampia e meno stigmatizzante della malattia, e sottolinea l’importanza di un approccio empatico e collaborativo nella gestione dei pazienti con disturbo neurologico funzionale.
CONCLUSIONI
I disturbi neurologici funzionali costituiscono un caso emblematico della complessità del rapporto mente-corpo, rivelando quanto siano ormai inadeguate le dicotomie tradizionali della medicina occidentale per spiegare la natura (che è invece profondamente integrata) dell’essere umano. Lungi dall’essere semplici anomalie “psicogene”, si impongono oggi come una sfida cruciale per la medicina contemporanea: non solo per la loro eterogeneità clinica e l’impatto sulla qualità di vita, ma soprattutto per l’opportunità epistemologica che rappresentano.
La moderna comprensione di questa condizione così fraintesa in passato, alimentata dai progressi delle neuroscienze, offre una finestra privilegiata per indagare i meccanismi attraverso cui l’esperienza soggettiva si incarna nel corpo e nel cervello, mostrando come stati mentali complessi possano influenzare direttamente il funzionamento dei network cerebrali. In tal senso, i disturbi neurologici funzionali mettono in discussione le rigide separazioni tra neurologia e psichiatria, tra cause organiche e fattori psicologici. L’evoluzione della ricerca scientifica, insieme a una crescente sensibilità clinica, sta gradualmente restituendo legittimità e riconoscimento a una condizione per troppo tempo relegata ai margini del sapere medico. Questa condizione ci obbliga a ricordare che mente e cervello non sono domini separati, ma aspetti interdipendenti di una stessa realtà incarnata, e ci sollecitano a ripensare profondamente non solo le categorie diagnostiche, ma anche il modo in cui intendiamo la cura.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aybek, S., & Perez, D. L. (2022). Diagnosis and management of functional neurological disorder. BMJ, o64. https://doi.org/10.1136/bmj.o64
Baek, K., Doñamayor, N., Morris, L. S., Strelchuk, D., Mitchell, S., Mikheenko, Y., Yeoh, S. Y., Phillips, W., Zandi, M., Jenaway, A., Walsh, C., & Voon, V. (2017). Impaired awareness of motor intention in functional neurological disorder: Implications for voluntary and functional movement. Psychological Medicine, 47(9), 1624–1636. https://doi.org/10.1017/S0033291717000071
Edwards, M. J., Yogarajah, M., & Stone, J. (2023). Why functional neurological disorder is not feigning or malingering. Nature Reviews Neurology, 19(4), 246–256. https://doi.org/10.1038/s41582-022-00765-z
Hallett, M., Aybek, S., Dworetzky, B. A., McWhirter, L., Staab, J. P., & Stone, J. (2022). Functional neurological disorder: New subtypes and shared mechanisms. The Lancet Neurology, 21(6), 537–550. https://doi.org/10.1016/S1474-4422(21)00422-1
Voon, V., Brezing, C., Gallea, C., & Hallett, M. (2011). Aberrant supplementary motor complex and limbic activity during motor preparation in motor conversion disorder. Movement Disorders, 26(13), 2396–2403. https://doi.org/10.1002/mds.23890
Il cosmismo russo e le sue continuazioni
I cosmisti erano guidati dal desiderio di superare l'entropia del mondo e, come conseguenza, raggiungere l'immortalità umana, partendo dall'analogia tra il microcosmo umano e il macrocosmo universale. Se l'universo è infinito nello spazio, allora l'uomo deve essere infinito nel tempo e, dunque, solo nell'unione con il cosmo è possibile realizzare l’idea di immortalità. La realizzazione del progetto deve cominciare con la trasformazione antropologica dell'essere umano, basata su cambiamenti spirituali e morali. In sostanza, il cosmismo russo è una fase dell'evoluzionismo teistico, esistente da tempo, che prese la forma di un progetto dettagliato nel XIX secolo in Russia. Il progetto del XIX è stato seguito da una adozione, seppur modificata, nel pensiero sovietico post-rivoluzionario.
All'interno del grande movimento del cosmismo russo si distinguono tre direzioni:
- quella scientifico-naturale, in cui si poneva maggiore attenzione all'esplorazione scientifica e tecnica dello spazio;
- quella religioso-filosofica, che interpretava il significato dello sviluppo spirituale e morale dell'uomo;
- quella artistico-estetica, che insisteva sul ruolo predominante dell'arte come mezzo per la trasformazione cosmica del mondo.
