Nell’Ottocento, le donne avevano meno talento musicale degli uomini?

Questa che può sembrare oggi un’affermazione ridicola, è stata per un certo periodo la convinzione di molti critici musicali nella Vienna dell'Ottocento.

Ma anche oggi ci sono convinzioni simili. Ad esempio, nel tennis, come Vittorio Pentimalli ha mostrato in un post precedente.

A quel tempo, secondo molti critici musicali, le pianiste non suonavano la musica di Beethoven (1770-1827) bene quanto i pianisti uomini. Essi ritenevano che il motivo risiedesse nel talento. Quindi, se il talento (A) determinava un’esecuzione eccellente (B), allora le donne erano meno talentuose degli uomini.

Tuttavia, questa relazione causale era alquanto sospetta, come la sociologa statunitense Tia DeNora (1995; 2002) ha avuto modo di documentare ricostruendo il contesto sociale dell'epoca. La studiosa osserva, infatti, che nei cinquant’anni prima dell'avvento di Beethoven, sia i pianisti uomini che le donne si esibivano in pubblico con eccellenti performance e valutazioni. Come mai cinquant’anni dopo, si chiede DeNora, le donne erano diventate così mediocri? Lei nota che Beethoven innovò non solo la musica dell'epoca, ma anche il modo di eseguirla, da cui lo stereotipo del musicista romantico: bello, dannato, appassionato, disinvolto, che si esprime liberamente, che lascia andare il suo corpo, si agita, si dimena, da sfogo alle proprie emozioni.

Ci si può chiedere: una donna poteva esibirsi in questo modo? Non proprio, perché le convenzioni sociali dell'epoca non lo permettevano. Infatti, le donne dovevano apparire sobrie e dignitose nelle loro esibizioni pubbliche al pianoforte. Persino il loro abbigliamento era studiato per ricordare loro come muoversi sul palco: corpetti attillati con scollature profonde (per mettere in mostra collane e gioielli) ne limitavano i movimenti.

 

 

Capite bene che, dentro questi vestiti, era complicato muoversi liberamente al pianoforte. 

Molto più facile se vestite così:

 

Yuja Wang Valentina Lisitsa Irene Veneziano

 

DeNora osserva, inoltre, che gli strumenti a fiato erano già stati preclusi alle donne perché suonarli richiedeva posture “poco femminili” e smorfie sconvenienti per una donna, ma accettabili per un uomo.

 

 

Solo il flauto era compatibile con l’estetica (facciale) femminile del tempo…

 

 

In conclusione, era la variabile interveniente (C) ovvero l'etichetta dell'epoca che influenzava sia il (presunto) talento che l'esecuzione musicale. Non era la musica di Beethoven in sé, ma le convenzioni sociali dell'epoca che impedivano alle donne di suonare come richiedeva la moda del momento.

 

Tuttavia, questa riflessione non riguarda solo il passato. Ma, un po’, vale anche per oggi. Se guardiamo l’attività artistica contemporanea, ci accorgeremo che in certi generi musicali gli uomini sono stranamente sovrarappresentati. Infatti, ci sono relativamente poche donne musiciste (tolte le “semplici” cantanti) nel rock, nel folk, nel jazz, nel trap ecc. Gli uomini sono in misura maggiore. Come mai? 

La risposta richiederebbe un altro post…

La cosa “strana” è che la musica classica (genere musicale considerato vecchio, conservatore, del passato) offre alle donne più chance per lavorare ed (eventualmente) emergere che i generi sopra citati, considerati moderni, innovativi, trasgressivi. 

È solo un paradosso?

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

DeNora, T. (1995) ‘Gendering the piano: repertory, technology and bodily discipline in Beethoven’s Vienna’. Paper presented to the Center for Research into Innovation, Culture and Technology Workshop, Brunel University, London.

DeNora, T. (2002) ‘Music into action: performing gender on the Viennese concert stage, 1790–1810’, Poetics, 30(2): 19–33.


Doping libero: fine di una ipocrisia o pericolosa buffonata?

Prima o poi doveva succedere che qualcuno si inventasse una manifestazione sportiva in cui gli atleti possono assumere qualsiasi sostanza per incrementare le loro prestazioni, naturalmente incluse le sostanze dopanti proibite dai regolamenti internazionali.

