L'etica dei fisici riguardo alle armi nucleari nel periodo della Guerra Fredda

Questo articolo ci è stato gentilmente concesso da Antonino Drago, Professore Ordinario di Storia della Fisica (in pensione) presso l’Università Federico II di Napoli, membro della rete Transcend di Galtung e primo presidente del Comitato ministeriale per la Difesa civile non armata e nonviolenta. Nel suo percorso, il professor Drago analizza il rapporto tra i fisici e l'etica, prima e dopo "la bomba", e i diversi atteggiamenti e strategie che i fisici hanno adottato - e ancora adottano - di fronte ai problemi etici che il lavoro può generare. Pubblichiamo l'articolo in tre "puntate", l'ultima delle quali uscirà i concomitanza ad un seminario, organizzato da Controversie, in cui interverrà lo stesso professor Drago.

1.  Introduzione

Il progresso tecnologico ha reso sempre più artificiale la vita quotidiana dell'essere umano. Se in passato l'etica era chiara, l'introduzione di oggetti artificiali che pervadono anche la vita intima di una persona ha generato innumerevoli dilemmi etici le cui risposte non sono codificate da alcuna autorità, se non dal modo comune e corrente di vivere le nuove situazioni. Ma questa etica ha incontrato grandi pericoli senza precedenti. Tra questi il pericolo dell'autodistruzione dell'umanità, già previsto dopo il bombardamento delle due città giapponesi, Hiroshima e Nagasaki. Questo impressionante pericolo ha messo in discussione l'etica dell'intera popolazione mondiale, ma in primo luogo la coscienza dei fisici che hanno contribuito a costruire armi così catastrofiche. Dopo questo, altri pericoli simili sono stati generati dal continuo progresso della scienza e della tecnologia. Ogni volta che sorge un nuovo pericolo, la popolazione e i suoi leader cercano le migliori risposte personali e soluzioni globali per quel caso particolare, partendo da zero perché manca un organismo etico globale. È quindi importante riflettere sulle risposte etiche dei diretti responsabili, i fisici, e delle istituzioni politiche al primo grande pericolo, quello nucleare.

Questa esperienza storica può suggerire molte lezioni su come affrontare le successive e le prossime. Innanzitutto, insegna che gli scienziati non sono esseri sovrumani, sebbene abbiano studiato e applicato una materia quasi incomprensibile, la scienza e, in particolare, la fisica; ma hanno problemi etici paragonabili a quelli dei profani e inoltre possono essere anche più deboli in materia di etica rispetto alla gente comune. Pertanto, per quanto riguarda i problemi etici, la popolazione deve evitare un rispetto reverenziale per una categoria sociale che spesso si presenta come illuminata e superintelligente. Deve piuttosto instaurare forti relazioni con gli esperti al fine di suggerire soluzioni comuni ai problemi etici generati dalla ricerca scientifica.

2. I fisici, l'etica e la nascita delle armi nucleari

L'opinione diffusa tra i fisici sul proprio lavoro è che esso non riguardi l'etica; essi amano dedicarsi alle loro affascinanti ricerche. Questa valutazione deriva da una visione rousseauiana della ricerca scientifica, secondo la quale essa è intrinsecamente buona e il male possibile proviene dalla società.

Robert Merton (Merton 1938; Merton 1973) descrive l'etica degli scienziati come caratterizzata da quattro imperativi interconnessi: universalismo, comunismo (tra scienziati), disinteresse e dubbio sistematico. La loro etica è legata a uno spirito tradizionalmente religioso, tanto da essere definita un'etica puritana.

Ma la società non è una semplice somma di individui; essa comprende anche le istituzioni sociali. Tenendo conto di quest'ultimo punto di vista, Max Weber (1918) distingue due tipi di etica: quella a livello personale, l'etica della convinzione, che è l'etica che ogni uomo riceve dalle sue convinzioni personali, e l'etica della responsabilità, un'etica i cui primi obblighi sono quelli prescritti dall'istituzione sociale a cui si appartiene (se considerata in senso negativo, questa etica è chiamata etica machiavellica).1

Entrambi gli autori considerano la ricerca scientifica un'impresa eticamente positiva, perché rappresenta in termini razionali il progresso dell'umanità. Inoltre, Weber descrive la modernità come un processo di razionalizzazione secolare, promosso principalmente dal progresso scientifico; quindi, l'etica del ruolo professionale di uno scienziato è la più positiva possibile, poiché promuove direttamente la razionalità all'interno della vita sociale. Di fatto, la maggior parte degli scienziati antepone la propria razionalità alla propria etica.

Tuttavia, una valutazione della scienza deve innanzitutto separare la scienza pura dalla scienza applicata. La scienza pura, essendo il risultato diretto della ragione umana, dà solo beni, a parte alcuni suoi risultati, ottenuti con metodi inappropriati o maliziosi; il compito di evitarli è un onere che non spetta agli scienziati, ma ai governi.

Nel XX secolo diverse e potenti istituzioni hanno interagito con gli scienziati. Ad esempio, già l'evento della prima guerra mondiale ha spinto alcuni scienziati a intervenire pubblicamente secondo la loro etica di responsabilità nei confronti dei propri Stati.2 Nella seconda guerra mondiale gli scienziati, su richiesta dello Stato, hanno accettato di lavorare in una gigantesca impresa militare a favore dei nazisti (in Germania e Giappone) e contro di essi (al di fuori della Germania). Sono entrati improvvisamente in un'impresa patriottica abbracciando le motivazioni dello Stato in guerra. Negli Stati Uniti il Progetto Manhattan 1939-1947 (Jungk 1958; Rhodes 1986) mirava a costruire la prima arma nucleare con un budget di 2 miliardi di dollari. L'obiettivo politico dell'impresa era quello di creare una politica internazionale di deterrenza attraverso la costruzione di un'arma che avesse una capacità distruttiva senza precedenti, in grado di annientare una grande popolazione. La razionalità degli scienziati li portò a sperare in una politica governativa razionale, durante e dopo la guerra. Il progetto riunì 130.000 lavoratori, tra cui migliaia di scienziati, anche i più eminenti al mondo (ad esempio Fermi, Oppenheimer, Bohr, Szilard, ecc.). Questi fisici accettarono di lavorare collettivamente in un'impresa diretta dai militari; accettarono inoltre il segreto militare e una vita segreta.
Il Progetto Manhattan ha cambiato bruscamente la storia degli scienziati, della ricerca scientifica e dell'umanità. Come sono cambiate le caratteristiche dell'etica degli scienziati? Come è cambiata la separazione tra scienza pura e scienza applicata?
In seguito, inaspettatamente, gli scienziati hanno dovuto affrontare nuovi problemi etici. Dopo che questo progetto si è rivelato un successo (test di Alamagordo, 16 luglio 1945), una controversia sull'uso di armi terrificanti ha diviso il gruppo di scienziati del Progetto Manhattan. Si doveva distruggere un'intera città con un'arma nucleare o no? Questo atto è sicuramente vietato sia dall'etica di convinzione degli scienziati che dal diritto di guerra; è tuttavia consentito dall'etica della responsabilità degli scienziati rispetto alla ricerca scientifica o all'etica della difesa degli Stati democratici contro i nazisti?
Pochi anni dopo iniziò una corsa agli armamenti nucleari. Essa coinvolse un numero sempre maggiore di scienziati in lavori professionali nei laboratori militari. Riguardo all'etica della responsabilità, la decisione di sostenere questa corsa agli armamenti era una decisione corretta o no? Dopo il Progetto Manhattan, la ricerca scientifica, come "una gallina dalle uova d'oro", continuò a ricevere dai governi ingenti finanziamenti, diventando così un'impresa colossale. In che misura una tale crescita quantitativa della scienza ha danneggiato la sua crescita qualitativa? Gli scienziati istituzionalizzati sono rimasti capaci di giudizi indipendenti? La scienza era ancora la forza motrice neutrale del progresso dell'umanità, o no? Gli scienziati erano ancora un gruppo sociale razionale e disinteressato che vegliava sul benessere dell'umanità, o il potere politico aveva subordinato il processo di razionalizzazione della vita sociale da parte degli scienziati a interessi particolari? Inoltre, dopo il Progetto Manhattan, ad altri scienziati è stato chiesto di diventare consulenti dei governi in materia di corsa agli armamenti, ovvero di suggerire i migliori miglioramenti tecnologici per un arsenale nucleare sempre più potente. Hanno promosso la pace internazionale o hanno piuttosto accettato di diventare servitori tecnici di una particolare potenza militare?3

3. Come gli eventi nucleari hanno cambiato l'etica dei fisici

Consideriamo ora l'etica professionale dello scienziato, ovvero l'etica del ruolo che egli svolge all'interno della sua istituzione e più in generale nella società. Per rispondere agli eventi eccezionali del periodo bellico, molti scienziati, in nome della loro etica della responsabilità, hanno aderito al Progetto Manhattan. Ma in questo modo hanno cancellato la distinzione tra scienza pura e scienza applicata. Inoltre, hanno accettato di essere organizzati collettivamente come in una fabbrica; è stata la nascita della "grande scienza", dove il lavoro di uno scienziato non era più simile a quello di un artigiano, ma a una particolare ruota di un grande meccanismo fortemente legato allo Stato (De Solla Price 1963).

Inoltre, inventando e costruendo tali armi, hanno negato le caratteristiche fondamentali dell'etica mertoniana dello scienziato, poiché hanno rinunciato a i) l'universalità della scienza - hanno abbracciato la particolare politica internazionale (la deterrenza nucleare) dei loro governi; ii) l'atteggiamento comunitarista - hanno accettato una vita segreta che li separava sia dalla società civile che dagli altri scienziati nel mondo; infatti, in ogni paese il gruppo di scienziati si è lanciato in una cinica competizione con i gruppi di scienziati di altri paesi; iii) il disinteresse - gli scienziati hanno dedicato tutti i loro sforzi al raggiungimento di un obiettivo militare di un governo che li finanziava massicciamente; iv) il dubbio sistematico - non avevano alcun dubbio sulle questioni politiche della loro impresa; anche quegli scienziati che avvertivano il pubblico del pericolo nucleare volevano comunicare verità assolute. Pertanto, il modello etico di Merton dello scienziato individuale non era più adeguato a rappresentare l'etica degli scienziati del secondo dopoguerra (Vadacchino 2002).

Inoltre, la nascita della grande scienza ha trasformato la loro etica della responsabilità da quella di un piccolo gruppo o di un laboratorio a quella di un'impresa sociale; ora dovevano rispondere a grandi istituzioni sociali (vedi ad esempio Weisskopf 1983). L'etica della responsabilità di uno scienziato che perseguiva questa impresa tendeva a mettere a tacere l'etica dei principi.

Weber aveva previsto anche un possibile risultato negativo del processo di razionalizzazione nella società: l'uomo poteva essere rinchiuso in una "gabbia di ferro" (1930, p. 181). La costruzione di armi nucleari ha portato l'umanità al risultato peggiore. Dopo la sperimentazione delle armi nucleari sulle città giapponesi, era evidente a tutti che la distruzione dell'umanità era possibile. Questa possibile distruzione ha rappresentato per la prima volta un'assurdità dell'etica della responsabilità di uno scienziato. Era manifestamente assurdo che questo tipo di etica potesse ammettere una distruzione che coinvolgesse anche l'istituzione sociale (la ricerca scientifica) che prescrive questo tipo di responsabilità. Inoltre, era assurdo che il processo di razionalizzazione durato molti secoli potesse ammettere, attraverso la fine dell'umanità, la fine del processo di razionalizzazione stesso. Ogni essere umano dotato di ragione deve ammettere queste assurdità.4 Queste due assurdità hanno suggerito ancora una volta in modo sorprendente l'etica della convinzione, il cui principio fondamentale - non uccidere mai - è apparso ancora una volta saggio nel consigliare che le conseguenze a lungo termine dell'uccisione possono essere imprevedibili.

4. L'acquiescenza collettiva di gran parte dei fisici alla nuova situazione etica

Durante il Progetto Manhattan l'unico problema di alcuni scienziati era di natura individuale: liberarsi dal segreto militare. Consideriamo la risposta di Edward Teller all'appello di Leo Szilàrd (Petizione Szilàrd 1945) contro la pianificazione di un bombardamento nucleare sulle città giapponesi:
Questa è l'unica causa per la quale mi sento in diritto di fare qualcosa: la necessità di sollevare il segreto [militare] almeno per quanto riguarda le questioni generali del nostro lavoro. A mio avviso, ciò avverrà non appena la situazione militare lo consentirà. (Teller 1945)
In altri termini, il primo e unico obiettivo di Teller era quello di riconquistare l'universalità della sua ricerca scientifica; egli si sentiva responsabile solo della libera ricerca scientifica.
Dopo il Progetto Manhattan, il reclutamento di scienziati per il lavoro militare è cresciuto notevolmente senza ostacoli (ad eccezione degli anni intorno al 1968).5 L'opinione comune dei fisici riguardo agli scienziati che lavorano nei laboratori militari è stata espressa pubblicamente dal segretario italiano dell'USPID (Unione Scientifica Italiana per il Disarmo):
Chi è coinvolto nei processi di progettazione, costruzione e modernizzazione delle armi a difesa del proprio Paese non è necessariamente un guerrafondaio. Infatti, o si riesce a invertire l'intero meccanismo, oppure non è concepibile che, fintanto che la sicurezza [nazionale] è legata al potere militare, sia possibile fermare questo volano della modernizzazione e dell'arricchimento degli arsenali nucleari (Lenci 2003).

 

 

NOTE:

1 Ricordiamo che la rivoluzione francese fu promossa e sostenuta da un gran numero di scienziati dell'epoca. Secondo il sociologo Ben-David (1971), la subordinazione degli scienziati al potere politico è iniziata dopo il fallimento di questa rivoluzione. Fu la borghesia emergente a introdurre il curriculum formale nelle università come unico percorso corretto per accedere al mondo della scienza, ovvero la carriera universitaria come unico percorso per essere riconosciuti come scienziati da una "comunità di pari scienziati", le società scientifiche (la prima delle quali fu la British Association for the Advancement of Science, fondata nel 1830) e il controllo della ricerca universitaria attraverso i suoi finanziamenti.