Queste direzioni non si opponevano l'una all'altra, ma esistevano come tre in uno, con un obiettivo comune, la stessa piattaforma spirituale e un'unica idea della struttura del mondo, dell'uomo e dello spazio.
Il fondatore della direzione scientifico-naturale del cosmismo russo è il filosofo Nikolaj Fëdorov (1829–1903). Egli sosteneva che l'uomo, la natura e lo spazio sono uniti e interconnessi, perciò i cambiamenti nell'uomo, lo sviluppo della sua capacità di controllarsi non solo spiritualmente ma anche fisicamente, porteranno al controllo dell'uomo sulla natura e sullo spazio. E per fare ciò, è necessario superare le mancanze e i peccati che causano divisione tra le persone e ostilità. La direzione dell'evoluzione umana è indicata da Cristo nell'idea della resurrezione. Fëdorov unisce la dottrina cristiana al positivismo: per regolare la natura (stabilire nuove leggi), è necessario ricomporre gli atomi, il che cambierà non solo i fenomeni naturali, ma anche l'organismo umano.
Il più alto stadio di regolazione sarà uno stato della materia, della mente e dello spirito tale da permettere la resurrezione degli antenati defunti: essi appariranno nel mondo in una nuova forma ideale, dotata della capacità di autocreare un corpo a partire da sostanze inorganiche. Fëdorov non parla dell'immortalità cristiana delle anime, ma dell'immortalità dei corpi, che diventeranno come esemplari viventi da museo. Questo stadio dell'evoluzione verrà raggiunto quando l'umanità imparerà a controllare non solo se stessa e la natura, ma anche il Sole e l'Universo, che diventeranno il luogo per il reinsediamento degli antenati resuscitati e dei nuovi nati.
Konstantin Tsiolkovsky (1857–1935) credeva che non ci fosse alcuna frattura ontologica tra la mente e il mondo e, di conseguenza, che il cervello umano fosse una parte materiale dell'universo e che la volontà di un individuo riflettesse la volontà dell'universo.
Tsiolkovsky credeva nell'immortalità come indistruttibilità dell'essenza del mondo, che cambia solo forma. Creò una sua versione del Nuovo Testamento, secondo la quale Dio e l'universo, spirito e materia sono una cosa sola. La futura “beatitudine cosmica” non è immaginabile nello spazio tridimensionale: essa esiste in un oceano multidimensionale di luce, volontà razionale e grazia, abitato da esseri umani ideali. La competizione capitalista e lo sfruttamento devono essere sostituiti dal collettivismo e dalla solidarietà tra le persone.
Per avvicinare la felicità sulla Terra, Tsiolkovsky propose un piano di ricostruzione della società, che consisteva in uno stato totalitario su scala globale con una gestione gerarchica, al cui vertice si trovavano scienziati e artisti.
L'idea di Fëdorov di reinsediare gli antenati resuscitati nello spazio e di viaggiare attraverso le galassie ispirò Tsiolkovsky a sviluppare un modello di astronave. Egli effettuò i calcoli matematici dei parametri tecnici di un razzo in grado di lanciare un veicolo in orbita terrestre. In seguito, questi calcoli furono utilizzati da F.A. Zander, uno dei creatori del primo razzo sovietico a combustibile liquido, e da S.P. Korolev, progettista generale della tecnologia missilistica e spaziale sovietica.
Il “Regno dei Cieli” cosmico nella concezione di Vladimir Vernadsky (1863–1945) si manifesta nella forma della noosfera. Con noosfera (sfera dell'intelligenza), Vernadsky intendeva una fase nello sviluppo della biosfera, in cui l'attività razionale e intellettuale dell'umanità collettiva comincia ad avere una portata geologica, planetaria e poi extraplanetaria. Essa nasce come naturale sviluppo della biosfera in direzione etica e creativa.
L'ideale dello sviluppo noosferico diventa la sua “autotrofia”, cioè la liberazione dal bisogno di ottenere energia dalla biosfera terrestre e l'espansione dello sviluppo evolutivo dell'umanità prima nello spazio vicino (il sistema solare), e poi nello spazio lontano.
