Recensione di Oltre la tecnofobia, il digitale dalle neuroscienze all’educazione - Seconda parte

Dopo una sintetica recensione del libro Oltre la Tecnofobia (qui), Simone Lanza continua a confrontarsi con le tesi degli autori, e inizia – con questo secondo passo - il suo ragionamento analitico di messa in discussione dell'onlife e della adultizzazione dell’infanzia come effetto mediatico anziché come dato naturale.

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Oltre la Tecnofobia intende criticare i tecnofobici, ma chi sono i tecno-fobici oggi? Doveroso esplicitare, che nessuno si definisce tecno-fobico (né tecno-ottimista). Sotto questa etichetta gli autori criticano apertamente almeno lo studioso Haidt, il Ministro Valditara per le circolari, Alberto Pellai e Daniele Novara per le posizioni pubbliche di proposta di legge. Tuttavia, in generale anche se non in modo esplicito tutti quelli che vogliono regolamentare il digitale.

Gli autori, poi, in particolare, hanno a cuore che le famiglie facciano liberamente usare le tecnologie digitali senza dare indicazioni che seguano il principio di gradualità, anzi continuando a porre l’equazione: limiti e regole denotano tecnofobia. Le mie critiche, quindi, spazieranno su tutti gli aspetti di questa enorme costruzione ideologica: partirò dal mostrare le aporie relativa all’adolescenza, per finire sulle incoerenze nel respingere ogni paura per le tecnologie, come se oggi l’umanità non disponesse di tecnologie spaventose.

Gli esseri umani non mangiano il cibo nei primi mesi, non maneggiano coltelli nei primi anni, non guidano macchine nei successivi e per quanto riguarda l’uso di alcol e tabacchi le leggi, nonostante molte resistenze, hanno finito per dare limiti di età. Ma perché per l’uso di smartphone (e di schermi in generale) i nostri autori ritengono che non sia importante porsi la domanda: quali regole e a partire da quale età?

LA RIMOZIONE DELL’INFANZIA

La risposta a questa domanda è che l’intero libro si regge su una concezione dell’adolescenza che ignora platealmente ciò che la precede: l’infanzia. Gli autori liquidano con sufficienza l’idea che i minori possano essere "soggetti fragili per ragioni anagrafiche, qualcuno che è più esposto al rischio" (p. 145), rifiutando qualsiasi protezione basata sull’età. Se avessero preso in considerazione maggiormente l’infanzia forse avrebbero potuto comprendere anche loro qualche paura legittima dei genitori di oggi, ma in tutto il libro veramente poche righe sono dedicate all’infanzia, e come per Lancini, il riferimento implicito è sempre un ragazzo prossimo alla maturità (il povero diciassettenne), per il quale quella definizione di minore potrebbe essere riduttiva, ma che riduttiva non è se fosse riferita all’infanzia. Malgrado gli sforzi adultizzanti degli autori l’adolescenza resta però la terra di mezzo tra adultità e infanzia.

Del resto Bernard Stiegler (che costituisce uno dei riferimenti teorici degli autori del libro), si era dedicato a denunciare con estrema forza l’impatto devastante delle tecnologie sui bambini proprio nell’opera dove ha tematizzato il concetto di pharmakon. Ed è stato proprio Stiegler che dalle sue premesse teoriche traeva conclusioni opposte a quelle dei nostri autori, prendendo una posizione netta in quella che definì senza mezzi termini “la strage degli innocenti”, cioè l’impatto devastante dei Big Tech sull’infanzia.