2 Si veda l'aberrante manifesto dei 93 scienziati a sostegno della proposta di guerra della Germania (Manifesto dei Novantatre, 1914).

3 Queste questioni sono già state presentate in (Drago, Salio 1983) e (Drago 1985). Naturalmente, i problemi di cui sopra si applicano solo agli scienziati occidentali, poiché gli scienziati dell'URSS erano costretti a partecipare a una politica generale che pretendeva di compiere un salto storico verso una nuova era per l'intera umanità, ottenuta grazie al progresso scientifico dell'URSS. Pertanto, in questi scienziati l'etica della responsabilità rispetto alla loro ricerca scientifica era identificata con l'etica della responsabilità rispetto alla politica del governo. Solo il fisico Kapitza si oppose alla costruzione di armi nucleari da parte dell'URSS. (Jungk 1958, cap. XV, sez. IV).

4 Qualche anno dopo Jonas (1978) teorizzò una nuova etica basata sull'imperativo di evitare questa assurdità. (Drago 2010) presentò un'etica più generale.

5 Successivamente, nel 1983, un'analisi accurata di tutti i contratti militari negli Stati Uniti ha dato come risultato che il 48±4% di tutti i fisici lavorava nella ricerca militare (Woollett 1983).

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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Recensione di "Oltre la tecnofobia, il digitale dalle neuroscienze all’educazione" - Quarta parte

Dopo una sintetica recensione del libro Oltre la Tecnofobia (qui), una critica al concetto di onlife e della rimozione dell’infanzia (qui), la disamina del concetto di dipendenza da internet e l’idea pedagogica che sia vietato vietare (qui), Simone Lanza con questa quarta e ultima parte, conclude il confronto con le tesi del libro, affrontando gli ultimi luoghi comuni: l’idea di progresso tecnologico lineare, le paure per le tecnologie, il carattere fortemente ideologico del libro.

Qui puoi scaricare il contributo completo. 

 

TECNOLOGIA O TECNOLOGIE?

Con la quinta critica vorrei iniziare a porre qualche domanda sulle parole usate nel titolo stesso di Oltre la tecnofobia. Il termine “tecnofobia” è incluso in alcuni dizionari con il significato di “avversione per la tecnologia”. Ma esiste la Tecnologia? O forse ne esistono molte? Gli autori ne parlano troppo spesso al singolare.

Il XVIII secolo ha rappresentato il grande momento di espansione di attrezzi e utensili, presentati ancora nell’Enciclopedia, non senza ripetizioni, in base ai loro usi umani (i mestieri), e non alle caratteristiche intrinseche degli oggetti. Con la rivoluzione industriale si diffusero nuove tecnologie produttive che destarono non poche preoccupazioni, perché, a differenza dell’utensile che aiutava l’artigiano (prolungandone per così dire la mano), le nuove tecnologie raramente erano alleate dell’operaio, anzi spesso si sostituivano a lui.[1] Pertanto le paure per alcune tecnologie potrebbe spesso essere molto più recenti di quello che si creda e le smisurate reazioni a favore o contro sarebbero più il riflesso della nostra società industriale. In ogni caso la storia ci insegna che non esiste una sola Tecnologia, ma tante tecnologie, spesso alternative, negli ultimi secoli selezionate forse più per interessi di mercato che in base a qualità intrinseche.[2]

Ma quindi alcune paure per alcune tecnologie non possano essere fondate? Quando si parla della Tecnologia, si tratta di prendere o lasciare, o si ha fiducia o si ha paura: l’atteggiamento verso la tecnologia sembrerebbe qualcosa di molto religioso, una sorta fede nella Storia dell’Umanità verso il Progresso. Nella visione di Oltre la tecnofobia il mondo si evolverebbe in modo unilineare, benché con qualche balzo: “la storia dell’homo sapiens è una progressiva esternalizzazione delle nostre abilità” (p.102), anzi è persino una evoluzione delle tecnologie cognitive “dall’invenzione del fuoco agli smartphone” (p.22): una sola linea retta, che separa gli umani tra favorevoli (ottimisti) e contrari (nostalgici). Platone (nostalgico) sarebbe stato contrario alla scrittura, anzi Platone avrebbe anticipato la critica al cellulare poiché rifiutò la scrittura: “Platone era stato profetico” (p.128-30). Siccome gli autori sanno bene che Platone non rifiutava la scrittura ma affidava l’insegnamento e i pensieri più importanti al dialogo, mi limito piuttosto a contestare la logica argomentativa: se qualcuno è contrario alla scrittura ipso facto è contrario al cellulare (e viceversa) perché la Tecnologia o si prende o si rifiuta, non si può mai accogliere qualche tecnologia rifiutandone altre. La Tecnologia è sempre singolare e la tecnofobia ne indica l’avversione.

Forse sarebbe più utile chiedersi se oggi le tecnologie siano tutte da prendere o se come società (democratica) possiamo anche sceglierle. Ma soprattutto forse la domanda giusta (visto che il libro avrebbe velleità pedagogiche) non è tanto se prenderle o rifiutarle quanto “da che età introdurle ai più piccoli”? Scegliere le tecnologie in base ai valori sociali condivisi non è proprio ciò che ha fatto  per decine di migliaia di anni l’homo sapiens?[3] Proporne un uso con delle regole sociali per ciascuna età non è ciò che ha sempre fatto ogni società con i coltelli? È lecito scegliere tra le varie tecnologie oppure la tecnologia è un destino? E per fare queste scelte la paura non ci può proprio essere d’aiuto? A tutte queste domande il libro risponde in modo semplificatorio che la tecnologia è Una e Indivisibile e che sia necessario andare oltre questa atavica paura per essa.

ESISTONO PAURE LEGITTIME PER LE TECNOLOGIE?

Arriviamo così a un altro luogo comune che questo libro rinforza: come tutte le paure anche quella per la tecnologia è una emozione negativa. Ma se esistono tante tecnologie perché non è lecito che alcune destino paure e altre speranze? Inoltre, per andare dritti alla radice del titolo: avere paura è davvero una emozione così negativa? La paura non è, al contrario, anche un aiuto per anticipare i pericoli? É così errato avere paura che le nuove generazioni vengano svezzate davanti a uno schermo? É così risibile avere paura che la propria figlia frequenti siti web che promuovono l’anoressia (comunità proAna)? É così sbagliato avere paura che Amazon faccia le sue ricerche di mercato per costruire i  magazzini proprio laddove la popolazione giovanile è meno alfabetizzata e meno sindacalizzata? É così misero avere paura che le nuove IA possano provocare dipendenze ancora maggiori dei social network? Non è proprio lecito avere paura che sempre più milioni di euro vengano ceduti da risorse pubbliche a industrie digitali?

Se si volesse andare oltre le paure forse bisognerebbe prima ascoltarle, comprenderle, descriverle. Infine, non sempre il rifiuto delle tecnologie è dovuto solo a paure. Uno studio molto interessante ha ripercorso i motivi per cui nelle scuole statunitensi non si siano mai diffuse in tutto il XX secolo tecnologie come cinema, TV e radio nonostante le forti pressioni dall’alto. La risposta è che non erano considerate dagli insegnanti validi strumenti di apprendimento.[4] Quindi non tutte le paure per le tecnologie sono risibili e non tutti i rifiuti per alcune tecnologie sono dovuti a paure.

Il presupposto più forte di Oltre la tecnofobia è quello più nascosto, ovvero che ogni paura verso ogni tecnologia sia infondata. Tuttavia, non una pagina è dedicata a spiegare cosa sia la paura, e nemmeno si nomina la nomofobia, una delle più diffuse, quella di rimanere senza cellulare. La paura però non è un’emozione umana negativa, poiché aiuta la concentrazione della mente. La paura dà consapevolezza ed è ciò che permette di darci il giusto coraggio per affrontare i pericoli. Nella mia esperienza a stretto contatto con le paure di genitori e insegnanti per le tecnologie digitali, credo di poter dire che oggi una delle paure più grandi sia quella di parlare pubblicamente degli effetti negativi sulla vita familiare (benché siano osservati quotidianamente). Ogni discorso pubblico deve iniziare con questa frase: “io non sono contrario alle tecnologie” oppure “non voglio certo demonizzare le tecnologie”. Si tratta di una devozione fobica verso la tecnologia che il filosofo tedesco Anders ha descritto come “vergogna prometeica”: “non c’è nulla di più scabroso oggi, nulla che renda una persona prontamente inaccettabile quanto il sospetto che sollevi delle critiche nei confronti delle macchine”.[5] Il libro sostiene al contrario che si possono “liquidare le preoccupazioni legate alle tecnologie digitali come ansie convenzionali derivanti da atteggiamenti conservatori verso il progresso” (p.63). Mentre Anders è al centro del dibattito filosofico contemporaneo, il libro ripropone ancora l’antitesi Progresso e Conservazione del lontano XIX secolo. Ma si può davvero scrivere oggi un pamphlet oltre la tecnologia senza  ascoltare le paure che le famiglie vivono oggi per alcune precise tecnologie senza essere ideologici?

UNA VISIONE IDEOLOGICA

Gli autori hanno definito la “tecnofobia umanista” una “delle influenti ideologie del giorno d’oggi” (pp. 88-89). Il termine ideologia è di derivazione marxista ma nel gergo accademico contemporaneo ideologico è il contrario di scientifico. Ideologico è tutto ciò che introduce posizionamenti etici in un discorso sociale anziché restare rigorosamente neutro: “La scienza non dovrebbe essere prescrittiva, poiché il suo ruolo principale è quello di far luce sui fenomeni piuttosto che giudicarli” (p.67 ). Per Gramsci, al contrario, l’ideologia è il posizionamento all’interno della società rispetto ai rapporti di sfruttamento capitalistico, rapporti a cui non ci si può sottrarre. Inoltre Gramsci odiava l'indifferenza che “opera potentemente nella storia”. Siamo sicuri che questo pamphlet faccia luce sui fenomeni piuttosto che giudicarli? Alla fine questo libro prende una posizione, proprio per l’ostentato oggettivismo scientifico, poiché il posizionamento etico non si deduce dall’epistemologia ma la precede. Questo libro infatti non si schiera contro chi cerca di operare in modo diverso dall’industria digitale di oggi? Perché tutto questo accanirsi contro le famiglie che fanno dei patti per difendersi dall’invasione dell’industria digitale sulla pelle delle nostre bambine? Perché questo accanirsi insieme a Lancini ad accusare i genitori che sono invece le prime vittime di questa industria digitale senza scrupoli? Perché evitare di “incolpare la tecnologia digitale” (p.67) come fosse un essere umano da difendere?

É abbastanza ovvio che gli oggetti tecnologici non siano né colpevoli né innocenti e che le responsabilità siano solo umane: ma perché in tutto il libro non viene spesa una parola su chi queste tecnologie le possiede, le progetta e le usa come mezzi per arricchirsi con videogiochi, social network, pornografia, etc...? Il vizio più grande del libro è l’apparenza di oggettività scientifica da cui deborda un attacco continuo alle vittime: chi cerca di dar regole allo strapotere delle Big Tech. Così come nel XIX secolo in nome del Progresso c’era chi difendeva lo sfruttamento del lavoro minorile, oggi abbiamo trovato chi per la stessa incondizionata fede nella Tecnologia, difende il potere di sfruttamento delle Big Tech.

Spesso, spiegava sempre Gramsci, ciò che accade nella storia avviene non tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà. Così l'ostentato ottimismo spesso non è altro che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la propria volontà di non fare nulla di fronte a quanto accade. Ed era precisamente in questa forma di fatalismo che Husserl vedeva nel 1936 l’origine della crisi delle scienze europee: nell’oggettivismo della matematizzazione, nell’assenza di prescrizioni e nella distanza dal mondo della vita. È proprio heideggeriano l’orizzonte teorico del pensiero di Oltre la tecnofobia: poiché non si danno speranze ad altre tecnologie, si finisce per far credere che la Tecnologia sia un Destino anziché una scelta umana. Tra gli autori portati come testimoni mi sembra proprio però che né Benjamin, né Stiegler, né Freire, né Debord, fossero dell’idea che bisognasse abitare farmacologicamente la catastrofe causata dalle Big Tech. Direi piuttosto che hanno passato l’intera vita a lottare contro chi, con le tecnologie, ha sfruttato gran parte dell’umanità a partire dai suoi figli più piccoli.

 

 

NOTE

[1]Il XVIII secolo vedeva con favore la sostituzione della forza animale, quando la macchina a vapore sostituisce il cavallo. Le cose cambiano con la Rivoluzione Industriale a proposito della quale Simondon notava come l’alienazione non fosse un dato solo economico e giuridico di estraneità ai mezzi di produzione, ma un dato psicologico e fisiologico di percezione della mancanza di prolungamento dello schema corporeo. Infatti, per tutti gli illuministi e per Marx stesso “la frustrazione dell’uomo inizia con la macchina che sostituisce l’uomo” (Simondon, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici), essa infatti più che far risparmiare lavoro al lavoratore per lo più fa risparmiare soldi al capitalista. È quindi con l'arrivo della macchina utensile nella Rivoluzione Industriale che si pone la questione della tecnologia (Technologie) da distinguere dalla tecnica (Technik). La tecnologia è tutta moderna e implica l’analisi delle forme elementari in cui si scompone il movimento del corpo umano, un logos incorporato nell’utensile e mosso da una macchina. Comporta un’oggettiva conoscenza dei processi produttivi, integrata dalla precisa oggettività delle scienze naturali: nella tecnologia non deve rimanere spazio per la scelta autonoma della mano umana.

[2]Da parte mia sono un entusiasta fautore di automobili con guida automatizzata che non superino mai i limiti (ops che parolaccia tecnofobica!) di velocità, obbligatoriamente disponibili solo (ops un altro divieto!) in carsharing e solo fuori dalle città.

