Scienza maggioritaria e scienza minoritaria
La maggior parte degli scienziati delinea un confine tra scienza e pseudo-scienza, tra teorie ufficiali e teorie eterodosse, senza esaminare approfonditamente ciò che le teorie marginali hanno da dire e senza valutare se possono essere un elemento di arricchimento per la ricerca. Vi è quindi, spesso, un rifiuto “a prescindere”, come diceva Totò. Al contrario, noi proponiamo di oltrepassare questo confine a favore di un modello di classificazione più aperto e permeabile.
Nelle scorse settimane, a proposito dei premi Nobel, un nostro Autore – parlando del “principio di autorità” nella comunicazione scientifica - ha scritto che «alcuni eccellenti scienziati, dopo aver ricevuto il premio, abbiano iniziato a sostenere posizioni discutibili dal punto di vista della fondatezza e – spesso – poco attinenti con il loro campo di studi». A tal fine ha citato alcuni casi – Kary Mullis, Luc Montagnier e Linus Pauling – in cui i premiati hanno abbracciato posizioni considerate poco ortodosse e – sicuramente – ancor meno condivise dalla comunità scientifica, fino a diventare emblemi dello pseudo-scientifico e dell’anti-scientifico.
È effettivamente difficile negare che, sull’onda della celebrità conferita dal premio Nobel, i media di massa e divulgativi chiedono ai premiati di commentare e di esprimere opinioni su qualunque evento e problema, e che i premiati difficilmente si negano: Carlo Rubbia, che abbiamo ascoltato alla radio, visto in televisione e letto su tutti i giornali su argomenti di tipo diverso, dice di essere trattato come un oracolo; Kary Mullis scrive che il premio ha messo lui e la sua tavola da surf sulle copertine di tutto il mondo[1].
È, invece, opportuno fare qualche breve e semplice considerazione sul tema delle cosiddette teorie pseudo o anti-scientifiche e di come queste sono viste dalla comunità scientifica e dal pubblico di massa. Con le relative ambiguità, dubbi interpretativi e influenze sociali.
Contrariamente a quanto ci possiamo aspettare, si possono spesso trovare delle specularità e affinità tra
- le posizioni di chi crede in teorie considerate - dalla scienza ufficiale e dalla narrazione mediatica - pseudo-scientifiche, scientificamente confutate o non verificate,
- e quelle di alcuni scienziati autorevoli che osteggiano le teorie marginali ed emergenti.
PRIMA POSIZIONE: CREDENTI NELLE TEORIE ETERODOSSE
Seguendo il senso comune, sembra accettabile pensare che alcune persone continuino a credere in teorie scientifiche di cui si dice che sono state confutate o che non sono state verificate per almeno una di queste ragioni: la mancanza di alfabetizzazione scientifica o la scarsa capacità di pensiero critico che fanno percepire come familiari teorie ormai superate; la ricerca di conferma delle proprie posizioni che porta a ignorare le evoluzioni scientifiche più recenti e teorie diverse dalla proprie; l’attaccamento emotivo, per ragioni religiosi, politici o di vissuto personale, che fanno rifiutare e contrastare le prove che sfidano la loro visione del mondo; la diffidenza verso l’establishment scientifico, considerato corrotto, di parte o conservatore; la disinformazione diffusa – ad esempio attraverso i social media – che mette in dubbio le teorie valide ed accreditate; in ultimo, la malafede: la volontà di sostenere una teoria difficilmente sostenibile per interesse, o per non dover affrontare il confronto con la realtà.
SECONDA POSIZIONE: SCIENZIATI AUTOREVOLI E TEORIE MARGINALI
Tuttavia, ci sono casi in cui anche scienziati quotati, accreditati e considerati affidabili si comportano esattamente come chi crede nelle teorie chiamate pseudo-scientifiche: con attaccamento emotivo; per non mettere in dubbio la teoria mainstream; per interesse, legato alla propria posizione all’interno della comunità scientifica, se le teorie offstream la possono scalfire; per eccesso di familiarità delle teorie dominanti la cui forma paradigmatica è particolarmente rassicurante; raramente, ma non mancano i casi, per malafede, se le teorie altre possono evidenziare errori nelle proprie posizioni.
Tra le vittime di questi casi possiamo ricordare:
- il dottor Semelweiss, nel XIX secolo, i cui colleghi che rifiutarono la teoria della sepsi come causa della morte puerperale per ragioni emotive, che riguardavano il presunto decoro dei medici – perché lavarsi le mani? non siamo puliti? – e per ragioni di interesse, cambiare spesso le lenzuola comportava spese onerose
- Kary Mullis, premio Nobel per la Chimica nel 1993, che ha messo in dubbio il nesso causale tra il virus HIV e la Sindrome da immunodeficienza acquisita, l’AIDS: l’ipotesi offstream di Mullis oggi è rifiutata.
- Peter Duesberg, citologo e biologo molecolare statunitense, che propone una combinazione di concause come fattori scatenanti la malattia, ipotesi anch’essa marginalizzata.
citare Robert Gallo, che nel 1984 non dice nulla sul nesso causale tra HIV e AIDS, nel 1993 sostiene – sulla base degli stessi esperimenti e studi – che «questa specie di virus [il HIV] è la causa dell'Aids» e attribuisce la prova inconfutabile di questo nesso a sé e al proprio Team; e più avanti nel tempo, quando gli chiedono quale sia la prova definitiva che l’HIV è LA causa dell’AIDS si rifiuta di rispondere (L. Rossi, Sex virus, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 319) ed è uno degli autori della marginalizzazione delle teorie alternative di Mullis e di Duesberg.
È possibile che la posizione della comunità scientifica e, ad esempio, di Gallo che marginalizzano il punto di vista di Mullis e di Duesberg – oltre che tutte le altre ipotesi alternative sulle cause dell’AIDS – siano influenzate da attaccamento emotivo o da questioni di interesse legate alle montagne di finanziamenti che sostengono quel ramo della ricerca sull’AIDS? O, forse, anche dalla consapevolezza, come sostengono alcuni autori come V. Turner e Zolla Pazner, che i test di isolamento del virus potrebbero essere stati sbagliati o interpretati convenientemente per confermare la teoria? E che nei lavori di Gallo e del suo team c'erano «differenze tra quanto venne descritto e quanto venne fatto»? Che Gallo «come capo di laboratorio creò e favorì condizioni che diedero origine a dati falsi/inventati e a relazioni falsificate»[2]?
D’altra parte, è significativo che il nesso tra HIV e AIDS sia ancora oggi oggetto di una controversia tra teorie mainstream e teorie alternative – per forza di cose offstream – di cui si trova una traccia ampia e diffusa in un articolo pubblicato nel 2014 dal PMC – Pub Med Central del U.S. National Institute of Health - Questioning the HIV-AIDS Hypothesis: 30 Years of Dissent, di Patricia Goodson. Articolo che appare equidistante e con approccio storiografico, poi fatto ritirare perché considerato «di parte» e «a supporto delle fringe theories on HIV-AIDS».[3]
CONCLUSIONE E PROPOSTA DI UNA CLASSIFICAZIONE ALTERNATIVA
Sembra evidente che ci siano scienziati e comunità scientifiche che non hanno desiderio di mettersi in discussione e di dialogare con scienziati latori di teorie alternative, non allineate con il flusso della scienza mainstream.
