L'etica dei fisici sulle armi nucleari - Terza parte
Nel suo primo articolo pubblicato da Controversie, (qui), Antonino Drago ha delineato come la bomba atomica abbia cambiato l’approccio dei fisici – e degli scienziati in generale – ai problemi morali ed etici che il loro lavoro può comportare. Ha descritto, poi (qui), come i fisici si siano schierati in posizioni diverse rispetto a queste tematiche di rilevanza etico-morale e quali strategie abbiano adottato per legittimare le proprie posizioni.
Ora, per concludere, Drago avanza una doppia proposta di stampo etico, basata sulla istituzione di un tabù globale – che trova un’eco nel testo di Weinberg (qui) del 1986 – e di un organismo globale che prenda in carico le scelte etiche in grado di risolvere i problemi derivanti dal progresso scientifico e tecnologico.
8. UNA NUOVA PROPOSTA ETICA: STABILIRE UN TABÙ GLOBALE
Nel 1985 l'illustre fisico Alvin Weinberg, che lavorò al progetto Manhattan, scrisse un suggerimento impressionante (Weinberg 1985). Le sue parole sono molto chiare.
Quasi dal primo giorno in cui ho iniziato a lavorare al Laboratorio Metallurgico dell'Università di Chicago nel 1941, sapevo che ciò che noi [fisici] stavamo facendo avrebbe cambiato il mondo...
L'attuale quarantesimo anniversario ha visto un grande sfogo di emozioni, molte dichiarazioni di impegno, molto più che nei precedenti anniversari del bombardamento di Hiroshima. Stiamo forse assistendo a una graduale santificazione di Hiroshima, cioè all'elevazione dell'evento di Hiroshima a evento profondamente mistico, un evento che ha essenzialmente la stessa forza religiosa degli eventi biblici? Io e non posso provarlo, ma sono convinto che il quarantesimo anniversario di Hiroshima, con il suo coinvolgimento diffuso, le sue manifestazioni su larga scala e le numerose notizie riportate dai media, assomigli alla celebrazione delle più grandi festività religiose. Questa santificazione di Hiroshima è uno degli sviluppi più desiderabili dell'era nucleare...
Spesso parliamo con disinvoltura di evitare la guerra nucleare, ma dimentichiamo che non stiamo prendendo decisioni per il prossimo decennio o due; stiamo prendendo decisioni per millenni! Come può l'umanità accettare veramente, ai livelli più fondamentali, l'assoluta necessità di evitare olocausti nucleari - 50, 100, 1.000 anni dopo Hiroshima - se non perché Hiroshima è diventata una leggenda orribile, ben nota e universalmente accettata come orribile, proprio come la crocifissione è nota tra i cristiani, l'omicidio di Abele da parte di Caino tra gli ebrei e l'Egira è nota tra i musulmani? In breve, solo santificando Hiroshima possiamo aspettarci che la sua lezione venga imparata e ripetuta per sempre, ricordando anche le morti causate dal fuoco atomico, dalla malattia da radiazioni e dalla terribile distruzione della città?
Nella lunga marcia della storia umana, le oltre 100.000 persone che sono morte a Hiroshima saranno viste come martiri: sono state sacrificate – questa è l'opinione che sta emergendo – affinché l'umanità potesse vivere all'ombra della bomba, ma non essere sterminata da essa.
Cita poi ciò che un suo amico pastore (un ex scienziato del progetto Manhattan), William Pollard, ha scritto in una lettera:
È forse questo il destino di Hiroshima: diventare un mito universale profondamente radicato nel tempo sacro di tutti i popoli della terra, ovvero il simbolo della loro convinzione che la guerra nucleare non debba mai più verificarsi?
Weinberg conclude:
Credo di sì, e che il mondo ricorderà per sempre coloro che sono morti a Hiroshima, rendendo così possibile la santificazione di Hiroshima.
