Pannelli fotovoltaici e tuberi - Una storia di ibridazione tra tecnologia e ripopolamento

Gagliano Aterno è uno splendido paese abruzzese di struttura medievale, nella Valle Subequana, ai piedi della catena del Sirente, dominato da uno splendido castello del XII secolo e circondato, in direzione delle gole che collegano la valle ai territori dei Peligni, da ampie terre coltivabili, che ne hanno determinato la fortuna nei secoli passati, e da boschi attraverso cui si sale verso le vette del Sirente.

Oggi Gagliano Aterno conta poco più di 200 residenti, di cui solo 150 circa vi abitano in modo permanente. Non è sempre stato così: nel 1931 la popolazione era di 1.926 persone e negli anni ’50 superava ancora le mille persone, tanto che si giocava ogni anno un torneo di calcio con anche 10 squadre, che rappresentavano altrettante zone del paese.

Il declino demografico, iniziato con un brusco calo di abitanti a cavallo della II guerra mondiale e segnato dall’emigrazione diretta in Canada e negli Stati Uniti, si è intensificato nella seconda metà del secolo scorso, con lo spostamento degli abitanti verso le grandi città italiane - Roma, Bologna, Milano, Torino – e verso la costa pescarese, fino a raggiungere gli attuali 200-230 residenti.

Dal racconto degli anziani si coglie che, negli anni ’50 e ’60, il paese era pieno di vita, con 5 taverne, 3 macellerie, almeno altri 2 negozi di alimentari, un fabbro, un calzolaio e tantissimi giovani.

Negli anni ’80 c’erano ancora molti ragazzi, un ritrovo dove suonare e ballare, due bar, una pizzeria, la palestra, un forno rinomato in tutta la valle, 3 negozi di alimentari e un verduriere, la farmacia, un ufficio postale aperto tutti i giorni, un parroco stabile.

Fino a un paio di anni fa nel paese erano rimasti: un solo bar, un ufficio postale operativo due giorni alla settimana, che operava a giorni alterni in un container, il medico di famiglia tre volte alla settimana nei locali della vecchia scuola, e basta. 

Niente pediatra, niente farmacia, niente parroco stabile, nessun luogo di aggregazione, nessun negozio. Il tessuto imprenditoriale locale era limitato ad una – fiorente, va detto – impresa boschiva, una falegnameria con attività minima e una azienda avicola. Nessuna opportunità di lavoro per i giovani, nessuna opportunità per nuove imprese.

Ecco, questo era il quadro del paese nel 2020, quadro aggravato da una situazione di ampia non agibilità di molti fabbricati a seguito del terremoto del 2009 e dai ritardi nell’avvio dei lavori di riqualificazione sismica per i quali erano stati destinati fondi significativi.

PERIMETRO DEL PROBLEMA

Il giovane Sindaco, Luca Santilli, eletto nel 2020 nel mezzo della crisi pandemica, aveva di fronte a sé un problema su diverse dimensioni: demografico - popolazione scarsa e di età avanzata; di assenza quasi totale di servizi; di minima disponibilità finanziaria a causa del gettito fiscale quasi azzerato. Pareva che la crisi fosse inarrestabile e che il destino di spopolamento fosse segnato.

L’intento del Sindaco era, invece, di far “rivivere il paese”; fuori dalla retorica, questa intenzione sottende due macro-obiettivi: invertire la tendenza demografica e ricreare un tessuto di imprese e di servizi che renda il paese un luogo dove si può vivere bene e desiderare di vivere.

Il momento di svolta è l’incontro con MIM – Montagne in Movimento, un gruppo di ricerca-azione in antropologia applicata, progetto affiliato al Centro Universitario GREEN dell’Università della Valle d’Aosta, con cui il sindaco delinea un progetto di ampio respiro per “dare nuova vita alla comunità” e lavorare “per la salvaguardia della memoria storica e delle tradizioni di Gagliano”.

I catalizzatori (in gergo teatrale si potrebbe dire: i pretesti) del processo di avvio di tutto il progetto sono due: le nuove e più efficienti tecnologie del fotovoltaico e la legge sulle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER).