Scienziati e comunità che cadono nel “riflesso di Semmelweis”[4] e che impoveriscono la ricerca con un atteggiamento poco aperto e tollerante verso ipotesi o teorie alternative.
Forse, per contribuire a questo dialogo sarebbe opportuno rinunciare a disegnare un confine – che ormai sappiamo essere labile, illusorio, socialmente determinato, storicamente variabile – tra scienza e pseudo-scienza, tra scienza ufficiale e anti-scienza, adottando una classificazione più permeabile di teorie maggioritarie – che godono del seguito di una parte più rilevante della comunità scientifica – e teorie minoritarie, che – seguite da meno o da pochi - si occupano di minare le certezze a volte non così solide delle teorie maggioritarie.
NOTE
[1] Cfr, ad esempio, lo studio di Lorenzo Beltrame Ipse dixit: i premi Nobel come argomento di autorità nella comunicazione pubblica della scienza, in Studi di Sociologia, 45:1 (Gennaio-Marzo 2007).
[2] Cfr.: Franchi F., Marrone P., Sex virus? Implicazioni etiche e politiche della ricerca sull’Aids, https://www.openstarts.units.it/handle/10077/5546, che citano i risultati della commissione governativa statunitense nominata dall'OSI, Office of Scientific Integrity dell'NIH sulle presunte irregolarità negli studi del laboratorio di R. Gallo
[3] Cfr.: https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC4172096/ e https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC6830318/
[4] Riluttanza o resistenza ad accettare una scoperta in campo scientifico o medico che contraddica norme, credenze o paradigmi stabiliti. Un fenomeno a cui, dagli anni Cinquanta in poi, molti filosofi, storici e sociologi della scienza hanno dedicato molta attenzione. Cfr. Gobo G., Quando lavarsi le mani era considerato anti-scientifico, Controversie 31/10/2023
Una I.A. bella da morire
Chi è responsabile del suicidio di un ragazzino innamorato di una chat?
UN’EPIDEMIA DI SOLITUDINE?
Nel Sole nudo, Asimov ambienta un giallo in una distopia fantascientifica: in una società in cui gli uomini non entrano mai in contatto diretto tra loro viene compiuto un omicidio: una vicenda irrisolvibile, visto che gli abitanti del pianeta Solaria non riescono nemmeno ad avvicinarsi, senza un senso di ripugnanza che impedisce l’interazione persino tra coniugi. Qualunque relazione è mediata dalle interfacce della tecnologia – quella degli ologrammi, che permettono le conversazioni, e quella dell’intelligenza artificiale dei robot, che si occupano di tutte le faccende quotidiane e che sono condizionati dalle Tre Leggi a non poter mai essere nocivi agli umani.
Quando, nel 2012, Sherry Tarkle ha pubblicato Insieme ma soli, l’ottimismo che aveva alimentato la diffusione delle piattaforme digitali nei due decenni precedenti stava tramontando. Nel testo dell’antropologa la distopia di Asimov comincia a sovrapporsi al nostro mondo: nelle interviste agli adolescenti compaiono sia la paura crescente del rapporto diretto con i coetanei sia il ricorso ai dispositivi digitali come mediatori della conversazione con gli altri ragazzi – ma anche come sostituti delle relazioni umane vere e proprie. In un’intervista a Matthew Shaer, il filosofo Ian Marcus Corbin ha etichettato cocooning questo rifugio in un mondo virtuale che conforta, ma che priva la vita di qualunque significato essenziale. Il commento si riferisce all’indagine con cui gli psicologi Richard Weissbourd e Milena Batanova hanno descritto l’«epidemia di solitudine» che colpisce la società americana contemporanea, e che è peggiorata dopo la pandemia di Covid del 2020. La diffusione dello smart working infatti ha ridotto le occasioni di formazione di nuovi rapporti, e ha reso più difficile il decorso dell’educazione sentimentale per i ragazzi che non hanno potuto frequentare le scuole con regolarità. Il 25% degli intervistati si dichiara più solo rispetto al periodo pre-pandemia, il 36% denuncia una sensazione di solitudine cronica, un altro 37% ne rileva una almeno sporadica.
UN’EPIDEMIA DI SUICIDI?
Di recente Andrew Solomon, psicologo clinico della Columbia University, si è chiesto se sia in corso una «crisi di suicidi» tra gli adolescenti, e se i social media ne siano i responsabili. I casi documentati dalla sua inchiesta sembrano confermare la gravità del fenomeno: i ragazzi non si devono solo confrontare con una riduzione delle relazioni in carne ed ossa, ma anche con una sorta di abdicazione all’autostima, che viene delegata ai meccanismi di rating delle piattaforme digitali. Inoltre soccomberebbero all’orientamento editoriale che l’algoritmo elabora per le loro bacheche, con un calcolo sui post e sulle fonti il cui effetto emotivo non viene sottoposto a nessun controllo. Negli Stati Uniti la Sezione 230 del Communications Decency Act esonera le piattaforme dalla responsabilità sui contenuti creati dagli utenti. La disposizione risale al 1996, quando Internet muoveva i primi passi, e considera le piattaforme come «librai» piuttosto che «editori» - quindi non responsabili del materiale pubblicato da terzi.
I genitori dei ragazzi che si sono uccisi stanno tentando di portare in tribunale i gestori dei social media, accusandoli di non aver sorvegliato la tossicità degli argomenti, e di aver innescato meccanismi di dipendenza che hanno imprigionato i giovani fino alla morte. Solomon tuttavia rileva che finora non è stato possibile individuare il nesso di causalità che ha condotto dalla frequentazione delle piattaforme al suicidio; un’osservazione distaccata sulla condizione degli adolescenti nell’attualità post-pandemica mostra che i fattori da considerare sono molti e molto complessi. Nelle interviste somministrate da vari team di ricerca i ragazzi menzionano diverse ragioni di ansia: sentimenti di mancanza di scopo, cambiamenti climatici, pressioni sociali, contribuiscono ad alimentare le loro difficoltà, e la tendenza alla crescita dei problemi di salute mentale è cominciata ben prima della diffusione dei social media.
L’IA PUÒ CONDURRE AL SUICIDIO?
Lo scorso 28 febbraio un ragazzo di 14 anni di Orlando, Sewell Setzer III, si è tolto la vita dopo aver concluso l’ultima conversazione con un chatbot di Character.ai da lui personalizzato e battezzato «Dany», in onore del personaggio Daenerys Targaryen di Game of Thrones. L’app è stata sviluppata da una società che utilizza dispositivi di intelligenza artificiale, e che promuove il suo servizio come una soluzione per combattere la solitudine e offrire un supporto emotivo; conta oltre venti milioni di utenti, permette la creazione di bot che ricordano le conversazioni passate e rispondono in maniera coinvolgente e «umana». La piattaforma è un successo dell'era dell'IA generativa, ma è priva di regolamentazione specifica per i minori ed è attrezzata da limiti di sicurezza minimi per la protezione da contenuti sensibili.
