Sarà mai possibile? - Auto a guida autonoma tra immaginazione e realtà
di Sara Sbaragli (CNR-ISTC), Vincenzo Punzo (UNINA), Giulia Vannucci (CNR-ISTC) e Andrea Saltelli (CNR-ISTC)
Un giorno, in un futuro non troppo lontano, tutto il traffico potrebbe essere guidato dall’intelligenza artificiale con gli esseri umani che leggono le notizie o diversamente impegnati nel comfort delle loro auto o, meglio, nell’agio di un veicolo condiviso.
Importanti ostacoli culturali, tecnologici e normativi dovranno essere superati per ottenere un traffico obbligatorio basato esclusivamente sull’intelligenza artificiale con gli esseri umani confinati a guidare in località speciali. Nel frattempo, il futuro offrirà probabilmente situazioni in cui l’intelligenza artificiale e gli esseri umani coesisteranno nello stesso ambiente di guida.
Sarà mai possibile? Coesisteranno auto guidate dall’uomo e dall’intelligenza artificiale sulla stessa strada? Ovunque nel mondo, da Berkeley a Napoli?
Il problema di questa convivenza sta nella varietà delle culture e degli stili di guida che restano ostinatamente locali nonostante la globalizzazione. Un guidatore guidato dall’intelligenza artificiale ha maggiori probabilità di farsi strada agevolmente nel traffico della ben educata Monaco e meno in quello di Mumbai o Città del Messico.
Il problema principale qui è la riflessività degli agenti umani. Laddove prevalgono stili di guida aggressivi, un conducente umano può rendere la vita difficile ai veicoli automatizzati sfruttando il comportamento cauto dell’intelligenza artificiale, ad esempio, inserendosi davanti alle auto a guida autonoma approfittando del fatto che queste mantengono una giusta distanza di sicurezza dal veicolo che precede. Questo sarebbe il caso, a meno che all’IA non venga consentito di iniziare a negoziare il proprio spazio stradale con conducenti umani che accettano il conseguente rischio di collisione.
È così che le cose potrebbero diventare complicate, con l’intelligenza artificiale che compensa eccessivamente adottando manovre spericolate per “vincere” contro esseri umani ribelli, in scenari fantascientifici, simili a Black Mirror, di auto o camion assassini. Qualcosa del genere accadde qualche anno fa, quando un’intelligenza artificiale di Microsoft impiegò solo un giorno per diventare razzista e dovette essere frettolosamente messa offline. Naturalmente la tecnologia interverrà per evitare che ciò accada. Supponendo quindi che i produttori di automobili raccolgano la sfida della coesistenza tra uomo e intelligenza artificiale, come gestiranno un processo di formazione sull’intelligenza artificiale che debba adattarsi alle scale locali – possibilmente a livello di regione, più che a livello di stati nazionali? In Italia gli autisti di Bolzano non assomigliano a quelli di Milano che sono diversi da quelli di Roma, Napoli e Palermo. Il tema dell’addestramento sensato e della sperimentazione dell’intelligenza artificiale nelle situazioni quotidiane, anche lontano da situazioni “limite” di vita o di morte tanto apprezzate dagli studiosi di etica assorti con carrelli in fuga, è affrontato in un recente articolo sugli Atti della National Academy of Science, una rivista statunitense. Come si può testare il “buon senso” di un’auto automatizzata? Pur sottolineando che sarà probabilmente necessaria una personalizzazione reciproca tra esseri umani e conducenti automatizzati, il pezzo offre consigli utili agli aspiranti tester, come ad esempio non prendere gli esseri umani come gold standard, considerando il compromesso tra autorità umana e autonomia della macchina in vista di risultati sicuri, considerare attentamente le condizioni locali delle culture, degli stili di guida e della morfologia stradale.
Queste calibrazioni avranno bisogno che l’intelligenza artificiale interagisca con modelli di guidatori umani appositamente costruiti con questo scopo in mente. Il compito apparentemente insormontabile di sviluppare questi modelli per testare l’intelligenza artificiale è stato intrapreso da un progetto europeo denominato i4Driving, il cui obiettivo è quello di sviluppare modelli di guida umana in condizioni naturali che possano essere utilizzati da produttori di automobili, da regolatori e dal mondo accademico nei loro test, con l’obiettivo finale di accreditare i sistemi di intelligenza artificiale per l’implementazione sul mercato.
La visione di i4Driving è quella di gettare le basi di una nuova metodologia standard del settore per stabilire una linea credibile e realistica della sicurezza stradale umana per la valutazione virtuale dei sistemi di mobilità cooperativa, connessa e automatizzata (CCAM[1]). Le due idee centrali proposte nel progetto sono una libreria di simulazione che combina modelli esistenti e nuovi per il comportamento di guida umano; in combinazione con una metodologia che tiene conto dell’enorme incertezza sia dei comportamenti umani che delle circostanze di uso. Trattare l’incertezza è cruciale per il successo della tecnologia e a questo scopo il progetto richiama esperti di diverse discipline per giudicare le ipotesi e i risultati della modellazione. Il team del progetto sta simulando (quasi) incidenti in scenari multi-conducente (accesso a molte fonti di dati, simulatori di guida avanzati e laboratori sul campo) attraverso una rete internazionale[2]. i4Driving offre una proposta a breve e lungo termine: una serie di elementi costitutivi che aprono la strada alla patente di guida per i veicoli autonomi.