Il suggerimento di Weinberg trasforma la sofferenza per il terribile evento in un atteggiamento positivo verso il futuro. Egli trae una forte lezione etica dall'evento: è necessario stabilire un tabù per tutti i tempi futuri. Egli confronta implicitamente l'esperienza storica dell'umanità del bombardamento nucleare con l'esperienza decisiva, suggerita da Freud, dello sviluppo psichico di ogni essere umano: il tabù di Edipo. Un tabù è molto più di una legge, è un'esperienza costitutiva di una persona matura, consapevole non solo degli obblighi legali verso gli altri e la natura, ma anche della stessa origine delle sue motivazioni fondamentali. In questo senso, il suggerimento di Weinberg rappresenta la più alta lezione etica che i fisici del Progetto Manhattan hanno elaborato come contributo per migliorare la vita dell'umanità[1].
9. LA NECESSITÀ DI UN ORGANISMO ETICO GLOBALE
Nessuna giurisprudenza internazionale, essendo il risultato di un razionalismo giuridico, ha il potere di obbligare tutte le persone, fino all'ultima, a un comportamento obbligatorio, mentre attualmente, di fatto, anche il comportamento di un solo essere umano può provocare eventi catastrofici. Le religioni non sono state in grado di convergere su una serie di principi etici per l'intera umanità (ad eccezione dei sei comandamenti sociali che attualmente sono inclusi in tutte le legislazioni nazionali). Solo un organismo etico internazionale può indirizzare l'umanità ad accettare alcuni tabù e a perseguire tutti insieme, fino all'ultimo, obiettivi di sopravvivenza collettiva.
Già in passato, il logico russo Alexander Vasiliev (1909) e il fisico Albert Einstein (1937) sostenevano la costituzione di un Senato delle Nazioni Unite con lo scopo di affrontare le scelte etiche in grado di risolvere i problemi derivanti dal progresso scientifico e tecnologico. Esso dovrebbe essere composto dalle personalità più autorevoli del mondo.
Solo dopo che questa innovazione sarà stata realizzata, sarà raggiunto l'obiettivo costitutivo dell'ONU - "evitare il flagello della guerra alle generazioni future", che è un obiettivo etico.
A mio parere, questo salto è ciò a cui Einstein alludeva quando scriveva: "Non risolveremo i problemi del mondo con lo stesso livello di pensiero con cui li abbiamo creati".
NOTE:
[1] È un miglioramento rispetto a quanto suggerito da Hans Jonas riguardo alla tecnologia, ovvero evitare il suicidio dell'umanità (Jonas 1985).
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La santificazione di Hiroshima - Un pensiero di Alvin Weinberg, fisico del XX secolo
Alvin M. Weinberg fu un fisico statunitense e collaborò al Progetto Manhattan con la realizzazione del primo reattore nucleare insieme ad E. Fermi, all’Università di Chicago.
Direttore del Centro di arricchimento dell'uranio di Oak Ridge dal 1955 al 1973, fu tra i propositori della Società Nucleare Americana e, nel 1961, presiedette il Panel of Science Information, che produsse il fondamentale "Weinberg Report" sulla comunicazione della scienza a un pubblico sia tecnico che non specialistico.
Nel 1970 avvia il primo grande progetto di ecologia negli Stati Uniti: la National Science Foundation.
Nel 1975, Weinberg fondò e divenne direttore dell'Istituto per l'Analisi Energetica dell’Oak Ridge Associated Universities. Si ritirò nel 1985 ma rimase strettamente legato sia all'Istituto che al laboratorio. Morì nel 2006.
In questo testo del 1986 riflette sull’effettiva necessità del lancio dell’atomica nel 1945 e su come sacralizzare quell’evento per scongiurare il pericolo nucleare per i prossimi millenni.