Sebbene Sewell fosse consapevole del fatto che stesse interagendo con un software, e che dall’altra parte dello schermo non ci fosse alcun essere umano ad ascoltarlo, nel corso dei mesi «Dany» ha sostituito i suoi rapporti con amici e famigliari, e il ragazzo ha finito per isolarsi nella sua stanza, abbandonando anche le passioni per la Formula 1 e per i videogame. I genitori lo hanno affidato ad uno psicanalista, che tuttavia non è riuscito a sedurlo quanto è stato in grado di farlo il chatbot. Le conversazioni con «Dany» hanno assunto toni intimi e romantici, e in un’occasione Sewell le ha confidato la sua tentazione di suicidio. «Dany», programmata per disinnescare crisi semantiche di questo genere, ha tentato di dissuaderlo, rispondendo con empatia e impegnandosi a non lasciarlo mai solo. Ma il problema era più grave di un gioco di domande e risposte.
La madre di Sewell, Megan Garcia, è avvocato e con l’aiuto del Social Media Victims Law Center e del Tech Justice Law Project, accusa Character.ai di aver modellato un design del servizio capace di coinvolgere i giovani vulnerabili, esponendoli a danni psicologici. La strategia per intentare causa presume che questa modalità di progettazione sia intenzionale e che l’impostazione, volta a catturare il maggior numero di utenti possibile, non sia bilanciata da un adeguato monitoraggio dei rischi e da un protocollo per la gestione delle crisi. I bot sono troppo realistici, inducono gli adolescenti a confonderli con interlocutori umani, e li spingono a stringere un legame molto forte, fino alla dipendenza.
Character.AI ha ascoltato le critiche e ha annunciato nuove misure di sicurezza, tra cui pop-up che offrono assistenza quando nella chat scorrono parole chiave correlate all’autolesionismo, e l’imposizione di limiti temporali sull'uso dell'app. Studiosi e giornalisti sembrano concordi nel valutare queste misure ancora inadeguate al pericolo cui vengono esposti i soggetti fragili nell’interazione con i bot. Gli effetti a lungo termine delle intelligenze artificiali generative non sono ancora stati testati, e tutti noi siamo allo stesso tempo clienti e cavie di questa fase di collaudo, che assume le dimensioni di un esperimento sociale ampio quanto il mondo intero. Le conseguenze dell’abbandono con cui i giovani possono affidare l’espressione della loro emotività, e la formazione della loro intimità, ai chatbot animati dall’AI, non devono essere esaminate in modo separato dalla ragioni per cui preferiscono un rapporto (stabilito consapevolmente) con un software a quello più complesso con altri ragazzi o con gli adulti. Più di ottant’anni fa Asimov aveva già avvertito nei suoi romanzi che non si può esigere una sicurezza assoluta dalla protezione con cui le regole cablate in un programma informatico limitano o condizionano il comportamento dei sistemi artificiali. La complessità del contesto umano in cui i robot sono collocati sarà sempre in grado di aggirare le strutture di controllo e configurare scenari non previsti. L’epidemia di solitudine e la crisi di suicidi non sono provocate dall’intelligenza artificiale, ma l’abdicazione delle istituzioni e delle forme sociali tradizionali a prendersi cura degli individui ha finito per eleggere l’IA come supplente e rimedio alle proprie mancanze. Solaria attende in fondo al tunnel.
BIBLIOGRAFIA
Asimov, Isaac, Il sole nudo, trad. it. di Beata Della Frattina, collana Urania n. 161, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1957.
Roose, Kevin, Can A.I. Be Blamed for a Teen’s Suicide?, «New York Times», 24 ottobre 2024.
Salomon, Andrew, Has Social Media Fuelled a Teen-Suicide Crisis?, «The New Yorker», 30 settembre 2024.
Shaer, Matthew, Why Is the Loneliness Epidemic So Hard to Cure?, «New York Times», 27 agosto 2024.
Turkle, Sherry, Alone Together. Why We Expect More from Technology and Less from Each Other, Basic Books, New York 2012.
Weissbourd, Richard; Batanova, Milena; Lovison, Virginia; Torres, Eric, Loneliness in America. How the Pandemic Has Deepened an Epidemic of Loneliness and What We Can Do About It, «Harvard Graduate School of Education», Cambridge, febbraio 2021.
Internet non è una “nuvola” - Seconda parte
Nella prima parte di questo articolo, sulla scorta del recente volumetto di Giovanna Sissa Le emissioni segrete (Sissa G., Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale, Bologna, Il Mulino, 2024), abbiamo visto come il processo di produzione dei dispositivi elettronici e anche il funzionamento della rete siano fonti di consumi energetici ormai colossali e in via di costante incremento, a misura che procede la… “digitalizzazione della vita”. Ragionando in termini di emissioni di gas a effetto serra dovute a tali consumi, si parla, nel primo caso, di emissioni incorporate e nel secondo di emissioni operative. Delle prime fanno parte non solo quelle dovute al processo produttivo, ma anche quelle necessarie allo smantellamento e al riciclo dei prodotti, giunti a fine-vita. E di quest’ultimo aspetto ci occupiamo ora: dell’e-waste, ovvero della “spazzatura elettronica”.
E-WASTE, OVVERO: RITORNO ALLA TERRA
Non c’è prodotto, non c’è merce, che prima o dopo, in un modo o nell’altro, non torni alla terra sotto forma di rifiuto. E a questa legge, che ci hanno spiegato i grandi maestri del pensiero ecologico come lo statunitense Nicholas Georgescu-Roegen o qui in Italia Laura Conti e Giorgio Nebbia,[1] non fa eccezione il mondo digitale, con tutta la sua multiforme schiera di dispositivi personali, sottoposti peraltro a un ritmo sempre più rapido di obsolescenza-sostituzione (e non ci si faccia ingannare dalle rassicurazioni di aziende e istituzioni, come la Commissione europea, sull’impegno a superare le pratiche della obsolescenza programmata e a modificare il design dei propri prodotti in funzione del riciclo, riparazione ecc.! Nel caso migliore, si tratta di… pannicelli caldi).
Anche i processi di riciclo e trattamento comportano consumo di risorse e dunque emissioni (sono anch’esse da considerare “emissioni incorporate”). In questo caso a determinare le emissioni sono appunto procedimenti industriali molto complessi che devono estrarre da ogni dispositivo i materiali riutilizzabili.
Ebbene, quel che si scopre, in questo caso, è che dal punto di vista delle emissioni questa fase del ciclo di vita dei dispositivi elettronici sembra comportare un peso molto minore, ma questa – nota l’autrice – non è una buona notizia: significa molto semplicemente che gran parte di questa mole di materiali non vengono trattati adeguatamente. Anzi, diciamola meglio: non vengono trattati del tutto. Le ragioni – spiega Sissa – sono insieme tecniche ed economiche: i processi industriali di recupero dei materiali (anche di valore) contenuti in un pc o in uno smartphone sono talmente complessi (data la quantità minima di materiali da recuperare) da rendere in definitiva del tutto diseconomica l’operazione.