[3]La storia tecnologica dell’Homo sapiens è sempre meno descritta in termini lineari, bensì sempre più spesso è ricostruita privilegiando l’evoluzione a spirale, ramificata, pluriversa, se non persino ciclica: cf. Graeber, Wengrow, L'alba di tutto. Una nuova storia dell'umanità (2021) o Diamond, Collasso, Come le società scelgono di morire o vivere (2005). L’evoluzione tecnologica della nostra civiltà sarebbe in questo quadro una eccezione.

[4]Cuban, Teachers and Machines, The Classroom Use of Technology Since 1920 (1982).

[5]Anders L'uomo è antiquato (1956). Anders parlava propriamente di antiquatezza dell'essere umano (Die Antiquiertheit des Menschen). Sulle rivalutazioni di Anders nel dibattito filosofico contemporaneo cf. la rivista “aut aut”, n. 397/2023 “L’uomo è antiquato? Günther Anders e la scena attuale”.


Il vero frutto della COP30: il fondo per la salvaguardia delle foreste

Non era difficile immaginare come sarebbe andata a finire la COP30. È andata come le riunioni degli anni precedenti: dichiarazioni finali con impegni generici e non cogenti sulla riduzione dell’uso dei combustibili fossili.

Un risultato deludente?

Sì, se si considerano gli obiettivi che si erano dati storicamente i Paesi che fanno parte dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), in particolare durante la COP21 del 2015, quella che viene ricordata come “Accordi di Parigi”.1

No, invece, se lo si vede dal punto di vista dei Paesi che pur facendo parte dell’UNFCCC basano la loro economia sull’energia da fonti fossili; sia i Paesi produttori ed esportatori di petrolio, che i Paesi, come la Cina e l’India, che - per sostenere la loro crescita economica - tuttora non possono fare a meno di bruciare ogni anno milioni di tonnellate di carbone e petrolio (le emissioni di Cina più India sono pari al 37% del totale mondiale2).

Ma che ci siano forti resistenze politiche agli impegni cogenti è un fatto che non può stupire, nessuno vuole rinunciare al benessere economico (acquisito o da acquisire) in nome della transizione green.

E dire che quest’anno la sede della COP era a Belém, città brasiliana scelta simbolicamente come porta di accesso all’Amazzonia, sotto attacco da decenni per utilizzare il suo legname e, soprattutto, terra per coltivazioni e pascoli (per il mondo ricco).

Se i risultati in termini di impegno nella riduzione dell’uso di combustibili fossili e quindi di immissione di gas climalteranti in atmosfera sono stati deludenti, rileviamo comunque un risultato potenzialmente importante ma che è già fonte di polemiche e controversie.

Parliamo della costituzione di un fondo per la difesa delle foreste: il TFFF, Tropical Forests Forever Facility. La creazione di questo fondo è stata fortemente voluta e spinta dal presidente brasiliano Lula, appunto come strumento finanziario indispensabile per la salvaguardia delle foreste tropicali, a cominciare dall’Amazzonia stessa. L’idea che sta alla base di questa decisione è che serve una visione globale della gestione dei suoli da difendere dall’antropizzazione: dalle foreste, all’agricoltura, ai pascoli.

Proteggere le foreste è strategico. La loro importanza per lo stoccaggio della CO₂ è fondamentale e, specularmente, i numerosissimi disastrosi roghi che devastano ogni anno milioni di ettari in ogni parte del mondo, provocano l’immissione di enormi quantità di biossido di carbonio in atmosfera. L’esatto opposto di ciò che le foreste possono fare in positivo per il pianeta.

Il concept progettuale del fondo era già stato presentato durante la COP28 ma è appunto in questa COP30 che lo strumento è nato ufficialmente, per creare un vantaggio economico per i Paesi che proteggono o ripristinano le foreste e la biodiversità, trasformando la tutela della natura in un’opzione economicamente competitiva rispetto alla sua distruzione.

Il fondo si propone di raccogliere risorse molto ingenti. Al momento del lancio, gli impegni di spesa dei Paesi partecipanti ammontavano a circa 5,5 miliardi di dollari, ma l’obiettivo dichiarato è di arrivare a 125 miliardi.

L’obiettivo principale del fondo è, quindi, quello di creare un flusso costante e continuo di denaro per ogni ettaro di foresta preservata o ripristinata.

Attenzione però: il fondo non destinerà i 125 miliardi di dollari (per adesso esistenti solo come impegno) direttamente nelle attività di salvaguardia; il capitale sarà investito sui mercati globali in attività finanziarie a basso rischio (titoli di Stato, obbligazioni di grandi enti…) e punta a ricavare circa 4 miliardi di dollari all’anno di interessi. Sono quei 4 miliardi che verranno destinati alla missione del fondo.

Si tratta quindi di un investimento finanziario che preserva il capitale e utilizza gli interessi generati per realizzare l’attività ad impatto ambientale e sociale.

Ma a chi arriverebbe questo flusso di denaro? Il 20% sarebbe destinato alle popolazioni locali e indigene, per garantire un improvement sociale per la loro vita e come riconoscimento del loro ruolo di difensori della foresta. L’altro 80% è destinato al manejo forestal, ovvero alla gestione forestale sostenibile che garantisce, appunto, la difesa e la riforestazione. Va ricordato però che le regole di distribuzione sono ancora in fase di definizione; al momento queste percentuali rappresentano solo un obiettivo dichiarato, non un meccanismo operativo consolidato, e a molti commentatori sembra che la quota destinata alle popolazioni locali dovrebbe essere più elevata.

I sostenitori del TFFF lo presentano come un passo avanti concreto di giustizia ambientale e sociale e, quindi, verso il raggiungimento degli obiettivi di Parigi. Con questo piano la conservazione naturale viene remunerata in modo sistematico e duraturo, rendendo la tutela un’opzione economicamente competitiva rispetto alla deforestazione.

Attualmente sono coinvolti cinquanta Paesi, Italia compresa, e diciannove fondi sovrani, ma si pensa a un allargamento a tutti i Paesi dell’UNFCCC per un impegno veramente globale a favore della conservazione degli ambienti naturali e contro la crisi climatica.

Ad oggi il finanziamento dei progetti a difesa delle foreste, i cosiddetti progetti REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation), avviene attraverso l’emissione di crediti di carbonio; titoli che rappresentano la rimozione di una tonnellata di CO₂ e che vengono acquistati sul mercato obbligatorio (grandi aziende inquinatrici, ad esempio le siderurgiche) o sul mercato volontario (aziende che acquistano per senso di responsabilità e per motivi reputazionali).

È chiaro che il TFFF sarebbe un passo avanti perché renderebbe il finanziamento costante nel tempo e non legato all’andamento di singoli progetti, e perché sgancerebbe il finanziamento stesso dalla logica dell’emissione dei crediti di carbonio che tante discussioni e polemiche ha creato in questi anni.

Tutto bene, quindi?

Presto per dirlo, ma sono arrivate immediatamente anche molte critiche. Il problema che segnalano molti osservatori è il pericolo di un eccesso di dipendenza della tutela naturale da meccanismi finanziari; meccanismi che hanno i loro centri decisionali nei Paesi economicamente forti. Si teme quindi una posizione di subalternità dei Paesi in via di sviluppo, dove invece sono presenti le grandi foreste da preservare3.

L’altro tema di discussione è che le regole di distribuzione dei fondi sono ancora tutte da scrivere e c’è scetticismo sulla possibilità di realizzare una distribuzione equa delle risorse in base alle reali necessità dei territori.

Tuttavia non si può non considerare che anche a fronte di queste legittime perplessità, il TFFF può diventare uno strumento di salvaguardia della natura più efficace rispetto a quanto si è visto fino ad oggi, anche perché ci libererebbe dal meccanismo di emissione dei crediti di carbonio come fonte di finanziamento. Meccanismo che continua ad essere estremamente controverso nel calcolo della CO₂ rimossa e nei conseguenti aspetti finanziari.

La comunità impegnata a dar vita a questo strumento è chiamata a un grande sforzo per determinare regole chiare, trasparenti e che impediscano attività di greenwashing.

Quindi, se il TFFF si rivelerà uno strumento efficiente e giusto, potremo dire che la COP30 sarà stata molto più utile di quanto sia sembrato a fine lavori.

Ma per capire se sarà così ci vorranno anni.

 

NOTE:

1 L’obiettivo principale della COP21 era di mantenere l’innalzamento della temperatura globale del pianeta entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali

2 Fonte Euronews

3 Qualcuno potrebbe chiedersi perché sia il TFFF, sia i progetti REDD, riguardino solo le foreste tropicali (Amazzonia, Africa, Sud est asiatico) e non già anche le foreste boreali, come le foreste siberiane e canadesi. Il motivo è duplice: da un lato le foreste tropicali sono quelle maggiormente sottoposte a deforestazione per motivi economici; in Siberia e Canada ci sono stati negli ultimi anni gravissimi incendi che hanno distrutto milioni di ettari ma si è trattato di incendi in parte anche dolosi ma non provocati con l’intenzione di destinare ad altro uso le parti di foreste bruciate. Il secondo motivo è che si tratta di foreste che insistono su Paesi economicamente forti che non hanno bisogno di aiuti finanziari per la gestione delle stesse.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Valori.it – Come funziona il Tropical Forest Forever Facility (TFFF)

- Wired – Dalla COP 30 può nascere la vera alternativa all’economia della deforestazione

- COP30 Official Website

- Sapereambiente – Dalla Cop30 il fondo per la conservazione delle foreste tropicali

- Project Drawdown – What to know about the Tropical Forest Forever Facility from COP30


La cultura occidentale non è mai esistita - L’alba di tutto di Graeber e Wengrow

1 - Il mito dell’Illuminismo

Esistono libri di intelligenza contagiosa, in cui l’audacia delle tesi e la felicità dell’argomentazione sembrano poter contaminare anche il lettore, e promettere un futuro meno assopito nell’inerzia dei pregiudizi e della noia accademica. L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow appartiene senz’altro a questo manipolo di capolavori, con l’invito a ripensare le categorie di modernità, di democrazia, di barbarie, di organizzazione, di potere – ma soprattutto a rigettare la fede nell’esistenza di una «cultura occidentale», la cui natura giustificherebbe ogni altra distinzione, classificazione, e l’intera epistemologia delle scienze sociali. In effetti il riesame coincide con una ricusazione delle differenze tra la civiltà che gli europei hanno sviluppato sul continente (ed esportato ovunque con la colonizzazione) – e le forme di vita frequentate dalle popolazioni cui assegnamo qualche tipo di minorità, che le rende adatte agli studi di etnologia.

L’Illuminismo è la frattura storica che assegnerebbe all’Occidente alla sua posizione straordinaria nel mondo e nella storia, perché avrebbe reso la nostra civiltà l’unica ad aver ucciso il suo Dio e ad essere sopravvissuta al delitto, con una volontà di potenza accresciuta, e persino con un’autocoscienza più intensa. La fine dell’egemonia religiosa avrebbe avviato la legittimazione della scienza, del potere politico, delle tecniche, solo sul fondamento della sola razionalità umana: avrebbe scisso la neutralità della logica e dell’osservazione empirica da un lato – e gli interessi, le finalità pragmatiche dell’individuo e della collettività dall’altro lato. La lucidità di questo sguardo, purificato dai pregiudizi e dalle pressioni dell’utilità sociale, permetterebbe alle nostre scienze sociali di osservare le altre culture (e naturalmente anche la nostra) con un’obiettività che nemmeno loro possiedono su se stesse.  

Il primo obiettivo di Graeber e Wengrow è denunciare la narrazione sull’Illuminismo come una mitologia patologica, paragonabile a quelle che diagnostichiamo alle altre etnie. Il metodo consiste in una rilettura degli autori Settecenteschi, alla ricerca delle ragioni per cui dalla metà del secolo il dibattito sull’origine della diseguaglianza tra gli uomini, e quello sulla libertà individuale, diventano tanto pressanti. L’indagine è radiologica, individua l’ossatura delle argomentazioni originali, e la nervatura di trasmissione delle idee, al di sotto dei pregiudizi con cui i commentatori successivi hanno rivestito le dichiarazioni di Rousseau, Voltaire, Diderot, Montesquieu. L’esame critico delle istituzioni politiche europee attraverso gli occhi di stranieri, dagli amerindi ai persiani, è stato un genere letterario per tutto il Settecento: ma i suoi contenuti non devono essere intesi come prodotti di finzione. La pubblicistica dei frati missionari che hanno accompagnato gli eserciti spagnoli, francesi e britannici nella colonizzazione delle Americhe, quella dei gesuiti che hanno esplorato l’Oriente – la presenza in territorio europeo di ambasciatori delle tribù indigene d’oltreoceano – hanno contaminato il pensiero dei philosophes con idee non rispettose della teologia politica, delle istituzioni feudali e delle loro estensioni assolutistiche; il contagio si è propagato con il dibattito sulla separazione dei poteri dello stato, l’infiammazione dell’opinione pubblica contro i privilegi dell’aristocrazia, la decapitazione del re, l’elaborazione dei codici napoleonici, le convulsioni rivoluzionarie attraverso tutto il continente.

2 - Il mito delle origini

Ma il fine di Graeber e Wengrow è proprio quello di riportare alla luce il brulichio di esperienze culturali animate da una coscienza laica, da un’esperienza politica raffinata, da una complessità concettuale sull’organizzazione sociale, sui fondamenti di legittimazione del potere e della ricerca della verità, che si sono sviluppate al di fuori (e prima) dell’Europa illuministica. Le prodezze del politologo wendat Kondiaronk inaugurano un’anamnesi di fonti dimenticate e di nuove scoperte archeologiche, che sollecita una diagnosi differenziale rispetto alle tesi di Hobbes sulla condizione di guerra di tutti contro tutti nello «stato di natura», e alla storia evolutiva che Rousseau ha raccontato nel Discorso sull’origine della diseguaglianza (e che tutti hanno continuato a ripetere per oltre due secoli). 

