La concezione tecnologica del vivente: dalla partenogenesi artificiale alla biologia sintetica - Seconda parte
Nella prima parte di questo articolo, Maurizio Esposito ha esaminato la prima delle tre coordinate che delineano lo spazio della concezione tecnologica del vivente, quella del fare. Nella sua analisi ha fatto riferimento alla controversia tra il fisiologo Jacques Loeb - per il quale la vita è totalmente riducibile a fenomeni fisico-chimici, e l’obiettivo della biologia deve essere la creazione e il controllo dei fenomeni viventi – e il biologo William Emerson Ritter propone una concezione “organicista”, in cui le entità biologiche non sono riducibili ai soli processi fisico-chimici, poiché possiedono proprietà emergenti che vanno considerate nella loro totalità. Controversia che anticipa l’affermazione della visione ingegneristica e della “science-based industry”.
Passiamo ora alla seconda coordinata: codificare. Non c’è dubbio che le scienze della vita contemporanee siano ormai inseparabili dall’informatica: oggi non si fa biologia senza calcolatori elettronici. Come osserva Hallam Stevens nel suo libro Life out of Sequence: A Data-Driven History of Bioinformatics (2013), durante e dopo Guerra Fredda, la biologia si trasforma in un settore tecnologico ed economico di primo piano anche grazie alle tecnologie digitali. I laboratori cambiano volto, e lo spazio dedicato all’uso delle tecnologie dell’informazione (i cosiddetti dry labs) si amplifica. L’incremento dell’impiego di strumenti digitali non ha avuto soltanto risvolti pratici ed economici, ma soprattutto implicazioni di natura epistemica. L’uso massiccio dei computer ridefinisce la concezione stessa del vivente: tutti i processi organici vengono tradotti in sequenze di zeri e uno, mentre algoritmi, database e software permettono di descrivere, simulare e manipolare processi biologici. L’aspetto forse più significativo della narrazione proposta da Stevens è l’osservazione secondo cui non è stata la tecnologia informatica ad adattarsi alle esigenze dei biologi, bensì i biologi stessi a rimodellare la propria disciplina in funzione delle tecnologie dell’informazione. Ne è scaturita una biologia data-driven, in cui la conoscenza non deriva più soltanto dalla formulazione di ipotesi e dalla loro verifica sperimentale, ma soprattutto dalla raccolta e dall’analisi di enormi quantità di dati. In genomica, per esempio, le sequenze di DNA, RNA e proteine vengono digitalizzate e trattate statisticamente. Malattie, tratti ereditari e caratteristiche fenotipiche si trasformano in insiemi di dati da mettere in correlazione. La conoscenza si manifesta nella capacità di decontestualizzare e poi ricontestualizzare dati discreti, riconoscendo pattern e regolarità che affiorano da basi di dati potenzialmente infinite.
Negli anni Sessanta, il biologo molecolare statunitense Joshua Lederberg fu tra i pionieri nell’uso delle tecnologie digitali in biologia, mentre il fisico nucleare Walter Goad applicò tecniche statistiche per modellare fenomeni biochimici complessi utilizzando calcolatori via via più complessi. Negli anni Settanta e Ottanta, la biologia cominciò a trattare DNA e proteine come “sequenze” di dati, aprendo la strada alla nascita della bioinformatica. Con il Progetto Genoma Umano, la disciplina si consolidò definitivamente, rendendo necessario l’uso di computer sempre più potenti per gestire e analizzare enormi quantità di dati in tempi brevi. Stevens osserva che i laboratori contemporanei richiedono così nuove figure professionali: matematici, informatici e ingegneri diventano componenti essenziali dei team di ricerca. In molte istituzioni, i biologi non rappresentano più la categoria predominante. La ricerca non consiste più soltanto nell’elaborazione di teorie, ma nella produzione, gestione e interpretazione dei dati, che assumono al tempo stesso valore scientifico ed economico.
Il Progetto Genoma Umano segnò senz’altro una svolta: sequenziare non era più un’attività ancillare, ma un obiettivo in sé, organizzato con criteri industriali. Per esempio, attraverso il suo studio etnografico condotto nei laboratori del Broad Institute di Boston, Stevens rileva l’adozione dei metodi della Lean production di Toyota: riduzione degli sprechi, ottimizzazione dei tempi e miglioramento della gestione dei dati. Si sviluppa così, secondo Stevens, una sorta di “Lean Biology”, in cui la produzione efficiente di dati diventa centrale. Il computer, in questo contesto, non è solo archivio: diventa strumento di modellizzazione, visualizzazione e sperimentazione virtuale. Le mappe genetiche e le rappresentazioni digitali permettono di manipolare fenomeni invisibili e di immaginare nuovi esperimenti. La bioinformatica non si limita a ordinare dati per fare biologia: essa stessa produce un nuovo tipo di scienza. Questa trasformazione ha reso la biologia una scienza predittiva e quantitativa, aprendo la strada alla medicina personalizzata e alla genetica individuale. Insomma, le tecniche digitali permettono di tradurre sequenze complesse in oggetti concreti e manipolabili, cambiando il modo stesso di concepire i fenomeni organici.
Veniamo infine alla terza coordinata: quella del promettere. Infatti, sostengo che questa concezione tecnologica del vivente si nutre di anticipazioni, proiezioni e utopie; cioè, non si limita a descrivere ciò che il vivente è, ma immagina e prefigura ciò che potrebbe diventare. Nel 2017, ho pubblicato un articolo intitolato “Expectation and Futurity: The Remarkable Success of Genetic Determinism”. Nell’articolo ho analizzato alcune delle visioni futuristiche che hanno accompagnato le scienze della vita nel corso del XX secolo. Nell’articolo osservavo che la costante ossessione per il futuro ha svolto una duplice funzione: da un lato, mantenere vivo l’interesse politico e sociale per determinati ambiti della ricerca scientifica; dall’altro, giustificare finanziamenti e sostegno pubblico, promettendo benefici straordinari, e al contempo concreti, nel breve e nel lungo periodo.
Già sul finire degli anni Venti del secolo scorso, lo scrittore di fantascienza Herbert G. Wells e il biologo inglese Julian Huxley, nel libro The Science of Life, immaginavano un mondo in cui la natura selvaggia si sarebbe trasformata in un giardino globale, privo di malattie e di specie pericolose. Nel 1934, in un articolo intitolato “The applied science of the next hundred years: Biological and social engineering”, Huxley scriveva che l’ingegneria biologica sarebbe diventata la scienza del futuro che avrebbe trasformato l'eredità biologica dell’umanità. Nel 1937, il genetista americano Hermann Muller tentò di persuadere Stalin che la genetica rappresentasse una risorsa fondamentale per il progresso della società sovietica. Come affermava enfaticamente in una lettera inviata a Stalin nel 1937, l’oggetto della missiva riguardava “…il controllo consapevole dell’evoluzione biologica dell’uomo, ossia la capacità dell’uomo di governare il patrimonio ereditario che sta alla base della vita umana” (Muller, 1937, mia traduzione). Nel discorso pronunciato durante la cerimonia del Premio Nobel ricevuto nel 1958, George Beadle ed Edward Tatum parlarono dell’avvento di un’epoca in cui il “codice” della vita sarebbe stato decifrato, aprendo la strada a un miglioramento radicale di tutti gli organismi viventi attraverso l’ingegneria biologica. Nel 1976, sulle pagine di BioScience, in un breve scritto intitolato “Recombinant DNA: On Our Own”, Robert Sinsheimer (il biologo molecolare che fu tra i principali ispiratori del Progetto Genoma Umano) immaginò che la biologia del futuro sarebbe stata in grado di rimodellare il mondo vivente secondo una proiezione della volontà umana.
Con il Progetto Genoma Umano, questa retorica della promessa si intensificò ulteriormente: nel 2005, Craig Venter dichiarò che conoscere il proprio genoma avrebbe permesso agli individui di prendere il controllo della propria vita e di prevedere il futuro delle proprie malattie. Imprenditori come Venter si sono adoperati per persuadere gli investitori del potenziale economico e sociale della genomica. Sebbene gli interlocutori cambino, l’idea di fondo rimane la stessa: il futuro della società dipende dalla capacità di controllare i geni, ossia le “lettere” che compongono l’”alfabeto” del vivente. In sintesi, la biologia deve diventare un’ingegneria del futuro, come Loeb aveva già prefigurato all’inizio del XX secolo.
La controversia tra Loeb e Ritter, tra riduzionismo ingegneristico e organicismo sistemico, rimane ancora oggi un nodo irrisolto. Sebbene l’approccio tecnologico al vivente abbia prodotto risultati di straordinaria rilevanza, esso rischia al contempo di appiattirne la complessità a meri dati, trascurando le dimensioni ecologiche e relazionali (una preoccupazione condivisa da tutti i discendenti di Ritter). In ogni caso, il potere della concezione tecnologica del vivente non risiede tanto nella sua pretesa di verità, quanto nella sua capacità di ridurre la complessità, semplificare e mostrare che la vita può essere manipolata e trasformata. Inoltre, proprio perché è una scienza orientata alla trasformazione, essa non teme di promettere più di quanto realizzi: vive infatti di proiezioni che vengono rapidamente dimenticate e sostituite da utopie ancora più ambiziose.
Oggi più che mai, mentre nuove biotecnologie come l’editing genetico e la biologia sintetica aprono possibilità inedite, la domanda rimane la stessa che animava la polemica tra Loeb e Ritter: la biologia deve limitarsi a comprendere la vita o deve rivendicare il potere di trasformarla radicalmente? Insomma, la biologia va intesa come una scienza naturale del presente o come un’ingegneria del futuro? Al di là delle opinioni che possiamo avere in proposito, la storia insegna che la forza della concezione tecnologica non deriva dalla sua abilità esplicativa, bensì dalla sua capacità di mobilitare risorse e orientare la ricerca in funzione di priorità e visioni future.
La lotta per la bellezza - Un testo di P.P. Pasolini commentato da T. Muzzioli
Non sappiamo se “la bellezza salverà il mondo”, come si sente ripetere ultimamente con una retorica abbastanza stucchevole (e ipocrita). Certo è che nel mondo attuale la produzione di bruttezza va in uno con l’inarrestabile e insensata “crescita” che caratterizza il declinante tardo-capitalismo espanso a scala globale. Basti pensare all’avanzare continuo della cementificazione e del «consumo di suolo», in particolare in Italia (dove, secondo l’ultimo rapporto ISPRA, ogni giorno in media 230.000 mq. di terreno vengono coperti da superfici artificiali). Così come fa continui progressi l’indifferenza anche verso i valori estetici e paesaggistici, salvo il loro recupero banalizzante in chiave di mercificazione turistica.