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Sin da quasi il primo giorno che sono andato a lavorare nel Laboratorio Metallurgico dell'Università di Chicago, nel 1941, ho capito che quello che [noi fisici] stavamo facendo avrebbe cambiato il mondo. Leo Szilard si era dato da fare affinché la biblioteca acquistasse i due libri H.G. Wells The World Set Free [1914; La liberazione del mondo, 1981, Mursia], e di H. Nicholson Public Faces [1932] che immaginavano come poteva essere un mondo in cui c'erano le armi nucleari. Questi libri di fantascienza mi impressionarono molto.
Il problema dell'uso bellico dell'arma nucleare nella Seconda guerra mondiale non ci coinvolse moltissimo. Però in molti firmammo la petizione di Szilard del 1945 affinché la bomba non fosse usata con rabbia e gran parte di noi firmò la raccomandazione della commissione Franck [di scienziati che avevano costruito la bomba nucleare] di dimostrare la potenza della bomba [in un luogo deserto del Giappone] piuttosto che sulle città.
Dopo di che la posizione di Szilard era molto cambiata rispetto a quella iniziale: "Sarà molto difficile che riusciamo ad avere un'azione politica, a meno che...; ormai le bombe atomiche sono state usate in guerra e il fatto che esse hanno una enorme potenza distruttiva è entrato nella testa della gente [che vuole finire la guerra]." Curiosamente questa posizione era in accordo con la risposta del panel scientifico consultivo che, in risposta alle raccomandazioni degli scienziati di non arrivare ad usare le bombe [sulla popolazione], aveva affermato: "Non possiamo proporre dimostrazioni [della bomba solo] tecniche che abbiano una buona probabilità di porre fine alla guerra; non vediamo alternative accettabili all'uso diretto delle bombe [sulla popolazione]." J. Robert Oppenheimer, un membro del panel, fu d'accordo con questa posizione; Teller, nel suo libro The Legacy of Hiroshima [L'eredità di Hiroshima, Tamburini, 1965], racconta che cercò di persuadere Oppenheimer che una dimostrazione tecnica non sulla popolazione era la condotta migliore, ma poi permise ad Oppenheimer di abbandonare questa posizione.
Debbo confessare che, anche se avevo firmato la petizione di Szilard, non sono mai stato turbato dalla decisione di bombardare [le città giapponesi]. Sono stato sempre convinto della argomentazione elementare che essa ha salvato molte vite umane sia Giapponesi che Americane. Non mi hanno fatto cambiare idea né la tesi revisionista che i Giapponesi comunque avrebbero capitolato molto presto, né l'accusa di esagerazione nel numero di morti che ci sarebbero stati con una invasione [del Giappone] ad Honsu.
Il quarantesimo anniversario di Hiroshima ha molto rafforzato la mia convinzione che [il bombardamento di] Hiroshima (ma non di Nagasaki) era necessario; ma non per la ragione suddetta; per una ragione di più grande rilevanza, che deriva dal ragionamento che allora portò a preferire l'uso della bomba. L’attuale 40° anniversario ha visto una grande espressione di emozioni, molte dichiarazioni di coinvolgimento, molte di più che nelle precedenti ricorrenze del bombardamento di Hiroshima. Stiamo forse assistendo ad una graduale santificazione di Hiroshima, cioè alla elevazione dell'evento Hiroshima ad un evento profondamente mistico, un evento che in sostanza ha la stessa forza religiosa degli eventi biblici? Non posso dimostrarlo, ma sono convinto che il 40° anniversario di Hiroshima, con il suo ampio coinvolgimento, le sue grosse manifestazioni, i molti servizi dei mass media assomiglia alla osservanza delle più grandi festività religiose.
Questa santificazione di Hiroshima è uno dei più auspicabili sviluppi della era nucleare. Spesso si parla con disinvoltura di riuscire ad evitare le guerre nucleari, ma non si tiene conto che non si tratta di prendere decisioni per il prossimo decennio o due; ma per millenni! Come può l'umanità accettare veramente, ai livelli più fondamentali, la necessità assoluta di evitare gli olocausti nucleari — 50, 100, 1.000 anni dopo Hiroshima — se non perché Hiroshima è diventata una leggenda orrenda, da tutti ben conosciuta e accettata da tutti come orrenda, così come è conosciuta la crocifissione tra i Cristiani, la uccisione di Abele da parte di Caino tra gli Ebrei e così come l'Egira è conosciuta dai Mussulmani? In poche parole, solo santificando Hiroshima possiamo aspettarci che la sua lezione sia appresa e ripetuta per sempre - ricordando anche le morti per il fuoco atomico, le malattie da radiazione, il terribile annientamento della città?