Il filosofo ginevrino riconosce senza reticenza che la sua ricostruzione non si fonda su alcuna prova empirica; ma l’impianto di fondo della sua favola non è mai stato contestato. L’uomo delle origini giacerebbe inerte presso le radici degli alberi che possono alimentarlo, privo di linguaggio, di pensiero e di società, dedito alla soddisfazione dei bisogni primari con il minor dispendio possibile di energia. La razionalità avrebbe fatto irruzione (insieme alla coscienza della mortalità, agli interessi sessuali e sociali, alla tecnica e alle funzioni verbali) nell’istante in cui imitazione e vocazione di perfezionamento hanno corrotto la natura umana e hanno avviato la sua decadenza. Libertà e uguaglianza sarebbero proprietà solo delle comunità più antiche, limitate a pochi individui e ad una struttura priva di articolazione funzionale e di necessità politiche. La complessità inoculata dall’agricoltura e dalle tecniche di canalizzazione delle acque, di gestione dei magazzini per le scorte, avrebbe provocato la remissione della democrazia comunitaria e la degenerazione verso le gerarchie degli imperi autoritari. L’evoluzione avrebbe condotto alla schiavitù e alla degradazione morale, a causa della corruzione dei costumi – effetto collaterale dell’articolazione sociale.

3 - Creatività politica

Al contrario, Graeber e Wengrow scoprono una creatività politica che scardina la complessità dei bisogni e delle azioni collettive dalla struttura del potere. Le comunità hanno sempre elaborato una comprensione esplicita della loro configurazione sociale, e della costituzione che legittima l’autorità di chi esercita il potere: probabilmente una delle meno consapevoli è stata proprio quella europea del Medioevo, che ha subito la tirannia di feudatari e imperatori, e che ha creduto nei principi della teologia politica. L’interpretazione dei reperti archeologici, con nuove domande e nuovi dati, permette di distillare una nuova comprensione delle società amerinde e orientali, dove la proliferazione delle forme di vita e la tassonomia delle identità politiche hanno tentato ibridazioni di ogni genere. Gli uomini non hanno rispettato i confini della differenza linguistica, della distanza geografica, della differenza di abitudini tecniche e alimentari, per sentirsi parte dello stesso popolo: le generalità dell’antenato totemico hanno permesso a uomini e donne di ottenere accoglienza fraterna presso gruppi dislocati anche dall’altra parte del continente Al contempo, la mancanza di infrastrutture di comunicazione di massa ha impedito ovunque, a qualunque forma di tiranno, di raggiungere con il suo potere assoluto individui distanti anche solo qualche chilometro dalla sua dimora. 

Peraltro la configurazione stessa delle comunità, e del loro coordinamento politico, è stata modellata da esigenze di vario tipo: molte popolazioni hanno obbedito a due ordinamenti diversi ogni anno, secondo cadenze stagionali, disperdendosi in piccoli gruppi durante il periodo propizio per la caccia, e riunendosi in città o villaggi nel periodo dei raccolti. Hanno anche abbracciato, e poi abbandonato, tecniche che la narrazione di Rousseau dispiega in un ordine storico sequenziale e irreversibile – come è accaduto per l’agricolutura, che diverse civiltà del Medio Oriente e delle Americhe hanno prima esercitato, poi trascurato per recuperare strategie economiche fondate sulla caccia e sulla raccolta. 

Persino l’autorità andrebbe ripensata in modo radicale, dal momento che all’investitura divina dovrebbero sostituirsi altre modalità di legittimazione, spesso riconducibili a qualche forma di talento, come l’abilità agonistica (che include anche, ma non solo, l’uso delle armi). L’aristocrazia degli Olmechi amava farsi ritrarre in tenuta da giocatore di palla, e ha consegnato questa cultura competitiva a bassorilievi che sono giunti fino a noi. In generale la dedizione alla combattività ha plasmato tutte le civiltà oligarchiche, e il peso della loro visione del mondo deve essere stata all’origine non della formazione – ma più spesso, della dissoluzione di città e di interi regni. La diaspora della popolazione di aree urbane e di percorsi commerciali può essere motivata dal bisogno di sottrarsi al controllo e alle pratiche di violenza con cui i gruppi nobiliari si sono sovrapposti alle organizzazioni precedenti; la gente ha preferito tornare a condizioni di autorganizzazione diverse (stagionali, totemiche, repubblicane), ignorando il precetto dello schema evolutivo di Rousseau, che le assegnerebbe ad una fase più antica, e disgregando regni e imperi. Le città sono un prodotto dell’immaginazione, non conglomerati di abitazioni, e la Teotihuacan priva di un governo secoli fa, come la Milano lottizzata di oggi, si estendono sul progetto e sulla visione del mondo in cui crediamo; la distribuzione in classi può essere l’effetto del gioco, dello sport, della conoscenza, della ritualità, senza essere per forza una mappatura della distribuzione del potere coercitivo.

La verità, di cui i reperti archeologici sono solo dei sintomi, rimarrà forse insondabile per sempre. Ma l’esercizio diagnostico di Graeber e Wengrow è prima di tutto una terapia contro l’inerzia della nostra immaginazione intellettuale. Combatte l’atrofia concettuale con cui ripetiamo la stessa storia sull’evoluzione della civiltà, delle tecniche, della politica e dell’economia; è un integratore di ipotesi e di informazioni che rianima un modello di umanità più intelligente e più affezionata alla libertà, alla ricerca della felicità, rispetto a quello che si è sclerotizzato nel mondo in cui noi ci siamo condannati a sopravvivere: quello dove «non ci sono alternative» al nichilismo del lavoro fine a se stesso, dell’arricchimento fine a se stesso, della fine della storia. Ma un universo dove non si attende più un futuro, che non sia la ripetizione vegetativa del presente, non ha nemmeno un passato da ricordare: è per questo che soffriamo la nevrosi della favola di Rousseau, senza cercare di uscirne. Il merito di Graeber e Wengrow è di aver tentato una cura, con uno scavo entusiasmante che attraversa ogni angolo del mondo, e che sollecita la nostra curiosità a far rifluire energie concettuali dove il pensiero era rimasto paralizzato, irrigidendosi nella fede della corrispondenza tra evoluzione tecnica e configurazione politica, dell’irreversibilità del percorso storico, della permanenza dell’umanità in un’infanzia della ragione, da cui solo l’Illuminismo europeo ci avrebbe educato a crescere. Gli uomini sono sempre stati adulti, e hanno sempre saputo scegliere l’alternativa migliore per loro: con buona pace della signora Thatcher, è ora che torniamo a esserlo anche noi.


A confronto con il pensiero di Platone: la memoria e la sua corruzione nell’era digitale.

A giugno di quest’anno Controversie ha organizzato un seminario in forma di tavola rotonda sul tema dell’ontologia dell'intelligenza Artificiale. Durante il dibattito è emersa la possibilità che i grandi modelli linguistici (LLM) si possano affermare – tra le diverse applicazioni che già si intravedono – come una sorta di bibliotecario con pretese di universalità. Questa ipotesi è ben delineata da A. Colamedici e S. Arcagni, nel loro libro L'algoritmo di Babele. Storie e miti dell'intelligenza artificiale (Solferino Libri, 2024) e suggerita tra le righe da Luca Sofri "Intelligenze artificiali" tra virgolette, nel suo blog Wittgenstein.

La biblioteca universale, la biblioteca fantastica che contiene tutto ciò che è stato scritto e che potrà essere scritto, è un tema che – in maniera ricorrente – prende forma nelle riflessioni di filosofi e letterati, da Leibniz allo scrittore Kurd Laßwitz, detto anche Velatus, fino ad ossessionare Jorge Borges (La Biblioteca di Babele) e a ispirare l’imprenditore Brunello Cucinelli, che nel 2022 annuncia la realizzazione di una “sua” biblioteca universale, a Solomeo, dedicata ai lavoratori delle sue aziende.

Il tema della biblioteca è strettamente connesso con quello della memoria; ritrovare un passo di un libro, di un autore richiede di averne memoria e di riuscire a situare questo scampolo di memoria nello spazio della propria biblioteca mentale e, solo successivamente, a ritrovare la collocazione di quell’autore o di quel libro all’interno della propria libreria o di una biblioteca istituzionale o pubblica.

Ecco, una potenziale funzione dei LLM è proprio di fare da contenitore molto ben indicizzato di grandi quantità di conoscenza, e di trovarle e metterle a disposizione degli utenti in modo ragionato e selettivo, su richiesta espressa in linguaggio naturale. E, proprio per la loro capacità di gestire volumi enormi di informazioni in tempi ragionevoli, può tendere a quel grado di infinito sotteso dall’espressione “universale”.

A contrasto con questa idea e prospettiva, vi proponiamo una riflessione di Fabio Talloru sulla memoria e su Platone, che per la memoria e la sua rilevanza nel pensiero umano aveva un debole.

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Se ancora oggi Platone viene inquadrato come filosofo sradicato dalla concretezza del mondo e proiettato nell’Iperuranio, ciò è dovuto perlopiù alla ormai superata (ma ancora presente) visione diffusa dalla formazione scolastica ordinaria. Invece, la filosofia di Platone è profondamente radicata nel mondo fisico e materiale.

Ѐ noto a tutti che per Platone vi sia una memoria di genere immortale, la quale provvede alla reminiscenza (anamnesis) degli oggetti intelligibili. Meno noto e poco esplicito nei dialoghi è invece l’altro genere, quello “mortale” (non è questo il termine platonico), inteso come proprio della condizione incarnata dell’Anima immortale in un vivente (zoòn).

La Memoria (mneme) è una delle facoltà dell’anima, quella di imprimere, tracciare o racchiudere nella forma di ricordo (hypomnema) le informazioni che otteniamo da oggetti incontrati attraverso l’esperienza empirica. Essa è l’insieme di ciò che si è sedimentato nell’anima a partire dalle sensazioni memorabili, prodotte dall’esperienza che facciamo di oggetti che esistono fisicamente nel mondo empirico (il processo completo è esposto nel discorso fisiologico contenuto nel Timeo1).

Il tema che ci interessa indagare in questo articolo è quello della “volatilità” del sapere in Platone, per produrre nuovi spunti di riflessione che siano utili nel dibattito odierno.

Ri-memorazione e memoria mortale.

La reminiscenza (anamnesis) è un’operazione prodotta dalla sola Anima immortale. Più propriamente essa è una forma del ri-memorare oggetti visti nella condizione disincarnata. L’operazione dell’apprendimento (mathesis) di nozioni avviene, invece, durante la vita e il contenuto di una memoria “mortale” (il ricordo) può dissolversi irrimediabilmente. La memoria nella sua totalità cessa definitivamente la propria esistenza con la morte del vivente che lo possiede, perciò con lo scioglimento dei vincoli tra l’anima e il corpo.

In primo luogo possiamo affermare l’esistenza di una memoria “mortale” nel pensiero di Platone per almeno due ragioni:

  1. non ci è pervenuta nessuna traccia diretta, testimonianza indiretta o qualsiasi forma di accenno a proposito della possibilità di reminiscenza di ricordi appartenenti a vite passate - come invece è presente nelle dossografie pitagoriche2, che Egli conosceva e custodiva gelosamente nella propria biblioteca;
  2. nei dialoghi che affrontano problemi legati sia alla reminiscenza che alla metempsicosi, troviamo l’idea che a ogni nuova incarnazione debba esservi un “reset” della memoria in relazione alla vita empirica (si veda nello specifico il “Mito di Er”3)

Durevolezza delle forme della conoscenza.

Parrebbe anche che, sul piano mortale, le conoscenze pratiche e dell’esperienza empirica siano più durevoli rispetto a quelle epistemologicamente superiori (“scientifiche”) del filosofo o del matematico - i quali hanno come proprio oggetto ultimo gli intelligibili.
Questo lo si può dedurre in particolare da un passo del prologo drammaturgico del Timeo. Qui Crizia il Giovane riporta un racconto che apprese da bambino, nel quale Solone incontrò in Egitto un sacerdote che così affermava:

«“Siete tutti giovani d’animo (voi greci) [...] perché non avete nelle vostre anime nessuna opinione antica trasmessa attraverso una tradizione che proviene dal passato né alcun sapere ingrigito dal passare del tempo».

Prosegue poi con la motivazione di questa brevità della memoria collettiva che imputa ai greci:

«ogni cosa viene registrata, fin dall’antichità, nei nostri templi e conservata alla memoria», mentre in Grecia «a intervalli regolari di tempo, come una malattia, torna il flusso del cielo che vi inonda e non lascia illesi fra voi che gli illetterati e i nemici delle Muse (gli incolti), sicché ricominciate nuovamente dal principio, come tornati giovani». Per di più, aggiunge il sacerdote: «nel corso di molte generazioni, i sopravvissuti sono morti senza aver fissato la loro voce nella scrittura». (Tim. 22 d – e)

In questo passo possiamo individuare almeno sei punti di riflessione ancora validi nel contesto d’oggi:

  1. la scrittura esprime qui il suo ruolo di strumento tecnico corruttibile ma preservabile dalla distruzione, perciò tramandabile;
  2. la scrittura è uno strumento tecnico ausiliario, che richiede una stabilità materiale continuativa della società per essere mantenuto e motivato nell’uso ordinario;
  3. il vivente mortale, se non ha né la possibilità né la premura di tramandare il prodotto della propria conoscenza, non conserverà un sapere collaudato da mettere a disposizione dei posteri;
  4. la condizione del dopo-catastrofe è analoga a un “momento zero” della memoria mortale, un “cominciare nuovamente da principio” simile a quello di un'anima incarnata;
  5. i saperi pratici “degli illetterati e degli incolti” sopravvivono più facilmente rispetto a quelli di filosofi e scienziati; sono inoltre propedeutici a porre le basi di quella stabilità materiale e tecnica che rende possibile l’accumulo del sapere;
  6. l’accumulo di un sapere avanzato e complesso, come quello “scientifico” (episteme), non è necessario alla vita, ma è un “in più”.