Questa mancanza di considerazione degli impatti sull’infanzia da parte non tanto della Tecnologia quanto dell’industria culturale (termine che i nostri autori non usano mai a differenza di Stiegler) è proprio ciò che aveva condotto Postman (La scomparsa dell’infanzia, 1982) a parlare di adultizzazione dell’infanzia e infantilizzazione dell’adultità quale effetto dell’uso esasperato dei mass media. Senza questo doppio movimento ogni considerazione attuale sugli impatti in età adolescenziale (e infantile) risulta superficiale e fuorviante, nonché disarticolata dal vero dibattito di oggi: mettere a fuoco in cosa consista l’esposizione precoce e prolungata agli schermi e capire quando una certa quantità di tempo schermo non si trasformi in vero e proprio veleno per il tempo di sonno, per il tempo all’aria aperta, per il tempo di lettura, che restano tempi di apprendimento essenziali (come ben sanno del resto tutti i Ceo e ingegneri della Silicon Valley, nonché le famiglie statunitensi con redditi sopra i 100.000 dollari, che per lo più evitano gli schermi ai loro figli in giovane età e applicano il principio di gradualità). Il riferimento principale dei nostri autori non è all’infanzia bensì all’adolescenza, ma in realtà i nostri autori operano su entrambe quel processo di rimozione della loro specificità, operata (come ci insegna Postman) proprio dallo schermo: adultizzare il bambino, sottraendolo al suo processo graduale di divenire adulto.

ONLIFE: RAPPRESENTAZIONE O ESPERIENZA?

La seconda critica che si può rivolgere è che l’assunto (ipotesi da dimostrare), che non ci sia più distinzione tra l’esperienza dal vivo e quella di fronte a uno schermo non si basa su prove empiriche ed è teoreticamente abbastanza contraddittoria. Gli autori di Oltre la Tecnofobia si riferiscono molto al filosofo Walter Benjamin. Egli, infatti, designò fotografia e cinema come media che avevano modificato l’inconscio ottico: zoom, rallenty o slow motion, replay, etc., rendevano visibili cose che l’occhio nudo non poteva mettere a fuoco cambiando l’intera percezione del mondo. La stessa capacità di attenzione e di esperienza ne venivano modificate ma non per questo Benjamin teorizzò l’indifferenza ontologica tra i due tipi di percezione. Il nostro corpo-cervello elabora in modo simile ma non identico digitale e reale, altrimenti – come ammettono gli stessi autori – non saremmo in grado “di distinguere tra presenza fisica e digitale” (p.41). Il problema dei bambini di oggi è però che l’esposizione precoce e prolungata agli schermi riduce le capacità di questa distinzione. Il punto fondamentale è che gli autori insistono sul fatto che il corpo-cervello elabora rappresentazioni simili nel mondo virtuale e nel mondo reale. Teniamo in sospeso la domanda se questo sia vero o meno. Il filosofo ebreo-tedesco Benjamin non insistette solo sui diversi modi di percepire il mondo (decisamente molto meno sulla rappresentazione) bensì sui modi di viverlo: proprio l’esperienza (Erfahrung) narrabile e condivisibile è qualcosa di molto prezioso che nella modernità rischierebbe di essere annullato dall’esperienza vissuta (Erlebnis) che caratterizza invece il mondo caotico e veloce della società dominata da pubblicità e merci (Benjamin del resto non pensava che il capitalismo fosse la fine della storia).

Gli autori di Oltre la Tecnofobia riducono la differenza tra reale e virtuale a quella tra 3D e 2D, senza considerare la multi-sensorialità. Riducendole a rappresentazioni simili, disconoscono le differenze specifiche delle due esperienze. Dal punto di vista del bambino (che per altro quando nasce ci vede ben poco) ciò che differenzia l’esperienza dal vivo e quella tramite schermo non è solo la rappresentazione ma l’esperienza, che si fa con i cinque sensi del corpo (sporcandosi le mani e saltando nelle pozzanghere). Prendiamo un kiwi: il modo con cui il bambino vive e conosce un kiwi per la prima volta passa molto meno dalla rappresentazione, che dalla mano e dalla bocca. La multi-sensorialità è ciò che distingue il mondo come rappresentazione (quello dello schermo) dal mondo reale. Inoltre, mentre del mondo ti fai una rappresentazione, nello schermo la rappresentazione è già preparata da registi o algoritmi. Scambiare l’esperienza per la rappresentazione è un doppio errore: significa deprivare l’esperienza della multi-sensorialità lasciando lavorare prevalentemente la vista e offrire una rappresentazione di mondo già selezionata, ridotta e uniformata.