LE TECNOLOGIE

Lo sviluppo del fotovoltaico permette, oggi: 1) di generare potenze di picco, sotto piena insolazione, quasi triple rispetto a solo 10 anni fa, 2) di immagazzinare energia in batterie di dimensioni, prezzo e complessità contenuta, 3) grazie alla cosiddetta Smart Grid, di scambiare energia - efficacemente e senza perdite significative – tra produttori e micro-produttori e i punti di consumo distribuiti sul territorio, in modo intelligente (davvero), allineando momento di produzione e momento del bisogno energetico, 4) di tenere conto e consuntivare sia l’energia prodotta e immessa nella rete che dell’energia consumata, in modo da poter retribuire adeguatamente i produttori.

Queste tecnologie rendono finalmente fattibile, interessante e remunerativo, per privati e comunità, realizzare degli impianti di produzione di energia elettrica, il cui prodotto può essere utilizzato in tempo reale per i propri bisogni (ad esempio: illuminazione pubblica, utilizzo di elettrodomestici privati, punti ricarica di mezzi elettrici) oppure rivenduto al Gestore dei Servizi Energetici nazionale a prezzi concordati.

LE LEGGI

La legge sulle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER), dove “rinnovabili” si riferisce alle energie ma può essere anche inteso in senso esteso come rinnovamento delle comunità, recita che le CER sono “sono soggetti giuridici costituiti da privati cittadini, enti e imprese, che consumano energia autoprodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e hanno come scopo principale quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali ai propri membri e alle aree in cui operano”.

È interessante, appunto, come la legge mette in primo piano il tema della produzione energetica ma include anche i benefici ambientali – abbastanza ovvi, trattandosi di energia “pulita” – e quelli economico-sociali per la comunità stessa e le persone che ne fanno parte. È esplicitata la centralità della dimensione sociale e comunitaria, poiché il tema dell’accordo tra i partecipanti alla comunità è un elemento necessario e irrinunciabile per la costituzione della CER e per la realizzazione del progetto.

Altre leggi che fungono da catalizzatori sono quelle che garantiscono finanziamenti per il rilancio della montagna, delle imprese agricole e produttive montane, dello sviluppo della popolazione. 

In ultimo, hanno giocato un ruolo importante le norme e gli incentivi per le forme di neo-popolamento che hanno permesso di creare NEO – Nuove Esperienze Ospitali, il nucleo di attrazione di giovani intenzionati a trasferirsi nel paese per avviare nuove attività.

IL PROGETTO 

Il piano complessivo che delineano il sindaco di Gagliano Aterno e MIM fa, quindi, leva sulle tecnologie evolute del fotovoltaico, dell’accumulo in batterie e della Smart Grid, sulla legislazione delle Comunità Energetiche e sulla disponibilità di fondi per progetti di ricerca sul territorio, con l’obiettivo proteiforme di generare coesione all’interno della comunità rispetto al piano di rilancio, realizzare servizi per la cittadinanza, generare opportunità di occupazione e proposte turistiche che possano attrarre energie – questa volta umane – e persone.

Il progetto prende avvio e si sviluppa attraverso più di 50 assemblee cittadine ad ampia partecipazione (Aristotele e Rousseau avrebbero sorriso, pensando alle dimensioni quasi ottimali della comunità), la realizzazione di bandi di ricerca rivolti a studenti e dottorandi, lo studio di fattibilità tecnico-operativo di impianti fotovoltaici installati in aree pubbliche dismesse – come un vecchio lavatoio – e sui tetti delle abitazioni private. 

PRIMI RISULTATI

Il primo risultato visibile, che è parte e inizio dello stesso cammino progettuale, è l’ampia partecipazione alle numerose assemblee in cui vengono messi a fuoco i desideri e gli obiettivi dei singoli cittadini e le loro proposte progettuali. 

Seguono, nel giro di due anni: 