Platone nei suoi dialoghi ci indica anche che, quando si sia memorizzata un’informazione, la sua durevolezza dipenderà non solo dalle condizioni in cui il suo proprietario la custodisce e preserva, ma anche da come egli l’ha ottenuta. Ad esempio, Crizia il Giovane racconta una storia di cui ha acquisito un ricordo “vivido”, in quanto giovane, attento e partecipativo nel momento del suo apprendimento4. Un caso diverso è invece quello di Fedro che, nel dialogo omonimo, deve confrontarsi con un’opera scritta che necessita di rileggere più volte per ricordarla “alla lettera” al fine di poter tenere il proprio discorso5 basato su di essa.

Nel primo caso, quello di Crizia, la qualità del ricordo è dovuta alle caratteristiche che contraddistinguono il momento in cui egli ha appreso un’informazione, ossia la pregnanza dell’esperienza di apprendimento dei fanciulli. Nel secondo caso, quello di Fedro, la qualità della formazione del ricordo sarà dovuta all’ausilio di strategie mnemotecniche, quali la rilettura e la ripetizione a voce alta.

Conclusioni e domande aperte.

Per concludere, il problema della conservazione, del tramandare e della possibile perdita della memoria (nel senso più ampio che comprende storie, tradizioni, tecniche e conoscenze) è un fenomeno oggi ancora più complesso. In particolare se guardiamo al fenomeno di progressiva sostituzione dei mezzi “tradizionali” di trasmissione dell’oralità e della scrittura manuale in favore della digitalizzazione dell’informazione.

Quante tipologie e forme di “memoria” abbiamo a oggi sviluppato e quali si stanno depotenziando o stanno scomparendo?

Quante forme della scrittura possediamo e quali competenze sono necessarie per farne uso?

Quanti livelli di linguaggio e quante forme di linguaggio esistono per la sola codificazione informatica dell’informazione?

Quali i pericoli a cui si espone la loro conservazione?

Ai cataclismi menzionati dal sacerdote egizio incontrato da Solone, evidentemente ancora presenti e comunque imprevedibili quali si aggiungono oggigiorno?

Ovviamente, sono queste tutte domande complesse che richiedono risposte altrettanto articolate. Ad esempio, per i supporti di archiviazione digitale, da cui oramai dipendiamo largamente, sono deleteri i fenomeni elettrici, magnetici ed elettromagnetici, i quali sono tutti in grado di cancellare, corrompere o rendere inaccessibili, se non addirittura irrecuperabili, le informazioni registrate.

L'informazione digitale e la sua memorizzazione quanto sono volatili? Quanto durevoli? Quanto sono "delicate"?

La stessa obsolescenza delle tecnologie e delle tecniche di conservazione e riproduzione dell’informazione, giorno per giorno avvia verso la fine la riproducibilità delle precedenti forme di “memoria”, sia collettiva che individuale (foto, video, documenti, scansioni di immagini, etc.). Gli attuali dispositivi che possediamo saranno sempre meno reperibili con l’avanzare di nuove tecnologie e dei relativi sistemi che ne permettono il funzionamento?

I dispositivi attualmente in uso, per quanto collaudati, non saranno un giorno più compatibili con quelli più avanzati, per protocolli di scrittura e lettura?

Saranno reperibili le tecnologie di giunzione che permettono di interfacciare fisicamente vecchi e nuovi dispositivi di archiviazione di memoria?

Le tecnologie di traduzione e conversione reciproca tra vecchi e nuovi protocolli di archiviazione dell’informazione saranno ancora implementate sui nuovi dispositivi o saranno ancora reperibili e adoperabili?

Quali altre problematiche sono riscontrabili o sono di imminente larga diffusione?

La memoria è un affare complesso, sia individuale che collettivo.

 

NOTE:

1 Tim. 42 d - segg. e 69 c - segg.

2 Centrone, B. 1996, Introduzione a i pitagorici, Editori Laterza, Roma-Bari, pp. 52-61

3 Resp. 614 b - 621 d

4 Tim. 26 b

5 Phaedr. 228 a


La costruzione sociale e letteraria dell'animalità - Flush, una biografia di Virginia Woolf

In Flush, una biografia[1], Virginia Woolf fa parlare Flush, un cane, un animale non umano, in un modo che si manifesta ad una distanza davvero minima dall’umano, in cui si riscontrano una corporeità fortemente antropomorfa e delle forme di intelligenza che ricalcano, almeno in parte, lo schema delle intelligenze multiple[2]: l’intelligenza sociale, quella mappale, la pragmatica, la mimetica.

Questo racconto mette in scena la società patriarcale inglese e la concezione dell’animale e della donna che fanno capo a questo modello sociale; anticipa, in maniera non del tutto esplicita, una parte dei temi dell’impegno femminista, seppure sotto una patina snob ed elitaria, a favore del suffragio, della possibilità di studiare e di lavorare davvero, della autodeterminazione delle donne, poi sviluppati nelle Tre ghinee; è un racconto affettuoso e intellettualmente onesto, in cui si ritrovano molti dei temi che afferiscono al concetto di costruzione sociale dell’animale.

Woolf utilizza una prosopopea[3] indiretta, in grado di attribuire pensieri e scelte morali in forma condizionale al cane: “sono io che dico che pensa questo, senza esserne certa”, questo sembra essere il suo intertesto.

“Flush” è – di fatto - un inseguimento di biografie: Woolf racconta da narratrice fuori campo la vita di Flush e, nel farlo, mette in scena - secondo il punto di vista di Flush – uno spaccato biografico di Elisabeth Barret Browning, che dura quanto la vita di Flush con lei, i 12 anni dal 1842 al 1854.

Il libretto racconta di Elisabeth, invalidata da una malattia (riconducibile ai nervi, all’ansia o all’effetto dell’atmosfera paternalista e patriarcale della famiglia Barrett) che le non le permette di uscire dalla sua stanza, dell’arrivo e dell’amore di Robert Browning, del rapimento di Flush – che è un punto di snodo della storia e delle percezioni di tutti - del trasferimento della coppia a Firenze, del ritorno a Londra e del successivo e definitivo ritorno di Flush a Firenze.

Siamo di fronte ad un testo-pretesto per narrare la biografia di Elisabeth Barret Browning, il patriarcato inglese, la critica sociale alla nobiltà inglese e alle sue idiosincrasie, la critica all’illuminismo e alle – in un gergo femminista diffuso oggi - menxplenation nella cornice un po’ stereotipata della vita genuina, piena di eros e di luce, in Italia.

COSTRUZIONE SOCIALE E LETTERARIA DEL CANE

Il cane Flush, archetipo dei cani è definito e raccontato con diversi registri narrativi, ognuno dei quali rispecchia il soggetto con cui in quel momento ha a che fare Flush e – di conseguenza – diverse possibili forme di costruzione sociale dell’animale

Consideriamo solo i registri narrativi più aderenti al tema dell’animalità:

  • il registro formale, quasi istituzionale e imperiale, dedicato al razzismo della linea di sangue del cane; è collegato alla medesima ossessione della linea di nobiltà nella società inglese umana – e insieme di costruzione tradizionale del cane
  • un registro apertamente patriarcale, il cui esemplare rappresentativo è Mr. Barrett, patriarcale nei confronti della figlia, della sua malattia e anche del cane Flush, che non è neppure considerato poiché non fa parte del suo universo, a differenza dell’altro cane, il segugio Catilina, che ha un senso pratico: è un segugio!
  • il registro illuminista, raziocinante, positivista e essenzialista di Robert Browning, che è il modo di essere colto e progressista del patriarcato
  • due registri di Elisabeth Barrett Browning: uno arcadico, romantico, anche questo piuttosto tradizionale, e un registro più intimo che trascende la banalità stereotipata
  • un ultimo, fondamentale registro: quello di un narratore che si immerge in una caninità profonda, inevitabile, materialista, centrata sulla corporeità

FORMA

Troviamo questo registro nel primo capitolo, nel racconto della razza Spaniel, in paragrafi permeati di specismo e di gradi gerarchici di nobiltà – con un raffronto con la nobiltà umana: “il cane come si deve” deve essere così e così, deve seguire delle linee di discendenza e avere dei tratti somatici ben precisi – una linea di demarcazione netta tra pedigree e niente del tutto (p.10)

Fa parte di questo schema di costruzione sociale anche la nozione di cane oggetto di contrattazione, cosa da comprare e da vendere, proprietà che può essere alienabile o non alienabile. Flush è inalienabile per Miss Mitford, “appartiene a quel raro ordine di oggetti che non può essere messo in relazione col denaro” (p.18) ma che si può regalare, suo malgrado. E viene quindi regalato alla signorina Barrett (p. 19).

TRADIZIONE

Ecco, in questo modello, la connotazione più tradizionale delle caratteristiche del cane: fedele, sensibile, innamorato del padrone in modo stereotipato e, nello stesso tempo, istintivo, legato al presunto ricordo ancestrale della caccia. È l’animale “tutto instinto”, senza mente, senza intelligenza, senza raziocinio – contrapposto alla tradizione metafisica di casa Barrett, e alla razionalità di Robert Browning.

PATRIARCATO

Centrato sul padre di Elisabeth, oppone al rapporto di amorosi sensi di Elisabeth con Flush la praticità funzionale di Catilina, segugio che ha la sua ragione d’essere nella caccia; alla sensibilità di Elisabeth la durezza del patriarca che decide per conto della figlia, che si prende cura di lei con piglio militaresco (“il pranzo è stato consumato? sono state eseguite le mie disposizioni?”), dando ordini e pretendendo risultati.

Il patriarcato[4] ha la sua espressione più esemplare nell’episodio del rapimento, quando Mr. Barrett decide inappellabilmente che non si pagherà il riscatto. Flush, nella concezione del patriarca è un non-umano, un animale distante, irrilevante, al massimo funzionale a dare un po’ di svago alla figlia convalescente ma sostituibile. Morto un Flush se ne fa un altro.

ILLUMINISMO

È Robert Browning. Distantissimo da Flush nel periodo del corteggiamento, al massimo condiscendente: anche per Browning Flush è un cane, un animale senza anima, senza mente, senza i caratteri che distinguono l’umano dall’animale. Non è degno di interesse se non come epifenomeno dell’amata Elisabeth[5]. Robert Browning “passa sopra” Flush in senso fisico: anche quando viene morso per gelosia non reagisce, passa sopra, oltre. Ci si può occupare di un piccolo cane quando la vita chiede la poesia? Eppure, ancora, per il principio del prolungamento e dell’ingraziamento dell’amata, Robert porta i pasticcini proprio per Flush.

Browning, però, è illuminista, razionalista e idealista, tutte caratteristiche che suggeriamo essere necessarie per essere patriarcale. Affronta gli eventi della vita con lo stesso atteggiamento da uomo di grandi dimensioni con cui si muove, si toglie i guanti gialli, si siede con ieraticità nella poltrona che gli verrà riservata.

Il razionalismo idealista e la concezione dell’animale che ne fa parte, emerge in modo palese dopo il rapimento: Browning spiega con autorevolezza che non si deve pagare il riscatto per non cedere al ricatto del male contro la legalità, per non permettere il dilagare della malvagità, per preservare il lato sano dell’umano. Il cane Flush, animale senza rilevanza etica, va in minoranza, è sacrificabile, deve – anzi - essere sacrificato sull’altare del principio. («di un eroe morto che se ne farà?», cantava De Andrè). (p. 85)

MATERIALISMO, VICINO ALL’ANIMALITÀ

È il registro più genuinamente vicino alla caninità, intesa come modo di essere animale condiviso con l’umano. Emerge nei momenti in cui Flush “esce” dagli stereotipi tradizionali e “entra” nella dimensione della corporeità, dominata dai sensi e dai bisogni, con due modalità di espressione.

La prima è quella della libertà di movimento: Flush stava bene a Three Miles Cross, dove poteva girare liberamente nella tenuta e viene, poi, chiuso dentro ad una stanza, in cui la libertà di movimento è ridotta drasticamente “sulle prime la costrizione era insopportabile”. L’assenza di libertà di movimento risulta essere molto più invalidante dell’assenza di altre libertà[6], come quella di parola, ad esempio, ed è evidente la sofferenza che genera.

La seconda è la prevalenza dei sensi, soprattutto dell’olfatto: quando “sente” l’odore della femmina in calore e fugge per l’impulso sessuale (che Virginia Woolf chiama amoroso), quando entra a Wimpole Street e sente gli odori di casa, quando descrive l’ambiente in cui è rinchiuso dai rapitori, tutto fatto di odori e rumori, intensamente psichedelico, la cui immagine è fondata tutta sulla corporeità e ricorda, per la sete, il digiuno del cane kafkiano; infine, in tutta la parte del racconto che si svolge a Firenze: Flush è cane fino in fondo, dedito agli odori, alla sensualità necessaria, al mangiare e sopravvivere. (p.122)

In questo registro narrativo, la Woolf compie due operazioni di avvicinamento tra animale umano e non umano, come fa Plutarco in Grillo, in un senso attribuendo a Elisabeth una sensibilità più animale che umanista, nell’altro senso ammettendo una razionalità del cane: Flush identifica dei nessi di contiguità (se non di causalità) tra fenomeni: i segni della città dicono che deve stare al guinzaglio, è assodato; l’altra facoltà - tradizionalmente negata all’animale – che Woolf concede a Flush è la coscienza o, meglio l’autocoscienza riflessiva, quando questi si guarda allo specchio ed sollevato: è di buon rango!

Tra l’altro, questo è uno dei pochi momenti di prosopopea in forma diretta – chiacchiere classiste e snob dei cani di Wimpole street - e definitivamente funzionale ad un discorso che non riguarda gli animali non umani ma il classismo: si parla di linee di demarcazione!