Erano temi, questi, cari a Pier Paolo Pasolini, come parte della sua più generale postura critica verso il mondo contemporaneo, che chiamava anche “l’universo orrendo”. Un mondo che, a suo parere, stava riuscendo a unificare perversamente le diverse classi sociali nel consenso a un presente neocapitalistico, fra le altre cose totalmente disinteressato alla tutela dei «segni del passato» e dell’integrità dei paesaggi (storici e naturali). E si occupa di questi temi, invocando una (improbabile) lotta politica di massa per la bellezza, l’articolo del 1969 che qui proponiamo, per ricordare la figura del grande poeta e intellettuale italiano, a cinquant’anni dalla sua morte.
(Toni Muzzioli)
NOTA AL TESTO:
l’articolo, che si riferiva alle battaglie per la difesa del patrimonio storico-artistico e naturale dell’associazione Italia Nostra (fondata nel 1955 da un gruppo di intellettuali, tra i quali Elena Croce e Giorgio Bassani), fu pubblicato con il titolo «Italia Nostra» non otterrà nulla sulla rivista “Tempo”, n. 12, 22 marzo 1969 ed è tratto da: Pier Paolo Pasolini, Il caos, a cura di Giancarlo Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1995 [1.ed. 1979], p. 117-119.
«Italia Nostra» non otterrà nulla
di Pier Paolo Pasolini
In Italia c’è una organizzazione per la difesa del patrimonio artistico e paesaggistico nazionale. Si chiama «Italia Nostra». Ma io mi chiedo: Italia nostra di chi? «Italia Nostra» ha combattuto delle buone lotte: anche nobilmente. Ma il mio amico Giorgio (Bassani) e gli altri amici che lavorano e lottano per «Italia Nostra» non si offendano se li pongo davanti a dei problemi.
1) «Italia Nostra» equivale a «Italia della borghesia», nella fattispecie di una piccola élite borghese intelligente, che ha saputo trasformare il privilegio in cultura. Ma tutta la sottocultura borghese italiana, non c’è alcun dubbio, non riconosce l’Italia in «Italia Nostra».
2) La classe operaia, ormai influenzata non solo dai vecchi poteri, ma dal nuovo potere industriale transnazionale – che sta accantonando i poteri politici nazionali – non «sente» in alcun modo il problema della sacralità del passato. Anche se comunisti, gli operai hanno, rispetto ai monumenti e al paesaggio, lo stesso atteggiamento di un tecnico neocapitalista, che, operosa formica, si dà da fare, innocente e stupido, a ricostruire daccapo il mondo.
«Italia Nostra» dunque non otterrà mai nulla, se non trasformerà la sua lotta in lotta politica. Per fare questo, deve prima di tutto distinguersi dalla restante borghesia (che ha monumenti e paesaggi nelle mani) e spossessarsi di ciò che ha (ossia monumenti e paesaggi): atto mistico impensabile, da parte dei componenti della associazione «Italia Nostra». In secondo luogo, essa dovrebbe rendere popolare il «problema del passato» presso chi non ha mai partecipato alla storia, se non passivamente, come classe dominata. Anche questa operazione è pressoché impensabile: infatti gli uomini politici (lo so da fonte diretta) non prendono in considerazione le esigenze di «Italia Nostra», appunto perché tali esigenze non sono popolari: e anzi, renderebbero impopolare l’uomo politico che se ne occupasse.
A questo punto, dunque, bisognerebbe prendere per il bavero gli uomini politici e costringerli a occuparsi del «problema della bellezza»: se non altro cominciando col renderlo popolare (se hanno tanta paura di perdere voti). Prendere per il bavero gli uomini politici significa, poi, adottare metodi nuovi di lotta politica. Quelli adottati spontaneamente, per esempio, dagli studenti. Ma è pensabile questo? È veramente così «politicamente» forte l’ideale di bellezza che anima i soci di «Italia Nostra», da convincerli a scendere in piazza, a occupare monumenti e paesaggi, a digiunare, o urlare con la necessaria violenza (quella che conduce a prendere le botte dai poliziotti)?
Ma, a questo punto, dovrebbero intervenire, in appoggio dello sparuto gruppo di persone che amano disperatamente i segni del passato in quanto bellezza, cioè integrazione del presente, altri gruppi di persone: una politica di alleanza, insomma. Scenderebbero in piazza, in tal caso, i giovani? Sarebbe stupendo che si accendesse una lotta – «estremistica» intendo dire – in difesa di un vecchio muretto borbonico, che uno sprezzante proprietario di aree sta per far abbattere per costruirvi una zona residenziale. Ma ciò non si verificherà mai. Perché puritanesimo rivoluzionario e puritanesimo industriale […] si identificano, e l’amore per la bellezza viene considerato peccato
Forse giustamente?
È questo, per concludere, il problema fondamentale: da Kaiseri [1] ad Arezzo il fronte della distruzione del vecchio mondo e della ricostruzione del nuovo (per ora orrendo) è potente, e passa di vittoria in vittoria, di trionfo in trionfo. La sua avanzata è inarrestabile. […]
NOTE:
[1] Pasolini era reduce da un recente soggiorno a Kaiseri (la Cesarea di Cappadocia), in Turchia, per le riprese di Medea. (NdR)
Il caso Sinner, l’eterna distanza tra intellettuali e sentire popolare
Poche settimane fa ho scoperto del tutto casualmente l’esistenza di un piccolo libro dal titolo “Effetto Sinner” e sottotitolo “Consumi responsabili e nuovo made in Italy oltre lo sport”. Libro scritto da due docenti di marketing presso la Luiss di Roma, Cesare Amatuelli e Matteo De Angelis.
Da grande e “antico” appassionato di tennis e professionista che nella vita lavorativa si è occupato a lungo di ricerche di mercato e sociali e posizionamento di brand, non potevo non acquistarlo.
Il lavoro di Amatuelli e De Angelis non si occupa minimamente degli aspetti tecnici e agonistici che riguardano l’ascesa di Sinner, ma si propone di identificare i valori che esprime il campione altoatesino, come atleta e come uomo, e quali siano i brand più in sintonia con questi valori.
Nel frattempo, solo pochi giorni fa (scrivo questo articolo negli ultimi giorni di ottobre), è scoppiata una polemica sorprendentemente virulenta che ha coinvolto quello che oggi è considerato lo sportivo italiano più popolare e influente [1], atleta conosciutissimo e amato a livello planetario.
Ma prima di addentrarci nei motivi della polemica, vediamo cosa hanno scoperto Amatuelli e De Angelis su Jannik Sinner.
I due docenti hanno usato tecniche di indagine qualitative e quantitative su campioni di popolazione italiana e estera. Per motivi di spazio non mi dilungherò sugli aspetti tecnici del lavoro di Amatuelli e De Angelis ma cerco di riassumere sinteticamente le conclusioni a cui sono giunti.
IL CARATTERE DELL'UMILTÀ?
Essi sostengono che il carattere precipuo con cui viene percepito Sinner sia quello dell’umiltà, in contrapposizione con molti sportivi di successo che non hanno questa caratteristica, vista come una dote positiva.
Su questo punto però mi permetto di esprimere un parere personale: ritengo che umiltà non sia la parola più appropriata per definire l’atteggiamento di Sinner (per quanto sia lo stesso Jannik a definirsi spesso un “ragazzo umile”); Sinner non è umile, egli è perfettamente consapevole di essere un grandissimo dello sport contemporaneo e ne è giustamente orgoglioso.
Probabilmente la parola che meglio esprime il suo modo di parlare di sé stesso è quello che fa capo al concetto di “modestia”. Nel senso che egli rifugge da qualsiasi atteggiamento di ostentazione del successo, è estremamente rispettoso degli avversari e mette costantemente al centro dell’attenzione dei media il lavoro di gruppo che fa col proprio team. Come se il suo talento fosse solo l’ultimo tassello di una piramide di competenze, qualità e allenamento; la logica conseguenza finale di un lavoro di gruppo (ed è così, ma solo in parte).
Per dovere di chiarezza, va ricordato che umiltà è la parola usata dai rispondenti all’indagine, non dagli autori del libro, che anzi ragionano molto sul significato di questa parola anche rifacendosi a una vasta letteratura.
Le altre caratteristiche principali che Sinner trasmette, secondo lo studio in questione, sono: la determinazione, l’onestà, la costanza, l’impegno, la semplicità, la lealtà, l’autenticità (nel senso che lui è come appare).
CAMPIONE DI COMPORTAMENTO?
In definitiva possiamo parlare di valori tutti connessi al concetto di etica; Sinner è un campione sul campo da tennis ma è altresì considerato un campione di comportamento.
E in effetti, i numerosi brand che lo hanno scelto come testimonial, lo hanno fatto per quel mix di risultati agonistici e quella che personalmente chiamerei “educazione naturale”, che ne fanno un campione speciale[2].
Che il fuoriclasse altoatesino sia percepito con queste caratteristiche non sorprende chi segue il tennis, lo vede in campo e ascolta le sue interviste. D’altra parte le indagini non devono per forza svelare situazioni sorprendenti e inattese, sono fatte anche per dare conferma scientifica di ciò che si avverte intuitivamente.
Emerge quindi il quadro di un giovane uomo che trasmette valori fortemente positivi e un’italianità diversa, più responsabile e seria (ma non seriosa, Jannik è anche un giovane uomo dotato di humor e che non rinuncia allo svago).
Aggiungerei io, un’italianità fortemente innestata da valori di “solidità montanara” (non dimentichiamo che Sinner è nato e cresciuto fino a 14 anni in un paesino di montagna).
Fin qua, in estrema sintesi, la ricerca di Amatuelli e De Angelis, ora veniamo alla polemica.
Al ritorno dal ricchissimo torneo esibizione giocato e vinto da Sinner a Dubai a metà ottobre, il giocatore ha annunciato che quest’anno avrebbe rinunciato alla convocazione in Coppa Davis.
Ovvero, Sinner chiude il suo 2025 agonistico con le Finals di Torino e nella settimana successiva non gioca quello che è considerato una specie di campionato del mondo a squadre del tennis.
Il giocatore ha giustificato la decisione con la necessità di avere una settimana in più per il riposo e per la preparazione tecnico - atletica in vista della stagione 2026.
Decisione discutibile dal punto di vista dell’attaccamento ai colori nazionali? Certamente, ma subito la polemica si è spostata dal merito della scelta di non giocare, alla critica all’uomo Sinner.
Ha iniziato il notissimo giornalista del Corriere della Sera e della rete televisiva La7 Aldo Cazzullo e, a ruota, sono arrivati i giudizi di altri volti o voci molto noti del giornalismo italiano. Corrado Augias, Massimo Gramellini, Francesco Merlo, Giovanna Botteri, Mattia Feltri e altri ancora, compreso Bruno Vespa, volto notissimo anche lui, ma che poco ha in comune con i nomi che lo precedono. A questi si è poi aggiunto anche il Codacons, suscitando non poche ironie per l’evidente “invasione di campo”.
