Dopo una sintetica recensione del libro Oltre la Tecnofobia (qui), una critica al concetto di onlife e della rimozione dell’infanzia (qui), Simone Lanza continua a confrontarsi con le tesi degli autori e affronta i punti nodali del libro, le implicazioni cliniche e pedagogiche dei disagi sociali provocati dall’uso precoce e prolungato degli schermi.

LA DIPENDENZA DA INTERNET NON ESISTE?

Sappiamo che gli smartphone alterano il ciclo dopaminergico, creano abitudini e persino dipendenze: non è un mistero perché questo è descritto da chi disegna queste app per metterle gratuitamente sul mercato riuscendo a trarne profitti enormi. Al giorno d’oggi esiste un’ampia discussione  sulla classificazione delle varie dipendenze da internet, trattandosi di un tema di salute pubblica delicatissimo. Incuranti della complessità della situazione gli autori di Oltre la Tecnofobia hanno deciso di abbracciare le posizioni di Matteo Lancini, che sostiene che il disagio dei giovani non sia da attribuire all’iperconnessione, bensì alle “mamme virtuali”. Avvalendosi di Lancini, il fenomeno degli hikikomori è così commentato dagli autori: “I media digitali lungi dall’essere la causa del ritiro, sono piuttosto ciò che consente a questi adolescenti di rimanere ‘attaccati’ al mondo evitando un esito psicotico della loro sindrome”. (p.95) Gli autori sostengono ogni abuso debba considerarsi nocivo, ma che ciò non deve condurci – ed questo il tema che sta loro molto a cuore –  a “incolpare la tecnologia digitale” (p.67)! Come si fa pensare di poter dare la colpa alla tecnologia se non la si è già prima antropomorfizzata?

Per loro “l’utilizzo specifico è dettato e condizionato dal modello di società contemporaneo” (p.67), ma non spendono una parola a spiegare come le tecnologie digitali modellino la società. Credono di dovere emettere una sentenza sulla colpevolezza o innocenza della Tecnologia (al singolare, si vedrà poi perché), ma non si esprimono mai sugli umani che sono proprietari di queste tecnologie e le usano come mezzi di produzione. Come se le finalità non fossero di chi progetta le Tecnologie. L’antropomorfizzazione della Tecnologia consiste nel neutralizzare ogni carattere etico e politico della tecnica, rimuovendo il ruolo degli umani che vi investono soldi. Questo è proprio il carattere ideologico, su cui si tornerà, mai messo in discussione in questa edulcorante Weltanschauung.

Non esiste Una dipendenza da internet o da smartphone ma le organizzazioni mediche stanno mettendo a fuoco molti disturbi legati all’uso compulsivo di queste tecnologie. Si tratta di fasce sempre più vaste della popolazione che sono risucchiate in comportamenti patologici indotti per così dire dal design. La visione di chi sostiene che la psicosi non solo non venga amplificata dall’effetto schermo ma persino lenisca la malattia e mantenga attaccati al mondo (sic), è estrema, molto discutibile e pericolosa dal punto di vista terapeutico. 

Sulla questione clinica, vorrei rassicurare le decine di migliaia di genitori che chiedono ai loro figli di uscire dalla stanza, che non tutti la vedono come Lancini e che ci sono terapisti che aiutano gli adolescenti a distaccarsi dall’oggetto che produce la loro dipendenza (lo schermo), senza far sentire in colpa i genitori.

In ogni caso è chiaro che questo libro vorrebbe mettere un bavaglio a chi solleva la questione del disagio sociale, bollandolo come tecnofobico. E allora possiamo dire tranquillamente che il re è nudo perché la prova più evidente che le categorie di uso e abuso siano inadeguate a interpretare la complessa questione di salute pubblica (di cui gli hikikomori sono solo una parte) è testimoniata dal fatto che le Big Tech come Meta, pur di non farsi dare regole, sono disposti a darsele da sole. 

Ad oggi l’OMS ha già riconosciuto la dipendenza da videogioco e da gioco d’azzardo, mentre esiste una vasta discussione sulla classificazione di altre forme di dipendenza da internet (oltre al fenomeno degli  hikikomori, c’è la dipendenza da relazioni virtuali e social network, la net compulsion o shopping online, dismorfismo, etc…), si tratta di molti comportamenti patologici che sono soggetti a studi perché in continuo (non rassicurante) aggiornamento, dove il confine tra dipendenza e abitudine è sfumato. In ogni caso gli autori non hanno dubbi sul dover sollevare da ogni responsabilità la Tecnologia digitale quasi fosse una umana presenza. 