ELISABETH BARRET BROWNING: ARCADIA, SPECCHIO DEL SÈ E INTIMITÀ ANIMALE

Il discorso di Elisabeth è giocato su più registri: uno arcadico, del tutto immaginario e favolistico, in cui Flush è espressione della natura selvaggia, benevola, che fa parte del sublime naturale; banalità stereotipata e stucchevole, che Woolf usa come critica al naturalismo arcadico del ‘700. Un secondo, altrettanto tradizionale, della specularità del sé: Elisabeth proietta le proprie emozioni e pensieri su Flush, facendone un cane antropomorfo e artefatto; è pura costruzione sociale, parente stretta della nozione di fedeltà canina cieca ed assoluta. Nonostante la concessione della coscienza, troviamo questo registro nell’episodio dello specchio: quando Flush si guarda allo specchio, Elisabeth lo pensa filosofo ma, in realtà, Flush pensa ai suoi quarti di sangue.

L’ultimo registro è molto intimo e avvicina Elisabeth a Flush attribuendole delle facoltà e delle affezioni caratteristiche di tutta l’animalità: essa “è” mangiare e bere, poi diventa sensualità e possibilità di affrancamento con il matrimonio e infine “è” godimento di una libertà di movimento e di determinazione mai visti prima.

È in questo registro che – sempre in occasione dello snodo narrativo e comportamentale del rapimento – Elisabeth emerge con due nozioni in controtendenza, innovative: pur consegnandosi nelle mani di un altro patriarca paternalista travestito, quale è il suo futuro marito Robert Browning, si autodetermina, si sposa contro il volere del patriarcato (ma col patriarcato) e si veste della sua rilevanza morale, in contrappunto all’antropocentrismo etico di Browning e dei Barrett.

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Per tirare le somme, in questo denso racconto, Virginia Woolf tratteggia dei caratteri tipici di tutta l’animalità, sia umana che non umana, i tratti di tranquillità di cibo e di movimento, bisogni chiave del vivente animale, gli stessi che sottolineano Cervantes in Il dialogo dei cani (Marsilio Editore, 1993) e Kafka (cit. e altre opere [7]).

A questi caratteri, Woolf oppone tre antropocentrismi:

  • ontologico: per Mr. Barrett, Flush è altro, è un animale funzionale, senza mente, senza caratteristiche umane. Per Mr. Browning, Flush è corpo, mentre lui è mente;
  • epistemologico: per i personaggi patriarcali e per quelli più feroci il cane non capisce e non sente come “noi”;
  • etico: Mr. Barrett e Robert Browning è sacrificabile, perché solo funzionale, perché eticamente irrilevante rispetto agli ideali di civiltà e di onestà.

La co-protagonista del racconto, Elisabeth, come abbiamo visto, smussa invece l’antropocentrismo ontologico, riavvicina le animalità – quella umana e quella non umana - anche epistemologicamente e nega del tutto quello etico. E va molto oltre: attribuisce a Flush la mente, l’autocoscienza riflessiva e, nella fase fiorentina, anche la progettualità, dando voce all’intenzione di riconoscere al non umano gradi diversi di intelligenza mappale, solutiva, relazionale, mimetica, autoimitativa – Flush impara dai suoi errori e dai suoi successi – e, infine, riflessiva.

 

 

NOTE

[1] Utilizziamo l’edizione Nottempo, 2012

[2] Cfr.: Biuso A., Animalia, Valverde, Villaggio Maori, 2020

[3] La prosopopea è una figura retorica che consiste nel far parlare o agire come persone esseri inanimati, concetti astratti o – appunto - animali

[4] È il patriacato che VW contrasta e denuncia esplicitamente a pag 13: “il dottor Mitford era un egoista: aveva dissipato il patrimonio suo e quello della moglie, per poi intaccare la rendita della figlia

[5] È permesso esprimere dei dubbi sul sentimento di R. Browining per Elisabeth: è sentimento vero per lei o per la sua poesia? Vero è che Elisabeth e la sua poesia sono la stessa cosa. Lei è la sua poesia.

[6] Cfr.: F. Kafka, Una relazione per un'Accademia, in F. Kafka, Racconti, Feltrinelli, 1970

[7] Indagine di un cane e Il Digiunatore, in F. Kafka, Racconti, Feltrinelli, 1970


La sensibilità di Gaia - Gli aspetti controversi dell’“ambientalismo scientifico” 

Come molti sanno, l'ipotesi Gaia è stata formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979, nel libro Gaia. A New Look at Life on Earth e co-sviluppata dalla microbiologa Lynn Margulis negli anni Settanta. Da quel libro sono nate moltissime riflessioni, anche nella sociologia della scienza.

GAIA: NON (SOLO) UN FATTO SCIENTIFICO, MA UN MODO DI IMPARARE A SENTIRE

Quando Lovelock propose l’ipotesi di Gaia, descrisse la Terra come un sistema vivente e autoregolativo: non un organismo unico, ma una rete di processi interdipendenti – oceani, atmosfera, suoli, specie viventi – che si influenzano a vicenda mantenendo condizioni favorevoli alla vita. Gaia, dunque, non è una divinità o un’entità mistica: è una maniera scientifica per dire che il pianeta risponde, reagisce, cambia insieme alle nostre azioni.

Bruno Latour (2014) riprende questo concetto, ma gli dà una torsione decisiva. Per lui il problema non è capire che cosa sia Gaia, ma come impariamo a percepirla. Non basta accumulare dati, grafici o modelli climatici per farci sentire la Terra come un attore con cui siamo in relazione. Gaia, dice Latour, non entra nel mondo attraverso la conoscenza meramente “scientifica”; entra quando diventiamo sensibili ai suoi segnali. E diventare sensibili non è un fatto automatico: è un apprendimento.

Latour parte da una domanda semplice: «Come diventiamo sensibili?» In altre parole: cosa ci fa accorgere che il mondo sta cambiando? Cosa ci fa sentire il ritorno delle nostre azioni sull’ambiente? La risposta è che i dati non bastano. Servono, ma non producono sensibilità da soli. Possiamo conoscere il riscaldamento globale senza percepirlo; sapere tutto delle emissioni senza sentire alcun coinvolgimento morale. Gaia allora non è – o non dovrebbe essere – un’idea astratta: è il nome che diamo a questo nuovo tipo di sensibilità verso il pianeta. È l’esperienza del “feedback” della Terra sulle nostre azioni.

SENZA ESTETICA NON C’È ECOLOGIA: PERCHÉ I DATI NON BASTANO

Qui entra in gioco l’estetica, nel senso originario del termine: aesthesis significa “percepire attraverso i sensi” e “rendere sensibile”. Per questo Latour (2014) rifiuta la separazione rigida tra scienza e arte. Gaia passa attraverso studi geologici e climatici, certo, ma anche attraverso romanzi, film, fotografie, metafore, immagini speculative. Tutto ciò che ci permette di percepire segnali minimi – un cambiamento nella qualità dell’aria, una siccità, una stagione fuori tempo, un paesaggio che non riconosciamo – e di collegarli tra loro, diventa una forma estetica che permette di percepire Gaia.
Anche Timothy Morton, uno dei teorici più radicali dell’ecologia contemporanea, insiste sullo stesso punto: la sensibilità ecologica non cambia semplicemente aggiungendo informazioni. In Hyperobjects (2013) e poi in Being Ecological (2018), Morton si lamenta apertamente del fatto che la crisi climatica continui a essere raccontata come un problema di più dati, più grafici, più evidenze, sottolineando che abbiamo già avuto mezzo secolo di informazioni sempre più precise senza che questo abbia modificato la nostra relazione con il pianeta. Conoscere non significa sentire.
Per Morton, il problema è esattamente quello che Latour vede in Gaia: l’assenza di un vero lavoro estetico, cioè di un cambiamento nella nostra capacità di percepire ciò che accade. I dati, da soli, possono descrivere la temperatura media globale, ma non aprono automaticamente uno spazio affettivo, immaginativo o etico capace di trasformare la nostra attenzione. Il rischio, dice Morton, è che il sovraccarico di informazioni produca l’effetto opposto: una sorta di torpore, una distanza anestetica che ci fa guardare la crisi climatica come un fenomeno astratto.

Questa critica rafforza l’idea che Gaia non sia solo un concetto scientifico, ma una questione di arte e di politica – o di “arte politica”. Per questo la sensibilizzazione a Gaia è un processo collettivo. Si costruisce nelle famiglie, nelle scuole, nelle discussioni quotidiane, ma soprattutto negli spazi della società civile: associazioni, movimenti, gruppi locali, comunità che sperimentano nuovi modi di stare a contatto con i problemi. Sono quelle che Kosnoski (2005) chiama “enclavi estetiche” (aesthetic enclaves): luoghi dove si impara a sentire insieme, a dialogare, a trasformare il nostro modo di preoccuparci per qualcosa.

QUANDO L’“AMBIENTALISMO SCIENTIFICO” ANESTETIZZA INVECE DI SENSIBILIZZARE

Negli anni Ottanta e Novanta molte organizzazioni ambientaliste costruivano il proprio messaggio sull’idea di “ambientalismo scientifico”: più dati, più misurazioni, più evidenze. Era una strategia comprensibile, nata nel tentativo di mostrare che i problemi ecologici non erano opinioni, ma fatti. L’intenzione era nobile: rendere oggettivo l’allarme climatico. Ma questa impostazione, centrata quasi esclusivamente sulle evidenze, ha prodotto un effetto collaterale imprevisto: una sorta di anestesia percettiva. 

Con l’accumulo continuo di grafici, curve della CO₂, report sempre più tecnici, il rischio è stato quello di ridurre la crisi ecologica a un problema di calcolo, depurandola delle dimensioni affettive, morali, immaginative che permettono alle persone di sentirsi coinvolte. L’idea che “la scienza parlerà da sola” ha finito per lasciare “senza voce” i problemi ecologici. E infatti i dati, presi da soli, non convincono nessun climascettico: chi non vuole sentire, non sente nemmeno di fronte a migliaia di pagine dell’IPCC. Non perché i dati siano sbagliati, ma perché la sensibilità non si modifica per la mera accumulazione di informazioni. 

L’ambientalismo scientifico, nel suo insistere sulla neutralità dei fatti, ha spesso trascurato il lavoro estetico necessario a trasformare la percezione. Questa stagione dell’ambientalismo “tecnico” mostra che la questione ecologica non è una questione di quantità di dati, ma di qualità dell’attenzione. Non basta mostrare: bisogna rendere sensibili. Senza questo passaggio, la scienza rimane un rumore di fondo, incapace di attivare responsabilità, immaginazione o cura. È proprio qui che Gaia, come figura estetica e sensoriale, offre un’alternativa: non un mondo da “dimostrare”, ma un mondo che si impara a sentire.

CONCLUSIONE: GAIA COME ARTE POLITICA

Se Gaia non è qualcosa da conoscere di più, ma qualcosa da percepire meglio, allora la sfida che abbiamo davanti non riguarda l’informazione, ma la risposta. La sensibilità a Gaia non nasce nei laboratori o nei report, ma nelle forme di vita che rendono possibile quell’attenzione condivisa che il solo sapere non produce. È in questo spazio intermedio – tra percezione, immaginazione e pratica – che la questione ecologica diventa veramente politica: perché ci chiede non soltanto di capire il mondo, ma di imparare a rispondergli.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Kosnoski, J. (2005). John Dewey’s Social Aesthetics. Polity, 37(2), 193–215.

Latour, B. (2014). Sensitizing. In C. Jones (Ed.), Experience: Culture, Cognition, and the Common Sense (pp. 315–338). Cambridge, MA: MIT Press.

Lovelock, J. E. (1979). Gaia: A New Look at Life on Earth. Oxford: Oxford University Press.

Morton, T. (2013). Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Morton, T. (2018). Being Ecological. Cambridge, MA: MIT Press.


Sono diventato Morte, il distruttore di mondi

Quando J. Robert Oppenheimer, padre della bomba atomica, vide esplodere il primo ordigno nucleare nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945, non esultò. Non parlò di successo, né di trionfo. Pensò invece a un verso antico della Bhagavad Gita: “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi.”

La frase cita parte del verso 32 capitolo 11 della Gita, uno dei testi fondamentali della spiritualità indiana : “Io sono il Tempo (Kāla), il grande distruttore dei mondi, e sono venuto per annientare queste genti. Anche senza di te, tutti i soldati schierati moriranno.

Nella Gita, il principe guerriero Arjuna si trova sul campo di battaglia di Kurukshetra,  tormentato all’idea di dover combattere contro parenti, amici e maestri. Il suo auriga è Krishna, che è in realtà una manifestazione divina che, per convincerlo a combattere, gli mostra la sua forma cosmica, una visione terrificante e sublime della divinità in tutta la sua potenza. Krishna dice ad Arjuna che il suo intervento è inevitabile, perché l'ordine cosmico va comunque avanti. Arjuna non è l’agente del destino: è solo uno strumento del dharma, dell’ordine cosmico. 

Nel testo sacro la “Morte” o “Tempo” simboleggia il movimento inevitabile dell’universo, oltre il bene e il male umano; quindi, la frase non è una celebrazione della distruzione, ma una riflessione sul destino, sul ruolo dell’individuo, e sul fatto che la volontà divina (o il corso del tempo) trascende il volere umano. 

Quando, dopo il test nucleare, Oppenheimer cita questa frase, la decontestualizza parzialmente, ma in modo molto significativo: lo scienziato si identifica non con Krishna, ma con l’atto distruttivo stesso, con la bomba. 

Egli dice: “ho partecipato a un atto che cambia per sempre il corso del mondo e di cui ora sono consapevole. Abbiamo forse superato un limite che dovevamo tenere all'orizzonte?”. È una forma di shock esistenziale e morale: ha creato qualcosa che trascende il controllo umano, come il tempo o la morte.

Quella frase non è solo un riflesso personale di turbamento, ma il simbolo di un dilemma che attraversa tutta la storia moderna, la tensione tra il progresso e il darsi dei limiti. In essa si concentra la domanda che ogni società avanzata deve porsi: fino a che punto possiamo spingerci nella ricerca, senza compromettere ciò che ci rende umani?