Se si sposta il focus dalla rappresentazione all’esperienza le differenze tra mondo reale e mondo virtuale sono notevoli per ciò che più conta per chi deve ancora divenire adulto. L’apprendimento infantile, a partire dall’apprendimento della lingua-madre, è molto migliore quando avviene senza gli schermi, e almeno fino a sei anni l’apprendimento è migliore dal vivo anziché tramite schermi, effetto noto come video deficit o transfer deficit, proprio perché il baby-talking – cioè, la modalità universale di insegnamento-apprendimento linguistico è multisensoriale, ha bisogno della sintonizzazione emotiva, della relazione tra corpi, dell’attenzione condivisa, cioè della condivisione delle intenzionalità. Mentre nella mente di un bambino di cinque anni, la rappresentazione del kiwi in uno schermo potrebbe confondersi con quella della mela (e non potremmo certo dargli torto), nel mondo reale sono due esperienze conoscitive assai diverse: basta mettere in bocca per capire. Un bambino diventa adulto in relazione con umani non in isolamento dagli altri umani.

Per questo motivo in tutto il mondo desta molte preoccupazioni l’esposizione precoce agli schermi, questione su cui gli autori non spendono mezza parola in tutto il libro. Insistono invece sul concetto di onlife che, pur essendo molto sexy, applicato all’infanzia è terribilmente fuorviante. Tale concetto coniato da Luciano Floridi (e usato da Lancini) indica l’esperienza quotidiana sempre più frequente di una costante connessione online, che implica un’interazione continua tra reale e virtuale. Il concetto di onlife si riferisce quindi alle esperienze quotidiane di connessione e interazione continua, caratterizzata da una indistinzione tra reale e virtuale. Il termine vuole mettere in risalto il fatto che stando in rete non si è fuori dal mondo, perché anche la rete è parte della vita e ha effetti sulla vita reale. Tutto ciò che si fa nel virtuale ha conseguenze sul mondo reale.

Un concetto semplice, ma che rischia di trasformarsi in arma ideologica: incoraggiare l’indistinzione di questo flusso continuo di tempo schermo con la realtà come qualcosa di positivo e/o ineluttabile, significa non stabilire una chiara priorità ontologica del reale sul virtuale e contribuire alla confusione. Si può vivere senza essere connessi ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, anche oggi nel 2025, ma non si può usare il digitale senza vivere nel mondo reale: Floridi presenta la onlife come l’ultima frontiera di un’avanzata storica di un progresso tecnologico lineare, che non è né buono né cattivo, ma un destino ineluttabile, non deciso né voluto dagli umani, sul quale pertanto gli umani non possono decidere nulla. Onlife è il condensato dell’ideologia digitale attuale, ma è un concetto che, se applicato a un bambino, diventa estremamente fuorviante. Il caso estremo di un bambino che cresce circondato solo da robot era già stato descritto da Daniel Stern come esperienza psicotica che rende vana la funzione più umana propria della rappresentazione: la distinzione tra realtà e immaginazione.

Le tecnologie, come ci insegnano gli apporti più recenti della storia e dell’antropologia, sono sempre state decise dagli esseri umani e non sono disponibili su una linea retta che necessariamente avanza e progredisce verso le magnifiche sorti e progressive. Anche oggi le tecnologie digitali sono selezionate, decise e regolamentate da esseri umani: il problema è che sono nelle mani di pochissime persone che, pur regolando l’uso degli schermi per i loro figli, hanno tratto enormi profitti dall’assenza di regole per l’esposizione agli schermi della popolazione da 0 a 18 anni.

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Nel continuare la recensione del libro dovremo cercare di capire la vera ossessione ovvero l’intolleranza verso ogni tipo di regolamentazione del digitale, che, alla luce persino dei tentativi di regolamentazione blanda dei Big Tech, appare oggi come totalmente anacronistico: nel 2026 la questione non sarà infatti se darsi delle regole ma chi scriverà le regole, e quali regole darà per l’uso delle tecnologie digitali, anche ai comuni mortali.

 

APPROFONDIMENTI:
- https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/smartphone-social-figli-capi-web-li-vietano-motivi/ec8b3ea6-f177-11ec-82b6-14b9a59f244e-va.shtml


Perché parlare su Controversie del Nobel per l'Economia 2025?