Insolitamente, per un progetto orientato alla tecnologia come i4Driving, questo studio esaminerà anche la dimensione culturale della guida autonoma, spingendo gli ingegneri del progetto a lavorare in relazione alla loro visione del mondo, alle aspettative e a possibili pregiudizi. Per questi motivi i tecnologi coinvolti nel team i4Driving si sottoporranno a domande di carattere generale come “Nel probabile caso in cui questa tecnologia richiederà investimenti in infrastrutture pubbliche, la società li sosterrà? Verrà raccolta un’enorme quantità di big data sui guidatori umani. Come verranno utilizzati questi dati dalle autorità, dagli inserzionisti, dagli hacker?”. Queste domande non devono essere risolte da i4Driving ma la visione dei modellatori su questo argomento è necessaria secondo una componente sociologica riflessiva incorporata nel progetto.
Certamente, allo stato attuale della tecnologia, vengono sollevate molte critiche sull’effettiva fattibilità delle auto a guida autonoma. Nonostante gli sforzi pubblicitari dell’ultimo decennio sull'imminente commercializzazione dei veicoli autonomi, ad oggi questi sono ancora considerati non sicuri, nonché un ostacolo al traffico attuale o, ad esempio, alle operazioni dei veicoli di emergenza. Pur promettendo “piena capacità di guida autonoma” – con video apparentemente "messi in scena" – TESLA ha dovuto difendersi in tribunale sostenendo che questa affermazione di marketing non costituivano una frode. L’accusa era che le prestazioni 'autonome' dimostrate erano in realtà artefatte, non genuine.
Sembrerebbe quindi che su questo tema, come su altre nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale, si scontrino visioni contrastanti. Sebbene la tecnologia abbia compiuto progressi significativi per rendere sostenibili i veicoli automatici anche la società dovrà svolgere un ruolo vigile riguardo alle promesse dei produttori.
Come sottolineato da Jack Stilgoe e Miloš Mladenović (due sociologici della tecnologia che si occupano del problema)
i veicoli automatizzati non saranno definiti dalla loro presunta autonomia ma in base al modo in cui la società negozierà la soluzione di questioni politiche come:
Chi vince? Chi perde? Chi decide? Chi paga? Mantenendo aperti all’indagine entrambi i lati della questione, il progetto i4Driving offre un contributo che fa parlare la sociologia con la tecnologia.
NOTE
[1] Mobilità cooperativa, connessa e automatizzata: per molti aspetti i veicoli di oggi sono già dispositivi connessi. Tuttavia, in un futuro prossimo, interagiranno anche direttamente tra loro, nonché con l’infrastruttura stradale e con gli altri utenti della strada. Questa interazione è il dominio dei sistemi di trasporto intelligenti cooperativi che consentiranno agli utenti della strada di condividere informazioni e utilizzarle per coordinare le loro azioni. Si prevede che questo elemento cooperativo migliorerà significativamente la sicurezza stradale, l’efficienza del traffico e il comfort di guida, aiutando il conducente a prendere le giuste decisioni e ad adattarsi alla situazione del traffico.
[2] La rete internazionale ha collaborato con gli Stati Uniti (struttura NADS), con l’Australia (simulatore di guida avanzato UQ e strutture di simulatore di guida connesse TRACSLab), la Cina (simulatore di guida Tongji Univ. 8-dof e laboratorio sul campo su larga scala) e il Giappone (NTSEL) e con diversi laboratori di progettazione (università e laboratori di ricerca, OEM e Tier 1, autorità di regolamentazione dei veicoli, autorità di omologazione, istituti di standardizzazione e compagnie assicurative).
Distopia tecnoscientifica e immaginazione - Il mondo nuovo di A. Huxley
Non sono un romanziere - soleva dire Huxley - ma un saggista che scrive fiabe.
Perché, allora, affidare alla forma del romanzo una previsione sul futuro?
Per quale ragione proprio la «superorganizzazione» dell’ardito mondo nuovo e dei suoi fantasmagorici prodotti tecnoscientifici, frutto della più fervida capacità immaginativa, sembrano annunciare l’estinzione di quest’ultima?
Perché, infine, il mondo d’Utopia gravita sopra di noi con fare minacciosamente distopico?
- Utopia, distopia e tecnica
«Il secolo delle macchine comincia a farsi sentire»[1]. Sono le parole dell’architetto Charles-èdouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (1887-1965). Sempre lui, nel medesimo volume Urbanistica (1925), scriveva con il suo solito ottimismo quasi messianico che «crollava soltanto un mondo vecchio. Su dalle rovine stava arditamente spuntando un mondo nuovo»[2].
È questo lo spirito che anima certe frange avanguardistiche dei primi decenni del secolo scorso, come quando un giovane Antonio Sant’Elia (1888-1916) dichiarava che «come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi - materialmente e spiritualmente artificiali - dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico»[3].
Ancora, è il medesimo mondo che anni più tardi il filosofo Gunther Anders (1902-1992) avrebbe dipinto con tinte fosche e apocalittiche nel
suo L’uomo è antiquato I (1956): «mondo della «matrice»[4] e del «dislivello prometeico»[5], asincronia della psiche umana rimasta irrimediabilmente indietro rispetto alla lineare, efficiente e funzionale perfezione dei «suoi» prodotti tecnoscientifici. Una psiche debole e imperfetta che arranca dietro alla perfezione macchinica, e che modella il suo «umiliante ideale»[6] sulla fredda perfezione che contraddistingue la macchina, «il suo sogno, va da sé, sarebbe quello di diventare uguale alla sua divinità: agli apparecchi, o meglio, di essere compartecipe - in certo modo consustanziale - della loro natura»[7].