  • la presenza di più di 15 ricercatori che aderiscono ai bandi e partecipano attivamente alla vita del paese, in alcuni casi inserendosi nel tessuto di relazioni in maniera che può fare pensare a forme di stabilizzazione; 
  • l’installazione di pannelli fotovoltaici per circa 40 KW e di una colonnina di ricarica per veicoli elettrici ed ibridi;
  • la nascita di 3 nuove attività, micro-imprese radicate nel paese, quali un secondo esercizio di ristorazione street food, un forno che aprirà a brevissimo, una attività di escursioni guidate in montagna;
  • la realizzazione di forme di trasmissione di tradizioni culturali – soprattutto culinarie, si parla dell’Abruzzo! - che rischiavano di essere perse;
  • la nascita di una web-radio cittadina;
  • almeno 3 casi di ritorni al paese di persone che lavoravano lontano e che hanno deciso, rispettivamente, di gestire la radio, di rilanciare la produzione di famiglia di patate, di continuare l’attività agricola con il fratello (che non si era mai mosso dal paese) e, contestualmente, di gestire l’attività di escursioni guidate in montagna;  
  • una palestra di arrampicata che ospiterà dei corsi estivi;
  • la apertura – in questi giorni - di una libreria, i cui proprietari, in corrispondenza con il pensionamento hanno deciso di trasferirsi, con armi e bagagli, da Roma a Gagliano.

Sono grandi risultati, soprattutto pensando al punto di partenza, risultati che possono far pensare alla reale possibilità di rilancio del paese.

CONSIDERAZIONI SOCIOLOGICHE MINIME

In maniera molto sintetica e semplificata, rimandando all’articolo più ampio e articolato di Paolo Bottazzini, si può provare ad inscrivere quello che è successo negli schemi della Actor Network Theory sviluppata da Bruno Latour (Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, 2005, Oxford University Press, Oxford). 

Si possono, infatti, identificare una serie di attori umani e ibridi, attanti (nella definizione di Latour); tra gli umani: il sindaco, i ricercatori di MIM, i singoli cittadini; tra gli ibridi: le tecnologie fotovoltaiche, le batterie, la Smart Grid, le normative e i bandi di ricerca; si può rintracciare un lavoro capillare di traduzione del progetto in forma di interessi particolari degli attori, lavoro di traduzione che è sfociato nell’arruolamento di una parte significativa della popolazione, dei ricercatori, dei “nuovi venuti”, di abitanti che avevano lasciato il paese e sono ritornati e, infine, di almeno un giovane che ha deciso di non andare via – pur avendone la possibilità – e di dedicarsi al progetto e alle attività di famiglia.

Questi attori, in linea con la teoria Actor-Network, hanno costituito una rete – in parte formalizzata e in parte informale – che opera in maniera organizzata e quasi sincrona a favore del progetto di rilancio del paese e che cerca, dove possibile, di arruolare nuovi e vecchi abitanti.


La gestione forestale come supporto alle comunità montane - Il caso dei Comunelli di Ferriere

Il 6 febbraio scorso ho scritto su questo blog sul tema della Gestione Forestale Sostenibile, ovvero cosa comporta la gestione dei boschi e quali vantaggi si ottengono. Perché, contrariamente a quel che credeva l’ambientalismo più radicale (adesso molto meno, per fortuna), anche la natura va gestita (per salvaguardare la biodiversità). E va gestito il rapporto fra insediamenti urbani e natura.

Per chi fosse interessato al tema, rimando a quell’articolo; oggi invece parliamo di una storia che ci racconta della ricaduta concreta dell’attivazione di un processo di gestione forestale su un territorio socialmente fragile.

Questa storia ce la racconta Riccardo Simonelli, dottore forestale che da anni collabora con il Consorzio Agrario dei Comunelli di Ferriere e che è la persona che ha fatto nascere la prima Gestione Forestale Sostenibile nel territorio appenninico emiliano.

Ferriere è un paese di circa 1.100 abitanti nell’alta Val di Nure, a sud-ovest della provincia di Piacenza. Una zona dal tipico paesaggio appenninico, fatto di montagne dolci e boscose; un posto bellissimo (andarci per credere). Ma come tantissime altre zone montane in Italia, un territorio che da decenni vive un declino demografico, frutto della scarsità di opportunità economiche e delle difficoltà logistiche per gli abitanti. 

Per fare degli esempi: pochi bambini o ragazzi, conseguente chiusura di scuole che vengono accorpate in località più popolose, difficoltà di organizzazione di vita per le famiglie e ulteriore abbandono dei paesi… in un loop negativo che potrebbe essere spezzato solo con forti interventi pubblici.

Ma, per parlare del Consorzio e di ciò che ha realizzato, occorre fare un breve excursus su una particolarità della zona e dei Comunelli, che altro non sono che le 19 frazioni ascrivibili a Ferriere. Essi danno vita a una “proprietà collettiva”, la cui caratteristica è di non essere né proprietà privata e neppure proprietà pubblica. 