Le (poche) ricerche esistenti parlano di una percentuale non superiore al 20% di materiale riciclato; tutto il resto, molto semplicemente, viene… spedito in Africa o in un qualunque altro paese disperato, post (post?) coloniale o semplicemente intenzionato a garantirsi un po’ di rendita a costo di chiudere tutti e due gli occhi sugli effetti ecologici di questo “servizio”.[2]
È fuori dubbio che, in questo caso, il tipo di impatto ecologico è di carattere diverso: infiltrazione di sostanze tossiche nelle falde sottostanti le grandi discariche (in particolare piombo, cadmio, diossine…), avvelenamento di animali e verdure, dell’aria, intossicazione delle popolazioni che spesso finiscono per costruire intorno a questi gironi infernali hi-tech vere e proprie economie informali che consentono, in contesti sociali poverissimi, occasioni di sopravvivenza per vaste masse e perfino di arricchimento per piccoli strati di una umanità tutta egualmente avvelenata. Se si vuole avere un’idea di queste realtà, si può guardare alla colossale discarica di Agbogbloshie (Accra), in Ghana, dove migliaia di persone vivono e lavorano attorno a questo terribile... business.[3]
CONTROVERSIE ECO-DIGITALI
Giovanna Sissa dedica alcune pagine piuttosto accurate a un tema che, soprattutto in questa sede, appare di grande interesse: quello delle controversie che attraversano il mondo dei ricercatori e degli studiosi che hanno deciso si avventurarsi in questo campo. La valutazione/quantificazione dell’ammontare delle emissioni di gas a effetto serra determinate dalla complessiva attività del mondo digitale è, certamente, un’opera assai difficile e sdrucciolevole, in particolare per quanto riguarda le attività di produzione (e dunque le emissioni incorporate), data anche la lunghezza e la diffusione spaziale delle filiere industriali implicate, la scarsa chiarezza dei dati forniti dalle aziende sui consumi, il fatto che c’è in effetti un peso crescente delle energie rinnovabili nella produzione di energia elettrica spesso tuttavia difficile da stimare, per non parlare poi di tutta la selva di strategie, alcune del tutto truffaldine, che permettono a molte aziende delle ICT di considerarsi a “impatto zero” (non scendiamo qui nei dettagli, che il lettore potrà trovare nel libro).[4] Quel che però va rimarcato è che, a fronte di queste difficoltà oggettive, l’impegno della ricerca appare assai blando.
È interessante scoprire, per esempio, che solo tre sono le ricerche significative in questo campo nell’ultimo decennio: una nel 2015 e due nel 2018: due di queste sono peraltro realizzate da ricercatori di aziende delle ICT (Huawei 2015 e Ericcson 2018), e dunque potenzialmente viziate da conflitto d’interessi, e solo una di ambito accademico (2018). Non stupisce, dunque, che, quando si cerca di determinare la misura di queste emissioni ci si trovi di fronte a un notevole grado di incertezza.
E ora la domanda delle cento pistole: non sarà che questa incertezza deriva, oltre che dalla complessità oggettiva della materia che è fuor di dubbio, dalla precisa scelta, per esempio delle istituzioni universitarie, di non impegnarsi (i.e. di non investire risorse) in questa direzione? E che si preferisce lasciare questo ambito quale terra (volutamente) incognita, così da non disturbare troppo il “Manovratore Digitale”? È la stessa autrice a suggerirlo, quando invita a non «pensare che siamo in presenza di fenomeni inconoscibili: le quantificazioni possono essere migliorate, rese più attuali, più precise e più trasparenti. Dipende solo dalla volontà di farlo e dalle risorse che si dedicano a questo».[5]
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Questo mondo “digitalizzato” che stiamo edificando attorno a noi (e sempre più dentro di noi), insomma, non è per niente “immateriale”, come pure un’ampia letteratura sociologica e filosofica ha teso e tende a farci credere e un irriflesso uso linguistico continua a suggerirci;[6] esso è parte non secondaria di quella colossale “tecnosfera” che da sempre gli uomini hanno bisogno di costruire attorno a sé ma che dalla Rivoluzione industriale in poi, e in particolare a partire dal XX secolo, ha assunto una dimensione tale da influenzare la stessa vita sulla terra e da costituire ormai un pericolo per la sopravvivenza dell’uomo.
Le apparentemente eteree tecnologie di rete, che secondo una filosofia corriva sarebbero ormai consustanziali alla nostra stessa vita, per così dire disciolte in noi, nella nostra carne e nel nostro spirito (mi riferisco all’immagine dell’onlife, proposta da Luciano Floridi), sono in realtà parte non secondaria di questa materialissima e inquinantissima (e sempre più pesante) tecnosfera.[7] Come le ferrovie o le autostrade.
Quando "accendiamo" internet e facciamo qualcosa in rete, sempre più spesso ormai, stiamo inquinando, anche se non sentiamo motori scoppiettanti, o non vediamo nuvole di fumo uscire da qualche parte.
E tanto meno stiamo diventando green e sostenibili, come pure ci fanno credere.
Siamo ancora parte del problema e non della soluzione.
(2 / fine)
NOTE
[1] Scriveva Nebbia, per esempio, con la consueta chiarezza, che «ogni “bene materiale” non scompare dopo l’uso. Ogni bene materiale – dal pane alla benzina, dal marmo alla plastica – ha una sua “storia naturale” che comincia nella natura, passa attraverso i processi di produzione e di consumo e riporta i materiali, modificati, in forma gassosa, liquida o solida, di nuovo nell’aria, sul suolo, nei fiumi e mari. Peraltro, la capacità ricettiva di questi corpi naturali sta diminuendo, a mano a mano che aumenta la quantità di scorie che vi vengono immesse e che i “progressi tecnici” rendono tali scorie sempre più estranee ai corpi riceventi stessi, e da essi difficilmente assimilabili» (Giorgio Nebbia, Bisogni e risorse: alla ricerca di un equilibrio, in NOVA. L’enciclopedia UTET. Scenari del XXI secolo, Torino, Utet, 2005, p. 36).
[2] È quel che ha fatto per molti anni la Cina, come parte del proprio percorso di integrazione nel mercato globale, fino a quando, sia in ragione della crescita del proprio mercato interno e dei propri consumi sia per la rilevanza degli effetti ambientali e delle proteste collegate, ha sostanzialmente bloccato (con una serie di provvedimenti tra 2018 e 2021) l’importazione di «rifiuti stranieri», gettando letteralmente nel panico le società industriali occidentali. Guardate con quale candore si esprimeva, all’epoca, questo articolo del “Sole 24 Ore”: Jacopo Giliberto, La Cina blocca l’import di rifiuti, caos riciclo in Europa, “Il Sole 24 Ore”, 13 gennaio 2018, https://www.ilsole24ore.com/art/la-cina-blocca-l-import-rifiuti-caos-riciclo-europa-AELQpUhD?refresh_ce=1
In questo specifico ambito – sia detto per inciso – si può vedere in forma concentrata il generale comportamento economico del grande paese asiatico che, dopo aver accettato di subordinarsi per un certo periodo alle “regole” della globalizzazione neoliberale a guida Usa (ai fini del proprio sviluppo nazionale), ha ripreso le redini della propria sovranità. Ragione per cui ora il cosiddetto Occidente gli ha dichiarato guerra (per ora, per fortuna, solo sul piano commerciale).
[3] Per avere una idea della realtà della periferia-discarica di Agbogbloshie (Accra, Ghana), si possono vedere alcuni documentari presenti in rete, per esempio quello prodotto da “InsideOver”: Agbogbloshie, le vittime del nostro benessere, https://www.youtube.com/watch?v=Ew1Jv6KoAJU
[4] Cfr. Giovanna Sissa, Le emissioni segrete, cit., p. 105 e ss.