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Qualche decennio prima, sempre nella prima metà del secolo scorso, apparve per la prima volta nelle librerie Brave New World (1932) dell’autore inglese Aldous Huxley (1894-1963), racconto fiabesco di una società ideale in cui domina una superorganizzazione di natura tecnoscientifica secondo i tre canoni della «Comunità, Identità e Stabilità»[8]. Utopia o distopia?
Di distopie non si è sempre parlato.
La parola stessa, a essere generosi, non ha più di duecento anni. Ma quand’anche facessimo della distopia l’immagine in negativo dell’utopia, ci accorgeremmo, forse con imbarazzo, che neppure di quest’ultima abbiamo una definizione tanto chiara.
È Thomas More a costruire il neologismo e ad affidarlo al suo omonimo racconto del 1516[9].
A seconda dell’etimo l’utopia è un «non-luogo» (U-topia) o un «buon-luogo» (Eu-topia).
Tuttavia, il «non» dell’utopia nulla ha a che spartire con la recente caratterizzazione dell’antropologo Marc Augé (1935-2023)[10]: il «non» di un’utopia definisce il «luogo» come ciò che non è ma dovrebbe essere, «città ideale», come quella descritta dal frate domenicano Tommaso Campanella (1568-1639) ne La città del sole (1623).
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Huxley aveva a cuore queste distinzioni, tutt’altro che quisquilie o eruditismo da scaffale: egli scrisse una «distopia», Il mondo nuovo, e una «topia»[11], l’isola (1962), ma non si intrattenne mai con l’utopia.
Perché ciò è determinante?
Il «non» dell’utopia, si è detto, non ha alcunché di negativo: è come la storia della tensione amorosa in Platone, immagine a cui tendere.
Perciò, propriamente parlando, l’etimo è una fusione piuttosto che un’alternativa: «non luogo» che, correlativamente, è un «buon luogo».
Si potrà forse obbiettare che un tale racconto è, nonostante tutto, frutto di una mente o di un cervello, che «l’idealità» dell’utopia è frutto della «dannata immaginazione» che ci lega a terra.
Tuttavia, More e Campanella fanno dell’immaginazione un veicolo di purificazione, l’immagine «ideale» dev’essere intimamente legata a una simbologia teologica, garante di un’intima e sacra connessione con il cosmo, «cosmo in piccolo».
In Brave New World nulla di tutto ciò: non è l’immagine della città in armonia con il cosmo, ma piuttosto lo schema di un’ingegnosa macchinazione, di uno schema-mondo, «comunità che grazie all’identità realizza la stabilità»[12].
Non è soltanto l’inversione dell’utopia. Nella narrazione distopica c’è una riformazione della «funzione immaginativa».
Non si tratta più di un veicolo verso l’idealità, ma di un’estensione immaginativa della scienza stessa.
L’immaginazione estende il prodotto tecnoscientifico nelle sue possibilità d’insieme, all’estremo.
Anders da ciò impara il fondamentale principio metodologico dell’«esagerazione», per cui il «dislivello» dell’uomo rispetto ai suoi prodotti richiede, per essere capace di controbattere, una metodologia altrettanto esagerata; insomma «esistono fenomeni che non si possono trattare senza accentuarli e ingrandirli»[13].
L’esagerazione consiste allora nell’estrema immaginazione del prodotto tecnoscientifico: la nascente eugenetica diviene catena di montaggio per esseri umani a base di «ipnopedia» e «persuasione chimica», la nascente farmacologia diviene il soma, «la droga perfetta…euforica, narcotica, gradevolmente allucinante…tutti i vantaggi del Cristianesimo e dell’alcol; nessuno dei difetti»[14].
Ogni prodotto è sviluppato, attraverso l’immaginazione, nella sua singola possibilità utopica: droga senza effetti collaterali, eugenetica senza errori - o quasi -, vita senza tristezza, coraggioso mondo nuovo scevro dal peso del passato; anche la casa, «psichicamente squallida» e fonte degli «attriti della vita che vi si ammucchiavano»[15], è stata scongiurata.
Eppure, di distopia si tratta, e quest’ultima vive un gemellaggio singolare con lo sviluppo tecnoscientifico: che si possa «estendere il presente» è il vago principio comune che li anima.
- Immaginazione
Se l’immaginazione tecnoscientifica è indeterminata nel campo del futuro (ragion per cui si «cerca di immaginare cosa accadrà in questo o quel caso»), se l’indeterminatezza è, per così dire, il «campo base» dell’immaginazione, allora Huxley giunge a un esito volutamente paradossale: l’immaginazione approda al tempo futuro della sua estinzione, laddove nulla può essere indeterminato, là, nella «tirannia del benessere di Utopia»[16].
È il tratto più profondo del Mondo nuovo: se il silenzio è potenziale fonte d’indeterminazione[17], allora è necessario sostituirlo con la musica continua e sensuale dei «sessofonisti», con gli spettacoli ipnotici del «cinema odoroso»; se il processo ontogenetico fatto di genitori «vivipari» è fonte d’imprevedibilità, allora bisognerà sostituirlo con un processo di produzione umana che non lasci spazio al dubbio. Osserviamo un altro elemento, altrettanto profondo.
Se uno dei personaggi principali, tale Bernard Marx, è capace di guardare con una dose di sospetto il mondo in cui vive, ciò è dettato dal suo essere «errore» della catena di montaggio: «dicono che qualcuno si sia sbagliato quando era ancora nel flacone»[18].
Possiamo spingerci ancora più in là: nel mondo di Huxley è in atto una sistematica eliminazione del passato, nutrita dalle stesse ragioni di fondo. La «riserva dei selvaggi del New Mexico» dove esseri umani imperfetti e retrogradi «conservano le loro abitudini e i loro costumi ripugnanti»[19] è uno spazio esterno a Utopia.