Le critiche di tutto questo mondo giornalistico sono state molto forti - anche se certamente con toni diversi che ben rispecchiano il carattere di ognuno dei critici - concentrate su due aspetti: lo scarso attaccamento ai colori nazionali (c’entra l’essere nato in Alto Adige?) e la residenza a Montecarlo (tema vecchio, mai sopito, destinato a riproporsi periodicamente), critiche che hanno messo in discussione non le scelte del tennista Sinner, ma il suo valore umano.
Anche Ubaldo Scanagatta, autorevole decano dei giornalisti italiani specialisti di tennis, ha criticato la scelta di Sinner sul proprio sito (Ubitennis), ma si è trattato di una critica alla decisione di non giocare la Davis, motivata e argomentata, di tutt’altro tenore rispetto all’attacco personale.
Si può dire che la summa dei commenti negativi da parte delle persone succitate fa capo a una italianità debole o ipocrita, soprattutto per la residenza a Montecarlo che lo sottrae al fisco italiano.
RISENTIMENTO
Complessivamente, nei toni, emerge una sorprendente esplosione di risentimento.
Evidentemente queste persone, che si occupano prevalentemente di politica e divulgazione, non percepiscono in Sinner i valori che gli sono attribuiti dalle persone intervistate nel lavoro di Amatuelli e De Angelis.
Anzi, fermo restando la stima per l’atleta, per questo gruppo di critici i valori espressi da Sinner non sono di segno positivo.
Al contempo la polemica si è rapidamente spostata sui social con tutte le polarizzazioni tipiche di quei media.
Tuttavia si può dire senza tema di smentita che la grande maggioranza delle persone sono intervenute a sostegno del giocatore [3], in contrapposizione alle argomentazioni dei critici.
In moltissimi, per esempio, hanno segnalato che la Coppa Davis è ormai una manifestazione di secondo livello rispetto ai tornei dello Slam e che la Davis è stata più volte snobbata dai tre top players dell’ultimo ventennio, ovvero: Roger Federer, Novak Djokovic e Rafael Nadal [4] senza che questo portasse a polemiche o accuse di scarso attaccamento ai colori nazionali nei loro rispettivi paesi.
Tra i moltissimi commenti che ho letto, quello che mi sembra meglio riassumere il punto di vista “popolare” dei difensori di Sinner, lo ha espresso il notissimo showman Fiorello, che ha fortemente criticato il sarcasmo sulla presunta scarsa italianità di Jannik e ha concluso un’appassionata difesa con queste parole: “Io mi sento orgoglioso di essere rappresentato da uno come Sinner. È un ragazzo perbene, educato, forte, e ci fa fare bella figura nel mondo.”
ECCESSIVO RIGORE MORALE O CECITÀ DEL TIFO
A questo punto è legittimo chiedersi se questi famosi giornalisti, molto critici, stiano prendendo una posizione di eccessivo rigore (nel caso, perché?) o se, viceversa, i difensori di Sinner, “accecati dal tifo”, non colgano le contraddizioni comportamentali dell’atleta.
La discussione è aperta. Quel che è certo, a mio modo di vedere, è che certo sarcasmo sprezzante appare ingiustificato rispetto ai sentimenti di stima e anche di amore che Sinner suscita in moltissime persone.
***
C’è poi un altro tema: oggi Sinner non è più solo un tennista di grande successo, ormai è un brand globale, di cui il giocatore è al contempo Ceo e “operaio” in campo.
Nel 2018, il Sinner diciasettenne che cominciava a farsi largo nei tornei del circuito minore, ha guadagnato in tutta la stagione circa 20.000 € lordi; oggi Jannik, tra prize money nei tornei e sponsorizzazioni ha superato i 50 milioni di dollari di incassi annui.
Praticamente un’azienda. Che reinveste i propri utili in varie attività economiche e anche in una fondazione che si propone di devolvere parte dei profitti generati “dall’azienda” in attività sociali.
Infine, lo studio di Amatuelli e De Angelis dimostra che il brand Sinner porta un enorme valore reputazionale al made in Italy, che a sua volta si traduce in valore economico. L’effetto Sinner è un booster economico e culturale per il nostro Paese.
Quanto sopra però porta ad una ulteriore riflessione: per persone come Sinner, che muovono interessi economici e di investimento emotivo assolutamente globali, è ancora tempo di valutare i comportamenti sociali con gli stessi parametri di mezzo secolo fa?
In fondo sono moltissime le aziende italiane con sede fiscale all’estero…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Il libro di riferimento di questo articolo è: Effetto Sinner
Autori: Cesare Amatuelli e Matteo De Angelis; Edizione Luiss University Press
NOTE
[1](*) Da un sondaggio Ipsos dell’agosto 2025, pubblicato su “La Gazzetta dello Sport”, risulta che Sinner è lo sportivo italiano in attività più conosciuto (più di qualsiasi calciatore), con un livello di riconoscibilità superiore all’82%, tecnicamente da considerare “totale”.
[2] Ad esempio, Banca Intesa ha scelto di sponsorizzare Sinner con la seguente motivazione: “crediamo nella potenza del suo impegno e nei valori che esprime ogni volta che scende in campo. Il talento del giovane azzurro, già oggi uno dei tennisti più conosciuti al mondo, non ha confini e ci aiuta a raccontare una storia italiana di successo”
[3] Non sono ancora disponibili dati quantitativi di monitoraggio del web a riguardo, ma basta scorrere i commenti ai post sui social di persone con largo seguito che parlano di tennis per rendersi conto che il sentiment popolare è a larghissima maggioranza a favore di Sinner.
[4] Il giocatore spagnolo Carlos Alcaraz, che da due anni si gioca la leadership del tennis mondiale con Sinner, è stato portato ad esempio dai critici perché quest’anno parteciperà alla fase finale della Coppa Davis per il suo Paese. Va notato che ad oggi Sinner ha giocato 23 volte con la maglia azzurra; Alcaraz 8 volte per la Spagna.
La concezione tecnologica del vivente: dalla partenogenesi artificiale alla biologia sintetica - Prima parte
Nel corso della storia della biologia sono emerse diverse concezioni su cosa sia un essere vivente. Ci si è spesso chiesti come distinguere ciò che è vivo da ciò che non lo è, da cosa è composta la materia vivente, come è organizzata e da dove deriva questa organizzazione. Gli antichi materialisti, per esempio, sostenevano che gli esseri viventi nascessero per generazione spontanea, cioè da un incontro casuale di determinati tipi atomi e da una sorta di “selezione naturale” che lasciava persistere solo quei composti atomici, e quindi quelle forme, che si inquadravano in certi tipi di ambiente. Aristotele, nelle sue principali opere filosofiche e biologiche, rifiutò l’idea che l’organizzazione degli esseri viventi potesse essere frutto dell’incontro fortuito di atomi. L’organizzazione biologica richiedeva per Aristotele un principio ordinatore: un’anima che dava forma alla materia, ne permetteva la riproduzione e ne garantiva la permanenza.
Dalla critica di Aristotele alla concezione materialistica nacque così un’altra visione del vivente: quella ilemorfica. Questa visione non solo affermava che un organismo era costituito di materia e forma, ma supponeva anche che in un essere vivente “il tutto era maggiore della somma delle sue parti”, ove il “tutto”” doveva spiegare perché le parti si organizzano in un modo e non in un altro. Il “naturalista” Aristotelico doveva pertanto studiare i fenomeni biologici partendo da quella “totalitá”, cioè dalle funzioni, dagli scopi e fini che spiegano la persistenza e conformazione della materia. Questo paradigma rimarrà dominante fino all’età moderna, quando un autore spagnolo ancora poco conosciuto, il medico medinense Gómez Pereira, propose, in un testo alquanto oscuro, intitolato Antoniana Margarita e pubblicato nel 1554, un’idea diversa: il principio organizzatore, cioè l’anima, esiste solo negli esseri umani. Animali, piante e organismi in generale, secondo Pereira, sarebbero semplici macchine e andrebbero studiati come tali. Cartesio riprenderà questa intuizione e ne farà un vero e proprio programma di ricerca. Un programma che conobbe un discreto successo, suscitando numerose critiche e controversie fino ai nostri giorni.
Si può senz’altro sostenere che la concezione meccanicistica sia, in realtà, già una concezione tecnologica, nella misura in cui trae ispirazione dalle macchine. Il meccanicismo, dopotutto, prende le sue mosse dalla costruzione di macchine: orologi, automi, fontane automatiche e dispositivi dedicati alla produzione. Tuttavia, come si cercherà di mostrare in ciò che segue, esistono differenze fondamentali tra la concezione meccanicistica classica e la concezione tecnologica che emergerà nel XX secolo, anche se entrambe condividono l’idea che il fare o costruire sia il principio cardine del conoscere. Per avvicinarsi alla concezione tecnologica che sto qui delineando, propongo quindi di considerare altre due coordinate fondamentali, oltre a quella d’ispirazione cartesiana. Si tratta, cioè, del passaggio da una scienza delle ipotesi a una scienza dei dati, e del carattere essenzialmente promissorio di questa visione, che alimenta aspettative riguardo a future soluzioni tecniche volte alla trasformazione direzionata del vivente in tutti i suoi aspetti. In sintesi, sostengo che la concezione tecnologica del vivente si collochi nello spazio delimitato da tre coordinate principali (pur senza escluderne altre possibili): fare, codificare e promettere.
Partiamo dalla prima coordinata. Un testo fondamentale che andrebbe riconsiderato è La concezione meccanicista della vita pubblicato nel 1912. L’autore è il fisiologo statunitense Jacques Loeb. In estrema sintesi, il libro di Loeb afferma due cose principali: primo, la vita è totalmente riducibile a fenomeni fisico-chimici; e secondo, l’obiettivo della biologia deve essere la creazione e il controllo dei fenomeni viventi. La biologia, dunque, non dovrebbe più appartenere al campo delle scienze naturali, ma collocarsi nell’ambito più concreto dell’ingegneria. Loeb giustifica le proprie conclusioni richiamando uno dei suoi esperimenti più celebri: quello sulla partenogenesi artificiale, in cui riuscì a indurre lo sviluppo di uova di riccio di mare senza fecondazione, ma tramite determinati stimoli fisico-chimici (soluzioni saline e cloruro di magnesio). Egli interpretò questo risultato come una prova decisiva del fatto che la vita potesse essere manipolata e attivata artificialmente. Il suo intento era dimostrare che, in linea di principio, tutti i processi vitali potevano essere ricondotti a meccanismi chimico-fisici, riproducibili e controllabili in laboratorio.