Ci sono almeno due buone ragioni: la prima è che l'economia pretende – e ci riesce - di essere considerata una scienza. E, in quanto scienza, di poter descrivere dei fenomeni, di saperli spiegare e di generare teorie in grado di predire con buona approssimazione come evolveranno i fenomeni di cui si occupa.

I fenomeni sono, in questo caso, quelli macro-economici, su larga scala, come il comportamento aggregato di consumatori e imprese, le politiche economiche di un intero paese o sovranazionali, la crescita economica, l'occupazione e l’andamento dei prezzi1.
Le predizioni possono essere anche volte a formulare indicazioni sulle politiche economiche volte a incrementare la ricchezza delle nazioni nel lungo termine.

La seconda buona ragione per cui parlare di questo Nobel è che l’assegnazione di quest’anno si inquadra all'interno di una storica controversia dell'economia politica: quella tra il modello di J. A. Shumpeter, che attribuisce all’innovazione, tecnica o tecnologica, i salti evolutivi dell'economia e della civiltà, e il modello cosiddetto “commerciale”, ossia quello che ritiene che siano le variazioni della domanda di merci e di servizi2 a guidare l'evoluzione dell'economia.

Come negli sceneggiati3 del Tenente Colombo sveliamo subito chi è l’assassino: il Comitato del Nobel per l’Economia “fa vincere” il modello di Shumpeter, e premia dei ricercatori - economisti e storici dell’economia - che rintracciano nell’innovazione tecnologica le variazioni delle condizioni socio-economiche e che sostengono che l’evoluzione tecnologica - in particolare quella dell'intelligenza artificiale - sarà il più grande vettore di cambiamento economico dei prossimi anni.

PREMIATI E MOTIVAZIONI

I tre ricercatori premiati dall’Accademia delle Scienze svedese sono Joel Mokyr4, Philippe Aghion5 and Peter Howitt6, per

  • «aver spiegato la crescita economica guidata dall’innovazione»7 dalla rivoluzione industriale in poi,
  • «aver identificato i prerequisiti per una crescita sostenuta e continuativa attraverso il progresso tecnologico», quali, per esempio, il fenomeno della rivoluzione industriale e la presenza nella società di una forte apertura a nuove idee e al cambiamento;
  • infine, per «la teoria della crescita sostenuta e continuativa attraverso la distruzione creatrice», supportata da un modello matematico che spiega «ciò che viene chiamato distruzione creatrice: quando un nuovo e migliore prodotto entra nel mercato, le aziende che vendono i prodotti più vecchi ne risultano perdenti. L’innovazione rappresenta qualcosa di nuovo e quindi è creativa. Tuttavia, è anche distruttiva, poiché l’azienda la cui tecnologia diventa obsoleta viene superata dalla concorrenza.»

ALTRE CONTROVERSIE IMPLICITE

Le motivazioni del Nobel sottendono almeno altre quattro controversie.

La prima è quella sul legame tra crescita e benessere. Sembra fuori di dubbio che – in generale - migliori condizioni economiche siano portatrici di maggiore benessere; si pensi, ad esempio, alle condizioni di vita degli abitanti dei Sassi di Matera negli anni ’60, migliorate drammaticamente dagli interventi economici dello Stato italiano negli anni successivi. Tuttavia, che «una crescita economica sostenuta generi [sempre] migliori standard di esistenza, di salute e di qualità della vita per le persone in tutto il mondo» è argomento ancora fortemente dibattuto e fonte di numerose controversie. Ad esempio, se ci si focalizza sulla crescita delle regioni del blocco nord-occidentale del mondo, e la si confronta con gli standard di salute e di qualità della vita del sud dello stesso mondo possono sorgere dei dubbi. Lo stesso vale – senza fare del pauperismo o del bucolicismo - se si paragona la qualità della vita di un piccolo agricoltore dell’appennino centrale con quella di un impiegato della cintura industriale di Milano. È certo che la crescita sia sempre migliore della stasi?