(Alla corrente religiosa e filosofica del cosmismo russo appartenevano Vladimir Solov’ëv, Nikolaj Berdjaev, Sergej Bulgakov, Pavel Florenskij e altri.
Il suo principale rappresentante, Vladimir Solov’ëv (1853–1900), affermava che l'umanità può rinascere solo attraverso la verità in Cristo, che comporta la distruzione della «grossolana ignoranza delle masse, la prevenzione della devastazione spirituale delle classi alte e l'umiliazione della violenza brutale dello Stato».
Solov’ëv riponeva le sue speranze nella trasformazione dell'umanità attraverso la teocrazia, ovvero tramite la creazione di uno Stato giusto e di un ordine sociale equo, in grado di realizzare gli ideali cristiani.
Come per gli altri cosmisti russi, nella sua visione l'idea dell'unità universale delle persone è di importanza primaria; questa idea, nella tradizione ortodossa russa, è chiamata "sobornost’" (conciliarità). Essa non è intesa come un'unione meccanica di individui, ma come:
«l'unità di tutti in uno, la coscienza di tutti in sé stessi e di sé stessi in tutti».
Tutti i cosmisti consideravano l'arte come mezzo di trasformazione del mondo, e non in senso metaforico, bensì in senso pratico: l'arte era riconosciuta come capace di trasformare fisicamente la materia.
Questo era il pensiero di Aleksandr Skrjabin (1872–1915), il rappresentante più coerente della corrente artistico-estetica del cosmismo russo. Con la sua ultima composizione (rimasta incompiuta), intitolata “Mistero”, il compositore intendeva completare l'esistenza del mondo attuale, unire lo spirito del mondo con la materia e dare così origine alla nascita di un nuovo mondo in forme non solo spirituali, ma anche materiali.
Quest'opera grandiosa e sincretica era pensata per un'enorme orchestra, un coro di 7.000 cantanti, luci, danza e movimenti plastici, e doveva essere rappresentata sulle rive del fiume Gange, in un tempio che si elevava sopra la Terra. L'intento era quello di unire l'umanità in un amore universale (compreso l'amore erotico), portando questo sentimento a uno stato estatico, in cui la materia si sarebbe fusa in un altro stato, unendosi con lo Spirito Assoluto per dare origine a una nuova vita cosmica in altre dimensioni.
Riassumendo le idee principali del cosmismo russo, possiamo evidenziare alcune proposte fondamentali considerate necessarie per raggiungere la fase cosmica dello sviluppo umano, nel senso più ampio del termine:
- Fede nei valori cristiani come base spirituale dello sviluppo umano.
- Relazione tra spirito e materia: lo sviluppo evolutivo della materia conduce a forme superiori di coscienza, la quale, a sua volta, è in grado di ricostruire la materia in una fase avanzata del progresso.
- Al centro del cosmismo vi è la creazione di un nuovo tipo antropologico di uomo e, di conseguenza, di una nuova umanità:
- Unità tra antropologico, sociale e ontologico: in altre parole, il modo fisico di esistenza dell'umanità è determinato dalle caratteristiche antropologiche dell'uomo, che a loro volta determinano la struttura sociale.
- La società spaziale del futuro si fonda sull'unione fraterna dell'umanità, basata sull'amore, sull'uguaglianza e sulla solidarietà a livello planetario.
- Le utopie cosmiste descrivono una società futura centralizzata, collettivistica e gerarchica, con scienziati e artisti al vertice della gerarchia cosmica, a testimonianza di una dominanza dello spirituale nella scala di valori.
Paradossalmente, ma in modo naturale, uno sviluppo concreto delle idee cosmiste fu rappresentato dalla Repubblica Sovietica nata nel 1917, che mirava alla costruzione di una società senza classi, in cui le differenze tra gli individui fossero superate. L'individualismo venne sostituito dal collettivismo, che trae origine sia dalla fratellanza cosmica che dalla sobornost’ ortodossa.
I comunisti sostituirono l'unità in Dio con l'unità nel collettivo, mettendo gli interessi della società e dello Stato al di sopra di quelli individuali. Questo contribuì al raggiungimento di straordinari risultati in tempi brevi, come i progressi scientifici e spaziali dell'URSS. Il “Codice del Costruttore del Comunismo” – documento ufficiale del Partito Comunista – proponeva una morale affine ai comandamenti cristiani, benché l'ideologia sovietica fosse basata sul materialismo marxista. La morale comunista affermava la prevalenza dello spirituale sul materiale, sia per l'individuo che per la collettività.