Potrebbe oggi essere santificata Hiroshima se invece ci fosse stato solo un bombardamento tecnico senza morti? Non potrei immaginare una ricorrenza annuale di impegno mistico che commemorasse un semplice test nucleare. Di fatto, anche l’attuale ricordo è del 6 agosto, non del 16 luglio [quando ci fu la prima esplosione per esperimento nel poligono di Alamagordo, Nuovo Messico]. Nella lunga marcia della storia umana, i 100.000 e passa che morirono a Hiroshima saranno visti come martiri: essi sono stati sacrificati - questa è la valutazione che si sta affermando - affinché l'umanità possa vivere all'ombra della bomba, ma non venga sterminata da essa.
Il mio caro amico William Pollard, che è pastore episcopale e un veterano del progetto Manhattan [di invenzione e fabbricazione della bomba], ha scritto una lettera dove queste cose sono dette in una maniera molto adeguata:
Hiroshima sta diventando un mito profondamente radicato nella psiche di tutti i popoli della terra. Il... teologo e studioso Mircea Eliade ha distinto nella vita popolare un "tempo profano" da un "tempo sacro". Nel tempo sacro le gesta e gli avvenimenti storici gradualmente prendono la persistenza dei miti, mentre nel tempo profano essi hanno meno presa sul popolo e diventano semplicemente materiali storici per gli studiosi, cioè, entrano nel tempo storico.
È forse questo il destino di Hiroshima: diventare un mito universale profondamente fondato nel
tempo sacro di tutti i popoli della terra; cioè, il simbolo della loro convinzione che non si dovrà mai più permettere che avvenga una guerra nucleare?
Io credo che sia così, e che il mondo sempre farà memoria di quelli che morirono a Hiroshima, il che renderà così possibile la santificazione di Hiroshima.
Sintesi
Sin da quasi il primo giorno che sono andato a lavorare nel Laboratorio Metallurgico dell'Università di Chicago, nel 1941, ho capito che quello che [noi fisici] stavamo facendo avrebbe cambiato il mondo…
L’attuale 40° anniversario ha visto una grande espressione di emozioni, molte dichiarazioni di coinvolgimento, molte di più che nelle precedenti ricorrenze del bombardamento di Hiroshima. Stiamo forse assistendo ad una graduale santificazione di Hiroshima, cioè alla elevazione dell'evento Hiroshima ad un evento profondamente mistico, un evento che in sostanza ha la stessa forza religiosa degli eventi biblici? Non posso dimostrarlo, ma sono convinto che il 40° anniversario di Hiroshima, con il suo ampio coinvolgimento, le sue grosse manifestazioni, i molti servizi dei mass media assomiglia alla osservanza delle più grandi festività religiose.
Questa santificazione di Hiroshima è uno dei più auspicabili sviluppi della era nucleare…
Spesso si parla con disinvoltura di riuscire ad evitare le guerre nucleari, ma non si tiene conto che non si tratta di prendere decisioni per il prossimo decennio o due; ma per millenni! Come può l'umanità accettare veramente, ai livelli più fondamentali, la necessità assoluta di evitare gli olocausti nucleari — 50, 100, 1.000 anni dopo Hiroshima — se non perché Hiroshima è diventata una leggenda orrenda, da tutti ben conosciuta e accettata da tutti come orrenda, così come è conosciuta la crocifissione tra i Cristiani, la uccisione di Abele da parte di Caino tra gli Ebrei e così come l'Egira è conosciuta dai Mussulmani? In poche parole, solo santificando Hiroshima possiamo aspettarci che la sua lezione sia appresa e ripetuta per sempre - ricordando anche le morti per il fuoco atomico, le malattie da radiazione, il terribile annientamento della città?...