La seconda controversia riguarda la neutralità dello sviluppo tecnologico. Ne abbiamo parlato molto su questa rivista, ed è abbastanza evidente che lo sviluppo tecnologico – che il Comitato Nobel etichetta così: «La tecnologia avanza rapidamente e ha effetti rilevanti su tutti noi, con nuovi prodotti e nuovi processi di produzione che si susseguono e si rimpiazzano l’uno con l’altro in un ciclo senza fine» possa, sì, essere un vettore di crescita economica ma – nello stesso tempo - non sia la panacea di tutti i mali né garantisca la continuità ad libitum della crescita economica. Questo nesso funziona solo – temiamo - se si aderisce all’idea dell’accelerazionismo tecnologico.

La terza controversia è molto più sottile e l’ha ben focalizzata un redattore del quotidiano Il Post, commentando le ricerche dei tre premiati, i quali «sottolineano che l’innovazione, proprio per il processo di distruzione creativa, crea vincitori e sconfitti: non solo a livello di aziende, con alcune che prosperano e altre che falliscono, ma anche a livello di lavoratori, con alcuni che per forza di cose perderanno il lavoro e faranno fatica a ricollocarsi.» L’errore da evitare – dicono i neo-Nobel - è di «impuntarsi a mantenerli dove non c’è più bisogno di loro, disincentivando così l’innovazione: significa proteggere i lavoratori e non i posti di lavoro». Ecco la controversia: l’economia deve salvaguardare i posti di lavoro, ossia il numero di potenziali occupati, la possibilità di collocare al lavoro – anche domani o dopodomani – un lavoratore più adeguato ai tempi, oppure deve salvaguardare i lavoratori di oggi, quelli che la nuova tecnologia mette fuori gioco?

La quarta controversia è quella dello statuto di scientificità dell’economia, della sua capacità descrittiva e predittiva, che dovrebbe includere, a titolo di esempio, i concetti di prova, di ripetibilità degli esperimenti, di confutazione delle teorie;

POSIZIONI DEL COMITATO E DEI PREMIATI

Pare che su queste controversie i ricercatori e l’Accademia svedese abbiano preso delle posizioni abbastanza precise:

  • tra i modelli shumpeteriano e della domanda, danno per vincente il primo, l’abbiamo svelato prima;
  • sul legame tra crescita e benessere, è evidente che non hanno dubbi, una maggiore crescita economica è fautrice di maggiore benessere e se questa crescita è sostenuta e continuativa, il benessere non può che aumentare, per tutti;
  • sulla neutralità dello sviluppo tecnologico, pur allineandosi alle doverose preoccupazioni dei tre ricercatori, l’Accademia sembra proprio prendere la via dell’accelerazionismo, ritenuto «il fondamento per una crescita sostenuta, che» vale la pena di ripeterlo, «produce un migliore standard di esistenza, salute e qualità della vita per tutte le persone del mondo».
  • Sulla missione sociale dell’economia, sul conflitto tra sviluppo delle tecniche e salvaguardia dei lavoratori, l’Accademia sembra propendere per lo sviluppo, e per la salvaguardia quantitativa dei posti di lavoro, e non per quella qualitativa di questi posti di lavoro, hic et nunc.

ISTANZE MORALI E SCALE DI VALORI

Gli Autori delle ricerche e l’Accademia hanno espresso delle scale di valori che sostengono le posizioni appena citate. Proviamo a sintetizzarle al massimo.

La crescita economica è un valore superiore alla stasi, alla permanenza dello stato delle cose, alla stagnazione (parole percepita negativamente da chiunque) «che era la norma in quasi tutta la storia umana […] fatto salvo per qualche scoperta qua e là che solo a volte ha generato dei miglioramenti nei redditi e nelle condizioni di vita». Secondo questa prospettiva, il quadro dell’esistenza umana dalle civiltà minoiche fino a metà dell’800 sembra peggio di un girone infernale. Ne siamo certi?

Per l’Accademia e per i premiati del 2025, lo sviluppo tecnologico è un valore morale in sé ed è certamente superiore alla stabilizzazione. Non ha connotazioni negative, è neutrale, è migliore del non-sviluppo. Gli eventuali effetti indesiderati sono un problema delle istituzioni che ne devono governare l’applicazione e la gestione. E «se la distruzione creativa crea conflitti questi vanno gestiti in maniera costruttiva, altrimenti l’innovazione sarà bloccata».