Fu così introdotta l'istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, e fu assegnato un ruolo speciale a scienziati, letterati e artisti, che – come nei testi cosmisti – occupavano il vertice della piramide sociale. L'impulso spirituale collettivo, che pervadeva la coscienza popolare, conteneva in sé il potenziale per trasformarsi in risultati materiali concreti. Come affermò Lenin:
«Un'idea che si impadronisce delle masse diventa una forza materiale».
Tuttavia, i comunisti non portarono avanti l'idea di immortalità fisica, forse perché si prefiggevano di costruire il “Paradiso in Terra”, cioè il comunismo come ideale società terrena. È interessante notare come la descrizione dell'utopia terrena di Tsiolkovskij, il più materialista dei cosmisti, anticipi elementi della società sovietica: gerarchia, totalitarismo, collettivismo, centralizzazione.
La realizzazione di questo “paradiso in terra” era però possibile solo con un nuovo tipo di uomo, l'uomo ideale sovietico, caratterizzato da altruismo, eroismo, volontà, spirito, alto livello di istruzione, disprezzo per il materiale, dedizione al lavoro, modestia e umanesimo. Sebbene nella realtà non fosse possibile trasformare tutta la popolazione in esseri ideali, si ritiene che basti l'8% della popolazione a possedere queste caratteristiche per innescare un salto evolutivo. È ciò che accadde: l'URSS fu la prima a progettare un'astronave e a mandare un uomo nello spazio. È simbolico che il cognome del primo cosmonauta, Gagarin, fosse lo stesso del padre del fondatore del cosmismo, Nikolaj Fëdorov (Fedorov era il figlio illegittimo del conte Gagarin, il suo vero cognome era Gagarin).
Le idee dei cosmisti russi del XIX e XX secolo stanno tornando particolarmente attuali nel XXI secolo. Tra gli obiettivi dichiarati oggi ci sono:
- l'esplorazione dello spazio,
- il controllo dei cataclismi naturali,
- la trasformazione radicale del corpo umano (cambio di sesso, razza, ecc.),
- l'immortalità attraverso clonazione, ingegneria genetica, sostituzione degli organi.
Molti osservano come questo progetto transumanista e spaziale presenti somiglianze con le teorie cosmiste e con le ideologie di sinistra radicale. Tuttavia:
- Il progetto sovietico è un caso unico, in quanto ha unito una visione radicale di sinistra con la mentalità tradizionale russa, dando origine a un fenomeno socio-antropologico irriducibile ad altre teorie precedenti.
- Nonostante le somiglianze apparenti, esiste una differenza fondamentale: i cosmisti ponevano al centro la trasformazione spirituale e morale dell'uomo, come fonte primaria di ogni altro cambiamento, anche materiale. Al contrario, i progetti moderni partono dalla trasformazione fisica del corpo, della Terra e dello spazio. Ma un futuro costruito solo su queste basi potrebbe sembrare più un inferno che un paradiso.
Oggi, lo spazio vicino alla Terra, divenuto campo di competizione corporativa, è una discarica orbitale; si ipotizza perfino il suo uso militare. La gestione “efficiente” del pianeta, ignorando solidarietà e fratellanza, non resuscita i morti, ma uccide i vivi. La ricerca ossessiva dell'immortalità fisica ignora le anime. La disuguaglianza sociale cresce, l'amore fra gli esseri umani diminuisce. Questo vettore di sviluppo dell'umanità moderna è l'opposto di ciò che i filosofi cosmisti auspicavano.
BIBLIOGRAFIA
Fedorov, Nikolai. What Was Man Created For? The Philosophy of the
Common Task. Lausanne: Honeyglen Publishing/L'Age d'Homme, 1990.
Teilhard de Chardin, Pierre. The Phenomenon of Man.
Harper Perennial Modern Classics, November 4, 2008.
Tsiolkovsky, Konstantin Eduardovich. Public organization of mankind.
Kaluga: edition of the author, 1928.
Vernadsky W.I. The biosphere and noosphere. American scientist, vol.3,
January 1945, #1.