Non stupisce quindi che gli autori critichino Jonathan Haidt, reo di avere pubblicato La generazione ansiosa. Riprendendo quasi alla lettera una precedente recensione (V. Gallese, Haidt: quelli che… il digitale, in “Doppiozero”, 17/9/2024) bollano come tecnofobico un libro documentatissimo che contiene quasi un migliaio di fonti. La questione è che dal 2012 è aumentato in modo intensivo l’uso dei social network tra le adolescenti ma sono anche aumentati fenomeni di ansia, depressione, isolamento e suicidi. Per Haidt non c’è solo correlazione ma anche un nesso di causalità. Gli autori propongono altre cause più complesse: “accesso alle armi, la discriminazione, l’isolamento sociale e le difficoltà economiche” (p.66).  Nel libro (a differenza di quello di Haidt) non c’è però nessun tentativo di  convincere il lettore che queste siano le cause plausibili. Non vi sono spiegazioni per cui non mi è possibile comprendere questa loro diversa ipotesi. Trovo difficile capire come l’accesso alle armi, la discriminazione, l’isolamento sociale e le difficoltà economiche possano essere state la causa di comportamenti non certo patologici ma che hanno costretto il CT Spalletti a regolamentare rigidamente l’uso dei dispositivi durante la fase finale di Euro 2024 agli atleti della nazionale di calcio maschile.

Lasciamo a chi legge farsi un’idea del dibattito tra Jonathan Haidt e Candice Odgers, suggerendo  il franco confronto pubblicato su MicroMega 3/2025 (“Disconnessi. L’impatto dei social sulle nostre vite”). Un altro confronto è stato pubblicato da Internazionale. Mi limito a due osservazioni. La prima è che se esiste una correlazione questo dovrebbe costituire un campanello d’allarme sufficiente per applicare il principio di precauzionalità fino a nuovi e approfonditi studi, proprio perché la correlazione non implica ma non esclude affatto la causalità. In secondo luogo vorrei ricordare Austin Bradford Hill, il noto epidemiologo britannico, celebre per i suoi studi che hanno dimostrato il rapporto tra fumo e cancro polmonare (quando ai suoi tempi in tanti sottovalutavano la correlazione, sic). Hill aveva elaborato una serie di nove criteri per dedurre la relazione causale tra un fattore di rischio e una malattia sulla base di correlazioni statistiche. Allora le lobbies del tabacco insistevano proprio con le stesse  argomentazioni di oggi: “Correlation does not imply causation”. Gli autori sono più avanti: la correlazione è il contrario della causalità e pertanto   qualunque divieto va escluso e ogni regolazione rifiutata. E veniamo così alla quarta critica, alla questione educativa.

VIETATO VIETARE!

Gli autori ci propongono l’idea pedagogica rivoluzionaria, del tutto simile a quella del 1968: vietato vietare. Non citano questo slogan di vecchia data, ma lo aggiornano e lo ampliano persino alla protezione: “ogni scelta di protezione o di divieto non è educativa” (p.). Per loro controllo, divieto e protezione sono la stessa cosa. Iniziamo quindi con il rassicurare chi legge che il pedagogista Paulo Freire, certamente caro ai sessantottini e da loro invocato come punto di riferimento teorico, non era certo incline a posizioni libertine che “vedono una manifestazione d’autoritarismo in ogni legittima espressione di autorità”. Freire era incline invece a una posizione più pacata, quella di una persona “democratica, coerente con il suo sogno solidale ed egualitario, per la quale non può esistere autorità senza libertà o questa senza l’altra.”

Oggi nel dibattito pedagogico contemporaneo, proprio seguendo Freire non è possibile concepire l’autorità senza la libertà, ma nemmeno la libertà senza l’autorità. L’appello a sviluppare pensiero critico suona retorico e Freire si lamentava proprio dell’assenza dei limiti normativi. Gli autori si spingono ad asserire persino che ogni protezione è autoritaria: ma come spiegare le leggi contro il lavoro minorile? E i divieti di balneazione? E il divieto di passare con il rosso al semaforo sarebbe diseducativo? Non sempre applicare un divieto  produce un effetto contrario.