Come era prevedibile, le conclusioni di Loeb suscitarono numerose reazioni e controversie. Basti ricordare la reazione del biologo statunitense e primo direttore dello Scripps Institution of Oceanography, William Emerson Ritter. Nel 1919, dunque 7 anni dopo la pubblicazione del libro di Loeb, Ritter diede alle stampe un testo polemico intitolato The Unity of the Organism; Or, The Organismal Conception of Life. Nel testo, Ritter sosteneva che la concezione “meccanicistica” di Loeb dovesse essere sostituita da una concezione “organicista”. Le entità biologiche, infatti, non sono riducibili ai soli processi fisico-chimici, poiché possiedono proprietà emergenti che vanno considerate nella loro totalità. Il progetto di un’ingegnerizzazione del vivente si scontrava, secondo lui, con l’estrema complessità e flessibilità degli organismi. La concezione organicista da lui difesa poneva l’accento sull’unità e integrità delle entitá organiche. Il vivente costituiva una categoria ontologica autonoma, estranea a ogni riduzione ingegneristica. Inoltre, Ritter contrapponeva all’ideale di una scienza puramente sperimentale, orientata all’ingegneria del vivente, una visione più tradizionale delle scienze naturali, intese come discipline fondate sull’osservazione diretta dei fenomeni naturali.
Non c’è dubbio che, al di là delle differenti prospettive e sensibilità scientifiche e intellettuali, tra Loeb e Ritter esistessero anche divergenze politiche. Se Loeb rappresentava una visione tecnocratica, convinta che il progresso sociale e politico dovesse passare attraverso il controllo della vita stessa, Ritter, al contrario, rappresentava una visione più sistemica e “democratica”, in cui la biologia costituiva un sapere importante, ma non esclusivo, nella gestione dell’essere umano e della società. Non è un caso, per esempio, che Ritter fosse anche un critico acerrimo di ogni forma di determinismo genetico, che egli considerava una manifestazione di fatalismo.
La controversia tra Loeb e Ritter, infatti, si sviluppa in un momento storico particolare. Come sostiene David F. Noble nel suo libro America by Design (1977), negli Stati Uniti di fine Ottocento e inizio Novecento si generò una tensione tra le scienze naturali tradizionali e le nuove professioni emergenti legate alle “arti” applicate. In questo contesto, la professione dell’ingegnere acquisisce un prestigio crescente. A partire dal 1860, Università come il MIT, Harvard e Yale istituiscono corsi di scienze applicate, mentre grandi industrie come General Electric, DuPont ed Eastman Kodak fondano laboratori di ricerca propri, assumendo scienziati formati nelle università tradizionali con l’obiettivo di sviluppare nuove tecnologie. Nasce cosí quello che Noble definisce “science-based industry”. È in questo contesto storico che l’aggettivo “ingegneristico” assume un significato particolare. Quando Loeb parla di “biologia ingegneristica”, intende affermare che la biologia deve appartenere alle scienze produttive, cioè a quelle discipline capaci di trasformare materiali e processi vitali a fini umani. In altre parole, la biologia deve trovare il proprio posto all’interno di questa “science-based industry”. A posteriori, si può affermare che la visione ingegneristica di Loeb abbia avuto un successo di gran lunga superiore rispetto a quella di Ritter, che è rimasta piuttosto marginale (anche se non è mai scomparsa).
Un esempio significativo che ha sancito il successo di questa visione loebiana è rappresentato dalla biologia molecolare. Come mostra Lily Kay nel suo libro The Molecular Vision of Life (1993), questa disciplina fu plasmata non solo da esigenze interne alla scienza, ma anche da contesti ideologici e istituzionali. Gia a partire dagli anni trenta del XX secolo, fondazioni come la Rockefeller e istituzioni come il Caltech promossero una visione riduzionista, meccanicistica e orientata al controllo, che in seguito sarebbe entrata in sintonia con le logiche della Guerra Fredda. In un altro volume, Who Wrote the Book of Life? A History of the Genetic Code (2000), Kay analizzò lo sviluppo delle scienze della vita nel secondo dopoguerra, mettendo in evidenza l’emergere di metafore derivate dalla teoria dell’informazione e dall’ingegneria, che, secondo l’autrice, influenzarono profondamente la biologia, sia prima sia dopo la scoperta della struttura molecolare del DNA nel 1953. La concezione del DNA come “codice”, ovvero come un insieme di informazioni discrete contenute nelle macromolecole che costituiscono il materiale ereditario, deve molto all’ingegneria dell’informazione. L’organismo stesso viene così concepito come un sistema di input e output governato da leggi prevedibili. Come sottolinea Kay, la metafora del “codice” non è mai stata neutrale ma ha condizionato lo sviluppo della disciplina stessa. Tuttavia, tale “visione molecolare” ha spesso ignorato le complessità ambientali, epigenetiche e sistemiche che caratterizzano i fenomeni viventi.
La prossima settimana analizzeremo la seconda e la terza coordinata, codificare e promettere.
L’orologio dell’apocalisse e il pericolo della guerra atomica
Roberto Fieschi (classe 1928), professore emerito dell’Università di Parma, è un fisico italiano e insieme a figure come Angelo Baracca (scomparso due anni fa) è stato fin dagli anni Sessanta, e ancora oggi, un campione della lotta per la pace e contro la proliferazione delle armi nucleari. È autore di numerosi libri, tra i quali segnaliamo l’importante Macchine da guerra. Gli scienziati e le armi, insieme a C. Paris De Renzi (Einaudi, 1995) e, recentissima, una Breve storia della bomba. La nascita delle armi nucleari 1938-1955, Fiorenzo Albani Editore, 2023.
L'articolo ci è stato cortesemente concesso da "Ideeinformazione" che l'ha pubblicato a marzo di quest'anno.
dal Amico di lunga data di Piero Basso e del collettivo Ideeinformazione, ci ha inviato questo articolo (pubblicato anche sulla rivista online “Striscia rossa”), che volentieri proponiamo ai nostri lettori
Il Bulletin of the Atomic Scientists è stato fondato nel 1945, dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, da scienziati che avevano contribuito a sviluppare le prime armi atomiche nel Progetto Manhattan. Obiettivo: informare sui pericoli di una guerra atomica. Per descriverne il rischio, il Bulletin inventò l’Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock – 1947), orologio metaforico che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta: la mezzanotte simboleggia l’apocalisse, i minuti precedenti rappresentano la distanza ipotetica da tale evento. La posizione originale, nel 1947, era di sette minuti alla mezzanotte.
Il Clock trasmette le minacce all’umanità e al pianeta ed è diventato un indicatore universalmente riconosciuto della vulnerabilità del mondo alla catastrofe globale causata dalle tecnologie create dall’uomo.

Il Doomsday Clock viene impostato ogni anno, consultando anche vari premi Nobel.
La lancetta dei minuti dell’Orologio venne spostato verso mezzanotte per la prima volta nel 1949, in seguito al test nucleare sovietico.
Nel corso degli anni, a fronte dell’evoluzione della situazione mondiale, l’orologio si è allontanato o avvicinato alla mezzanotte; il momento di minor pericolo si è avuto nel 1991 alla fine della guerra fredda (17 minuti) per poi via via aggravarsi negli anni successivi fino a raggiungere nel 2023 l’estremamente pericolosa distanza di soli 90 secondi.

L’immagine mostra l’evoluzione delle indicazioni del Clock.
2025 – DICHIARAZIONE DELL’OROLOGIO: MANCANO SOLO 89 SECONDI ALLA MEZZANOTTE. E’ IL MOMENTO PIÙ VICINO ALL’APOCALISSE CHE CI SIA MAI STATO.
Dall’ultimo Bollettino del Consiglio per la scienza e la sicurezza degli scienziati atomici:
“Nel 2024, l’umanità si è avvicinata sempre di più alla catastrofe. Le tendenze che hanno profondamente preoccupato lo Science and Security Board sono continuate e, nonostante i segnali inequivocabili di pericolo, i leader nazionali e le loro società non sono riusciti a fare ciò che era necessario per cambiare rotta.
Di conseguenza, ora spostiamo l’Orologio dell’apocalisse da 90 a 89 secondi alla mezzanotte, il momento più vicino alla catastrofe che ci sia mai stato. La nostra fervente speranza è che i leader riconoscano la difficile situazione esistenziale del mondo e adottino misure coraggiose per ridurre le minacce poste dalle armi nucleari, dal cambiamento climatico e dal potenziale uso improprio della scienza biologica e di una varietà di tecnologie emergenti.
Spostando l’Orologio di un secondo più vicino alla mezzanotte, inviamo un segnale forte: poiché il mondo è già pericolosamente vicino al precipizio, uno spostamento anche di un solo secondo dovrebbe essere interpretato come un’indicazione di pericolo estremo e un avvertimento inequivocabile che ogni ritardo nell’inversione di rotta aumenta la probabilità di un disastro globale.
Continuare ciecamente nel percorso attuale è una forma di follia. Gli Stati Uniti, la Cina e la Russia hanno il potere collettivo di distruggere la civiltà. Questi tre paesi hanno la responsabilità primaria di salvare il mondo dall’orlo del baratro, e possono farlo se i loro leader avviano seriamente discussioni in buona fede sulle minacce globali. Nonostante i loro profondi disaccordi, dovrebbero fare quel primo passo senza indugio. Il mondo dipende da un’azione immediata.
Mancano 89 secondi a mezzanotte.”
VEDIAMO I PRINCIPALI AVVENIMENTI CHE GIUSTIFICANO L’ALLARME DEL BULLETIN.
La guerra in Ucraina potrebbe diventare nucleare in qualsiasi momento a causa di una decisione avventata o per un incidente o un errore di calcolo; Vladimir Putin ha minacciato l’Occidente di usare le armi nucleari “in risposta alla guerra della Nato”. La Russia ha cambiato la dottrina nucleare: potrà usare l’arma atomica per difendersi, anche quando dovesse essere minacciata da un Paese non nucleare ma appoggiato da un Paese nucleare (prima d’ora l’impiego della bomba nucleare era ammesso solo come risposta a un attacco con armi nucleari o di distruzione di massa). Armi nucleari tattiche russe sono state installate in Bielorussia, le trattative per il controllo e la riduzione delle armi nucleari (Trattato New Start) sono arenate; la Duma russa ha votato per ritirare la ratifica del Trattato di messa al bando totale degli esperimenti nucleari; l’Iran continua ad aumentare le proprie scorte di uranio altamente arricchito. L’arsenale nucleare cinese è cresciuto fino a circa 600 testate; gli Stati Uniti sono impegnati nella modernizzazione nucleare più costosa al mondo.