Young, George M. The Russian Cosmists: The Esoteric Futurism of Nikolai
Fedorov and his Followers. Oxford University Press, New York, 2012.
L’Effetto Proteo: Quando l’Avatar cambia chi siamo
Nell’era digitale, l’identità personale non è più confinata al corpo fisico: sempre più spesso si estende ai nostri avatar, quei corpi virtuali che abitiamo nei social network, nei videogiochi, negli ambienti digitali in generale. Ma cosa succede quando l’aspetto di questi avatar inizia a influenzare profondamente il nostro comportamento reale? Questo è il cuore dell’“Effetto Proteo”, un fenomeno psicologico che mette in luce il potere trasformativo dell’identità digitale.
DALLA MASCHERA ALL’AVATAR: LE ORIGINI DELL’EFFETTO PROTEO
Coniato nel 2007 da Nick Yee 1 e Jeremy Bailenson 2, il termine “Effetto Proteo” richiama la figura mitologica greca di Proteo, capace di cambiare forma a piacimento. L’idea alla base è semplice ma potentissima: quando adottiamo un avatar in un ambiente digitale, tendiamo inconsciamente a comportarci in modo coerente con il suo aspetto. Se l’avatar è alto e attraente, potremmo mostrarci più sicuri di noi; se appare debole, potremmo essere più remissivi.
Già Oscar Wilde, ben prima del digitale, scriveva: “Man is least himself when he talks in his own person. Give him a mask, and he will tell you the truth”. La maschera, oggi, è l’avatar, e funziona da catalizzatore per l’esplorazione dell’identità.
Nell’affrontare l’identificazione tra avatar ed essere umano si analizzeranno, in prima battuta, i meccanismi psicologici e cognitivi che sono alla base dell’esistenza dell’Effetto Proteo; successivamente, verranno valutati gli effetti di stereotipi e bias su comportamento e identità; infine, si tenterà una sintesi di quanto analizzato, vagliando come e quanto l’identificazione nel proprio avatar conduca a delle modifiche nella percezione di sé, tanto nei mondi virtuali quanto in quello reale.
INQUADRAMENTO PSICOLOGICO
Numerosi studi hanno indagato i fondamenti teorici dell’Effetto Proteo. Uno dei principali è la “self-perception theory” di Daryl Bem 3. Secondo questa teoria non sempre conosciamo i nostri stati interiori in modo immediato: spesso ci osserviamo dall’esterno, proprio come farebbe un osservatore qualsiasi, e traiamo conclusioni su cosa proviamo in base al nostro comportamento visibile. Questo meccanismo diventa particolarmente evidente quando mancano segnali interni chiari o quando ci troviamo in contesti ambigui. Negli ambienti virtuali ciò significa che, quando “indossiamo” un avatar, tendiamo a comportarci secondo le caratteristiche estetiche e simboliche che gli abbiamo attribuito, e da tali comportamenti inferiamo i nostri stati d’animo. L’avatar, quindi, non è solo una maschera, ma anche uno specchio che riflette (e crea) il nostro Sé.
Un’altra teoria rilevante è la “deindividuation theory” di Philip Zimbardo 4, sviluppata a partire dagli anni Sessanta. Secondo Zimbardo, in situazioni di anonimato o di forte immersione in un gruppo, l’individuo tende a perdere il senso della propria individualità, diminuendo l’autocontrollo e mostrando comportamenti che normalmente inibirebbe. L’anonimato riduce la paura del giudizio altrui e attenua il senso di responsabilità personale: in un ambiente digitale queste condizioni si verificano con facilità. Secondo Zimbardo, l’effetto della de-individuazione è tendenzialmente negativo, e conduce a comportamenti antisociali; tuttavia, altri autori hanno evidenziato che individui in condizione di de-individuazione, temendo meno il giudizio sociale, possono esibire anche espressioni di empatia, solidarietà o affetto.