La riserva sta al di là della città dell’efficienza, percepita da chi vive nel mondo nuovo con un misto di disgusto e timore.
La memoria storica è esternalizzata e rigettata, racchiusa nella riserva che dista diversi giorni di viaggio - non ci sono vecchi nella città ideale. Diversamente, i ricordi custoditi nella città dei civilizzati è pura «memoria operativa», «memoria che ripete senza immaginare», una «memoria priva di passato»[20]; la storia - ripetono i bambini «in training» - «è tutta una sciocchezza»[21].
La vuota memoria fa tutt’uno con l’esclusione dell’imprevedibilità, «la macchina gira e rigira, e deve continuare a girare, sempre. È la morte che si ferma»[22].
Nel mondo nuovo, prendendo in prestito le parole di un saggio apparso di recente, si può dire che «si è liberi di scegliere tutto quello che c’è in menù»[23].
Insomma, tra utopia e distopia avviene una sorta di ritorcimento temporale: il «non luogo» dell’utopia come immagine ideale e principio morale è scivolato nel «non luogo» della distopia come timore che, effettivamente, questa possa realizzarsi.
Perciò, in esergo, Huxley riporta un passo del filosofo Nikolaj Berdjaev (1874-1948), «le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva?»[24]
Se l’utopia è una freccia rivolta verso un futuro ideale, la distopia tecnoscientifica è il tentativo di figurarsi ciò che potrebbe avverarsi già domani, incubo imminente, o come osservava Huxley nella prefazione del 1946, «oggi sembra quasi possibile che l’orrore possa ricadere su di noi nell’arco di un secolo»[25].
Insomma, l’espediente narrativo del genere utopico è sempre stato il «distacco onirico»: è necessario risvegliarsi nel mondo nuovo. Nuovamente, c’è una differenza profonda tra utopia e distopia: se nel primo caso il distacco permette, per così dire, di rendere i piedi leggeri e fare del mondo ideale qualcosa a cui elevarsi, nel secondo caso il sogno si fa angoscioso, rischia di filtrare nello stato diurno.
- Complottismo e immaginazione
Ecco alcuni fatti curiosi: se Huxley avesse scritto Brave New World nel secolo nuovo, nulla ci impedirebbe di supporre che, come altri, sarebbe finito nel circondario della categoria fittizia di «complottista».
C’è di più, poiché proprio coloro che finiscono per essere gettati, volenti o nolenti, all’interno di questa «categoria», si adoperano per una costante riappropriazione del racconto distopico tecnoscientifico come modo di reazione al presente - «siamo in 1984!»
Ma, se da una parte chi sente l’invivibilità del presente si rifugia nella razionalizzazione che un racconto può fornire, questa stessa azione di appoggio a un auctoritas alternativa rischia di adombrare la «chiamata originale» del racconto distopico, immaginare.
Giungiamo così a una stazione singolare: la militarizzazione della vuota parola «complottismo», ma potremmo inserirvi anche «negazionismo», punta dritto contro il carattere immaginativo che fa di queste forme narrative un’arma contrapposta frontalmente all’utilizzo politico della tecnoscienza a fini di controllo[26].
Anche la scienza - dice il governatore di Utopia in una tranquilla confessione - deve essere imbavagliata, «la scienza è pericolosa»[27] e ancora, «la nostra scienza è una specie di libro di cucina, con una teoria ortodossa dell’arte della cucina che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio»[28].
La «narrazione ufficiale» così precipua in Brave New World - ma vale anche per racconti come 1984 di Orwell, che Huxley elogia profusamente[29] - non solo non sa che farsene dell’immaginazione, deve escluderla sistematicamente. E così, per principio, deve escludere i fuochi d’indeterminazione da cui quest’ultima possa germinare: il silenzio, lo spazio incolto, il discorso svicolato dalla legiferazione; è un «conformismo dinamico», laddove «la riduzione teoretica della molteplicità ingestibile a unità comprensibile si muta in pratica in riduzione della diversità umana a uniformità subumana, della libertà a schiavitù»[30].
Huxley aggiunge: «dobbiamo ritenere più possibile qualcosa che somigli al mondo nuovo e non qualcosa che somigli a 1984»[31]. Infatti, se nel secondo l’immaginazione rimane una possibilità latente di colui che soffre e vuole immaginare qualcosa di diverso - «quando l’individuo sente, la società è in pericolo»[32] -, nel primo la stabilità, alimentata dall’incessante soddisfazione di vuoti piaceri passeggeri, fa dell’immaginazione una scomodità.
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Era il 1958 quando Huxley, in conversazione con Mike Wallace, annunciava l’imminente avverarsi delle sue più fantasiose immaginazioni[33].
Sotto la spinta delle forze impersonali della superorganizzazione e della pressione demografica, prolungate a loro volta dal condizionamento «neopavloviano», chimico e subconscio, il mondo nuovo non sembrava più la fantasiosa fiaba di un futuro remoto.
Eppure, non possiamo fermarci a questo: fare di Brave new world la cartina tornasole del reale significa alzare bandiera bianca.
D’altra parte, ridurre le parole di Huxley a finzione significa misconoscerne l’originale chiamata al prolungamento immaginativo che con tanta insistenza, vediamo tutt’ora scoraggiato.
Qual è, quindi, il linguaggio della nostra superorganizzazione?
«Reale», solamente ciò che è stato approvato.
«Possibile e desiderabile», ciò che ne consegue con fredda deducibilità.
«Immaginazione» ciò che vi si adagia sopra come un pacchetto o una copertina,
l’involucro policromo del prodotto perennemente unico.