È successo con la nascita degli “Enhanced Games”. Nelle intenzioni degli organizzatori (tra cui Donald Trump junior), nel 2026 verranno organizzati dei giochi che prevedono solo discipline di velocità in pista e in piscina e sollevamento pesi in cui, appunto, gareggeranno atleti liberi di assumere qualsiasi prodotto che possa rinforzare le loro prestazioni.

Discipline, quelle previste da questi giochi, dove serve potenza muscolare: e cosa c’è di meglio per potenziare i muscoli (insieme all’allenamento)? 

Gli steroidi anabolizzanti, ca va sans dire. Ovvero quelle sostanze che si vendono, neanche tanto di sottobanco, in tutte le palestre per body builder e che prendevano abbondantemente molti atleti olimpici negli anni ‘80, prima che i controlli diventassero seri. 

Qualcuno si ricorda l’aspetto di Ben Johnson, vincitore dei 100 metri piani alle Olimpiadi di Seul dell’88? Un’impressionante montagna di muscoli; lo sapevano anche le pietre che il canadese era dopato; una massa muscolare così ipertrofica è impossibile col solo allenamento; ma venne “beccato” positivo solo a Seul, il suo oro revocato e da quel giorno i controlli divennero finalmente più scrupolosi.

Ma Johnson non era che la punta di un iceberg di gente che correva (o nuotava, o sollevava pesi) dopandosi; lui si fece prendere con le mani nel sacco per una forma di delirio da onnipotenza che lo fece andare oltre, e perché si fidò troppo dell’andazzo dei controlli decisamente blando. D’altro canto al business dello sport piaceva molto che ci fossero campioni e campionesse (Florence Griffith Joyner su tutte) che battevano in continuazione record, alimentando la macchina dell’interesse generale. 

In quell’Olimpiade Ben “vinse” con il tempo di 9.79, record del mondo, ovviamente non omologato appena venne alla luce la sua positività. Ma in quella gara anche il secondo, terzo e quarto scesero sotto i 10 secondi netti. La gara più veloce della storia, con tutti atleti dopati, compreso il magnifico Carl Lewis che ereditò l’oro di Johnson e così doppiò l’oro (quello forse pulito) di Los Angeles ’84.

Nel frattempo, nel mondo del comunismo reale si favoriva spudoratamente il doping di Stato, perché gli atleti vincenti portavano “gloria” alla causa anticapitalista…

È un dato di fatto che in tutte le discipline, sia in quelle di potenza che in quelle di resistenza, da sempre moltissimi atleti sono pronti a barare pur di cercare di vincere, raggiungere fama e denaro. Ed è un dato di fatto che da sempre l’antidoping “insegue”, alla ricerca dei modi sempre nuovi di doparsi aggirando le regole. 

Forse, e ripeto forse, negli ultimi anni tra gli atleti di un po’ tutte le discipline si è diffuso un maggior senso di responsabilità. Etica? Educazione? Rispetto? Un po’ tutto, ma anche la consapevolezza che uno sport che ha perso certezza e credibilità non interessa più a nessuno. La crisi del ciclismo dopo gli scandali che hanno travolto numerosissimi atleti per 20 – 30 anni, è stata quasi irreversibile e il grande ritorno di interesse di questi anni si basa sulla fiducia degli appassionati sulla “pulizia” degli atleti più forti di oggi. 

E poi, certamente, adesso i controlli sono severi e realizzati con apparecchiature molto efficaci.

Allora la domanda è: se adesso finalmente possiamo vedere dello sport in cui abbiamo la ragionevole certezza che si sfidano atleti che partono tutti dalla stessa situazione e dove chi vince è perché ha una superiorità non costruita chimicamente, perché proprio adesso sdoganare giochi dove tutto è permesso? E dove si ripropongono due problemi: uno, serissimo, relativo all’integrità fisica degli atleti; il secondo che riguarda potenziali disparità di partenza (possibilità di doparsi con prodotti più efficaci di altri).

La risposta credo sia ovvia, business. Il nuotatore greco che ha fatto questo record del mondo sui 50 stile libero in ottica Enhanced Games (ovviamente è un record del mondo farlocco, che non vale per nessuna organizzazione ufficiale dello sport) ha guadagnato un milione di dollari.

Il suo nome è Kristian Gkolomeev e rispetto a quando nuotava in competizioni ufficiali (è arrivato quinto in finale alle Olimpiadi di Parigi dello scorso anno), ha aumentato di 4 kg la sua massa muscolare e abbassato il suo tempo sui 50 stile libero  di 7 decimi di secondo, scendendo a 20,89, tempo che se realizzato senza doping sarebbe record del mondo.