Si tratta di un istituto giuridico antichissimo, forse risalente addirittura a prima del dominio romano sulla penisola italica e, successivamente, recepito dal diritto romano.

La caratteristica della proprietà collettiva è la seguente: i terreni in oggetto appartengono ad una comunità di persone identificata in modo preciso, nel nostro caso i residenti nelle frazioni di Ferriere (e non a Ferriere paese).

Anticamente, la proprietà collettiva era uno strumento molto diffuso nelle zone montane d’Italia, come mezzo di supporto economico reciproco delle persone appartenenti alle comunità. Nei secoli però le proprietà collettive sono diminuite e si sono trasformate in classiche proprietà private a beneficio di soggetti che si impossessavano delle cosiddette terre comuni grazie alla loro maggior forza e rilevanza politica, sociale o anche militare.

In tempi moderni, la legge che regolamentava in Italia le proprietà collettive era del 1927 ma nel 2017 lo Stato ha messo mano alla norma (Legge 168 nov. 2017 sui domini collettivi) per attualizzarla al nuovo interesse sul tema. Il senso della nuova legge è proprio quello di riattivare uno strumento che permetta alle comunità di realizzare attività economiche che vadano a beneficio delle comunità stesse.

Una curiosità prima di continuare: nel 1747, sempre nella zona dell’appennino piacentino, fu casualmente rinvenuta nel terreno una grande pala bronzea risalente all’epoca dell’imperatore Traiano in cui si regolamentavano con molto dettaglio le obbligazioni dei proprietari terrieri a fronte di prestiti concessi dall’Impero per il rilancio dell’agricoltura locale. Era stabilito che gli interessi del 5% (in linea con quello che accade oggi) fossero devoluti al mantenimento di fanciulli (maschi e femmine) in condizione di indigenza (welfare romano!). Tale provvedimento aveva il duplice scopo di sostenere le attività agrarie e combattere lo spopolamento delle campagne, nonché di fidelizzare le popolazioni all’Impero.

È impressionante notare la similitudine della situazione, poco meno di duemila anni fa e oggi! 

Per la cronaca, questa pala bronzea viene chiamata Pala di Veleia (dal nome della città romana in prossimità della quale fu trovata) ed è conservata nel museo civico di Parma.

Ma torniamo al Consorzio dei Comunelli di Ferriere. Il Consorzio nasce nel 1999 per gestire il rilascio dei permessi per la raccolta dei funghi. Poi, nel 2005, nasce il primo piano di gestione forestale del Consorzio e nel 2016 il piano diventa Piano di Gestione Forestale Sostenibile certificato Pefc.

Questo significa che in tutta la superfice del Consorzio, 5.120 ettari, si ha la certezza che i boschi sono gestiti secondo i criteri di sostenibilità stabiliti da un’organizzazione riconosciuta a livello internazionale.

Ma con quale vantaggio? Per chi acquista i prodotti naturali del Consorzio, a partire dal legname, la certezza della qualità; per i residenti, la certezza che vengono presi provvedimenti per impedire il dissesto idrogeologico; per i turisti la certezza di poter camminare in luoghi manutenuti e quindi sicuri.

E poi la possibilità per il Consorzio di generare e vendere “crediti ecosistemici”; ovvero dei certificati che attestano i benefici della gestione forestale sostenibile anche in termini di CO2 stoccata.

Il Consorzio già da anni ha trovato una importante multinazionale che acquista volontariamente questi crediti per dare supporto alla comunità di Ferriere. È una storia molto bella in cui, per una volta, una grande multinazionale va oltre le affermazioni di principio e si impegna concretamente a sostegno di una comunità. 

Gli organi amministrativi del Consorzio stabiliscono come devono essere impiegati questi fondi, il cui utilizzo, in piena sintonia con la legge sulla proprietà collettiva, deve essere in opere a favore della collettività.

Tutto questo non basta per contrastare lo spopolamento dei paesi di montagna… ma è un passo nella direzione giusta. 

Finalmente stiamo capendo che la natura non va depredata, vedi tagli indiscriminati o folli come quelli a Cortina per una pista di Bob che sarà usata una sola volta. Ma la natura, come dicevamo all’inizio, non va neppure lasciata in balia di sé stessa (qui però il discorso si fa più complesso ed esula dall’argomento trattato).