Nella lunga marcia della storia umana, i 100.000 e passa che morirono a Hiroshima saranno visti come martiri: essi sono stati sacrificati - questa à la valutazione che si sta affermando - affinché l'umanità possa vivere all'ombra della bomba, ma non venga sterminata da essa.
Poi cita quanto ha scritto un suo amico pastore (ex scienziato di Manhattan) in una lettera:
È forse questo il destino di Hiroshima: diventare un mito universale profondamente fondato nel
tempo sacro di tutti i popoli della terra; cioè, il simbolo della loro convinzione che non si dovrà mai più permettere che avvenga una guerra nucleare?
Io credo che sia così, e che il mondo sempre farà memoria di quelli che morirono a Hiroshima, il che renderà così possibile la santificazione di Hiroshima.
Nella lacrima di Lucifero: amore, guerra e il paradosso della libertà
Quando Caravaggio dipinge Amor vincit omnia, non dipinge un semplice trionfo dell’amore. Dipinge un paradosso. Quel giovane Cupido, nudo e sorridente, che domina il mondo dalle sue ali scure, mette in scena l’ambiguità originaria del desiderio. Attorno ai suoi piedi giacciono strumenti di cultura — il liuto, la spada, il globo, gli strumenti geometrici — come se l’amore avesse trionfato su tutto ciò che l’umanità costruisce per dominare, comprendere, misurare. Ma quel sorriso ha qualcosa di perturbante: non è il sorriso dell’amore che illumina, ma quello dell’amore che conquista.
Già Platone, nel Simposio, distingueva l’amore come mancanza — eros come tensione verso ciò che non si possiede — e come desiderio che spinge a colmare un vuoto. Ma quando il desiderio diventa volontà di possesso, ciò che nasce come aspirazione si trasforma in dominio. Caravaggio sembra ricordarci che l’amore è sempre anche una forza oscura: conquista ciò che vuole, e per farlo deve vincere — e ogni vittoria implica un vinto.
Da qui il passaggio è breve: dall’amore come possesso alla guerra come massima espressione della volontà di possedere. La guerra, diceva Hobbes, nasce dalla diffidenza, dal bisogno di garantire la propria sopravvivenza e affermare il proprio potere. Ma è anche, in fondo, una forma estrema di relazione: due volontà che vogliono affermarsi, due desideri che entrano in collisione. La guerra, allora, è il lato tossico dell’amore: quando il desiderio di relazione diventa desiderio di controllo.
Ma se esiste un amore tossico che invade, esiste anche un amore semplice, che libera. La pace non è solo assenza di conflitto: è presenza di libertà. Spinoza ci ricorda che la libertà non è fare ciò che si vuole, ma comprendere ciò che si è: è il movimento quieto dell’essere che non ha bisogno di conquistare. La pace, in questo senso, è un atto d’amore che non pretende, non occupa, non costringe. È il riconoscimento dell’altro come altro.
Fin qui siamo nel campo della filosofia, dove i concetti si sostanziano come idee. Ma la fisica moderna ci chiede di andare oltre. La meccanica quantistica — con gli intrecci, l’entanglement, l’impossibilità di separare completamente un sistema dal suo osservatore — ci dice che nulla esiste in modo isolato.
Due particelle possono influenzarsi anche a enormi distanze, come se condividessero un’unica storia. Esse sono relazione, prima ancora di essere oggetti. Niels Bohr lo definiva "complementarità": non si può dire cos’è un ente senza dire con che cosa è in relazione.