La guerra in Medio Oriente minaccia di estendersi; in questi ultimi giorni Donald Trump è arrivato a sostenere “Gli Stati Uniti prenderanno il controllo di Gaza, un controllo a lungo termine che porterà stabilità al Medio Oriente… i palestinesi devono lasciare Gaza e vivere in altri Paesi in pace.” Vuole espellere 1.700.000 persone dalla loro terra: questa si chiama pulizia etnica.

Ci auguriamo che le minacce di Putin siano un bluff, anche perché l’impiego di bombe atomiche tattiche su un fronte molto esteso, con bassa densità di uomini e mezzi bellici, sarebbe poco efficace. Tuttavia il segnale è allarmante.
L’unica iniziativa di controllo delle armi nucleari è stata la proposta della Cina: estendere un trattato sul reciproco non-uso-per-primi di armi nucleari; proposta che non ha ricevuto risposta. Nell’ottobre 2024, Sun Xiaobo (direttore del Dipartimento per il controllo degli armamenti del Ministero degli affari esteri della Cina) ha affermato al dibattito generale della Prima commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “Gli stati dotati di armi nucleari dovrebbero negoziare e concludere un trattato sul reciproco non-primo-utilizzo delle armi nucleari o rilasciare una dichiarazione politica al riguardo, al fine di prevenire la corsa agli armamenti nucleari e ridurre i rischi strategici”. Queste aperture al “no-primo-utilizzo”, tuttavia, non hanno ricevuto risposta dagli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
COME RIPORTARE INDIETRO L’OROLOGIO
Lo scopo del Doomsday Clock è quello di avviare una conversazione sui rischi prima che sia troppo tardi. Continuare ciecamente sul percorso attuale è una forma di follia. Gli Stati Uniti, la Cina e la Russia nonostante i loro profondi disaccordi hanno la responsabilità primaria di salvare il mondo dall’orlo del baratro.
E NOI, POSSIAMO DARE UN NOSTRO CONTRIBUTO ALLA DISTENSIONE E ALLA SICUREZZA?

Si deve trovare il modo di rendere consapevoli i governi, a cominciare dal nostro, del rischio derivante dagli arsenali di armi nucleari.
A Roma alcuni europarlamentari insieme a rappresentanti di alcune associazioni (inclusa RUniPace) si sono riuniti per delineare una strategia comune per la pace e il disarmo.
Il gruppo No-first-Use Global ha diffuso l’appello in cui si sottolinea che i governi sono sorprendentemente non preoccupati (unconcerned) dal rischio di una guerra nucleare. Un primo passo per ridurre tale rischio sarebbe l’adozione di una politica del non primo uso dell’arma atomica (NFU).
Già nel 2021 l’Unione scienziati per il disarmo (USPID) aveva lanciato un appello al Parlamento italiano a favore del concetto di NFU.
Un gruppo di giornalisti ha lanciato un appello: alla radio e in TV i pacifisti sono sistematicamente assenti. Facciamo sentire la voce della pace nei dibattiti!.
Ma nel complesso le reazioni della società e della politica sono scarse.
Recensione di Oltre la tecnofobia, il digitale dalle neuroscienze all’educazione - Prima parte
A maggio di quest’anno è uscito un libro, Oltre la tecnofobia, Il digitale dalle neuroscienze all’educazione di Vittorio Gallese, Stefano Moriggi, Pier Cesare Rivoltella, che – dichiaratamente, fin dal titolo – intende proporre una visione in controtendenza rispetto alla tecnofobia che sta dilagando tra media, common sense, e riflessioni accademiche.
Abbiamo accolto con grande interesse la riflessione critica, acuta e articolata, di Simone Lanza che, con il pretesto di confrontarsi con le tesi degli autori, costruisce un ragionamento parallelo su tematiche quali la metafora del cervello come computer, l’identità di rappresentazione dei mondi analogico e digitale, e il presunto autoritarismo celato da divieti e restrizioni dell’uso delle tecnologie digitali a bambini e ragazzi.
In questo primo articolo presentiamo la sintesi della recensione del libro; nei successivi tre seguiremo il ragionamento analitico di Simone Lanza.
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Il saggio di Vittorio Gallese, Stefano Moriggi, Pier Cesare Rivoltella si scaglia contro la tecnofobia, figlia di una lunga tradizione storica che ha visto demonizzare ogni rivoluzione tecnologica “dall’invenzione del fuoco agli smartphone” (p.22), dalla scrittura alfabetica alla fotografia, dal cinema alla televisione, fino all’attuale panico morale. Gli autori si adoperano a smontare con vigore le tesi di Jonathan Haidt (La generazione ansiosa), secondo cui i giovani sarebbero vittime passive di tecnologie portatrici di ansie sociali; a loro avviso, il vero problema non è il digitale ma la paura culturalmente costruita che lo circonda, una nostalgia reazionaria per un passato idealizzato, sostenuta da divieti inefficaci e da un’autorappresentazione sociale che colpevolizza le nuove generazioni.
Il limite più rilevante del saggio è che, credendo di criticare la diffusione della tecnofobia, non analizza il mondo odierno, ben plasmato in profondità dalle piattaforme digitali, che invece mettono a valore le paure sociali, che sono la leva e non la resistenza alla diffusione di massa di queste tecnologie. Il libro, soprattutto, fa un pessimo uso delle sue tre fonti principali chiamate a corroborare l’impostazione teorica: Walter Benjamin, Bernard Stiegler, Paulo Freire. Se quindi in questa recensione si darà eccessivo spazio a questi testi non è tanto per restituire alle tre fonti la loro forza critica, completamente rimossa nel libro in questione, quanto perché questa operazione consolida, con il linguaggio scientifico, una serie di luoghi comuni, che qui si intendono invece sottoporre a critica. Presenterò subito i contenuti.
Nella prima parte (gnoseologica), ispirata alle ricerche delle neuroscienze, gli autori demoliscono la metafora del cervello come computer. L’essere umano è dotato di intersoggettività corporea e i neuroni motori si attivano anche nella percezione di stimoli visivi o tattili senza produrre movimento effettivo. Questa simulazione motoria dimostrerebbe che “i meccanismi cervello-corpo che consentono la nostra relazione fisica e diretta con il mondo (…) e quelli che intervengono nel mondo – analogico e digitale – con cui rappresentiamo il mondo con storie e immagini, sono molto simili” (p.37). Non esiste così una differenza qualitativa o ontologica nel modo in cui “rappresentiamo” (p.41) il mondo perché il primo medium sarebbe il corpo (p.21). Il riferimento principe della prima parte è al filosofo Walter Benjamin, primo critico ad avere compreso che i media trasformano la stessa percezione dell’esperienza del mondo reale. Ne L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica sostiene che i media (essenzialmente fotografia e cinema) hanno cambiato il modo di percepire il reale.[1] Sulla confusione tra esperienza di mondo di Benjamin con la rappresentazione del mondo si tornerà più avanti, perché questa confusione permette di sovrapporre la rappresentazione del mondo analogico a quella digitale, perdendo di vista la dimensione esperienziale del mondo reale, di cui il virtuale è solo una parte.
Nella seconda parte (ontologica) si sostiene la tesi che l’indistinzione percettiva sia anche costitutiva del reale, cioè che virtuale e reale siano sovrapponibili. Un’idea dura a morire per la resistenza del buon senso umanista a cui i nostri autori contrappongono le tesi del filosofo Bernard Stiegler, per il quale la tecnologia non è esterna all’umano, perché l’evoluzione umana è “tecnologico-umana” (p.23). A ulteriore conferma portano una tesi di Debord riproposta in modo forse impreciso: “tutto ciò che un tempo veniva vissuto direttamente è ora semplicemente rappresentato a distanza (sic).” (p.43). Secondo me, la traduzione corretta è “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Che poi è proprio ciò che i nostri autori non vogliono capire: lo schermo trasforma (e allontana) il vissuto in rappresentazione, come si vedrà più avanti.[2] In ogni caso la loro argomentazione è che la contrapposizione tra umano e tecnologia sia sterile, storicamente infondata e filosoficamente inadeguata, seguendo le tesi del filosofo francese Bernard Stiegler, in Italia sicuramente non abbastanza riconosciuto. Stiegler elabora da Derrida la nozione di tecnica come pharmakon (veleno e farmaco insieme): come la scrittura per Platone così anche il digitale è intrinsecamente ambiguo potendo avvelenare o curare a seconda della dose.
Questa prospettiva smaschererebbe la tecnofobia umanista, radicata al contrario in una nostalgia metafisica che contrappone artificiosamente l’uomo alla macchina, il naturale al tecnologico. Da questa prospettiva teorica, per altro assolutamente condivisibile, anche alla luce del dibattito filosofico in corso sul post-umano (dibattito non menzionato), si passa però velocemente a polemizzare con le soluzioni di "buon senso" derivate da questa visione semplicista: ecco che il concetto di "benessere digitale" è una trappola che scarica sulle macchine responsabilità umane, mentre i divieti (come gli smartphone vietati sotto i 14 anni, le circolari del Ministero, etc...) ignorano la complessità del rapporto coevolutivo tra essere umano e tecnica. Qui gli autori si buttano nelle braccia dello psicologo Matteo Lancini: per gli adolescenti in ritiro sociale (hikikomori), i media digitali non sarebbero la causa del male, ma il farmaco che evita esiti psicotici, permettendo loro di restare agganciati al mondo. Viviamo ormai in una realtà onlife, dove ogni distinzione tra on line e off line sarebbe obsoleta. Gli autori ci invitano ad "abitare farmacologicamente (e dunque consapevolmente) la catastrofe" (p.107): riconoscere le tossicità del digitale senza rinunciare alle sue potenzialità curative. Questa parte teorizza l’inseparabilità di umano e tecnologico deducendone la polemica contro il buon senso umanista sulle misure da prendere per gli abusi degli smartphone in età adolescenziale. Da un lato polemizzano contro le misure di buon senso dall’altro si limitano a segnalare solo alcune storture delle tecnologie informatiche nominando essenzialmente i rischi dei deepfake e della disinformazione delle fake news che viaggiano più veloci delle notizie vere. Gli autori sono fermamente convinti che “l’avvento dei media digitali ha democratizzato l’accesso alle informazioni” (p. 56) e che “l’ascesa delle piattaforme sociali ha permesso ai politici di interagire direttamente [sic] con gli elettori” (p.57): convinzione quest’ultima che forse alla fine del XX secolo poteva essere anche condivisibile, ma che dopo la Brexit e il ruolo di Cambridge Analytica, per non parlare della fine di ogni regolamentazione avanzata da Trump, suona quanto meno goffa, se non persino collusa.