NOTE
[1] Le Corbusier, Urbanistica (1925), Il Saggiatore, Milano 2017, p. 92.
[2] Ivi, p. 236.
[3] A. Sant’Elia, Architettura futurista, Abscondita, Milano 2022, p. 25.
[4] Si veda G. Anders, L’uomo è antiquato I (1956), Bollati Boringhieri editore, Torino 2003, pp. 97-199.
[5] Ivi, pp. 31-94.
[6] Sulla «vergogna prometeica» si veda Ivi, pp. 40-72.
[7] Ivi, p. 43.
[8] A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), Mondadori Editore, Milano 2015, p. 9.
[9] Secondo Françoise Choay è proprio il racconto di More a inaugurare la letteratura utopica. Si veda F. Choay, La regola e il modello (1980), Officina Edizioni, Roma 1986, pp. 181-220.
[10] Per un testo introduttivo si veda M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi (1997), Bollati Boringhieri editore, Torino 2009.
[11] Per questa distinzione si veda l’intervista del 1958 tra il poeta John Lehmann (1907-1987) e Huxley, disponibile al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=pXS5yWatuE8
[12] A. Maurini, “Il mondo nuovo e i suoi ‘ritorni’, in A. Huxley, Il Mondo Nuovo, cit., p. 364.
[13] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., p. 23.
[14] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 52-53
[15] Ivi, p. 38.
[16] “Prefazione del 1946” in, A. Huxley, Brave New World, cit., p. 246.
[17] Si veda https://www.controversie.blog/indi-gregory-lopzione-del-silenzio/
[18] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 46.
[19] Ivi, p. 94.
[20] R. Ronchi, Bergson, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 127.
[21] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 36.
[22] Ivi, p. 42.
[23] B. Castellane, In terra ostile, Signs Publishing, 2023, p. 14.
[24] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 7.
[25] A. Huxley, “Prefazione del 1946” in, Il Mondo Nuovo, cit., p. 246.
[26] Scrive Huxley ne “Ritorno al mondo nuovo”, in Il mondo nuovo, cit., p. 267, «noi vediamo dunque che la tecnologia moderna ha portato alla concentrazione del potere economico e politico, e alla formazione di una società controllata (spietatamente negli stati totalitari, in modo più pulito e nascosto nelle democrazie».
[27] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 202.
[28] Ivi, p. 204.
[29] si veda A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo”, in Il mondo Nuovo, cit., in particolare pp. 265-275.
[30] A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo”, in Il Mondo Nuovo, cit., p. 269.
[31] Ivi, p. 252.
[32] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 87.
[33] Si veda: https://www.youtube.com/watch?v=alasBxZsb40&t=951s
La carne coltivata come «cibo del futuro»? - Controversie tra scienza e pubblici
Il 16 novembre scorso è stata approvata dal parlamento italiano una legge che, tra le altre cose, mette al bando la carne coltivata in laboratorio, prevendendo multe da 10.000 a 60.000 euro per chiunque la somministri, produca o distribuisca sul territorio italiano. Questa legge rende anche illegale qualsiasi riferimento a terminologie legate alla carne e alla macelleria per prodotti a base vegetale che “imitano” quelli tradizionalmente legati ai cibi animali[1]. La mossa del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Lollobrigida (sostenuto dal principale sindacato agricolo italiano, Coldiretti) va chiaramente nella direzione della difesa di un’industria che – per quanto nascosta sotto l’idea del “made in Italy” – di italiano ha ben poco, dal momento che importiamo fino al 60% del fabbisogno nazionale di carne.
Va innanzitutto ricordato che si tratta di una legge di per sé vuota, dal momento che la carne coltivata in laboratorio non ha ancora l’approvazione dell’EFSA, l’agenzia europea che vaglia i cosiddetti novel food prima che siano immessi sul mercato. Qualora invece dovesse essere approvata, la legislazione europea avrebbe la priorità su quella nazionale, per cui la legge italiana diventerebbe una barriera alla libertà di commercio all’interno dell’UE. Si potrebbe in ogni caso aprire una procedura di infrazione nei confronti dello stato italiano.
Vale tuttavia la pena ragionare attorno alle ragioni e ai posizionamenti che emergono dal dibattito su questa legge. Il governo Meloni, conservatore e reazionario, si pone a difesa della salute dei cittadini, delle “tradizioni” e dell’agricoltura “buona” che (in questa costruzione) si pratica nel nostro paese. Coloro che osteggiano la legge, e che invece favoriscono questo nuovo cibo, suggeriscono che l’Italia perda così l’occasione di investire e fare ricerca su una “materia” che diventerà sempre più centrale nel mercato alimentare, fornendo delle risposte ai problemi legati all’industria della carne, tra cui quelli ambientali, di salute e di benessere animale[2].
Ciò che maggiormente colpisce di questo dibattito pubblico è la sua polarizzazione, ossia come sia possibile essere o dalla parte della carne tradizionale, dell’allevamento animale e di una dieta onnivora o dalla parte dell’innovazione alimentare sotto l’egida del biocapitale. In realtà, entrambe le parti sono schiacciate su ciò che c’è: da un lato, il paradigma esistente (e romanticizzato) della produzione agricola e delle tradizioni, dall’altro il dogma scientifico del progresso e della “soluzione” tecnologica alle sfide del presente[3]. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si tratta di una forma di protezione nei confronti dell’ansia che le crisi odierne ci pongono di fronte, una reattiva e una che vede nelle “narrazioni promissorie”[4] dell’innovazione la possibilità di mantenere lo status quo pur di fronte agli sconvolgimenti dell’Antropocene.