Da quando ha abbandonato il nuoto ufficiale ed è entrato nel giro degli Enhanced Games, Kristian assume regolarmente steroidi anabolizzanti.

Cosa succederà quindi ai giochi per dopati del prossimo anno? (Che ovviamente si terranno a Las Vegas… effettivamente non vedo un posto più adatto).

È probabile che vedremo un gran numero di atleti non di primissima fascia alla ricerca di quella notorietà che non erano riusciti ad ottenere nel mondo dello sport ufficiale.

Gli organizzatori degli Enhanced Games vogliono dimostrare che l’asticella dei limiti umani si può spostare molto più in alto e che le regole servono solo a tarpare le potenzialità degli atleti.

Ma assumere sostanze dopanti in quantità che diventeranno sempre maggiori nel costante inseguimento della prestazione più elevata è una follia. L’antidoping non serve solo a far sì che gli atleti partano tutti da una situazione paritaria, è anche e soprattutto una tutela per la salute degli atleti stessi.

Tutti i danni delle sostanze dopanti sono ampiamente provati da migliaia di studi. Fra l’altro l’assunzione di grandi quantità di anabolizzanti danneggia irreversibilmente il cervello e scatena crisi di rabbia e violenza incontrollabili (casi Benoit e Pistorius, ad esempio). 

Gli Enhanced Games sono quindi un modo cinico di provare a fare business alla faccia delle più elementari norme di tutela della salute per gli atleti, con il pretesto risibile del liberare le reali potenzialità umane.

Si potrebbe anche obiettare che il doping è sempre esistito, ed è vero, ma resta un’obiezione debole. Perché anche il doping meno sofisticato del passato ha ucciso (ad esempio il caso Simpson al Tour de France del ’67; oppure le morti sospette di calciatori a cui negli anni ’70 venivano dati farmaci per cardiopatici con l’intento di alzare la soglia della percezione della fatica; ma ci sono casi molto dubbi anche più recenti, il notissimo calciatore Gianluca Vialli, morto due anni fa di tumore, aveva cambiato repentinamente la sua struttura fisica quando era passato a giocare dalla Sampdoria alla Juventus). E ucciderà anche il doping più scientifico di oggi. È questo che vuole il business dei record?

Però, a giudicare dai primi commenti della stampa, degli addetti ai lavori e anche della gente comune che ama lo sport, ci sono fondatissime speranze che questa folle sciocchezza si riveli un flop totale.

È possibile che in questo caso ci sia un limite al peggio.


Giochi di società. La simulazione in antropologia per apprendere e re-inventare i fenomeni sociali

La vicenda è ormai abbastanza nota. Monopoli, il popolarissimo gioco da tavolo, altro non è che il figlioccio un po' guastato di un altro gioco, The Landlord’s Game, inventato all’inizio del secolo scorso. A inventare il gioco fu Elisabeth Magie – donna eclettica e progressista, scrittrice e stenografa – che lo concepì come strumento di apprendimento: «è una dimostrazione pratica dell’attuale sistema di land-grabbing, dei suoi esiti reali e delle sue conseguenze» (Pilon, 2015). Il gioco prevedeva infatti due sistemi di regole. Uno era quello con cui pressappoco si gioca ancora oggi: giocatrici e giocatori si confrontano per acquisire terreni, costruire case e alberghi, impoverire gli avversari. L’altro sistema si basava invece su una ben precisa teoria economica, la cosiddetta “single tax”, avanzata dall’economista Henry George. George proponeva di tassare esclusivamente i terreni per poi redistribuire i profitti a cittadine e cittadini. Analogamente, nel sistema di regole anti-monopoliste ideato da Magie, i giocatori pagavano le tasse sulle proprietà acquisite ed erano poi costretti a dividere i guadagni, così che a trarre vantaggio dalla loro ricchezza fossero anche tutti gli altri giocatori. Magie registrò il brevetto nel 1903, il gioco iniziò a circolare nelle case americane, e infine venne venduto, nella versione tuttora giocata, a una casa editrice di giochi da un uomo disoccupato che sosteneva di averlo inventato.