La critica si fa totalmente pedagogica nella terza parte, dove ogni suggerimento pratico volto a limitare l’uso delle tecnologie è definito autoritario. Per questa operazione si scomoda il pedagogista Paulo Freire citandolo in esergo e avvalendosene nell’argomentazione: secondo gli autori i divieti inibiscono la capacità critica e deresponsabilizzano gli adulti e chi si vuole educare. Portano l’esempio di genitori cattivi che negano le carte Pokémon ai propri figli, i quali finiscono però per riceverle dai loro pari per una sorta di giustizia compensativa, traendo questa conclusione: “i divieti non reggono all’urto dei gruppi di pari” (p.144). L’ansia di controllo – già evidente in Platone con la sua diffidenza verso la scrittura – sarebbe il vero male: vietare informazioni ai minori è un modello fallimentare, poiché il gruppo dei pari compensa sempre le privazioni. Qui proprio gli autori abbracciano una posizione molto netta: “ogni scelta di protezione [sic] o di divieto, in senso proprio, non è educativa” (p.147). Anche qui mi sia lecito approfondire la questione per capire come Freire la pensasse davvero, ma soprattutto se l’antiautoritarismo non sia oggi qualcosa che potremmo ritenere inadeguato nonché anche abbondantemente superato dai dibattiti pedagogici contemporanei sulla crisi dell’autorità genitoriale.
Questo libro ci dà l’occasione per criticare sette luoghi comuni di cui questo manifesto “tecno-ottimista” sarebbe la versione “scientifica”. Lo sforzo dei nostri autori consiste nel convincere che ciò che viene vissuto sia sostanzialmente identico a ciò che viene rappresentato a distanza: stare tutto il giorno davanti a uno schermo sarebbe la stessa cosa che fare esperienze nel mondo reale, a due anni come a novanta, senza curarsi di dire qualcosa di critico sul fatto che ciò che passa oggi attraverso lo schermo è selezionato e personalizzato da algoritmi progettati da un pugno di miliardari che stanno aumentando le loro ricchezze e che non hanno alcuna finalità pedagogica se non quella di modellare i comportamenti di miliardi di persone.
NOTE
[1] Gallese aveva già ampiamente sviluppato queste tesi con M. Guerra in Lo Schermo Empatico. Cinema e Neuroscienze, Milano 2015. Su Walter Benjamin cf. anche: V. Gallese, Digital visions: the experience of self and others in the age of the digital revolution, in “International Review of Psychiatry”, n. 36, 2024, pp. 656–666. Per una ricostruzione analitica di Benjamin mi sia consentito rimandare a: S. Lanza, L’educazione nell’epoca della riproducibilità tecnica. note su Walter Benjamin, in “Quaderni Materialistici”, n. 23, 2024, pp. 155-176
[2] La traduzione della Società dello spettacolo proposta autonomamente dai nostri autori è quanto meno discutibile: meglio sarebbe stato conservare la traduzione dal francese di Stanziale “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione [c’est éloigné dans une raprésentation]”. La traduzione di questo passaggio diventa pertanto proprio il tradimento proprio di ciò che Debord denuncia: con la società capitalistica l’esperienza vissuta viene mercificata e sostituita da una rappresentazione, spettacolo è quindi “il movimento autonomo del non-vivente”, etc.… proprio perché Debord auspicava una società diversa capace di usare in modo migliore le tecnologie.
Sorpresa! I lupi mangiano altri animali.
Sorpresa! I lupi mangiano altri animali. Chi l’avrebbe mai detto?
Nelle ultime settimane, i media parlano molto della presenza di lupi in zone di campagna e di montagna e – a volte – in zone periferiche di alcune città circondate da colline e da montagne.
Il pretesto, il catalizzatore dell’attenzione mediatica, è sempre lo stesso: l’avvistamento. Ora di una coppia che guada un ruscello in montagna, ora di un’altra coppia in cerca di cibo nel Bresciano, ora di un esemplare solitario che si avvicina alle zone abitate.
Con regolarità, gli articoli – soprattutto nei media locali del nord Italia – proseguono con le testimonianze di agricoltori e allevatori che hanno subito predazioni a danno delle loro greggi o mandrie, spesso lasciate incustodite nelle malghe.
Per fare tre esempi, solo tra quelli del mese di agosto (e molti altri se ne contano a settembre):
- Brescia Oggi, 11/8/2025, titola: “Brescia, i lupi sono arrivati in città: «Maschio e femmina nel mio giardino»” e parla dell’avvistamento di una coppia di lupi in un giardino a 400 m.s.l.m., a ridosso del bosco e della collina; l’articolo conclude citando Coldiretti Brescia che auspica una gestione più flessibile, ossia la possibilità di uccidere i lupi, attualmente specie protetta.
- La Stampa, 16/8/2025: “Pralungo, un lupo in strada a Ferragosto”, che racconta di un lupo filmato alle prime luci dell’alba nelle strade di un paese. Il paese è a oltre 500 m.s.l.m. e, anch’esso, sulle pendici delle montagne e ai margini del bosco. L’articolo è equilibrato ma la conclusione – che cita il primo abbattimento di un lupo in Alto Adige - è chiara, «Un abbattimento che ha scatenato le proteste degli animalisti e dato qualche speranza ai tanti allevatori flagellati dalle continue predazioni del lupo, soprattutto nei pascoli all'aperto in montagna»
- Trento Today lancia un allarme accorato: “Non ce la facciamo più, con orsi e lupi abbiamo il terrore di uscire di casa” lamenta la difficoltà degli allevatori «che stanno valutando la possibilità di chiudere l’attività perché ormai la situazione è diventata ingestibile» e il terrore della gente «che ha paura di uscire di casa perché potrebbe incontrare il lupo». Si tratta di Ospedaletto, in Valsugana, 300 m.s.l.m., chiusa tra due catene di montagne del Brenta.
La conclusione degli articoli, che segue altrettanto sistematicamente, si caratterizza per il sostegno a misure di controllo dei fenomeni predatori, e senza mezzi termini attraverso il “prelievo” – l’uccisione - degli esemplari problematici e di una “quota” percentuale, variabile da caso a caso, di lupi presenti nella zona, con l’obiettivo di ridurre i casi di predazione ai danni degli animali da allevamento e i presunti danni al turismo.
Il punto critico è che – se una parte degli avvistamenti avviene nell’ambito di zone abitate - la maggior parte dei casi di predazione avviene in quota, nei pascoli e nelle malghe, ai danni di bestiame totalmente o parzialmente incustodito oppure all’interno di ovili senza protezione o con protezioni inadeguate (fili elettrificati e recinti, come spiega chiaramente Mauro Fattor, qui, commentando l’abbattimento “legale”[1] di un lupo in Alto Adige)[2].
Ora, la logica affermata dagli operatori agricoli e turistici che auspicano interventi di “contenimento” dei lupi[3], è palesemente di stampo colonialista, e afferma una presunta priorità di presenza dell’umano – e delle sue attività - in aree montane e collinari che sono tipicamente luoghi di vita di altri animali – normalmente e “naturalmente” predatori.
Questa logica – come il colonialismo europeo dell’800 e del ‘900 e come quello attuale in Medio Oriente e nei Balcani – sposta a proprio piacimento, secondo convenienza economica, il confine immaginario e inesistente tra le aree di possesso dell’umano e quelle di pertinenza del naturale[4], degli altri animali.
Chi scrive frequenta zone montane dell’Abruzzo in cui la convivenza con i lupi (e con gli orsi) è caratterizzata dal rispetto delle relative autonomie e prerogative, in cui non c’è e non vuole essere disegnato un confine netto.
In queste zone la predazione fa parte dell’esperienza comune, è patita ma accettata, l’incontro[5] è normale, la violazione delle aree urbanizzate è vista come un rischio da valutare e da gestire con difese e comportamenti adeguati – non come una minaccia da debellare.
E – anche per dare spazio, in alcune aree, al turismo più intenso - vige una politica di informazione assidua e intensa, di consiglio di comportamenti responsabili, prudenti e attenti, anche rivolti alle scuole, che non favoriscano la confidenza e l’avvicinamento frequente alle zone urbanizzate.
Tra questi consigli si legge, ad esempio, per gli allevatori, non lasciare incustoditi gli animali da allevamento, proteggere stalle, ovili e pollai con porte e reti alte; per i turisti in montagna, mantenersi sui sentieri, fare rumore in modo da avvisare i predatori della propria presenza, non lasciare cibo nei pressi delle soste.
Il modello di relazione abruzzese con i grandi carnivori è – quindi – il segno che un equilibrio tra umani e grandi carnivori è ancora possibile.
NOTE:
[1] Il giorno 11 agosto, in Alto Adige, è stato abbattuto, dal Corpo Forestale, un lupo. L’abbattimento va ricondotto ai 31 attacchi a bestiame al pascolo tra maggio e luglio 2025 e ai 42 della stagione 2024. Un lupo, a caso, tra i tanti che popolano l’Alta Val Venosta. Ci torneremo in un prossimo articolo, analizzando la vera e propria controversia che oppone i “colonialisti” e i “difensori”, questi ultimi a loro volta divisi in diverse schiere
[2] Questo senza voler minimizzare la preoccupazione degli agricoltori e allevatori, che subiscono danni e perdite ma che – nella maggior parte delle regioni – vengono risarciti dagli enti regionali.
[3] Prima erano gli orsi, ora i lupi, poi saranno le linci, i grandi predatori carnivori della penisola
[4] Sul concetto e sul presunto valore morale del naturale parleremo in un prossimo numero di Controversie
[5] Le camminate e i percorsi montani di chi scrive sono occasione frequente di incontro con dei lupi, che appena avvistano l’umano “invadente” si ritirano al sicuro. Occasionali incursioni nell’abitato, a ridosso della montagna e dei boschi, sono eventi che stimolano alla maggior prudenza nella gestione degli animali domestici e da cortile.
Il sesso controverso delle atlete - Criteri di partecipazione alle gare
Il 30 di luglio scorso, la federazione internazionale di atletica - World Athletics - ha annunciato un nuovo criterio per definire chi può partecipare, come femmina, alle massime gare nella categoria femminile. Vi proponiamo una ricostruzione - a cura di Alessio Panella - dei tentativi fatti, dagli anni '60 in poi, per stabilire un criterio di distinzione tra maschio e femmina nelle gare di atletica. Ricostruzione che chiude introducendo l'attuale controversia su questo tema.
Così riporta il sito della federazione internazionale di atletica leggera. Il nuovo regolamento è in vigore dal 1° settembre 2025 ed è già stato applicato ai Campionati Mondiali di Tokio che iniziano il 13 settembre.
Il comunicato stampa continua: «Tutti gli atleti che desiderano competere nella categoria femminile ai Campionati del Mondo sono tenuti a sottoporsi a un test irripetibile per il gene SRY, una approssimazione affidabile per determinare il sesso biologico».
Il punto centrale di questa nota della W.A. è la frase «determinare il sesso biologico» come criterio di partecipazione.