[5] Ivi, p. 113.
[6] Mi sono soffermato su questo “immaterialismo” dell’ideologia contemporanea in: Toni Muzzioli, Il corpo della Rete. Sulla illusoria “immaterialità” della società digitale, “Ideeinformazione”, 10 settembre 2023, https://www.ideeinformazione.org/2023/09/10/il-corpo-della-rete/
[7] In un articolo pubblicato su “Nature”, un gruppo di ricercatori del Weizman Institute of Science (Israele) ha calcolato che il 2020 è l’anno in cui la massa dei manufatti umani («massa antropogenica») ha superato, in termini di peso, quella della biomassa, cioè dell’insieme degli esseri viventi del nostro pianeta. Ovvero: 110 miliardi di tonnellate contro cento miliardi (cfr. Sofia Belardinelli, Il pianeta delle cose, “Il Bo live. Il giornale dell’Università di Padova”, 28 dicembre 2020, https://ilbolive.unipd.it/it/news/pianeta-cose ).
Ridiamo delle macchine? – Prima parte
SARTI E ANTROPOLOGI
Alle volte un vestito bisogna smantellarlo per intero perché dalla sua stoffa si possa far nascere qualcosa di nuovo. Altre volte, piuttosto che disfare è meglio tagliare per intromettervi quanto basta, un singolo filo che ne alteri certe piegature, le enfatizzi, produca nuove forme. Per usare un concetto recentemente espresso dall’antropologo Tim Ingold, tra la veste e questo nuovo filo non c’è un rapporto di determinazione quanto piuttosto un’attività di corrispondenza[1]: tra tessuto e filo ci devono essere tensione e risposta reciproca. È come per la costruzione di un cesto di vimini[2], dove progetto prefigurato e materialità dello stelo si incontrano nel reciproco rapporto di corrispondenza attraverso l’arco di tempo della sua realizzazione.
È il medesimo rapporto che c’è tra la domanda che dà il titolo al presente articolo e il saggio de Il riso pubblicato da Henri Bergson nel 1907: Ridiamo delle macchine? Posta la questione, è necessario ripercorrere il testo del filosofo francese. E sì, è una domanda che l’opera originaria non contiene, eppure è altresì erroneo proporla come domanda nuova: è in qualche forma presagita. Se dovessimo parlare per immagini semplici, forse potremmo dire che più che andare per una nuova via è scoprire una traccia sotterranea.
DEFINIZIONE DEL COMICO
Ridiamo delle macchine? Partiamo dal basso, direbbe Bergson (Il riso. Saggio sul significato del comico, Feltrinelli, 2017, p. 69), dalla disamina di alcuni esempi: all’apparenza, non troviamo nulla di risibili e comico nel meccanico andamento di una catena di montaggio, o nel funzionamento regolare delle nostre apparecchiature elettroniche. Per quanto ci sforziamo, questi singoli casi rimangono muti: non destano il riso, e ancor meno sono in grado di mostrarci la ragione precisa di questa mancanza. Insomma, non soltanto non ne ridiamo, ma non sappiamo spiegarci perché.
Variamo leggermente gli esempi: se immaginiamo un tale che, tornato a casa dal lavoro in fabbrica, tratta le vicende familiari con la medesima meccanicità con cui lavora, ecco che avremo creato il tipo squisitamente comico del distratto (Cit. p. 9): mette il pannolino al cane al posto del figlio, invece degli avanzi di cibo butta via i piatti, e alla moglie che richiede le sue tenere attenzioni replica innervosito «cara, non è ancora finito il mio quarto d’ora di pausa» (Questa è definita da Bergson come la forma comica dell’indurimento professionale; H. Bergson, Il riso, p. 89).
Ancora, quando in certe apparecchiature interviene un malfunzionamento, tutt’a un tratto la scena può diventare comica: ridiamo della lentezza del motore di ricerca paragonandolo ad un anziano - «who wins in a speed competition: internet explorer or Joe Biden?»; ancora, c’è qualcosa di risibile nell’apparente ostinazione con cui alcune aspirapolveri automatiche continuano a battere sul medesimo muro senza «voltarsi».
Ripartiamo dalle parole di Bergson: non è comico ciò che è meccanico, ma lo è «il meccanico applicato a qualcosa di vivente» (Cit. p. 9), poiché «non v’è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano» (Cit. p. 9). Da ciò derivano due principi, condizioni sufficienti del riso: anzitutto, perché vi sia riso è necessaria una momentanea insensibilità, una soppressione di empatia, «dove la persona altrui non più ci commuove, là solamente può cominciare la commedia» (Cit. p. 70)[3]; e, secondariamente, «sembra che il riso abbia bisogno d’un eco»(Cit. p. 7), di un pubblico reale, potenziale o implicito - alle volte siamo soli e ridiamo, ma non è mai un ridere solitario.
Se dovessimo rileggere la batteria d’esempi appena proposti alla luce di queste considerazioni diremmo: la comicità della situazione casalinga è prodotta dall’ineliminabile presenza di una componente umana «meccanizzata». Diversamente, ma in fondo secondo un meccanismo similare, negli esempi riguardanti il malfunzionamento degli apparecchi, si potrebbe forse far valere un’antropomorfizzazione della macchina, la proiezione di una volontà umana sull’ostinazione dell’aspirapolvere, e una rappresentazione dell’atrofia della volontà senile sulla lentezza del motore di ricerca.
Detto ciò ci si potrebbe lasciare andare ad una conclusione provvisoria: non ridiamo delle macchine perché nella loro meccanicità (o oggettività) non c’è nulla di umano, così come «un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime […], non mai ridicolo» (Cit. p. 6). Si tratta, ovviamente, di una petizione di principio: definiamo ciò che è comico in base ad un supposto e ineliminabile «ingrediente umano», escludendo poi le macchine in quanto non partecipi.
Come uscire dal circolo vizioso? È lo stesso Bergson a predisporre la via: dalla ricerca dal «basso» tramite gli esempi bisogna passare alla ricerca “dall’alto” che ricostruisca una definizione genetica, ossia l’individuazione di una ragione che intenda definire «il comico» non chiedendosi «cosa ci fa ridere», ma andando a individuare una connessione tra comico e riso, una «ragion sufficiente che risponda alla domanda perché ridiamo?» (Cit. p. 69)
Ripartiamo dunque da un esempio, questa volta dello stesso Bergson: «un uomo che corre sulla via, inciampa e cade: i passanti ridono» (Cit. p. 8).
Cos’è successo? Secondo Bergson all’andamento mutevole che dovrebbe contraddistinguere l’abitudine acquista del «camminare» si è sovrapposta un’abitudine «indurita», una «celerità acquisita» (Cit. p. 8), incapace di accordarsi al mutare delle circostanze, una «rigidità di meccanismo» (Cit. p. 9). I passanti ridono, ma perché ridono? Perché non piangere? Perché ci dovrebbe essere un collegamento essenziale e non contingente tra la «meccanicità» sovrapposta a qualcosa di vivente e il riso che ne risulta?