Nella polarizzazione del dibattito sulla carne colturale si discute se sia meglio quella animale o quella fatta nel bioreattore. Tertium non datur. Eppure, un discorso circa la riduzione del consumo di carne e derivati animali, se non addirittura la loro eliminazione, è non solo disponibile ma anche supportato scientificamente per i suoi benefici sulla salute umana e del pianeta[5]. Nell’Occidente a capitalismo avanzato non abbiamo nessuna deficienza proteica a livello di popolazione, anzi, siamo in marcato sovrappiù. Non c’è nessuno bisogno “nutrizionale” di inventare alternative alle proteine animali, perché possiamo già fare senza, o con quantità estremamente ridotte. L’avvento di forme di carne o proteine “sostenibili” tende ad accreditare l’importanza, la piacevolezza e il significato stesso di questi prodotti. Potrebbero addirittura, per un ironico effetto di rimbalzo, aumentarne il consumo complessivo. È necessario allora approcciare in modo critico, ma al contempo complesso, questo tema, oltre la polarizzazione ma favorendo il senso critico.
La “cassetta degli attrezzi” dell’ecologia politica può essere utile dal momento che, pur non demonizzando l’innovazione e la tecnologia come mediazione e strumento imprescindibile di convivenza tra umano e non umano, ne considera i regimi di potere e sapere, di dominio ed esclusione, di proprietà e accesso[6]. In quest’ottica non esistono forme di relazione neutre, innocenti o naturali: non lo sono le pratiche di allevamento “tradizionali” (in costante ri-definizione a seconda di tecnologie emergenti e fortemente determinate da materie di sintesi come i farmaci), non lo è la carne coltivata, che non è una mera “risposta” ai problemi delle proteine animali ma un dispositivo che ridefinisce piuttosto che pacificare la questione.
L’ecologia politica, in ottica intersezionale, pone alcuni nodi di attenzione. Quello della classe, ad esempio: può un’innovazione supportata da capitali ad alto rischio e multinazionali del bigtech o della carne tradizionale garantire l’accesso a cibo nutriente per i settori più fragili della popolazione? Chi avrà accesso a questo alimento? Inoltre, la carne colturale promette di riarticolare i rapporti di genere, razza e classe – superando la cultura del macello che rende gli animali non umani mera “cosa” disponibile, e così anche problematizzando quelle analogie che supportano il dominio su soggetti femminilizzati e razzializzati in quanto “animali”, “bestie da soma”[7], “carne da macello”[8].
Tuttavia, un’innovazione di per sé non sarà capace da sola di riarticolare questi assi di dominio, che potrebbero anzi riproporsi su scala diversa se le radici sociali, politiche e culturali che la supportano non sono problematizzate. Similmente, è da chiedersi se la promessa di liberare spazi agricoli oggi dedicati alla produzione animale possa davvero intendersi nei termini di una “liberazione” dei territori, o invece come una loro messa a disposizione per nuove recinzioni e valorizzazioni. Tanto più che la carne colturale oggi non si delinea come una sostituzione della carne tradizionale, ma un’aggiunta sul mercato.
Tocca chiedersi allora: a che cosa e a chi serve l’innovazione? Viene presentata come necessaria per soddisfare una richiesta globale in aumento, nell’evidenza che una riduzione del consumo non si è verificata negli ultimi decenni. Tuttavia, questa premessa è basata su un presente in cui il consumo di carne è favorito a livello culturale, economico, scientifico. L’utilità sociale reale in questo contesto non è per nulla data, ma eventualmente da verificare collettivamente, così come la distribuzione delle risorse che ne sostengono la ricerca e la produzione.
La prospettiva dell’ecologia politica in questo senso problematizza l’innovazione alimentare ma non per dismettere qualsiasi tecnologia o idealizzare delle pratiche contadine “tradizionali” come depositarie di un rapporto idilliaco e naturale con l’ambiente. Al contrario, mettendo in discussione la dicotomia naturale/artificiale, pone delle domande politiche circa quali tecnologie possano aiutarci a ristabilire dei rapporti di equilibrio dinamico con il resto della biosfera nel senso di una giustizia non solo ecologica ma anche sociale.
Le destre si collocano in uno spazio di critica al capitale globale in modo populista: indicando in astratte “multinazionali” e “capitale del big-tech” le responsabili dei rischi, della standardizzazione alimentare, e della perdita di sovranità alimentare della popolazione. Questi discorsi intrecciano paure e risentimenti reali, che si intensificano in momenti di incertezza e precarizzazione quali quelli che viviamo. Si possono però nominare e criticare le radici sistemiche delle ingiustizie alimentari: capitalismo, patriarcato, colonialismo, razzismo e specismo sono la matrice di potere che attraversa e dà forma non soltanto all’innovazione alimentare ma alle diete del presente nel loro complesso (carne “tradizionale” inclusa). L’ecologia politica propone allora una lotta per la giustizia ambientale e alimentare nella contestazione di questi assi di potere, e in una riappropriazione dei mezzi tecnologici per sperimentare nuove relazioni sociali, ecologiche, interspecie.
NOTE
[1] https://www.corriere.it/politica/23_novembre_16/carne-coltivata-divieto-legge-il-governo-rispetta-agricoltori-3b7998e6-84c0-11ee-87a1-ab403d0b1b3f.shtml
[2] https://www.wired.it/article/carne-coltivata-sintetica-camera-approva-divieto/
[3] https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/
[4] Jönsson, E. (2016) ‘Benevolent technotopias and hitherto unimaginable meats: Tracing the promises of in vitro meat’, Social Studies of Science, 46(5), pp. 725–748. Available at: https://doi.org/10.1177/0306312716658561.