In ogni caso, che sia da un piccolo paesino di una zona sperduta d’Italia che nasce una pratica virtuosa, per me è una buona notizia.

ANNOTAZIONI PENSANDO A LATOUR

Anche in questa storia sembrano emergere alcuni tratti della teoria Actor-Network di Bruno Latour (Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, 2005, Oxford University Press, Oxford): 

  • come scrive Paolo Bottazzini, il bosco sembra avere una funzione centrale di attante nel processo di consolidamento della comunità;
  • intorno al bosco si genera una intera rete di attanti - umani e non umani - che opera con l’obiettivo di dare ossigeno alla comunità; tra questi attanti, insieme al bosco, possiamo trovare un dottore forestale, un consorzio agrario, la popolazione della zona, una legge antica, ancora valida e attualizzata, addirittura una pala bronzea di origine romana;
  • alcuni attanti compiono lavori di arruolamento di altri soggetti, che diventano a loro volta attori del processo di resistenza alla disgregazione; tra questi, gli acquirenti di legname e di altri prodotti locali verso i quali vale la traduzione della qualità del prodotto, dei turisti, a cui si offre un ambiente ben tenuto e sicuro, dei residenti il cui arruolamento è garantito dalla salvaguardia dell’assetto idrogeologico e, infine, di una multinazionale, coinvolta con i crediti ecosistemici; ognuno di questi soggetti è portato a bordo grazie ad una opportuna traduzione.

Anche qui la lettura attraverso la lente della Actor Network Theory sembra essere illuminante e, nel prossimo futuro, se utilizzata con attenzione, potrebbe essere un fattore di supporto al processo di rigenerazione della comunità di Ferriere e dei Comunelli.


Le mani e la techne - Storia di un’origine mancata, da Platone a Latour

1. TECHNE E PREGIUDIZIO

Una delle eredità più durature di Platone è il sospetto nei confronti della techne. La necessità di separare il vero sapere dall’arte dei sofisti è il movente di questo pregiudizio: Protagora, Gorgia, Lisia, e i loro colleghi, inventano tecniche di persuasione di cui vendono la padronanza, o i prodotti, al miglior offerente, senza mostrare alcun interesse per la verità. La manipolazione persegue il vantaggio egoistico di chi la pratica, mentre il logos della filosofia (della scienza) è guidato dalla physis, segue la forma e le prescrizioni di ciò che rimane stabile nell’Essere. L’atteggiamento con cui si pretende di mostrare l’appartenenza all’aristocrazia del gusto e del senno attraverso il rifiuto dell’innovazione tecnologica, e tramite l’ostentazione di disorientamento tra le pratiche e i prodotti digitali, ancora oggi è un atto di accusa contro la corruzione sofistica della techne, e una proclamazione di fedeltà alla purezza dello spirito.

2. MANCANZA DI ESSENZA

Platone proponeva lo scavo interiore per partecipare alla natura inalterabile della verità: l’anamnesi riporta alla luce le idee, la cui eternità si rispecchia in quella dei cieli che insegnano al sapiente la via per la disciplina del sapere e del decidere. La metafisica ha fissato nell’opposizione tra physis e techne, o tra logos e doxa (ma questo significa anche tra trascendentale ed empirico, tra origine e decadenza) il criterio di separazione tra il filosofo e il sofista, anche quando la tesi dell’accesso ad una sfera di universali eterni ha perso la sua presa sulla comunità scientifica, e la moda ha imposto a tutti un atto di fede nell’empirismo. Come insegna Stiegler (1994), il dibattito seguito all’atto di nascita dell’antropologia moderna, con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau, avrebbe dovuto mettere in guardia da tempo sulla validità di questa disgiunzione, introducendo almeno un nuovo genere di sospetto, che colpisce l’autonomia della natura da un lato, la strumentalità reificante della techne dall’altro lato, e la loro opposizione reciproca.