Il presidente della W.A., il britannico Sebastian Coe, ne spiega in termini molto chiari il senso del criterio: «per partecipare nella categoria femminile alle competizioni di più alto livello si deve essere biologicamente femmina», e il principio che lo anima: «La filosofia che ci sta a cuore nell'atletica mondiale è la protezione e la promozione dell'integrità dello sport femminile. È importante, in uno sport che cerca costantemente di attrarre più donne, che queste [le donne, ndr] si avvicinino allo sport convinte che non esista un soffitto di cristallo biologico. Il test per confermare il sesso biologico è un passo molto importante per garantire che ciò avvenga».
Proviamo, ora a capire il processo storico, iniziato negli anni ‘60, che ha portato a questa decisione della federazione mondiale.
È – infatti – dagli anni ’60 che i test genetici e biologici per determinare il sesso nelle competizioni sportive, hanno suscitato un acceso dibattito etico, medico e giuridico.
I primi test vengono introdotti dalla IAAF - International Association of Athletics Federations (ora World Athletics) e dal CIO – Comitato Olimpico per "verificare" il sesso femminile a per contrastare i sospetti che ci fossero maschi che gareggiavano nelle categorie femminili. Le “verifiche” prevedono l'ispezione fisica e il test del cariotipo, ossia l’esame cromosomico per determinare il carattere dei geni principali, XX per le femmine, XY per i maschi) e risultano – oggi – invasive, umilianti e scientificamente riduttive.
Il caso di Maria José Martínez-Patiño, ostacolista spagnola con caratteri inter-sessuali e affetta da sindrome di Morris, negli anni ’80, è emblematico. Il test con ispezione sessuale, effettuato nel 1983, la “certifica” come femmina; ma nel 1985 è squalificata perché il test cariotipico rileva il carattere maschile con la presenza del cromosoma 46, XY.
Segue la “riabilitazione”, con la restituzione della licenza IAAF, nel 1988, grazie alla difesa del genetista Albert de la Chapelle, che fa leva sul carattere «inaccurato e discriminatorio» del criterio adottato dalla federazione.
Questo caso mette in luce la complessità del tema del sesso biologico e la necessità di superare criteri binari.
Nel 2009, Caster Semenya - mezzofondista e velocista sudafricana, due volte campionessa olimpica e tre volte mondiale degli 800 metri piani - anche lei con cromosoma 46,XY - viene costretta dalla World Athletics a ridurre con dei farmaci i propri livelli di testosterone per continuare a gareggiare nelle discipline femminili.
La questione porta a una serie di ricorsi, fino alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2021, che riconosce una violazione dei diritti fondamentali.
Nel 2023–2024 la World Athletics introduce nuove norme che escludono dalla categoria femminile le atlete con "disordini dello sviluppo sessuale" (DSD) e livelli di testosterone superiori a una soglia prestabilita, anche se legalmente riconosciute donne; e, oggi, il criterio che si afferma è quello della genotipizzazione (test del gene SRY ritenuto il "fattore interruttore" che determina il sesso maschile nei mammiferi) per identificare il sesso biologico alla nascita, non solo i livelli ormonali.
Secondo molti eticisti, l’eccessiva fiducia nella genetica per determinare qualcosa di complesso come il sesso è mal riposta, perché l’identità di genere, il sesso legale, e la performance sportiva non si riducono a un singolo gene o ormone.
Inoltre, sotto il profilo della riservatezza, costringere una persona a rivelare il proprio profilo genetico può violare la privacy genetica, esporla a discriminazioni e causare gravi impatti psicologici.
La controversia ha diverse sfaccettature: da un lato studiose come Katrina Karkazis (antropologa e bioeticista, professoressa di Sessualità e di Studi sulle Donne e sul Genere all’Amherst College) sostengono che queste politiche sono forme di sorveglianza del corpo femminile, che generano un conflitto tra la garanzia di una competizione “giusta” e quella dell’inclusione; dall’altra parte, i critici sostengono che atlete con DSD o varianti intersessuali abbiano un vantaggio “ingiusto”; altri ancora ribattono che la diversità biologica fa parte dello sport, come l’altezza nel basket o la VO₂ max nel ciclismo.
A coronamento della controversia, va ricordato che non esistono test comparabili per uomini con caratteristiche biologiche straordinarie.
Il tentativo di definire criteri di distinzione crea un filtro selettivo solo per le donne, alimentando – in un modo o nell’altro - discriminazioni sistemiche.
Di fatto, le policies introdotte dal CIO per regolamentare le gare sono principalmente orientate alla sicurezza ed equità delle competizioni. L’inclusione o altri criteri politici e sociali non sono prioritari e restano contemplati nella definizione delle categorie (i.e. Olimpiade, Paralimpiade, Uomo, Donna).
Tuttavia, questo orientamento della giurisprudenza sportiva non è adeguatamente sostenuto dalle Federazioni, alle quali il CIO ha demandato dal 2020 la definizione e attuazione degli specifici criteri di eleggibilità di atleti e atlete, con il risultato che sono numerosi i casi controversi e contestati, con sentenze altrettanto equivoche e non abbastanza definite per stabilire un chiaro orientamento di principio
Ad esempio, Lia Thomas è una nuotatrice transgender che ha gareggiato e vinto titoli NCAA. Ha mosso denuncia al Court of Arbitration for Sport (CAS), cercando di far dichiarare invalide le regole della federazione nuoto sull’accesso alle competizioni. Il CAS ha stabilito che Thomas non aveva lo “status” necessario (essere membro di USA Swimming etc.) per opporsi formalmente alle regole; quindi, non è stato accolto il ricorso. Nulla ha detto circa il merito del ricorso. Nel 2022 la World Aquatics ha introdotto regole che escludono le donne transgender che abbiano attraversato anche solo una parte della pubertà maschile nella categoria femminile. Le regole della World Athletics richiedono che atlete con DSD, per competere nelle gare femminili di media distanza, abbassino il testosterone sotto le soglie definite (es. < 2.5 nmol/L) per un certo periodo.
Imane Khelif e Lin Yu-Ting, iscritte nella categoria femminile ai Campionati Mondiali di box 2023 sono state giudicate non “idonee” da parte della International Boxing Association (IBA) per motivi di criteri di genere (tests di “eligibilità di genere”). Tuttavia, l’IOC ha poi autorizzato la loro partecipazione alle Olimpiadi di Parigi 2024, sostenendo che esse soddisfano i requisiti
Nel 2024 un gruppo di 26 accademici ha pubblicato uno studio critico verso il Framework del CIO su equità, identità di genere e variazioni del sesso. Sostengono che il framework “non garantisce sufficientemente la correttezza per le donne” e che non considera adeguatamente gli effetti permanenti della pubertà maschile che non sarebbero annullabili solo abbassando il testosterone. Questo ha alimentato dibattiti su come le federazioni determinano i criteri (testosterone, uso di prove scientifiche, presunzione di vantaggio, ecc.)[1].
CONCLUSIONE
Alla luce di queste controversie, non sembra possibile, ma dannoso e discriminante, utilizzare il sesso biologico come elemento chiave per decidere l’eliggibilità di atlete e atleti in una o nell’altra categoria.
Questo finché gli organi supremi di governo dello sport e la Commissione Etica della Comunità Europea non abbiano chiarito quale sia l’orientamento di principio a cui affidare la decisione. Sarebbe anche necessaria una validazione senza ombra di dubbio dei criteri e dei test scientifici. In ultimo, andrebbero definite le procedure di applicazione - chi può fare ricorso e in base a quale principio - e le condizioni di compatibilità dei principi di discernimento con i diritti fondamentali della persona.
Le relazioni sentimentali nella scienza - Evitarle o far finta di nulla?
Il 2 settembre scorso, i giornali hanno battuto la notizia che Nestlé ha licenziato, con effetto immediato, l’amministratore delegato Laurent Freixe, che da quasi quarant’anni lavorava nella multinazionale svizzera. Dopo che è emersa una sua relazione sentimentale non dichiarata con una diretta dipendente.
Parigino, 63 anni, Freixe lavorava per Nestlé dal 1986. Da settembre 2024 aveva assunto la direzione del gruppo, succedendo al tedesco Mark Schneider.
Il codice di condotta della Nestlé invita i dipendenti a evitare potenziali conflitti d’interesse e chiede loro di dichiarare tempestivamente eventuali relazioni con colleghi.
Una vicenda simile era capitata questa estate, quando Andy Byron (CEO di Astronomer) e Kristin Cabot (responsabile risorse umane della stessa azienda) furono beccati in atteggiamenti intimi dalla kiss cam durante un concerto dei Coldplay. In seguito a ciò furono prima sospesi dai loro incarichi, poi messi in congedo e infine entrambi si dimisero.
Nelle aziende italiane è rara la presenza di codici comportamentali che riguardano le relazioni sentimentali, sono al più noti alcuni casi in multinazionali americane e asiatiche. E, sicuramente, un tale codice non vige nell’accademia italiana, dove da alcuni anni non è possibile soltanto che un/a parente prossimo/a di un/a dipendente (ad es. marito o moglie) venga assunto nel suo stesso un dipartimento. Norma sicuramente utile ma che non tocca l’ambito, molto più vasto, delle relazioni sentimentali. Infatti, non c’è, a mia conoscenza, nessuna norma che richieda di dichiarare le relazioni sentimentali in essere nella stessa università e tanto meno nello stesso dipartimento.
LE EMOZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI
Il ruolo delle emozioni nelle dinamiche lavorative e nelle organizzazioni è un tema studiato da diversi decenni: l’intelligenza emotiva, il potere delle emozioni, la presenza costante di invidia, gioia, rancore, ansia e frustrazione, come esse influenzino i processi decisionali, il clima aziendale, le relazioni e la produttività. Inoltre, la ricerca ha mostrato come saper gestire le emozioni permette di trasformare le emozioni spiacevoli (o non utili al contesto) in emozioni piacevoli, di motivare sé stessi e gli altri.
Poco si è scritto, però, sul ruolo che le relazioni affettive e sentimentali hanno nelle organizzazioni, nelle aziende, nelle istituzioni e nei contesti scientifici. Tuttalpiù questo fenomeno viene relegato al pettegolezzo o alle battute fra colleghi/e. Eppure, è un fenomeno esistente (un tempo, forse, più di adesso; in alcune discipline più di altre), legato al maschilismo fortemente presente (un tempo più di adesso) nell’accademia italiana. Tant’è che un noto e autorevole professore, ora emerito, diceva che “i concorsi si vincono a letto”. Certamente esagerava. Ma visto che lui di concorsi ne aveva visti tanti, qualcosa doveva sapere.
Sarebbe, quindi, auspicabile per un’istituzione scientifica, dove dovrebbero vigere criteri di merito, di qualità, di produzione scientifica ecc., introdurre un codice comportamentale simile a quello presente in Nestlè? Che (si badi bene) non impedisce le relazioni sentimentali intra moenia, ma richiede che vengano dichiarate.