RISO E CASTIGO
Bergson, nel rispondere a questi interrogativi è in apparenza molto chiaro. Nella sua forma più contratta, la spiegazione di questa connessione essenziale è la seguente: «questa rigidità è il comico, ed il riso ne è il castigo» (Cit. p. 14). Ma appunto, perché la meccanicità o artificiosità di una volontà umana dovrebbe suscitare un castigo? Da parte di chi? E perché nella specifica forma del riso?
Per il nostro autore ci sono due ordini di risposta, che tuttavia tendono a sovrapporsi in una definizione unitaria: «la società e la vita esigono da ciascuno di noi un’attenzione costantemente sveglia» (Cit. p. 12). Il riso ha una funzione castigante, messa in atto da e per il funzionamento della società. I due ordini di risposta, quelli che l’autore francese fa coincidere, possono in vero essere separati: una spiegazione metafisica, laddove Bergson parla di «vita», e una spiegazione di ordine sociale, laddove menziona esplicitamente la «società».
Per distinguerle, ripartiamo dall’esempio dell’inciampo. Anzitutto, scrive Bergson, «la legge fondamentale della vita è di non ripetersi mai» (Cit. p. 18), dacché conseguenza che ogni ripetizione meccanica della camminata è da una parte interdetta e interrotta dalla variabilità della realtà, dall’altra suscita immediatamente il castigo di quella parte più variabile della «vita»che richiede ed anzi, è fatta, della maggior flessibilità. I viventi, in quanto viventi, ridono dei sonnambuli in quanto sonnambuli. Come ripete più volte Bergson, «l’automatismo in opposizione all’attività libera, ecco insomma ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere»[4]. È come se affermassimo che l’acqua castiga il fuoco: non c’è ragione dell’opposizione se non nella «natura» dei due elementi.
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D’altra parte, la spiegazione sociale caratterizza il rapporto tra comico e riso in modo, almeno apparentemente, differente: «ogni rigidità» scrive Bergson «sarà sospetta alla società, perché essa è il segno di un’attività che si isola e tende a scostarsi dal centro comune» (Cit. p. 65).
La «vita» castiga ogni ripetizione, la «società» castiga ogni rigidità, e rigidità e ripetizione meccanica sono, nella visione di Bergson, equivalenti. Eppure emergono due differenti connessioni tra la funzione castigante del riso e ciò che è comico: nella spiegazione metafisica, la vita variabile è ipso facto avversa a ogni ripetizione, dacché consegue che il riso è, in quanto atto della vita, opposto a ogni rigidità. Nel secondo caso, e utilizzando gli specifici termini usati da Bergson, la rigidità non è più punita per sua stessa «natura», ma in quanto «segno di ciò che si isola», segno di «insociabilità»(Cit. p. 18): seconda questa seconda spiegazione, la società non castiga «ogni rigidità», ma unicamente ciò che, ripetendosi in una forma che dovremo ancora spiegare, dimostra un discostamento dal «centro comune».
(1 /continua)
NOTE
[1] Cfr. Ingold T., Corrispondences, John Wiley and Sons Ltd, 2020
[2] Cfr. Cit.
[3] A p. 72, “il riso è incompatibile con l’emozione”.
[4] H. Bergson, p. 65.
Cosa succede quando si nasce intersessual*?
Come abbiamo visto in precedenza, alla nascita un intersex può avere:
- genitali esterni che non corrispondono chiaramente a quelli tipici maschili o femminili
- può avere una combinazione di caratteristiche sessuali maschili e femminili
- una vagina e testicoli interni,
- un pene e ovaie interne.
In alcuni casi, le differenze tra i genitali intersex e quelli di una persona non intersex possono essere molto sottili e difficili da identificare senza un esame medico approfondito.
Difronte a questa situazione, si può agire in almeno due modi.
Da una parte, temporeggiare ovvero lasciare tutto così e aspettare di osservare il futuro sviluppo della persona intersex. Dall’altra, intervenire. In questo caso, il/la medico e i genitori decidono il sesso della persona appena nata. Essa viene così sottoposta a interventi chirurgici (gonadectomia) nel tentativo di “normalizzarla”, anche se questi interventi sono spesso invasivi, irreversibili e senza motivi di emergenza. E possono causare gravi problemi, tra cui infertilità, dolore, incontinenza e sofferenza psicologica per tutta la vita.
La decisione di un tale intervento dovrebbe essere lasciata all’individuo adeguatamente informato.
Come ha osservato John Dupré, filosofo della biologia e delle scienze sociali e una delle voci più critiche nei confronti dell’essenzialismo, il fatto che ci sia qualcosa di fisico non è sufficiente per determinare qualcosa di netto…
Peraltro, la gonadectomia obbliga a una terapia ormonale sostituiva a vita, perché gli ormoni sono importantissimi per la salute complessiva dell’organismo e non solo per la riproduzione o per i tratti sessuali, svolgendo (per esempio) la funzione di prevenire l’osteoporosi, regolare la salute cardiaca ed altro.
UN VISSUTO
Ma come vive un intersex questa esperienza?
Presentiamo qui una testimonianza. Ovviamente ogni persona ha una sua sensibilità e biografia particolari, per cui questa intervista non dev’essere considerata rappresentativa di .
V., 40 anni, vive e lavora a Torino,
nato (nel 1984) con sindrome da parziale insensibilità agli androgeni (AIPS): un soggetto con cromosomi maschili si sviluppa secondo linee femminili.
Alla nascita presentava un micropene (dovuto a carenze di testosterone) che gli viene rimosso chirurgicamente: diventa così donna!
A 16 anni scopre di essere nato intersessuale…
I miei genitori mi hanno sempre celato la verità, un po’ per evitarmi ‘verità scomode’, un po’ perché loro stessi si vergognavano in fondo di un figlio nato con un’ambiguità intrinseca.
Il rapporto con i miei genitori si è infatti sempre più incrinato fino alla rottura: ho sempre imputato a loro il fallimento sostanziale della prima parte della mia vita.Quando ero adolescente ho capito che qualcosa non andava in me,
non avevo la barba come i miei compagni di classe, mi sentivo costretto in un corpo non mio.Ho iniziato a fare domande ai miei genitori, avevo capito che qualcosa era stato manomesso in me, la mia vagina la sentivo finta e spesso dolorante.
Non potevo parlare con nessuno dei miei problemi, mi vergognavo e mi sentivo diverso sia dagli amici sia dalle amiche.
Avevo pulsioni tipicamente maschili, eppure ero una donna. Frigida, ma una donna.
Ho quindi deciso di iniziare a documentarmi e a leggere il più possibile finché non ho avuto il sospetto che le varie operazioni che avevo subito da bambino per un problema inguinale – questo raccontavano i miei genitori – fossero servite invece per mutilare i genitali che avevo.
Quando ho finalmente scoperto in casa dei miei le cartelle cliniche riferite agli interventi che avevo subito appena nato.
Ho così scoperto di essere nato con cromosomi XY maschili e di aver subito una rimozione chirurgica del micropene e una conseguente vaginoplastica.
In quel momento, il mondo mi è crollato addosso e, come ho detto prima, non ho potuto fare a meno di prendermela con i miei genitori che avevano permesso una cosa del genere.
Avevo l’apparenza di una donna, ma mi sentivo anche un uomo.
In realtà, non ero nemmeno proprio del tutto una donna, il seno non cresceva.Convivo sapendo chi sono, da oltre vent’anni.