È anche interessante l’istanza di valore che emerge dalla sintesi dei paper dei tre ricercatori resa pubblica dal comitato: l’affermazione delle tesi economiche – che sono in linea con il pensiero del tecno-sviluppo mainstream sostenuto dalle grandi corporation – prevale sulla scientificità dell’argomentazione; non sembra esserci traccia di confronto con la teoria della domanda, né tantomeno con teorie contrarie come – ad esempio – quella di Von Neumann, che teorizza, con un elegante modello matematico, che la crescita economica sostenuta è favorita dalla stasi tecnologica.

In ultimo, tra i posti di lavoro – elemento quantitativo – e gli individui occupati, senza dubbio, per economisti laureati e comitato, hanno più valore i posti di lavoro.

Con buona pace dei lavoratori resi obsoleti oggi, che ringraziano i ricercatori e l’Accademia delle Scienze svedese.

 

NOTE:

1 Cfr: Wikipedia, voce macroeconomia; Unicusano, Macroeconomia

2 Un esempio non del tutto ortodosso di questo punto di vista è espresso da D. Graber nel suo Debito, I primi 5000 anni, Il Saggiatore, 2011

3 Sceneggiato è un termine desueto, da boomer. Nel tempo siamo passati a telefilm e oggi si parla di serie. Tema da analizzare prossimamente perché molto probabilmente legato ad un fattore di evoluzione tecnologica.

4 Joel Mokyr, Northwestern University, Evanston, IL, USA, Eitan Berglas School of Economics, Tel Aviv University, Israel;

5 Philippe Aghion, Collège de France and INSEAD, Paris, France, The London School of Economics and Political Science, UK

6 Peter Howitt, Brown University, Providence, RI, USA


Medico oppure (soltanto) laureato in medicina? - Una questione (solo apparentemente) banale

Paolo Giordano, noto scrittore, giornalista, editorialista, nel 2006 si laurea (magistrale) in fisica all’Università di Torino. L’anno successivo inizia un dottorato di ricerca in fisica delle particelle, presso la Scuola di dottorato in Scienza e alta tecnologia del medesimo ateneo, che consegue nel 2010.

Parallelamente all’inizio (1° novembre 2007) del dottorato, il 25 gennaio 2008 pubblica il suo primo romanzo (La solitudine dei numeri primi). Sarà l’inizio di una brillante carriera di scrittore. Infatti, il libro vince, nello stesso anno, il premio Campiello Opera Prima, il premio Fiesole Narrativa Under 40, il Premio Strega e il Premio letterario Merck Serono (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Giordano_(scrittore)

Poco prima di iniziare la carriera letteraria, pubblica almeno 3 articoli scientifici (di cui 2 con lo stesso titolo, su due riviste diverse) derivanti dal suo lavoro di tesi di laurea magistrale:

  • Paolo Gambino, Paolo Giordano, Giovanni Ossola, Nikolai Uraltsev (2007), Inclusive semileptonic B decays and the determination of |Vub|Journal of High Energy Physics, n. 10.
  • Paolo Giordano (2008), Inclusive semileptonic B decays and the determination of |Vub|Journal of Physics: Conference Series, v. 110.
  • Paolo Gambino, Paolo Giordano (2008), Normalizing inclusive rare B decaysPhysics Letter B,

Questa premessa, per giungere alla seguente domanda: Paolo Giordano è un fisico?

Direi di no. È (certamente) un laureato in fisica ma non esercita la professione di fisico.

Chi è un’esperta?