Oltre ad essere una luminosa parabola sull’appropriazione capitalista e sull’invisibilizzazione del lavoro femminile (nel senso di un gioco inventato da una donna, i cui profitti dell’invenzione andarono a un altro), il concepimento di The Landlord’s Game presenta un ulteriore elemento di interesse: il nesso tra giochi e società, tra rappresentazione di una realtà o di un problema sociale e la possibilità, attraverso l’attività ludica, di ridefinirne i contorni e di esplorarne scenari alternativi. Si tratta di un nesso che negli ultimi anni è stato particolarmente sviluppato nell’ambito degli studi sociali della Scienza e della Tecnologia (STS). Sia nella loro fase di design e di sviluppo sia in quella più propriamente ludica, i giochi sono stati infatti descritti e utilizzati come strumenti attraverso cui simulare, apprendere o re-inventare i fenomeni sociali oggetto di studio antropologico e sociologico. Il cambio di prospettiva intrinseco al giocare (si gioca sempre in prima persona, che sia una partita a dadi o un gioco di ruolo) consente infatti di sperimentare in modo più diretto le dinamiche, le strutture di potere, le possibili forme di collaborazione o di competizione che caratterizzano un certo contesto. D’altra parte, la progettazione di un gioco ispirato a un determinato contesto o problema sociale può rappresentare un momento estremamente produttivo in termini etnografici. Attraverso il design di un gioco, ricercatrici e ricercatori hanno infatti la possibilità di riflettere sulla propria attività di ricerca sul campo. Alla luce di queste caratteristiche, l’interesse per le potenzialità etnografiche dei giochi va inserita all’interno di una più ampia riflessione sui metodi delle scienze sociali e sulla loro componente creativa e performativa.

«Gli approcci creativi (inventive) tendono a considerare la performatività (enactment) dei fenomeni sociali non come un argomento da esporre o descrivere, ma come un compito o una sfida di ricerca: possiamo farcela? Possiamo contribuire all'articolazione creativa dei fenomeni sociali?» (Marres et al. 2018, p. 25, mia traduzione)

Aspetto importante di questi approcci è anche il tentativo di emanciparsi dal predominio del testo e delle parole, per abbracciare metodi in cui siano le interazioni tra oggetti, immagini, suoni e corpi a costituire tanto il dato antropologico quanto le modalità di incontro etnografico. Si tratta di un approccio multisensioriale alla pratica antropologica il cui obiettivo è appunto inventare diverse modalità di partecipazione, collaborazione e apprendimento tra i vari soggetti coinvolti (Dattatreyan & MarreroGuillamón (2019). In questa prospettiva, creare giochi ispirati a un sito di ricerca etnografica, e poi testarli con i soggetti coinvolti da tale ricerca, costituisce un’interessante possibilità per simulare quelle realtà oppure per re-inventarle e re-immaginarle. L’eterogeneità dei giochi offre inoltre la possibilità di sperimentare diverse modalità di partecipazione: giochi di ruolo o di strategia, collaborativi o competitivi, da tavolo o digitali. Alcune caratteristiche sembrano però essere comuni a tutti i giochi. Secondo lo storico olandese Johan Huizinga, giocare è un'attività volontaria e disinteressata, circoscritta sia nello spazio che nel tempo, e definita dalla tensione legata alla sconfitta dell'avversario o al raggiungimento di qualcosa di difficile. La combinazione di questi tratti rende il gioco «un'attività libera che si colloca consapevolmente al di fuori della 'vita ordinaria' come 'non seria', ma che allo stesso tempo assorbe intensamente e totalmente il giocatore» (Huizinga 1949, p. 13). A queste caratteristiche se ne possono aggiungere altre che, come sostiene l’antropologo Joseph Dumit, rendono i giochi uno strumento pedagogico particolarmente utile nell’insegnamento delle scienze sociali (Dumit 2018). Nell’attività ludica, decisioni, conseguenze e sfortuna vengono infatti vissute in prima persona, consentendo quindi ai giocatori di vivere ed esperire dal proprio punto di vista la complessità delle strutture sociali riprodotte nel gioco, ad esempio le asimmetrie informative e le relazioni di potere che le attraversano. Per queste ragioni, la creazione di giochi (game design) può rappresentare un utile strumento per sollecitare gli studenti a riflettere sui sistemi sociotecnici. Dumit porta l’esempio di un gioco sul fracking, ovvero l’estrazione di petrolio e di gas naturale attraverso l’utilizzo della pressione dell’acqua. La ricerca per il design del gioco, spiega Dumit, ha portato gli studenti a individuare i vari attori coinvolti, a mappare le dinamiche tra le società di fracking, a problematizzare il ruolo dei media e delle notizie giornalistiche nell’articolare tali dinamiche.