[5] Mazac, R. and Tuomisto, H.L. (2020) ‘The Post-Anthropocene Diet: Navigating Future Diets for Sustainable Food Systems’, Sustainability, 12(6), p. 2355. Available at: https://doi.org/10.3390/su12062355.
[6] Per un approfondimento su questo e ciò che segue, si veda il già citato articolo https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/, o: Dal Gobbo, A. (2023) ‘Of post-animal meat and other forms of food innovation: a critical and intersectional reading from the perspective of political ecology’, Consumption and Society, 1(aop), pp. 1–10. Available at: https://doi.org/10.1332/RVDO1043.
[7] Taylor, S. (2021) Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale. Edizioni degli Animali; si veda anche Ko, A., & Syl, K. (2020). AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero. VandA edizioni.
[8] Adams, Carol. Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana (2020).
Knowledge Management - Una visione critica tra antropologia e sociologia
Il concetto di Knowledge Management[1] - che comprende i sistemi e i processi di gestione della conoscenza di un’organizzazione - è un mito aziendale, un oggetto simbolico a cui si attribuisce il potere magico di “mettere a posto le cose”.
Proprio per questa dimensione mitica e magica, rischia di avere limitati spazi di applicazione pratica e di non mantenere le promesse che evoca.
Spesso l’obiettivo del KM è descritto con tre asserzioni che ne riassumono la promessa di valore:
- “assicurare, in modo efficace, il passaggio del sapere dall’individuale al collettivo”
- passare “dal sapere individuale al sapere collettivo”,
- passare “dal sapere tacito al sapere esplicito”
A questa descrizione dell’obiettivo del KM manca solo l’efficienza, categoria di pensiero che, in pratica, significa “fare di più con un costo minore”
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Il percorso che seguo per spiegare perché sostengo che il KM è un mito che promette e che non mantiene, attraversa:
- una breve storia del concetto
- i suoi assunti di base applicati alle organizzazioni
- gli obiettivi e le promesse dei progetti di KM
- il corollario di queste promesse, ossia quali pratiche un KMS dovrebbe sostituire
- le difficoltà e le distorsioni incontrate in progetti di KM.
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1. Breve storia del concetto di Knowledge Management
Il KM “è una disciplina aziendale che si riferisce alla gestione e alla condivisione della conoscenza tra esseri umani. Il Knowledge Management si affaccia sulla scena manageriale a partire dagli anni ’90 grazie al lavoro di due studiosi giapponesi: Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi”[2]; esso si focalizza su come poter mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro.
Questa logica spinge il knowledge management a diventare un sorta di “filosofia” della collaborazione e della condivisione negli ambienti di lavoro, tanto che Ikujiro Nonaka lo definisce come “un processo umano dinamico di giustificazione del credo personale, diretto verso la verità”[4].
Nella pratica, si tratta di “strategie e metodi per identificare, raccogliere, sviluppare, conservare e rendere accessibile la conoscenza delle persone che fanno parte di una organizzazione assume la moderna connotazione e prende il nome di knowledge management, o gestione della conoscenza organizzativa, avvalendosi di strumenti delle tecnologie dell’informazione sempre più sofisticati: i cosiddetti knowledge management system”[3].
I Knowledge Management System sono sistemi informatici che permettono di creare una biblioteca di argomenti e di informazioni relative al know-how di una organizzazione, di indicizzarli e di metterli a disposizione dei membri dell’organizzazione stessa con relativa facilità.
2. Assunti alla base
Ritengo che gli assunti più rilevanti alla base del concetto di KM siano:
- che esista un corpus disciplinare, cioè un insieme di conoscenze, competenze, norme e procedure che descrive “come si fanno le cose”; il corpus disciplinare è necessario, senza di esso non si può fare Knowledge Management
- che il corpus disciplinare sia completo, formalizzabile e riassuma quanto serve sapere per “fare le cose”
- che si possa trascrivere il sapere specialistico delle persone in modo stabile, durevole, organizzabile, indicizzabile e leggibile, per renderlo fruibile - come e quando serve - da parte di altre persone, “che non sanno”.
3. Obiettivi e promesse
Si rilevano di frequente alcune promesse di valore del KM che riguardano più da vicino il modo d’essere delle organizzazioni:
- oggettivare e formalizzare il sapere specialistico delle persone “che fanno un certo mestiere”
- facilitare il trasferimento e la collettivizzazione del sapere
- passare da “formare” sulle competenze a “addestrare alla consultazione”
- ridurre la formazione e i tempi di apprendimento, imparando la funzione “cerca” e saper leggere
- aumentare l’efficienza operativa grazie alla immediata e contestualizzata disponibilità di informazioni
È evidente che l’orizzonte di valore proposto dal concetto di Knowledge Management converge in questi due punti: ridurre i costi e svincolare l’organizzazione dai singoli attori depositari della conoscenza.
4. Corollario: l’illusione della sostituzione
Il concetto e i progetti di KM promettono, illusoriamente, di ridurre al minimo - con effetti positivi su tempo e costi:
- la selezione, il reclutamento e l’onboarding di personale secondo criteri di adeguatezza al compito;
- le sessioni di formazione;
- l’apprendistato sul campo – con risparmio anche del tempo dell’esperto che fa e spiega;
- le curve di apprendimento e l’inefficienza dei nuovi addetti;
- la dipendenza dalle persone più senior con maggiori competenze e costi più elevati
Provo a fare un paio di esempi:
- un frigorista che fa attività di assistenza e riparazione presso i clienti è “maturo” dopo circa un anno e mezzo di formazione, affiancamento, tentativi, errori, insuccessi. Dopo un anno e mezzo ha imparato abbastanza bene a riconoscere e diagnosticare i principali guasti, i rumori sospetti e le loro cause, i rischi di rottura a breve, i modi con cui tranquillizzare e vendere gli interventi al cliente.