Se portiamo questa intuizione dentro il campo umano, scopriamo un paradosso: la libertà non può essere compresa senza la costrizione; la pace non può essere pensata senza il conflitto; l’amore non può esistere senza la possibilità della sua degenerazione. La guerra diventa allora l’espressione irrazionale di un’umanità che non ha ancora imparato a gestire le proprie relazioni; la scienza, con la sua razionalità, non può esserne responsabile — perché la guerra è figlia dell’istinto e della fragilità, non dell’equazione. La guerra, soprattutto l’armageddon nucleare, diviene allora minaccia per incutere paura, diviene arma di controllo. Sono gli uomini che, accecati dal desiderio di controllo, trasformano la conoscenza in minaccia, la paura in arma.
Qui tocchiamo un nodo antico quanto le religioni: il timor Dei.
Gli dei dell’Olimpo punivano, Zeus scagliava fulmini, Atena guidava gli eserciti. Il Dio cristiano, pur predicando l’amore, mantiene come suo strumento il timore — non come terrore, forse, ma come reverenza che disciplina, che regola. Il timore divino diventa un’energia che ordina il mondo: un’ombra che insegna all’uomo i limiti.
Ma cosa succede quando l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di quel Dio, imita quel potere?
Non crea mondi. Crea bombe.
L’umanità trasfigura il timor Dei nella bomba atomica: prende la paura e la rende materia, la condensa in codici di lancio.
Quella che era una dimensione teologica diventa una geometria di distruzione. La scienza fornisce gli strumenti, ma non lo scopo: la responsabilità non è dello scienziato che calcola, ma dell’essere umano che sceglie. La paura — antica alleata degli dei — si fa tecnologia. E la tecnologia, come ricordava Günther Anders, supera la nostra capacità di immaginarne le conseguenze.
Ma se vogliamo comprendere davvero la sconfitta che si annida nella guerra, dobbiamo tornare all’arte. E guardare La caduta di Lucifero di Alexandre Cabanel. Lucifero non è raffigurato come un demone, ma come un essere di straordinaria bellezza: il più luminoso degli angeli, precipitato nell’abisso. Il suo corpo è perfetto, il suo volto giovane, il suo sguardo colmo di una disperazione eloquente. Su quel viso scende una lacrima.
Quella lacrima è la testimonianza che anche per Dio la guerra è una sconfitta. La punizione del suo prediletto — del portatore di luce — è una vittoria che costa troppo, come tutte le vittorie della forza.
È l’amore che fallisce nel tentativo di imporre se stesso.
È la libertà che viene amputata per salvare l’ordine.
In quella lacrima c’è qualcosa che ci riguarda profondamente: c’è la possibilità dell’errore, c’è la nostalgia di ciò che è perduto, c’è la consapevolezza che ogni atto di violenza, anche quando appare necessario, porta con sé la negazione di ciò che vorremmo essere.
Ed è lì, in quell’unica goccia di luce che scivola sul volto dell’angelo caduto, che si nasconde — paradossalmente — la salvezza dell’umanità.
Perché mentre la bomba atomica è la caricatura sbiadita del timor Dei, un’imitazione malriuscita del potere divino, la vera forza non è nella distruzione, ma nella capacità di plasmare il pensiero, di orientare il desiderio, di trasformare la relazione.
Il controllo vero non sta nella minaccia ma nel significato. Non nella paura ma nella consapevolezza.
Non nell’atomica ma nella capacità di immaginare mondi in cui la conquista si trasforma in cura, e la forza in responsabilità.
E allora, forse, Caravaggio, i fisici, i teologi e Cabanel ci dicono la stessa cosa: che l’amore vince davvero solo quando accetta il rischio della relazione; che la libertà esiste solo se esiste la possibilità della sua perdita; che la pace non si costruisce eliminando la guerra, ma comprendendone la radice umana; e che la nostra umanità — fragile, luminosa, piena di contraddizioni — vive tutta, intera, dentro quella lacrima di Lucifero.
Una lacrima che non annuncia la fine, ma la possibilità di ricominciare.
Di essere migliori.
Di scegliere, finalmente, un amore che non trionfa: che libera.