Mentre Dumit sottolinea il valore pedagogico nell’ideare giochi inerenti a realtà sociali solitamente oggetto di indagine, gli antropologi Tomas Criado e Ignacio Farías illustrano come sviluppare e testare giochi produca nuove possibilità etnografiche (Farías & Criado 2022). I giochi da loro discussi sono stati creati insieme ai loro studenti e sono inspirati ai conflitti tra proprietari di case e affittuari, un tema particolarmente sentito e delicato nel mercato immobiliare contemporaneo. Lo sviluppo dei giochi ha dato luogo a una doppia dinamica tra ricerca etnografica e creazione delle regole e dei materiali dei giochi. Da un lato, l’esigenza, alla luce della ricerca svolta sul campo, di evitare rappresentazioni stereotipate delle persone rappresentate nel gioco (proprietari, affittuari, attivisti, avvocati). Dall’altro l’anticipazione e la proiezione di siti etnografici non ancora esplorati ma tuttavia inclusi nelle dinamiche dei giochi per renderli più verosimili. Provare i giochi (game testing) con persone effettivamente coinvolte nella crisi immobiliare ha funzionato invece come strumento di riflessione sul potenziale valore politico ed etnografico dei giochi. Per questa ragione, Farías e Criado sostengono che i giochi possono creare le condizioni per forme di ragionamento para-etnografico1. I giocatori erano infatti portati a fare costanti collegamenti tra le dinamiche e le situazioni scaturite dal gioco e le loro esperienze, emozioni e opinioni sui temi del gioco.

Questa incompleta rassegna ha tentato di identificare due diverse potenzialità di utilizzo dei giochi in ambito antropologico e sociologico.

In primo luogo, i giochi possono essere utilizzati come strumento per riflettere sulle dinamiche di un certo contesto economico (il land-grabbing, il mercato immobiliare) o di un determinato sistema socio-tecnico (il fracking). La possibilità di esperire in prima persona le dinamiche che caratterizzano quei contesti produce un “salto epistemologico” che può aiutare a comprenderle meglio. Non si tratta però di un approccio puramente conservativo, che si limita a riprodurre l’esistente. Al contrario, come Elizabeth Magie aveva intuito, i giochi possono aiutare a inventare e a mettere in atto realtà alternative, scenari possibili.

In secondo luogo, lo sviluppo di un gioco può essere utile a ricercatrici e ricercatori per ragionare sui dati e sugli elementi emersi durante la ricerca etnografica. In questo senso, lo sviluppo di un gioco può essere interpretato anche come la traduzione in regole, obiettivi e narrazioni della propria ricerca etnografica e quindi come un’attività che consente di svelare e di problematizzare alcune delle assunzioni e dei preconcetti che inevitabilmente la influenzano.

In conclusione, se è vero, come sostiene Huizinga, che giocare è un’attività non seria, tendenzialmente divertente e spensierata, sembra altrettanto vero che i processi di immedesimazione e di riflessione impliciti in moltissimi giochi li rendono anche dei formidabili dispositivi di critica e di indagine sociale.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Dattatreyan, E. G. & Marrero‐Guillamón, I. (2019). Introduction: Multimodal Anthropology and the Politics of Invention. American Anthropologist, 121(1), 220–28.

Dumit, J. (2017). Game Design as STS Research, Engaging Science, Technology, and Society, 3, 603-612

Farías, I. & Criado, T. S. (2022). How to game ethnography. In Criado, T. S. and Estalella, A. (eds.). An Ethnographic Inventory: Field Devices for Anthropological Inquiries. London: Routledge.

Holmes, Douglas R., and George E. Marcus. 2008. “Para-Ethnography.” In The SAGE Encyclopaedia of Qualitative Research Methods, edited by Lisa Given, 595–97. Thousand Oaks: Sage

Huizinga, J. (1949): Homo Ludens. A Study of the Play-Element in Culture. London, Boston, and Henley: Routledge & Kegan Paul.

Marres, N., Guggenheim, M. & Wilkie, A. (2018). Inventing the Social. Manchester: Mattering Press.

Pilon, M, (2015). Monopoly’s Inventor: The Progressive Who Didn’t Pass ‘Go’, The New York Times, 13 febbraio.

 

 

NOTE:

1 La nozione di para-etnografia intende evidenziare come la ricerca etnografica debba in quella modo essere re-imparata e ri-modulata in contesti caratterizzati da una significativa riflessività da parte dei soggetti di studio (Holmes & Marcus 2008)