La tecnoscienza è uno degli strumenti più potenti mai sviluppati dall’umanità. Gli strumenti che ne sono emanazione ci hanno permesso di sconfiggere malattie, esplorare l’universo, connettere continenti e prolungare la vita. Ma ogni nuova frontiera porta con sé un potenziale di meraviglia e di disastro. La meraviglia è irresistibile, ci chiama e ci muove; la consapevolezza di dove andremo, rispondendo alla chiamata, arriva solo dopo.

 Nel caso della bomba atomica, la scoperta della fissione nucleare — una conquista intellettuale straordinaria — fu tradotta in una tecnologia di distruzione totale.

È qui che nasce la controversia: la scienza deve essere giudicata per la conoscenza che produce o per l’uso che se ne fa? O, più radicalmente, è possibile separare la ricerca pura dalle sue applicazioni concrete?

Sponsorizzare il progresso scientifico sembra essere giusto e necessario. A nostro avviso, fermarlo sarebbe come spegnere il fuoco per paura che bruci: sarebbe negare il potenziale del pensiero umano. Tuttavia, la fede cieca nella neutralità della scienza è pericolosa. La storia ha mostrato che non tutto ciò che può essere fatto, deve essere fatto. E lo ha mostrato con chiarezza molte volte. Ma la voce della meraviglia è irresistibile.

Oggi, le sfide si ripresentano in forme nuove: intelligenza artificiale, ingegneria genetica, manipolazione climatica, automazione militare. Anche qui la scienza offre strumenti di potere, ma chi decide come usarli? E chi ne sopporta le conseguenze?

Promuovere la ricerca senza interrogarsi sulle sue implicazioni etiche equivale a sponsorizzare la hybris umana che pretende di dominare la natura e il destino, dimenticando i propri limiti. 

Il caso Oppenheimer è paradigmatico. Egli non era un folle né un cinico. Era un uomo colto, brillante, consapevole. Ma fu catturato dalla logica del tempo: la corsa contro i nazisti, la pressione politica, il desiderio di riuscire. Quando la bomba fu pronta, non c’era più spazio per fermarsi a riflettere. Da allora, si è discusso a lungo su cosa avrebbe potuto o dovuto fare; ma la domanda non riguarda solo lui, bensì tutti noi.

La scienza non avanza da sola. È parte di una rete fatta di governi, finanziamenti, opinione pubblica, interessi. Se vogliamo un progresso che non ci conduca alla rovina, dobbiamo creare una cultura della responsabilità condivisa. Dobbiamo stabilire come società estesa qual è la soglia del possibile e il confine dell'ammissibile.

Sono diventato Morte, il distruttore di mondi.

Non è una frase contro il progresso scientifico. È un avvertimento sulla necessità di non separare mai la conoscenza dalla saggezza, di non confondere la neutralità degli strumenti con l’innocenza dei fini. 

I metodi sono neutrali, gli effetti non lo sono. Ogni nuova scoperta di impatto sociale ci avvicina a soglie irreversibili; confini oggi solo ipotizzati che improvvisamente vengono superati e socializzati. Per questo la riflessione critica deve precedere e non seguire l’applicazione tecnologica. Il futuro non si decide con le risposte giuste o sbagliate, ma ponendo le domande che richiedono quelle risposte prima di agire.

La neutralità degli strumenti non esiste.


Recensione di Oltre la tecnofobia, il digitale dalle neuroscienze all’educazione - Terza parte

Dopo una sintetica recensione del libro Oltre la Tecnofobia (qui), una critica al concetto di onlife e della rimozione dell'infanzia (qui), Simone Lanza continua a confrontarsi con le tesi degli autori e affronta i punti nodali del libro, le implicazioni cliniche e pedagogiche dei disagi sociali provocati dall’uso precoce e prolungato degli schermi.

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LA DIPENDENZA DA INTERNET NON ESISTE?

Sappiamo che gli smartphone alterano il ciclo dopaminergico, creano abitudini e persino dipendenze: non è un mistero perché questo è descritto da chi disegna queste app per metterle gratuitamente sul mercato riuscendo a trarne profitti enormi. Al giorno d’oggi esiste un’ampia discussione  sulla classificazione delle varie dipendenze da internet, trattandosi di un tema di salute pubblica delicatissimo. Incuranti della complessità della situazione gli autori di Oltre la Tecnofobia hanno deciso di abbracciare le posizioni di Matteo Lancini, che sostiene che il disagio dei giovani non sia da attribuire all’iperconnessione, bensì alle “mamme virtuali”. Avvalendosi di Lancini, il fenomeno degli hikikomori è così commentato dagli autori: “I media digitali lungi dall’essere la causa del ritiro, sono piuttosto ciò che consente a questi adolescenti di rimanere ‘attaccati’ al mondo evitando un esito psicotico della loro sindrome”. (p.95) Gli autori sostengono ogni abuso debba considerarsi nocivo, ma che ciò non deve condurci – ed questo il tema che sta loro molto a cuore -  a “incolpare la tecnologia digitale” (p.67)! Come si fa pensare di poter dare la colpa alla tecnologia se non la si è già prima antropomorfizzata?

Per loro “l’utilizzo specifico è dettato e condizionato dal modello di società contemporaneo” (p.67), ma non spendono una parola a spiegare come le tecnologie digitali modellino la società. Credono di dovere emettere una sentenza sulla colpevolezza o innocenza della Tecnologia (al singolare, si vedrà poi perché), ma non si esprimono mai sugli umani che sono proprietari di queste tecnologie e le usano come mezzi di produzione. Come se le finalità non fossero di chi progetta le Tecnologie. L’antropomorfizzazione della Tecnologia consiste nel neutralizzare ogni carattere etico e politico della tecnica, rimuovendo il ruolo degli umani che vi investono soldi. Questo è proprio il carattere ideologico, su cui si tornerà, mai messo in discussione in questa edulcorante Weltanschauung.

Non esiste Una dipendenza da internet o da smartphone ma le organizzazioni mediche stanno mettendo a fuoco molti disturbi legati all’uso compulsivo di queste tecnologie. Si tratta di fasce sempre più vaste della popolazione che sono risucchiate in comportamenti patologici indotti per così dire dal design. La visione di chi sostiene che la psicosi non solo non venga amplificata dall’effetto schermo ma persino lenisca la malattia e mantenga attaccati al mondo (sic), è estrema, molto discutibile e pericolosa dal punto di vista terapeutico. 

Sulla questione clinica, vorrei rassicurare le decine di migliaia di genitori che chiedono ai loro figli di uscire dalla stanza, che non tutti la vedono come Lancini e che ci sono terapisti che aiutano gli adolescenti a distaccarsi dall’oggetto che produce la loro dipendenza (lo schermo), senza far sentire in colpa i genitori.

In ogni caso è chiaro che questo libro vorrebbe mettere un bavaglio a chi solleva la questione del disagio sociale, bollandolo come tecnofobico. E allora possiamo dire tranquillamente che il re è nudo perché la prova più evidente che le categorie di uso e abuso siano inadeguate a interpretare la complessa questione di salute pubblica (di cui gli hikikomori sono solo una parte) è testimoniata dal fatto che le Big Tech come Meta, pur di non farsi dare regole, sono disposti a darsele da sole. 

Ad oggi l’OMS ha già riconosciuto la dipendenza da videogioco e da gioco d’azzardo, mentre esiste una vasta discussione sulla classificazione di altre forme di dipendenza da internet (oltre al fenomeno degli  hikikomori, c’è la dipendenza da relazioni virtuali e social network, la net compulsion o shopping online, dismorfismo, etc...), si tratta di molti comportamenti patologici che sono soggetti a studi perché in continuo (non rassicurante) aggiornamento, dove il confine tra dipendenza e abitudine è sfumato. In ogni caso gli autori non hanno dubbi sul dover sollevare da ogni responsabilità la Tecnologia digitale quasi fosse una umana presenza. 

Non stupisce quindi che gli autori critichino Jonathan Haidt, reo di avere pubblicato La generazione ansiosa. Riprendendo quasi alla lettera una precedente recensione (V. Gallese, Haidt: quelli che... il digitale, in “Doppiozero”, 17/9/2024) bollano come tecnofobico un libro documentatissimo che contiene quasi un migliaio di fonti. La questione è che dal 2012 è aumentato in modo intensivo l’uso dei social network tra le adolescenti ma sono anche aumentati fenomeni di ansia, depressione, isolamento e suicidi. Per Haidt non c’è solo correlazione ma anche un nesso di causalità. Gli autori propongono altre cause più complesse: “accesso alle armi, la discriminazione, l’isolamento sociale e le difficoltà economiche” (p.66).  Nel libro (a differenza di quello di Haidt) non c’è però nessun tentativo di  convincere il lettore che queste siano le cause plausibili. Non vi sono spiegazioni per cui non mi è possibile comprendere questa loro diversa ipotesi. Trovo difficile capire come l’accesso alle armi, la discriminazione, l’isolamento sociale e le difficoltà economiche possano essere state la causa di comportamenti non certo patologici ma che hanno costretto il CT Spalletti a regolamentare rigidamente l’uso dei dispositivi durante la fase finale di Euro 2024 agli atleti della nazionale di calcio maschile.

Lasciamo a chi legge farsi un’idea del dibattito tra Jonathan Haidt e Candice Odgers, suggerendo  il franco confronto pubblicato su MicroMega 3/2025 (“Disconnessi. L’impatto dei social sulle nostre vite”). Un altro confronto è stato pubblicato da Internazionale. Mi limito a due osservazioni. La prima è che se esiste una correlazione questo dovrebbe costituire un campanello d’allarme sufficiente per applicare il principio di precauzionalità fino a nuovi e approfonditi studi, proprio perché la correlazione non implica ma non esclude affatto la causalità. In secondo luogo vorrei ricordare Austin Bradford Hill, il noto epidemiologo britannico, celebre per i suoi studi che hanno dimostrato il rapporto tra fumo e cancro polmonare (quando ai suoi tempi in tanti sottovalutavano la correlazione, sic). Hill aveva elaborato una serie di nove criteri per dedurre la relazione causale tra un fattore di rischio e una malattia sulla base di correlazioni statistiche. Allora le lobbies del tabacco insistevano proprio con le stesse  argomentazioni di oggi: “Correlation does not imply causation”. Gli autori sono più avanti: la correlazione è il contrario della causalità e pertanto   qualunque divieto va escluso e ogni regolazione rifiutata. E veniamo così alla quarta critica, alla questione educativa.

VIETATO VIETARE!

Gli autori ci propongono l’idea pedagogica rivoluzionaria, del tutto simile a quella del 1968: vietato vietare. Non citano questo slogan di vecchia data, ma lo aggiornano e lo ampliano persino alla protezione: “ogni scelta di protezione o di divieto non è educativa” (p.). Per loro controllo, divieto e protezione sono la stessa cosa. Iniziamo quindi con il rassicurare chi legge che il pedagogista Paulo Freire, certamente caro ai sessantottini e da loro invocato come punto di riferimento teorico, non era certo incline a posizioni libertine che “vedono una manifestazione d’autoritarismo in ogni legittima espressione di autorità”. Freire era incline invece a una posizione più pacata, quella di una persona “democratica, coerente con il suo sogno solidale ed egualitario, per la quale non può esistere autorità senza libertà o questa senza l’altra.”

Oggi nel dibattito pedagogico contemporaneo, proprio seguendo Freire non è possibile concepire l’autorità senza la libertà, ma nemmeno la libertà senza l’autorità. L’appello a sviluppare pensiero critico suona retorico e Freire si lamentava proprio dell’assenza dei limiti normativi. Gli autori si spingono ad asserire persino che ogni protezione è autoritaria: ma come spiegare le leggi contro il lavoro minorile? E i divieti di balneazione? E il divieto di passare con il rosso al semaforo sarebbe diseducativo? Non sempre applicare un divieto  produce un effetto contrario.

La realtà di oggi sembra al contrario esser dominata da un’assenza di limiti e regole, al punto che, per dirla con un noto slogan pubblicitario, “l’unica regola è che non ci siano più regole”. Secondo Daniel Marcelli, punto di riferimento nel dibattito francese sulla crisi dell’autorità genitoriale, domina oggi invece “il bambino sovrano” in un vuoto epocale di autorità. In un altro contributo Marcelli sostiene che in pedagogia sia persino auspicabile obbedire.

L'obbedienza lungi dall'essere virtù negativa è indispensabile nella relazione pedagogica che si basa sulla fiducia. L'obbedienza non è la sottomissione. Autorità e obbedienza hanno significati anche positivi a differenza della sottomissione a un potere. La sottomissione si ottiene attraverso l'obbligo o la seduzione, mentre l'obbedienza (educativa non politica!) si fonda su un rapporto di fiducia. Quando sarai grande ti spiegherò, ma adesso fidati e obbedisci, perché non tutto può essere spiegato e contrattato. Questo è vero soprattutto nell’infanzia. Proprio l’obbedienza conduce all'indispensabile libertà di disobbedire nella maturità. Persino Don Milani teorico di L’obbedienza non è più una virtù, aveva idee ben chiare sull’autorità del docente e sull’importanza dell’obbedire in classe! Anche qui la mancanza di distinzione tra adolescenza e infanzia non permette agli autori  di inserirsi nel dibattito pedagogico attuale su autorità, autorevolezza, obbedienza, sottomissione, libertà su cui per altro le filosofie femministe italiane hanno dato importanti apporti. Assenza di regole, di limiti, di paletti sono invece i concetti base di una pedagogia corrente molto diffusa, basata sulla seducazione (termine coniato da Gilles Lipovetsky per descrivere uno stile educativo basato sul tentativo di sedurre il bambino anziché di educarlo in senso tradizionale) e sulla deresponsabilizzazione degli adulti, incapaci di gestire il sano conflitto educativo, pedagogia corrente che è però distante dal dibattito pedagogico sulla crisi dell’autorità genitoriale aperto da Arendt. 