L’uomo delle origini viene descritto da Rousseau come quello moderno: ha mani e piedi e cammina eretto. Leroi-Gourhan (1964-65) dimostra con la paleontologia che la deambulazione bipede permette la liberazione della mano per la costruzione di utensili e strumenti. E l’affrancamento della mano per la tecnica stabilisce un nuovo rapporto tra la mano, il volto e la parola. Quindi Rousseau immagina un uomo delle origini che ha già le caratteristiche di quello tecnicizzato; ma nel suo errore (molto istruttivo) lo descrive come un quasi-animale che non pensa e non si sposta, usa le mani per afferrare e non per produrre, cogliendo tutto ciò che la natura gli offre in modo spontaneo. Nell’origine il tempo (lo spazio, il mondo) non esiste, proprio perché l’uomo non frequenta alcun presagio cosciente della morte, e in generale nessuna forma di programma: non ha desideri né preoccupazioni, ma solo bisogni soddisfatti immediatamente da ciò che è a portata di mano. Il pensiero e il lavoro non vengono alla luce se non per placare passioni e paura – che a loro volta irrompono nella vita dell’uomo solo se la previsione ha aperto un mondo dove gli strumenti materializzati dalla tecnica sono programmati per proteggere dall’incombenza della morte. 

L’istinto è costrittivo per gli animali: il gatto non mangia i tuberi o la frutta, in assenza di carne, e l’oca non mangia la carne in assenza di tuberi. L’uomo invece è libero di imitare il comportamento di qualunque animale, aprendosi la via alla soddisfazione del bisogno con la carne o con i tuberi, secondo la disponibilità. La libertà è una potenzialità dell’origine che annienta l’origine stessa nel momento in cui passa all’atto, perché la ragione che la realizza innesca quel mondo di tecnica e passioni che allontanano dall’immobilità e indifferenza originari. La libertà è la seconda origine dell’uomo, o la sua assenza di origine, la scomparsa o la mancanza di un’essenza. Le conclusioni speculative di Rousseau finiscono comunque per coincidere con quelle della paleontologia di Leroi-Gourhan.

Le passioni di Nietzsche, le pulsioni di Freud, la ragione di Hegel, la società di Hobbes, il lavoro di Marx non possono aspirare a descrivere la condizione essenziale dell’uomo, la sua origine, che invece è sempre già annullata nel momento stesso in cui l’ominazione viene messa in moto da progettazione e tecnica, e che procede con la storia del loro sviluppo: l’interiorità è un ripiegamento del programma di gesti con cui le mani fabbricano utensili, dello schema della loro applicazione per gli usi futuri, del piano per la loro disponibilità contro gli agguati della morte. Ma questa stessa filogenesi precipita nell’oblio (persa di vista da Rousseau e persino da Heidegger), dimenticata nell’eccesso di prossimità degli oggetti tecnici, resa invisibile nella disponibilità con cui i dispositivi sono sempre sottomano, cancellata nell’esperienza che in ogni epoca essi pongono in essere. Eppure, affinché intellettuali, politici e artisti possano ostentare il loro distacco dall’innovazione digitale e dalle tendenze delle comunità virtuali, affinché la spiritualità che effonde dal loro intimo possa segnalare a tutti la loro nobiltà d’animo, è necessaria tutta la storia delle tecniche, dalle tradizioni della coltivazione di tuberi e alberi da frutta, fino all’impaginazione di libri e riviste con InDesign e alla programmazione delle ALI che sviluppano testi e immagini pubblicati sui giornali internazionali. No techne, no party.

3. DISASTRI E SFERE

Sloterdijk (1998 e 1999) ricostruisce il processo con cui Copernico ha scoperchiato la Terra lasciandola esposta al freddo del cosmo, senza più l’involucro delle stelle fisse, e l’impegno con cui gli uomini hanno progettato sfere che tornassero ad avvolgerla e a riscaldarla. Eliminare la stabilità degli astri equivale a rimuovere l’architettura stessa della physis, il primo grande schema di design del mondo, che Platone ha posto come senso dell’universo, e come sistema di orientamento del saggio e della comunità: un vero e proprio disastro, cui è stato necessario rimediare attraverso la pianificazione di nuovi globi che hanno a più riprese protetto e dissolto i territori dei regni dell’Occidente, fino alla globalizzazione del mondo contemporaneo. 