Un tale codice manderebbe sicuramente a pezzi centinaia di matrimoni e convivenze, ma renderebbe un po’ trasparenti le decisioni prese all’interno di un’istituzione scientifica. Un bel dilemma…
Intelligenza Artificiale - Simulacri di Arte senza arte
La maggior parte degli articoli scritti sull’argomento “Intelligenza Artificiale e Arte”, compresi quelli di questa rivista, suonano ottimisti. Il loro pathos si riduce all’idea che l’intelligenza artificiale sostituisca il creatore umano solo nei livelli inferiori e tecnici del processo creativo, ma che l’uomo mantenga la funzione di operatore: è lui a impostare gli algoritmi secondo i quali l’IA opera, e quindi conserva lo status di soggetto del processo creativo.
Tuttavia, questa conclusione è ingannevole: i praticanti e i teorici dell’arte che vi aderiscono sono, consapevolmente o meno, vittime di un’autoillusione, e vi sono alcuni argomenti che lo confermano.
Già nel 1992, Neil Postman scriveva che le tecnologie non sono neutrali, esse cambiano chi le utilizza, e nella fase attuale, che Postman definisce “tecnocrazia”, le tecnologie si sono trasformate in un sistema che ha sottomesso tutte le altre aree della cultura. Yanis Varoufakis richiama l’attenzione su questo schema in relazione all’uso dell’IA nell’economia: l’IA “cloud” non produce nulla, controlla solo il comportamento umano, spingendo le persone ad acquistare ciò che l’algoritmo suggerisce. Nelle impostazioni di base dell’IA, indipendentemente dall’ambito in cui viene usata, l’obiettivo principale incorporato è vendere (beni, idee, storie, pensieri), manipolando la coscienza adulando gli utenti. Usando l’IA anche nelle operazioni più semplici, la persona cede gradualmente le proprie posizioni, cominciando ad agire secondo l’algoritmo dato e perdendo progressivamente la propria soggettività. Da gestore si trasforma in controllato, da soggetto diventa oggetto di un processo che non è più regolato da lui. Negli ultimi anni, Hollywood è stata scossa da proteste da parte degli sceneggiatori, il cui lavoro è stato massicciamente sostituito dai prodotti dell’IA. Le ragioni della protesta non sono solo la perdita del lavoro e, di conseguenza, del reddito, ma anche l’eccessiva qualità delle sceneggiature scritte dall’IA. Il regista Todd Haynes afferma che le storie create dalla rete neurale sono troppo levigate, prive di errori, imprevedibilità, incoerenze, cioè prive della vita stessa. E la cosa peggiore, secondo lui, è che gli stessi sceneggiatori hanno iniziato a scrivere storie altrettanto “senza vita”, come se fossero create da un’IA.
L’intelligenza artificiale, in qualsiasi forma e volume di utilizzo, è controindicata per l’arte, perché con la sua illimitata capacità di imitazione si oppone all’essenza stessa dell’arte, sia dal punto di vista del processo creativo che dal punto di vista della percezione. Prima di tutto, la rete neurale rompe l’unità di corpo, anima e mente (l’entelechia di Aristotele), che è la base di qualsiasi arte: i primi due componenti di questa triade non sono rilevanti per l’IA. Pertanto, l’IA non ha e non può avere emozioni: può solo imitarle. L’interazione di mente, sentimento e corpo crea una polisemia intrinseca, che è uno dei criteri più importanti del valore artistico di un’opera d’arte. Più un testo – nel senso ampio del termine – è polisemico, più è aperto a interpretazioni, più è significativo, più è importante per l’umanità. Qualunque cosa crei l’IA, per quanto tecnicamente complessa possa essere, è semplice nel contenuto, o meglio, primitiva, unilineare e non implica alcuna interpretazione. Queste sono solo alcune delle differenze fondamentali tra la vera arte e l’arte creata dall’IA. La questione di come far sì che le persone apprezzino un’arte che non è arte è l’argomento di questo articolo.
La storia della cultura ha stabilito il seguente schema costante: per l’introduzione ampia e universale di nuove tecnologie che cambiano significativamente il mondo, non è necessaria innanzitutto la corrispondente evoluzione tecnica, ma piuttosto la disponibilità della coscienza collettiva ad accettarle. In altre parole, i cambiamenti nella coscienza precedono la diffusione capillare delle tecnologie. I cambiamenti di coscienza che si muovono verso l’IA sono iniziati con la nascita della cultura di massa e di tutti i suoi attributi. Il primo di questi è la semplificazione delle idee e delle forme, che porta a un vuoto concettuale. Generi semplici, come la canzone, la danza o il disegno a matita, non sono necessariamente legati a contenuti primitivi (e viceversa). Ma nella cultura di massa diventano un percorso verso pensieri e sentimenti superficiali, che non richiedono alcun lavoro interiore per essere compresi e vissuti. Il successo facile e rapido in ogni cosa è uno degli slogan principali della cultura di massa, e questo vale anche per l’arte. Al posto del lavoro mentale su significati e interpretazioni – rilassamento nel consumo di soluzioni già pronte; al posto della catarsi che sconvolge l’anima – piacere facile e intrattenimento. I sentimenti e i pensieri evocati dall’arte di massa sono standardizzati e superficiali, come scriveva J. Ortega y Gasset: “l’uomo-massa rivendica il diritto alla mediocrità.” Un altro attributo è la replicabilità, con lo scopo di rendere fisicamente disponibile l’arte a tutti, il che in realtà porta a sfumare la distinzione tra originale e copia. Oggi, l’IA può generare qualsiasi immagine esteriormente indistinguibile dall’originale realizzato dal più brillante degli artisti, e per rendere il prodotto di una rete neurale legittimo quanto l’opera originale, è necessario delegittimare e poi distruggere fisicamente le differenze tra i due: se non possiamo distinguere un dipinto di Leonardo da uno disegnato da una rete neurale, allora perché dovremmo aver bisogno di Leonardo? Distruggere il criterio con cui il reale si distingue dal falso è la strategia principale per abituare le persone all’IA.
Ma se ciò è facile da fare nella cultura pop, l’arte classica sembra rappresentare un serio ostacolo su questa strada, e sono state sviluppate strategie speciali contro di essa. Spiegherò il mio punto con un esempio. Negli ultimi decenni, la musica accademica europea è stata investita dalla moda della cosiddetta “regia d’opera” – allestimenti liberi di opere classiche che impongono trame che non hanno nulla a che vedere con la fonte originale. Ci sono moltissimi esempi: i registi di tutti i teatri d’opera del mondo competono nel mostrare la loro immaginazione. Ne cito uno: la produzione del Parsifal di R. Wagner da parte del regista alla moda C. Serebrennikov all’Opera di Vienna, dove sul palco viene mostrato il GULAG accompagnato dalla musica del grande compositore tedesco. Ricordo che la trama di quest’opera, come di molte altre di Wagner, si basa sull’epica medievale tedesca e che la partitura dell’opera è un complesso lavoro sinfonico con un vasto sistema di leitmotiv e una drammaturgia musicale intricata, attraverso cui si rivelano le idee di Wagner. Mettere in scena un’opera – qualsiasi opera, e in particolare un’opera wagneriana – significa decifrare la partitura musicale, ma il regista Serebrennikov (come la stragrande maggioranza dei registi moderni) non ha una formazione musicale. In questo spettacolo egli adula il pubblico: invece di cercare di comprendere i leitmotiv, di seguire il movimento dei simboli musicali, di approfondire la filosofia di Wagner, il pubblico viene intrattenuto da scene di GULAG – è così di moda, “spiega” direttamente ciò di cui Wagner parlava! È evidente l’introduzione di attributi della cultura di massa nell’arte classica, la vendita del primitivo sotto la veste del complesso.
Così, al posto dell’arte, compaiono simulacri di arte, simili nell’aspetto ma opposti nell’essenza. Vediamo la stessa situazione non solo nell’arte, ma anche in altri ambiti della nostra vita. Viviamo già in un mondo di simulacri totali, senza la possibilità di correlazione con l’autentico, perché la rete neurale può generare qualsiasi “prova” per i falsi diffusi dai media. Perciò non sappiamo chi sia l’aggressore e chi la vittima nella politica internazionale, non sappiamo chi sia il vincitore e chi lo sconfitto nella storia passata, talvolta non sappiamo neppure chi sia un uomo e chi una donna, e infine non sappiamo chi siamo. Per manipolare la coscienza collettiva, imponendole qualsiasi fantasma sotto le sembianze della verità, è necessario distruggere l’idea stessa di verità nella coscienza e sostituirla con un simulacro, e l’unico modo per farlo è cancellare i criteri di distinzione tra il simulacro e l’originale. Non è forse questo ciò di cui scriveva J.W. Goethe nel Faust?
Ma dove tutti sono orgogliosi della depravazione,
Mescolando i concetti,
L’onesto sarà colpevole,
E il colpevole avrà ragione.
Nulla era più sacro.
Ognuno è disperso e si divide.
Le fondamenta vengono scosse,
Quelle che crearono ogni cosa.
Sicuramente molti diranno che, sullo sfondo dei problemi globali moderni, la distinzione tra arte reale e arte finta non è così importante. Non posso essere d’accordo, perché l’arte riflette in forma concentrata tutti i problemi del nostro mondo: l’arte è la principale fonte per mantenere l’identità e l’integrità dell’essere umano. Nel 1986, il grande regista sovietico Georgij Danelija realizzò la profetica distopia Kin-dza-dza. Essa mostra una società incredibilmente avanzata dal punto di vista tecnico, su un pianeta lontano, dove le persone volano liberamente tra le galassie, hanno armi sofisticate, leggono i pensieri altrui e comprendono qualsiasi lingua senza interprete. Ma le loro vite sono terribili, il loro mondo interiore è orribilmente primitivo, il pianeta è diventato un deserto senza acqua e aria, e la regola principale della società è che l’uomo è nemico dell’altro uomo. Tutto perché sul pianeta non esiste arte né alcunché legato all’estetica: le persone hanno perso la capacità di apprezzare e produrre una vera bellezza umana, e ciò ha trasformato le loro vite in un simulacro di vita, e loro stessi in simulacri di persone. Più introduciamo l’IA nell’arte, più ci avviciniamo alla civiltà di Kin-dza-dza.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
- Postman, Neil. Technopoly: The Surrender of Culture to Technology. New York: Vintage Books, 1993
- Rottenberg, Josh. Hollywood’s being reshaped by generative AI. What does it mean for screenwriters? // Los Angeles Times, July, 17, 2025.
- Varoufakis Yanis. Technofeudalism: What Killed Capitalism, Bodley Head UK, 2023