Del resto Gli autori sono davvero così inclini a lasciare che i loro figli o nipoti guardino film pornografici a otto anni perché vietarglielo significherebbe poi che i loro pari in un atto di giustizia retributiva faranno vedere loro film porno? Per loro tutto va contrattato, trasfigurando l’idea del pedagogista francese Meirieu, che non solo propone la contrattazione educativa ma anche l’autorità del docente e la necessità della sanzione, per non parlare degli interrogativi sulla “strumentalizzazione del digitale da parte del sistema di mercato” (Meirieu , La scuola e la sfida del digitale).

Se la critica all’autoritarismo poteva funzionare nel XX secolo, che iniziò quando Ellen Key scrisse Il secolo del fanciullo, oggi lo slogan vietato vietare non è altro che, come rileva sempre Marcelli, l’anticipazione del credo neoliberista in ambito pedagogico. Questa seducazione incapace di vietare inculca con l’esempio il credo neoliberista dominante. Teorizzare oggi un “antiproibizionismo digitale” significa abbracciare le posizioni dell’individualismo e del narcisismo più sfrenato che già il nostro sistema economico e culturale promuove abbondantemente, anche grazie alle piattaforme.

Per sostenere la tesi che “ogni scelta di protezione o di divieto, in senso proprio, non è educativa” (p.147), si è dovuto alterare il senso profondo della dialettica di Paulo Freiere e storpiare il concetto di contrattazione di Merieu, perché questo assunto, in campo pedagogico, è poco difendibile. Promuovere questa deregulation educativa costituisce al contrario la quintessenza del credo dominante, propugnato tanto dagli autori quanto da Trump e dalle Big Tech: eliminare ogni limitazione persino nell’infanzia. 

Eppure i limiti sono proprio ciò che permette di educare: come qualsiasi pedagogista, allenatore, educatore o insegnante sa bene,  la difficoltà consiste semmai in dove e come mettere i limiti, ma non se metterli

 

Nella quarta e ultima parte, si entrerà nel merito del concetto stesso di tecnologia, di fobia e si descriverà chiaramente la funzione ideologica di questo libro.


Recensione di Oltre la tecnofobia, il digitale dalle neuroscienze all’educazione - Seconda parte

Dopo una sintetica recensione del libro Oltre la Tecnofobia (qui), Simone Lanza continua a confrontarsi con le tesi degli autori, e inizia – con questo secondo passo - il suo ragionamento analitico di messa in discussione dell'onlife e della adultizzazione dell’infanzia come effetto mediatico anziché come dato naturale.

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Oltre la Tecnofobia intende criticare i tecnofobici, ma chi sono i tecno-fobici oggi? Doveroso esplicitare, che nessuno si definisce tecno-fobico (né tecno-ottimista). Sotto questa etichetta gli autori criticano apertamente almeno lo studioso Haidt, il Ministro Valditara per le circolari, Alberto Pellai e Daniele Novara per le posizioni pubbliche di proposta di legge. Tuttavia, in generale anche se non in modo esplicito tutti quelli che vogliono regolamentare il digitale.

Gli autori, poi, in particolare, hanno a cuore che le famiglie facciano liberamente usare le tecnologie digitali senza dare indicazioni che seguano il principio di gradualità, anzi continuando a porre l’equazione: limiti e regole denotano tecnofobia. Le mie critiche, quindi, spazieranno su tutti gli aspetti di questa enorme costruzione ideologica: partirò dal mostrare le aporie relativa all’adolescenza, per finire sulle incoerenze nel respingere ogni paura per le tecnologie, come se oggi l’umanità non disponesse di tecnologie spaventose.

Gli esseri umani non mangiano il cibo nei primi mesi, non maneggiano coltelli nei primi anni, non guidano macchine nei successivi e per quanto riguarda l’uso di alcol e tabacchi le leggi, nonostante molte resistenze, hanno finito per dare limiti di età. Ma perché per l’uso di smartphone (e di schermi in generale) i nostri autori ritengono che non sia importante porsi la domanda: quali regole e a partire da quale età?

LA RIMOZIONE DELL’INFANZIA

La risposta a questa domanda è che l’intero libro si regge su una concezione dell’adolescenza che ignora platealmente ciò che la precede: l’infanzia. Gli autori liquidano con sufficienza l’idea che i minori possano essere "soggetti fragili per ragioni anagrafiche, qualcuno che è più esposto al rischio" (p. 145), rifiutando qualsiasi protezione basata sull’età. Se avessero preso in considerazione maggiormente l’infanzia forse avrebbero potuto comprendere anche loro qualche paura legittima dei genitori di oggi, ma in tutto il libro veramente poche righe sono dedicate all’infanzia, e come per Lancini, il riferimento implicito è sempre un ragazzo prossimo alla maturità (il povero diciassettenne), per il quale quella definizione di minore potrebbe essere riduttiva, ma che riduttiva non è se fosse riferita all’infanzia. Malgrado gli sforzi adultizzanti degli autori l’adolescenza resta però la terra di mezzo tra adultità e infanzia.

Del resto Bernard Stiegler (che costituisce uno dei riferimenti teorici degli autori del libro), si era dedicato a denunciare con estrema forza l’impatto devastante delle tecnologie sui bambini proprio nell’opera dove ha tematizzato il concetto di pharmakon. Ed è stato proprio Stiegler che dalle sue premesse teoriche traeva conclusioni opposte a quelle dei nostri autori, prendendo una posizione netta in quella che definì senza mezzi termini “la strage degli innocenti”, cioè l’impatto devastante delle Big Tech sull’infanzia.

Questa mancanza di considerazione degli impatti sull’infanzia da parte non tanto della Tecnologia quanto dell’industria culturale (termine che i nostri autori non usano mai a differenza di Stiegler) è proprio ciò che aveva condotto Postman (La scomparsa dell’infanzia, 1982) a parlare di adultizzazione dell’infanzia e infantilizzazione dell’adultità quale effetto dell’uso esasperato dei mass media. Senza questo doppio movimento ogni considerazione attuale sugli impatti in età adolescenziale (e infantile) risulta superficiale e fuorviante, nonché disarticolata dal vero dibattito di oggi: mettere a fuoco in cosa consista l’esposizione precoce e prolungata agli schermi e capire quando una certa quantità di tempo schermo non si trasformi in vero e proprio veleno per il tempo di sonno, per il tempo all’aria aperta, per il tempo di lettura, che restano tempi di apprendimento essenziali (come ben sanno del resto tutti i Ceo e ingegneri della Silicon Valley, nonché le famiglie statunitensi con redditi sopra i 100.000 dollari, che per lo più evitano gli schermi ai loro figli in giovane età e applicano il principio di gradualità). Il riferimento principale dei nostri autori non è all’infanzia bensì all’adolescenza, ma in realtà i nostri autori operano su entrambe quel processo di rimozione della loro specificità, operata (come ci insegna Postman) proprio dallo schermo: adultizzare il bambino, sottraendolo al suo processo graduale di divenire adulto.

ONLIFE: RAPPRESENTAZIONE O ESPERIENZA?

La seconda critica che si può rivolgere è che l’assunto (ipotesi da dimostrare), che non ci sia più distinzione tra l’esperienza dal vivo e quella di fronte a uno schermo non si basa su prove empiriche ed è teoreticamente abbastanza contraddittoria. Gli autori di Oltre la Tecnofobia si riferiscono molto al filosofo Walter Benjamin. Egli, infatti, designò fotografia e cinema come media che avevano modificato l’inconscio ottico: zoom, rallenty o slow motion, replay, etc., rendevano visibili cose che l’occhio nudo non poteva mettere a fuoco cambiando l’intera percezione del mondo. La stessa capacità di attenzione e di esperienza ne venivano modificate ma non per questo Benjamin teorizzò l’indifferenza ontologica tra i due tipi di percezione. Il nostro corpo-cervello elabora in modo simile ma non identico digitale e reale, altrimenti – come ammettono gli stessi autori – non saremmo in grado “di distinguere tra presenza fisica e digitale” (p.41). Il problema dei bambini di oggi è però che l’esposizione precoce e prolungata agli schermi riduce le capacità di questa distinzione. Il punto fondamentale è che gli autori insistono sul fatto che il corpo-cervello elabora rappresentazioni simili nel mondo virtuale e nel mondo reale. Teniamo in sospeso la domanda se questo sia vero o meno. Il filosofo ebreo-tedesco Benjamin non insistette solo sui diversi modi di percepire il mondo (decisamente molto meno sulla rappresentazione) bensì sui modi di viverlo: proprio l’esperienza (Erfahrung) narrabile e condivisibile è qualcosa di molto prezioso che nella modernità rischierebbe di essere annullato dall’esperienza vissuta (Erlebnis) che caratterizza invece il mondo caotico e veloce della società dominata da pubblicità e merci (Benjamin del resto non pensava che il capitalismo fosse la fine della storia).

Gli autori di Oltre la Tecnofobia riducono la differenza tra reale e virtuale a quella tra 3D e 2D, senza considerare la multi-sensorialità. Riducendole a rappresentazioni simili, disconoscono le differenze specifiche delle due esperienze. Dal punto di vista del bambino (che per altro quando nasce ci vede ben poco) ciò che differenzia l’esperienza dal vivo e quella tramite schermo non è solo la rappresentazione ma l’esperienza, che si fa con i cinque sensi del corpo (sporcandosi le mani e saltando nelle pozzanghere). Prendiamo un kiwi: il modo con cui il bambino vive e conosce un kiwi per la prima volta passa molto meno dalla rappresentazione, che dalla mano e dalla bocca. La multi-sensorialità è ciò che distingue il mondo come rappresentazione (quello dello schermo) dal mondo reale. Inoltre, mentre del mondo ti fai una rappresentazione, nello schermo la rappresentazione è già preparata da registi o algoritmi. Scambiare l’esperienza per la rappresentazione è un doppio errore: significa deprivare l’esperienza della multi-sensorialità lasciando lavorare prevalentemente la vista e offrire una rappresentazione di mondo già selezionata, ridotta e uniformata.

Se si sposta il focus dalla rappresentazione all’esperienza le differenze tra mondo reale e mondo virtuale sono notevoli per ciò che più conta per chi deve ancora divenire adulto. L’apprendimento infantile, a partire dall’apprendimento della lingua-madre, è molto migliore quando avviene senza gli schermi, e almeno fino a sei anni l’apprendimento è migliore dal vivo anziché tramite schermi, effetto noto come video deficit o transfer deficit, proprio perché il baby-talking – cioè, la modalità universale di insegnamento-apprendimento linguistico è multisensoriale, ha bisogno della sintonizzazione emotiva, della relazione tra corpi, dell’attenzione condivisa, cioè della condivisione delle intenzionalità. Mentre nella mente di un bambino di cinque anni, la rappresentazione del kiwi in uno schermo potrebbe confondersi con quella della mela (e non potremmo certo dargli torto), nel mondo reale sono due esperienze conoscitive assai diverse: basta mettere in bocca per capire. Un bambino diventa adulto in relazione con umani non in isolamento dagli altri umani.

Per questo motivo in tutto il mondo desta molte preoccupazioni l’esposizione precoce agli schermi, questione su cui gli autori non spendono mezza parola in tutto il libro. Insistono invece sul concetto di onlife che, pur essendo molto sexy, applicato all’infanzia è terribilmente fuorviante. Tale concetto coniato da Luciano Floridi (e usato da Lancini) indica l’esperienza quotidiana sempre più frequente di una costante connessione online, che implica un’interazione continua tra reale e virtuale. Il concetto di onlife si riferisce quindi alle esperienze quotidiane di connessione e interazione continua, caratterizzata da una indistinzione tra reale e virtuale. Il termine vuole mettere in risalto il fatto che stando in rete non si è fuori dal mondo, perché anche la rete è parte della vita e ha effetti sulla vita reale. Tutto ciò che si fa nel virtuale ha conseguenze sul mondo reale.

Un concetto semplice, ma che rischia di trasformarsi in arma ideologica: incoraggiare l’indistinzione di questo flusso continuo di tempo schermo con la realtà come qualcosa di positivo e/o ineluttabile, significa non stabilire una chiara priorità ontologica del reale sul virtuale e contribuire alla confusione. Si può vivere senza essere connessi ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, anche oggi nel 2025, ma non si può usare il digitale senza vivere nel mondo reale: Floridi presenta la onlife come l’ultima frontiera di un’avanzata storica di un progresso tecnologico lineare, che non è né buono né cattivo, ma un destino ineluttabile, non deciso né voluto dagli umani, sul quale pertanto gli umani non possono decidere nulla. Onlife è il condensato dell’ideologia digitale attuale, ma è un concetto che, se applicato a un bambino, diventa estremamente fuorviante. Il caso estremo di un bambino che cresce circondato solo da robot era già stato descritto da Daniel Stern come esperienza psicotica che rende vana la funzione più umana propria della rappresentazione: la distinzione tra realtà e immaginazione.

Le tecnologie, come ci insegnano gli apporti più recenti della storia e dell’antropologia, sono sempre state decise dagli esseri umani e non sono disponibili su una linea retta che necessariamente avanza e progredisce verso le magnifiche sorti e progressive. Anche oggi le tecnologie digitali sono selezionate, decise e regolamentate da esseri umani: il problema è che sono nelle mani di pochissime persone che, pur regolando l’uso degli schermi per i loro figli, hanno tratto enormi profitti dall’assenza di regole per l’esposizione agli schermi della popolazione da 0 a 18 anni.

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Nel continuare la recensione del libro dovremo cercare di capire la vera ossessione ovvero l’intolleranza verso ogni tipo di regolamentazione del digitale, che, alla luce persino dei tentativi di regolamentazione blanda delle Big Tech, appare oggi come totalmente anacronistico: nel 2026 la questione non sarà infatti se darsi delle regole ma chi scriverà le regole, e quali regole darà per l’uso delle tecnologie digitali, anche ai comuni mortali.

 

APPROFONDIMENTI:
- https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/smartphone-social-figli-capi-web-li-vietano-motivi/ec8b3ea6-f177-11ec-82b6-14b9a59f244e-va.shtml