«Ciò che viene di solito impedito non è l’espressione,
bensì la formazione di un opinione propria»

(G. Anders, La catacomba molussica).

 

Ciò che diverrà la norma, ammoniva Deleuze all’inizio degli anni ’90, sarà avere un’opinione su tutto, necessariamente. Significa essere forzati allo schieramento, per quanto grottesco esso sia.

Come resistere a questa fiumana d’inumanità?

Non lasciandosi trascinare dal tempo della responsabilità, precedente all’atto, e neppure da quello successivo delle colpe, proprio del fatto compiuto.

Abbiamo perso la memoria dello spazio di mezzo, eroso dal richiamo quasi militaresco al giudizio forzato,
adombrato dal costante accanimento della cacofonia mediatica:
il silenzio.

Le religioni (dal latino religāre, unire insieme) fanno del silenzio (dal sancrito Si-nâmi, il lego) una legatura. Raccoglimento invisibile per sua stessa costituzione.

Perciò stesso, effimera fonte d’umanità.

Se credete di perdere l’occasione di dire la «cosa giusta», di farvi scappare l’opinione migliore su ciò che «bisognava fare», allora non avrete compreso di condannare in tal modo una vita infranta alla parodia, di fare delle vostre parole una commedia «all’italiana» dipinta su di un corpo inerme.

Il silenzio è la madre del dubbio, il dubbio la sorgente del pensiero.

Autore

  • Daniel Gianatti

    Laureato Magistrale in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, costruisce dentro e fuori il pensiero filosofico. Logico, feroce, le sa tutte. Non lo cogli in fallo. Soprattutto sulla modernità.