Questa visione è stata successivamente affinata da Tom Postmes 5, Russell Spears 6 e Martin Lea 7 attraverso il modello SIDE (Social Identity Model of Deindividuation Effects). Gli autori sostengono che l’anonimato non elimina l’identità personale, ma favorisce il passaggio a un’identità sociale condivisa. Quando un individuo si sente parte di un gruppo tende a interiorizzarne norme e valori, comportandosi in maniera coerente con le aspettative collettive. Ciò significa che, in un contesto digitale, l’utente può sviluppare un forte senso di appartenenza a una comunità online assumendo atteggiamenti e comportamenti che riflettono la cultura del gruppo stesso. Come osservano gli autori, il bisogno di sentirsi accettati nella cerchia sociale di riferimento supera qualsiasi considerazione etica riguardo il comportamento adottato. In questo senso, l’avatar non è solo uno strumento di espressione individuale, ma anche di conformità sociale. L’interazione tra anonimato, immersione e identità condivisa crea una cornice psicologica che amplifica le norme del gruppo. In positivo, questo può rafforzare la cooperazione, il supporto reciproco e l’inclusività; in negativo, può alimentare polarizzazioni, intolleranze e comportamenti aggressivi.
STEREOTIPI E IDENTITÀ DIGITALI
Gli stereotipi giocano un ruolo centrale nell’Effetto Proteo. Già nel 1977, Mark Snyder 8 dimostrava che le aspettative proiettate sull’interlocutore influenzano profondamente l’interazione. Tre fenomeni descrivono l’impatto degli stereotipi:
- Stereotype threat: la paura di confermare uno stereotipo negativo conduce a prestazioni peggiori.
- Stereotype lift: l’identificazione con un gruppo visto positivamente migliora fiducia e risultati.
- Stereotype boost: l’appartenenza a gruppi stereotipicamente forti conduce a benefici in prestazioni e autostima 9.
Nei videogiochi è stato osservato che avatar maschili e femminili esibiscono comportamenti diversi quando utilizzati da persone del sesso opposto: tale fenomeno è noto come “gender swapping”. Gli uomini tendono a usare avatar femminili per ottenere vantaggi sociali, mentre le donne lo fanno per evitare attenzioni indesiderate. Uno studio condotto su World of Warcraft (Yee, Bailenson, & Ducheneaut, 2009) ha rilevato che avatar più attraenti o più alti generano atteggiamenti più estroversi, mentre avatar meno imponenti portano a comportamenti più schivi. In uno studio parallelo, condotto su giocatrici e giocatori di EverQuest II (Huh & Williams, 2010), è stato evidenziato che personaggi maschili controllati da donne sono più attivi in combattimento, mentre personaggi femminili controllati da uomini si dedicano maggiormente alla socializzazione: in entrambi i casi si assiste alla messa in atto di comportamenti stereotipici, aderenti a ciò che un determinato individuo si aspetta da persone identificate in un genere altro.
IDENTITÀ DESIDERATA E OVERCOMPENSATION
Il fenomeno dell’identificazione desiderata, o “wishful identification”, si manifesta quando l’individuo si immedesima in personaggi con qualità che vorrebbe possedere. Nel 1975 Cecilia von Feilitzen 10 e Olga Linné 11 teorizzavano che gli spettatori più giovani dei programmi televisivi tendessero a proiettarsi nei protagonisti delle storie che consumavano per sentirsi più intelligenti, forti o valorosi. Questo desiderio di immedesimazione non richiede necessariamente una somiglianza fisica tra soggetto e personaggio: l’importante è che il personaggio incarni qualità desiderabili, e assenti nella vita reale dell’osservatore. Nei mondi virtuali, tale meccanismo assume una dimensione interattiva: non ci si limita più a osservare un eroe sullo schermo, ma lo si diventa, scegliendo avatar che riflettono i nostri desideri più profondi e agendo attraverso di essi.
Una manifestazione concreta di questo processo si osserva nel fenomeno dell’overcompensation. In uno studio condotto da Roselyn Lee-Won 12 e colleghi, a un gruppo di giovani uomini è stato chiesto di sottoporsi a una serie di test stereotipicamente associati alla mascolinità (forza fisica, cultura generale “virile”, autovalutazioni). Coloro che ottenevano risultati deludenti tendevano poi a creare avatar in The Sims 3 con tratti fisici accentuatamente maschili: muscoli pronunciati, lineamenti decisi, capelli corti. Questa costruzione ipermaschile del proprio alter ego virtuale rappresenta una forma di riaffermazione identitaria, un tentativo inconscio di compensare una percezione negativa del proprio Sé fisico o sociale. Non solo: quando questi stessi individui ripetevano i test dopo aver interagito con l’avatar, i loro risultati miglioravano. Questo suggerisce che l’identificazione con un corpo virtuale desiderato possa rafforzare l’autoefficacia anche nel mondo reale. Il Sé digitale, in questo senso, non è solo uno strumento di espressione, ma anche un vero e proprio alleato nella costruzione di fiducia e autostima.