L’uomo non esce mai in una natura spontanea che si dispiega in un «fuori» dalle sfere in cui agiscono le tecniche di immunità e comunità programmate dalla tecnica. Nell’universo di Platone le stelle fisse sono attori della strategia politica che salda la società ateniese, almeno quanto lo è l’istituto degli arconti o quello della bulè: a loro è assegnata la regìa ideologica della forma di vita nella città e l’ontologia dell’uomo greco. Latour (1984) mostra come i miasmi siano attori della struttura civile che compie la trasformazione sei-settecentesca dello Stato dalla configurazione feudale a quella burocratica moderna: la nascita degli uffici di igiene pubblica, l’educazione della famiglia e la cura dei figli, la nuova morale borghese, la ristrutturazione urbanistica delle grandi città, la modellazione della rete dei servizi fognari e idraulici, sono le mosse della costruzione di più sfere immunitarie contro la diffusione di peste e colera, e il contesto di formazione delle metropoli della rivoluzione industriale e del primo capitalismo. La vittoria del movimento di Pasteur coincide con l’introduzione di un nuovo attore sociale, il microbo, che in parte prende il posto dei miasmi, ma che di fatto sviluppa un nuovo mondo di istituzioni mediche e di welfare, quella che conduce all’antropologia occidentale moderna e postmoderna, dove alla cura dell’individuo si sostituisce il presidio di un’intera tassonomia di agenti patogeni. 

Il contributo sui Comunelli di Ferriere su Controversie mostra come un bosco non sia il «fuori» del villaggio, ma sia l’attore che ne consolida la comunità, arrestando il suo processo di disgregazione; quello su Gagliano Aterno evidenzia come la sfera di appartenenza alla comunità sia inscritta nella ripresa della tradizione della coltivazione dei tuberi e nell’innovazione della posa dei pannelli solari. Tuberi e alberi da frutto possono incrociare il programma genetico di alcune specie di animali, ed essere obbligati ad una simbiosi da cui non possono svincolarsi; per gli uomini il programma è tecnico, non è costrittivo ma deliberato, e come ogni gramma si iscrive negli attori coinvolti e viene regolato da una grammatica. Latour (2005) la tratteggia sul modello della grammatica attanziale di Greimas (1966), mostrando che ogni forma di vita si istanzia in una rete di relazioni tra ruoli registrati in attanti (malati, contadini, miasmi, batteri, canali fognari, tuberi – a pari diritto umani o non umani), il cui grado di integrazione nella sintassi del programma misura il livello di tenuta o di dissoluzione della società in cui esso si esprime. La struttura di rapporti da cui è disegnata la rete manifesta un significato, come le isotopie narrative di Greimas, che può essere tradotto nel programma di comportamento di altri sistemi: a loro volta, questi possono essere intercettati e arruolati – l’interazione dei turisti con la foresta di Ferriere si traduce nell’inserimento in una sfera di appartenenza territoriale, il contatto tra la nuova urbanistica del Settecento e la privatizzazione dei terreni agricoli (Enclosure Act 1773) alimenta la prima rivoluzione capitalistica, l’incontro tra il movimento della «pastorizzazione» e l’espansionismo coloniale apre la globalizzazione moderna.

Ora che il cielo non è più la cupola delle stelle fisse e delle scorribande degli dèi iperurani con le loro bighe, ma una sfera della quale ci dobbiamo prendere cura rammendando i buchi nella maglia di ozono – l’Actor Network Theory di Latour invita ad abbandonare la ricerca della verità in una psyché che, comunque interpretata, continua a macinare la metafisica delle idee di Platone: chiede di imparare a osservare un mondo dove l’uomo non esce mai in spazi non pianificati, ma progetta ambienti e tempi che sono sottoposti a revisioni continue. Rivendica la necessità di rendere questa attività di design finalmente consapevole e condivisa.

 

BIBLIOGRAFIA

Greimas, Algirdas Julien, Sémantique structurale: recherche de méthode, Larousse, Paris 1966.

Latour, Bruno, Les Microbes. Guerre et paix, suivi de Irréductions, Métailié, «Pandore», Paris 1984.

Latour, Bruno, Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, Oxford 2005.

Leroi-Gourhan, André, Le Geste et la Parole, Albin Michel,Parigi 1964-65.

Sloterdijk, Peter, Sphären I – Blasen, Mikrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998.

Sloterdijk, Peter, Sphären II – Globen, Makrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999.

Stiegler, Bernard, La Technique et le temps, volume 1: La Faute d’Épiméthée, Galilée, Paris 1994.