Nel campo degli STS, tra la fine degli anni Novanta e inizio Duemila, si è molto dibattuto e polemizzato su chi sia un’esperta1. Non è qui possibile, per ragioni di spazio, ricostruire l’intero dibattito (a tal fine si rimanda a Gobo e Marcheselli 2021: cap. 7). Per questo post, è utile ricordare una distinzione (non esente da critiche, ma comunque interessante) che fanno Collins ed Evans (2002). Essi sostengono che esistono due diversi tipi fondamentali di competenza: a) contributiva, che consente di contribuire all’effettivo avanzamento delle conoscenze; b) interazionale, ovvero la capacità di partecipare in modo competente alle conversazioni su un certo tema, senza tuttavia partecipare all’attività di ricerca scientifica. I movimenti per la salute, per esempio, accumularono una certa competenza interazionale che permetteva loro di formulare domande e rivendicazioni in modo appropriato, così da poter partecipare attivamente al processo di creazione della conoscenza, pur non avendo competenze tali da poter esercitare la professione del medico, dell’epidemiologo, del biologo o del legislatore.

Questa distinzione, nonostante tutte le critiche che ha attirato2, è comunque utile per capire che esiste una differenza rimarchevole tra una “laureata in” e una “professionista”. Questo vale per tutti campi, dall’ingegneria alla psicologia, dall’architettura alla sociologia, dalla biologia alla filosofia. E vale anche per la medicina: una laureata in medicina è automaticamente una medica?

Direi, nuovamente di no. Una laureata in medicina ha certamente una competenza interazionale, ma non una contributiva. Poniamo che da decenni anni lei sia una dirigente nella sanità pubblica, essa avrà sicuramente una competenza organizzativa e gestionale, ma da molti anni non visita pazienti, non vede gli effetti di una malattia su un corpo reale, le interazioni tra un farmaco e un corpo particolare, non si confronta con le colleghe sull’efficacia di certe terapie (anche recenti) ecc. Tutto questo è normale. Ma proprio per questo, anche se formalmente lo è, dal punto di vista sostantivo e pratico lei non è più una medica (anche se, in situazioni particolari, è in grado di prestare soccorso).

Cambiando esempio, affidereste la costruzione di un ponte a una (semplice) laureata in ingegneria? Anche se la laureata potrebbe dialogare con (anzi dovrebbe farlo, specie quando ci sono di mezzo questioni ambientali) e avere delle conoscenze utili all’ingegneria di uno studio professionale, lei non può costruire un ponte.

Allora, concludendo, perché quando citiamo le varie componenti delle varie commissioni su temi sanitari, diciamo che Tizia (che non vede pazienti da anni, se non decenni) è una medica e non laureata in medicina? Questo semplice dispositivo linguistico aiuterebbe a fare chiarezza…

in attesa che venga nominata la prossima commissione NITAG (National Immunization Technical Advisory Group, in italiano Gruppo Tecnico Consultivo Nazionale sulle Vaccinazioni), vacante dal 16 agosto…

 

NOTE:

1 Uso il femminile sovraesteso.

2 La proposta di Collins ed Evans incontrò immediatamente un certo numero di critiche. Innanzitutto, essi partono dal presupposto che esista una distinzione netta fra diversi domini dell’expertise e che la competenza contributiva non possa incrociare, magari anche solo occasionalmente, quella interazionale – e viceversa. In secondo luogo, anche ammettendo che questa distinzione sia possibile, esistono spesso diversi gradi di consenso sia sui problemi tecnici che su quelli di ordine morale. Per cui le situazioni nelle quali la comunità scientifica raggiunge un consenso unanime sono un’eccezione, e non la regola. Il suggerimento di Collins ed Evans di focalizzarsi sul processo decisionale, poi, rischia di occultare il percorso che porta un certo problema a essere inquadrato all’interno di una determinata cornice teorica e pratica (Sismondo 2010): che cosa renda un certo ambito problematico o di interesse; entro quali coordinate disciplinari esso venga inserito; quale tipo di connotazione politica, morale e religiosa esso assuma. Se ci si concentra esclusivamente su quale tipo di competenza sia rilevante per aver voce in capitolo questi elementi sono tutti estromessi dall’indagine.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Gobo, G. e Marcheselli, V. (2021), Sociologia della scienza e della tecnologia. Un’introduzione, Roma: Carocci.

Collins, H.M. ed Evans, R. (2002). The Third Wave of Science Studies: Studies of Expertise and Experience, in “Social Studies of Science”, 32, 2, pp. 235-96.