La realtà di oggi sembra al contrario esser dominata da un’assenza di limiti e regole, al punto che, per dirla con un noto slogan pubblicitario, “l’unica regola è che non ci siano più regole”. Secondo Daniel Marcelli, punto di riferimento nel dibattito francese sulla crisi dell’autorità genitoriale, domina oggi invece “il bambino sovrano” in un vuoto epocale di autorità. In un altro contributo Marcelli sostiene che in pedagogia sia persino auspicabile obbedire.

L’obbedienza lungi dall’essere virtù negativa è indispensabile nella relazione pedagogica che si basa sulla fiducia. L’obbedienza non è la sottomissione. Autorità e obbedienza hanno significati anche positivi a differenza della sottomissione a un potere. La sottomissione si ottiene attraverso l’obbligo o la seduzione, mentre l’obbedienza (educativa non politica!) si fonda su un rapporto di fiducia. Quando sarai grande ti spiegherò, ma adesso fidati e obbedisci, perché non tutto può essere spiegato e contrattato. Questo è vero soprattutto nell’infanzia. Proprio l’obbedienza conduce all’indispensabile libertà di disobbedire nella maturità. Persino Don Milani teorico di L’obbedienza non è più una virtù, aveva idee ben chiare sull’autorità del docente e sull’importanza dell’obbedire in classe! Anche qui la mancanza di distinzione tra adolescenza e infanzia non permette agli autori  di inserirsi nel dibattito pedagogico attuale su autorità, autorevolezza, obbedienza, sottomissione, libertà su cui per altro le filosofie femministe italiane hanno dato importanti apporti. Assenza di regole, di limiti, di paletti sono invece i concetti base di una pedagogia corrente molto diffusa, basata sulla seducazione (termine coniato da Gilles Lipovetsky per descrivere uno stile educativo basato sul tentativo di sedurre il bambino anziché di educarlo in senso tradizionale) e sulla deresponsabilizzazione degli adulti, incapaci di gestire il sano conflitto educativo, pedagogia corrente che è però distante dal dibattito pedagogico sulla crisi dell’autorità genitoriale aperto da Arendt. 

Del resto Gli autori sono davvero così inclini a lasciare che i loro figli o nipoti guardino film pornografici a otto anni perché vietarglielo significherebbe poi che i loro pari in un atto di giustizia retributiva faranno vedere loro film porno? Per loro tutto va contrattato, trasfigurando l’idea del pedagogista francese Meirieu, che non solo propone la contrattazione educativa ma anche l’autorità del docente e la necessità della sanzione, per non parlare degli interrogativi sulla “strumentalizzazione del digitale da parte del sistema di mercato” (Meirieu , La scuola e la sfida del digitale).

Se la critica all’autoritarismo poteva funzionare nel XX secolo, che iniziò quando Ellen Key scrisse Il secolo del fanciullo, oggi lo slogan vietato vietare non è altro che, come rileva sempre Marcelli, l’anticipazione del credo neoliberista in ambito pedagogico. Questa seducazione incapace di vietare inculca con l’esempio il credo neoliberista dominante. Teorizzare oggi un “antiproibizionismo digitale” significa abbracciare le posizioni dell’individualismo e del narcisismo più sfrenato che già il nostro sistema economico e culturale promuove abbondantemente, anche grazie alle piattaforme.

Per sostenere la tesi che “ogni scelta di protezione o di divieto, in senso proprio, non è educativa” (p.147), si è dovuto alterare il senso profondo della dialettica di Paulo Freiere e storpiare il concetto di contrattazione di Merieu, perché questo assunto, in campo pedagogico, è poco difendibile. Promuovere questa deregulation educativa costituisce al contrario la quintessenza del credo dominante, propugnato tanto dagli autori quanto da Trump e dalle Big Tech: eliminare ogni limitazione persino nell’infanzia. 

Eppure i limiti sono proprio ciò che permette di educare: come qualsiasi pedagogista, allenatore, educatore o insegnante sa bene,  la difficoltà consiste semmai in dove e come mettere i limiti, ma non se metterli

 

Nella quarta e ultima parte, si entrerà nel merito del concetto stesso di tecnologia, di fobia e si descriverà chiaramente la funzione ideologica di questo libro.

Autore

  • Docente, formatore e ricercatore, laureato in filosofia e in scienze della formazione, è stato vicedirettore del centro ecumenico di Agape, attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) e collabora con il Centro di Ricerca Benesse Digitale dell'Università Bicocca di Milano. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: L'attenzione contesa, come il tempo schermo modfica l'infanzia, Armando 2025.

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