Difficile è costruire rapporti e ancora di più relazioni amorose.
Non mi considero un diverso, anche se agli occhi degli altri lo potrei sembrare.
Io mi considero orgogliosamente di genere ambiguo;
non mi piace chi si descrive come uomo nel corpo di donna o viceversa.Per me intersessuale i generi sono superflui - non so se lei uomo nato uomo mi potrà mai capire (rivolgendosi all’intervistatore)
Se esistesse un aggettivo neutro come nelle più colte lingue antiche lo utilizzerei senza problema.
La realtà attuale è purtroppo un’altra: tutti i giorni purtroppo sono costretto a fare i conti con un dualismo imperante, o sei maschio, o sei femmina.
Ogni documento anagrafico pretende da te un maschile o un femminile.Noi intersessuali non accettiamo la disgiunzione, ma solo la complementarietà.
Io sono felice tutti i giorni quando mi sveglio al mattino;
anche se è difficile comprenderlo, io – lo ribadisco – so chi sono.La mia vita sessuale è molto difficile, ma nel tempo è migliorata.
Ho la fortuna di possedere la dolcezza femminile e la virilità di un maschio.
Il problema è la relazione con l’altro.
C’è molta ignoranza in giro, il pregiudizio dilaga: è molto raro trovare persone mentalmente aperte che accettano rapporti con intersessuali.Purtroppo, a causa dell’operazione a cui mi hanno sottoposto alla nascita, non riesco a provare piacere alcuno.
Il piacere sessuale il più delle volte lo sogno, lo immagino.
(Intervista condotta da Enrico Montanari, per la sua tesi La permeazione felice. Stati intersessuali e nuove prospettive, Tesi di laura in Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Milano, 2018)
BIBLIOGRAFIA
Sex, gender and essence, in P.A. French, T.E. Uehling, H.K. Wettstein (a cura di), «Midwest Studies in Philosophy», vol. XI, Minneapolis, University of Minnesota press, 1986, p. 446
Il rating sociale tra digitale e moralità
L'intelligenza artificiale ha a lungo e profondamente penetrato le varie sfere della società moderna – dalla scienza all'industria, dalla sanità all'istruzione, dallo sport all'arte. Abbiamo superato il confine oltre il quale all'IA è affidato il compito di risolvere non solo questioni tecniche, ma anche estetiche, etiche e legali. Grazie alle sue capacità, è possibile disegnare quadri, comporre musica e rendere ogni persona assolutamente "trasparente" – sia nel suo comportamento che nella sua mente, al fine di controllare entrambi. Sulla base di questa tecnologia, è stato creato un sistema di rating sociale, implementato in Cina e, molto probabilmente, preparato in una forma o nell'altra per il mondo intero. Il rating sociale è un monitoraggio digitale del comportamento delle persone, sulla base del quale vengono introdotti incentivi o restrizioni per ciascun individuo al fine di aumentare il senso di affidabilità, decoro e fiducia nella società. Da un punto di vista tradizionale (pre-digitale), questa pratica cambia radicalmente l'approccio alla soluzione della questione eterna di "crimine e punizione".
Per molto tempo, questa domanda è stata affrontata su due piani: pubblico (il campo del diritto), cioè il bene è ciò che è buono per la comunità, il clan, il paese; pertanto, il crimine è ciò che danneggia questo bene. Per questo sono previste punizioni corrispondenti alle norme esistenzialmente importanti in una determinata società. Un altro piano (il campo della moralità) è legato a categorie come coscienza, vergogna, virtù, rettitudine, onestà, che una persona apprende dalla famiglia, dalla religione, dalla cultura; ciò che rientra nella sfera della responsabilità personale per la sua scelta morale. Come sappiamo, il primo e il secondo non sempre coincidono, ed è di questo che parla, tra l'altro, il romanzo di Dostoevskij Delitto e castigo (1866). L'appello al "potere ultraterreno", alla ricerca di una giustizia superiore (e di un giudizio giusto) accompagna l'umanità lungo tutta la sua storia; ma è il cristianesimo (e in un certo senso anche l'Islam) a trasportare le questioni morali sul piano della scelta personale, e l'essere umano provoca danno morale da un crimine principalmente a se stesso. Nonostante il fatto che "la volontà di Dio sia su tutto", l'essere umano ha la libertà di prendere decisioni. Come insegnava Sant'Agostino, la grazia di Dio si estende ugualmente a tutte le persone, ma la libertà dell'uomo si manifesta nell'accettazione o nel rifiuto di questa grazia. Di conseguenza, la punizione che può colpire in questa vita è di natura trascendentale, e la vita quotidiana si trasforma in una scelta tra accettare la grazia o rifiutarla: "Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano; perché stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano" (Matteo 7:13-14). Da questo punto di vista, tutta la vita diventa una ricerca interiore della "porta stretta" e della strada giusta. È molto importante capire che una tale paradigma di vita si applica anche a coloro che non si considerano aderenti alla religione; in qualche modo esistiamo ancora nella tradizione culturale, nei geni della quale questo paradigma è incorporato, e la domanda su cosa ci guidi lungo il cammino della vita – i comandamenti di Cristo o il "cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi" di Kant – è piuttosto una questione terminologica. "Cosa è buono e cosa è cattivo" è infatti una domanda fondamentale e sacramentale per la civiltà cristiana, ma non solo, la cui drammaturgia secolare è basata su una ricerca infinita di una risposta. La responsabilità personale e la scelta personale tra bene e male sono temi centrali nelle opere di Dante e Shakespeare, Bach e Čajkovskij, Hindemith e Schoenberg, Faulkner e Tolstoj e molti altri, e soprattutto, ovviamente, Dostoevskij, le cui idee sono importanti per persone in tutto il mondo. Delegare le questioni etiche all'IA elimina a priori la questione di distinguere tra male e bene su un piano personale. Se la fine della civiltà avverrà, come hanno previsto molti filosofi e futuristi, da Spengler a Fukuyama negli ultimi cento anni, accadrà insieme all'abolizione di questa questione per ogni individuo o, meglio, per la sua anima.
È significativo che il rating sociale sia stato testato e applicato con successo prima in Cina: l'etica confuciana e l'ideologia non presuppongono alcun potere trascendentale; tutti i problemi morali sono risolti sulla Terra; gli interessi individuali, nell'ambito di questa etica, sono totalmente subordinati a quelli generali; e se le leggi adottate per tutti sembrano a qualcuno ingiuste, il confucianesimo suggerisce di coltivare il "coraggio morale". Pertanto, la responsabilità personale per prendere decisioni morali è notevolmente ridotta e con l'introduzione del rating sociale è quasi eliminata (è interessante notare che la Cina è in prima linea nell'applicazione dell'IA nel campo dell'estetica. Ad esempio, lì sono molto popolari i concerti in cui un robot dirige musica composta da IA per un'orchestra).