- un operatore di assistenza telefonica deve comprendere un insieme complesso di stati d’animo, problemi in primo piano e problemi impliciti, rischi di reclamo, esigenze, e discernere le migliori soluzioni da proporre al cliente, al telefono o via chat. La curva di apprendimento può essere di alcuni mesi e richiede sessioni di formazione, ascolto, counseling di colleghi esperti, imitazione comportamentale, errori e figuracce.
Ho visto personalmente manager seri e navigati emozionarsi all’idea che un buon sistema di KM riduca a 2 mesi il tempo di “messa sul campo” del neo-frigorista, ovvero che l’assistente telefonico possa rispondere in modo corretto e completo alle esigenze del Cliente dopo 2 ore di addestramento.
5. Difficoltà e distorsioni
È opportuno esaminare alcune difficoltà che si incontrano nei progetti di KM:
- gli utilizzatori degli strumenti di Knowledge Management hanno a disposizione una raccolta ampia di informazioni, istruzioni, procedure, ma non sanno cosa cercare. Infatti, consultare una Knowledge Base richiede una conoscenza almeno superficiale del problema da affrontare; trovare risultati davvero pertinenti ed utilizzabili richiede una capacità di discernimento a volte molto elevata;
- le informazioni messe a disposizione dell’utilizzatore sono spesso sterilizzate dalla formalizzazione; perdono la caratteristica espressione della forma di vita che le ha generate; sono opache rispetto alla realtà che rappresentano; possono essere superficiali o proceduralmente artificiose e burocratiche;
- il sapere che viene messo a disposizione è – quindi – carente della componente “locale”, “indigena”; non contiene la forma pratica delle cose, quella generata dalla “conoscenza del corpo”[5][6]
- le carenze e distorsioni vengono amplificate se l’opera di “registrazione e trascrizione” del sapere “di chi sa e sa fare” è affidata a tecnici esperti di metodologie di KM ma esterni al contesto di riferimento della conoscenza
- tra gli effetti distorsivi nell’utilizzo si ritrovano: l’induzione di comportamenti stereotipati là dove l’intento è di generare degli standard comportamentali efficaci; errori di esecuzione indotti dall’oscurità, dalla formalizzazione o dalla burocratizzazione
Da un punto di vista economico, si presentano spesso due criticità:
- i costi di realizzazione di un progetto di KM possono essere molto elevati e l’efficienza prodotta si può rivelare di un ordine di grandezza inferiore; il ritorno sull’investimento può essere molto lungo.
- il costo di manutenzione necessario a garantire l’efficacia del KM può essere molto rilevante a causa del divario tra i contenuti della base di sapere iniziale e la realtà, che emerge con l’utilizzo dello strumento e dell’evoluzione della disciplina e del contesto che generano una attività continua di revisione della base di conoscenza e delle relative connessioni e indicizzazioni;
Queste due criticità possono ridurre in modo significativo i benefici di efficienza attesi, fino ad azzerarli.
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Un tentativo di conclusione
Possiamo quindi sostenere che il rischio di fallimento dei progetti di Knowledge Management sia determinato da:
a) l’illusione di completezza e fruibilità del sapere “riversato” nello strumento;
b) il sovradimensionamento degli obiettivi, come il desiderio di svincolare l’organizzazione dalle impegnative pratiche tradizionali di trasmissione del sapere basate su: la selezione di soggetti “adeguati”, l’onboarding, l’affiancamento, i tentativi, la correzione, la “conoscenza del corpo”;
c) l’affidamento a “espertiorizzontali” là dove il sapere disciplinare, sociale e culturale è palesemente verticale.
Il concetto di Knowledge Management, però, può risultare efficace e di successo se applicato in condizioni controllate, in una organizzazione, o in una rete di persone competenti in una disciplina, per depositare e trasmettere il sapere che sta intorno ai fatti operativi, raccolto in modo aperto, attivando direttamente i detentori, investendo nel loro tempo.
Le “condizioni controllate” sono: il dimensionamento corretto delle aspettative e l’inserimento in un contesto in cui lo strumento può essere valorizzato; la dimensione di valutazione può essere invece qualitativa: quanti e quali “fatti” all’interno di una certa disciplina possono essere catalizzati o facilitati e quanto significativi possono essere.
Note
[1] Glossario degli acronimi: KM sta per Knowledge Management, indifferentemente il concetto e gli strumenti; KMS per Knowledge Management System, inteso come strumento; KB sta per Knowledge Base, repository delle informazioni che costituiscono la base del KM; alcuni parlano di Knowledge Transfer Process e di Knowledge Transfer Management: mi sembrano assimilabili alla nozione di Knowledge Management.
[2] Knowledge Management: cos’e’ a cosa serve e che strumenti usa, https://www.aryanna.net/knowledge-management-2/#storia-del-km
[3] ibidem
[4] https://hbr.org/2007/07/the-knowledge-creating-company
[5] Nonaka I. (1991) The Knowledge-Creating Company Harvard Business Review, Nov.-Dec. 96-104; Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, The knowledge creating company: how Japanese companies create the dynamics of innovation, New York, Oxford University Press, 1995, p. 284, ISBN 978-0-19-509269-1.
[6] Jackson M., Conoscenza del corpo, tr. it. in Antropologia Culturale, i temi fondamentali, a cura di S. Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018