Questa dinamica di retroazione è una delle più affascinanti implicazioni dell’Effetto Proteo: non è solo l’avatar a essere influenzato dall’utente, ma anche l’utente a essere modificato dal suo avatar. L’identità digitale, quindi, diventa non solo espressione, ma anche motore di trasformazione del Sé.
ETICA E DESIGN DELL’IDENTITÀ DIGITALE
L’Effetto Proteo non è un semplice artificio sperimentale: è una dinamica concreta con ripercussioni reali su comportamento, percezione di sé e relazioni sociali.
Come vogliamo che ci vedano gli altri? E quanto siamo pronti ad accettare che il nostro comportamento possa cambiare, anche profondamente, in base al corpo digitale che abitiamo? La progettazione di avatar non può essere considerata solo una questione estetica: è un atto di modellazione identitaria. Costruire un corpo digitale significa anche dare forma a una possibile versione di sé, con tutto il potere trasformativo che questo comporta.
NOTE:
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bem, D. (1972). Self-Perception Theory. In L. Berkovitz (ed.), Advances in Experimental Social Psychology, vol. 6. New York: Academic Press.
Gergen, K. J., Gergen, M. M., & Barton, W. H. (1976). Deviance in the Dark. In Psychology Today, vol. 7, no. 5. New York: Sussex Publishers.
Huh, S., & Williams, D. (2010). “Dude Looks like a Lady: Gender Swapping in an Online Game”. In W. S. Bainbridge (ed.), Online Worlds: Convergence of the Real and the Virtual. Londra: Springer.
Hussain, Z., & Griffiths, M. D. (2008). Gender Swapping and Socializing in Cyberspace: An Exploratory Study. In CyberPsychology & Behavior, vol. 11, no. 1. Larchmont: Mary Ann Liebert, Inc.
Lee-Won, R. J., Tang, W. Y., & Kibbe, M. R. (2017). When Virtual Muscularity Enhances Physical Endurance: Masculinity Threat and Compensatory Avatar Customization Among Young Male Adults. In Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, vol. 20, no. 1. Larchmont: Mary Ann Liebert, Inc.
Postmes, T., Spears, R., & Lea, M. (1998). Breaching or Building Social Boundaries?: SIDE-Effects of Computer-Mediated Communication. In Communication Research, vol. 25, no. 6. Thousand Oaks: SAGE Publishing.
Shih, M., Pittinsky, T. L., & Ambady, N. (1999). Stereotype Susceptibility: Identity Salience and Shifts in Quantitative Performance. In Psychological Science, vol. 10, no. 1. New York: SAGE Publishing.
Snyder, M., Tanke, E. D., & Berscheid, E. (1977). Social Perception and Interpersonal Behavior: On the Self-Fulfilling Nature of Social Stereotypes. In Journal of Personality and Social Psychology, vol. 35, no. 9. Washington, D.C.: American Psychological Association.
Steele, C. M., & Aronson, J. (1995). Stereotype Threat and the Intellectual Test Performance of African Americans. In Journal of Personality and Social Psychology, vol. 69, no. 5. Washington, D.C.: American Psychological Association.
Walton, G. M., & Cohen, G. L. (2003). Stereotype Lift. In Journal of Experimental Social Psychology, vol. 39, no. 5. Amsterdam: Elsevier.
Yee, N., & Bailenson, J. (2007). The Proteus Effect: The Effect of Transformed Self-Representation on Behavior. In Human Communication Research, vol. 33, no. 3. Oxford: Oxford University Press.
Yee, N., Bailenson, J., & Ducheneaut, N. (2009). The Proteus Effect. Implications of Transformed Digital Self-Representation on Online and Offline Behavior. In Communication Research, vol. 36, no. 2. New York: SAGE Publishing.
Zimbardo, P. G. (1969). The Human Choice: Individuation, Reason, and Order versus Deindividuation, Impulse, and Chaos. In W. J. Arnold, & D. Levine (eds.), Nebraska Symposium on Motivation, vol. 17. Lincoln: University of Nebraska Press.