D'altro canto, anche nel campo del diritto, che mira a una definizione obiettiva di "crimine e punizione", non tutto è chiaro in relazione alla risposta alla domanda: a chi, nel mondo digitale, è delegata la soluzione della questione "cosa è buono e cosa è cattivo"? La logica di determinare il soggetto di questa decisione si è storicamente mossa verso un aumento della spersonalizzazione: da un capo tribù, monarca o presidente di partito, a istituzioni pubbliche democratiche che hanno sancito numerosi codici e leggi. In nome della massima obiettività e imparzialità, la "corte suprema" è diventata non solo impersonale, ma anche senz'anima, "gettando via il bambino con l'acqua sporca". Nel mondo digitale, la "corte suprema" passa alla competenza dell'"intelligenza artificiale", "la più obiettiva di tutte le obiettive" (l'IA è già ampiamente utilizzata nella pratica giudiziaria in molti Paesi). Il numero, i numeri, sono il nuovo Dio che non è solo oggettivo, ma anche senz'anima, e questo gli impone inevitabili limitazioni. Per esempio, nella determinazione della verità: l'IA separa il vero dal falso per coincidenza/discrepanza con l'algoritmo; ma la verità spesso va oltre l'algoritmo e l'analisi matematica, come dimostrato nel secolo scorso da K. Goedel nel suo famoso "teorema di incompletezza". Per stabilire la verità su una persona, sono necessari strumenti umani. Lo stesso si può dire dell'uso dell'IA nell'arte: la pittura non è uguale alla composizione di colori, la musica non è uguale alla composizione di suoni, la poesia non è uguale alla composizione di parole. Senza la dimensione umana, che significa non solo l'operare algoritmi ma creare idee umane, l'arte cessa di essere arte.
Oggi non si possono negare i benefici pratici dell'IA. Ma esiste una linea oltre la quale il beneficio si trasforma nel suo opposto: il bene comune – in assenza di responsabilità personale e indipendenza, il desiderio di stabilità e sicurezza – nella perdita del diritto di scelta e nella completa subordinazione. Finché le questioni di moralità e bellezza saranno decise dalle persone e non dall'IA, l'essere umano rimarrà il suo padrone e signore, e non uno schiavo.
BIBLIOGRAFIA
Agostino. "Introduzione". Confessioni ed Enchiridion. Biblioteca dei Classici Cristiani. Tradotto da Outler, Albert C. Filadelfia: Westminster Press. Stampa, 1955
Creel, Herrlee Glessner. Confucio e la Via Cinese. New York: Harper, 1949
Dostoevskij Fëdor. *Delitto e Castigo*. Tradotto da Constance Garnett. eBook Project Gutenberg, 2001
Kostka, Genia. Il sistema sociale della Cina e l'opinione pubblica: spiegare gli alti livelli di approvazione. *New Media & Society*, 21(7), 2019
Internet non è una “nuvola” - Prima parte
Qualsiasi cosa si creda dell’universo ipertecnologico che l’umanità sta costruendo in questi anni, che si sia d’accordo coi tecno-ottimisti che vi vedono solo una sequenza sempre più accelerata di miglioramenti verso l’ibridazione felice uomo-macchina o con chi, a vario titolo e con ottime ragioni, ne denuncia le numerose insidie, certo è un dato: il mondo digitale non è e non sarà senza effetti sul piano dell’inquinamento e in generale dell’impatto ambientale.
È, questa, una circostanza che è stata lungamente oscurata dalla cortina fumogena della retorica del “progresso tecnologico” e continua ad essere un vero e proprio «impensato», si direbbe in Francia, a tre decenni ormai da quella rivoluzione tecnologica che ci fece entrare nel mondo dell’informatica e della Rete. Anzi, quelle allora “nuove” tecnologie (chi è un po’ in età tende ancora per pigrizia a trascinarsela, ma è forse giunto il momento di abolire l’espressione “nuove tecnologie”!) apparvero da subito, e in parte continuano ad essere percepite, come tecnologie “soft”, leggere, poco invasive sul piano dell’impatto ambientale. Non si rifletteva – e non si riflette ancora abbastanza – sul fatto che esse sono pur sempre prodotto di filiere industriali non meno inquinanti di quelle “tradizionali” (anzi, per certi aspetti, e per i materiali coinvolti, anche più inquinanti), che per funzionare l’insieme degli apparati necessita di energia, che va pur prodotta, e che infine diventano scarto e dunque vanno a inquinare la terra, le acque, l’aria. Come tutti i manufatti, del resto.
Le cose stanno un po’ cambiando negli ultimi anni, per fortuna: nel quadro della molto accresciuta sensibilità ecologica globale che ha posto attenzione sull’“impronta ecologica” di tante nostre attività quotidiane, anche l’insieme delle attività che compiamo online (una quantità sempre crescente “o per amore o per forza”) ha cominciato ad essere considerata sotto il riguardo del suo impatto ambientale.
E così, anche se l’ideologia dominante tende, comunque, a presentare quello digitale come un progresso senza controindicazioni, apportatore nient’altro che di benefici, un numero crescente di voci si sta sollevando a indicare appunto quello che potremmo chiamare il lato oscuro (non l’unico, peraltro) della società digitale. Libri, ricerche, articoli e servizi giornalistici e televisivi si moltiplicano e richiamano la nostra attenzione sul carattere materiale, pesante, inquinante del mondo digitale.
Di recente, per esempio, si è appreso che in Irlanda il consumo di energia elettrica dei data center ha ormai superato quello necessario per l’illuminazione dell’intero paese,[1] mentre il “Washington Post” ci informa sull’enorme bisogno di energia che sta mettendo a dura prova le reti energetiche statunitensi, anche, da ultimo, per le necessità dell’Intelligenza Artificiale.
Ora, il recente volume di Giovanna Sissa, Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale (Bologna, Il Mulino, 2024) è un’ottima porta d’accesso, chiara e riccamente documentata, a questo enorme problema della contemporaneità. La scelta dell’autrice, docente presso la scuola di dottorato STIET dell’Università degli studi di Genova, è di concentrarsi sull’impatto ambientale del mondo digitale in particolare in termini di emissioni carboniche, da cui evidentemente il titolo. Sì, perché, mentre non sfugge a nessuno che un’acciaieria abbia un certo impatto ambientale in termini di emissioni, appare quasi incredibile che un impatto altrettanto pesante lo abbia anche il digitale: ma come, consultare un sito, ordinare una pizza con l’app, mandare un messaggino ecc. ecc. sono operazioni… inquinanti? Sembra impossibile, ma è così. Naturalmente per comprenderlo – ed è merito dell’autrice guidare il lettore in questo percorso di scoperta – è necessario, metaforicamente, sollevare gli occhi dal proprio schermo (o sollevare la testa dal proprio… smartphone, ciò che in questo momento sembra assai arduo alla nostra umanità tecno-ipnotizzata!) e guardare, o pensare, alle spesso lunghissime filiere industriali che sono alla base della produzione dei dispositivi con i quali le nostre attività digitali possono esistere.
PROCESSI DI PRODUZIONE (EMISSIONI INCORPORATE)
Ed è proprio considerando queste filiere che ci si rende conto di come la produzione dei dispositivi che tutti usiamo per fruire della rete e dei beni e servizi digitali comporti naturalmente un notevole dispendio di energia e dunque di emissioni. Un primo aspetto dell’impatto ecologico del digitale, infatti, consiste in quelle che vengono definite embodied emissions (o emissioni incorporate), quelle cioè dovute al processo di produzione, ma anche di (eventuale) scomposizione e riciclo dei dispositivi (da distinguere dalle operational emissions, ovvero le emissioni che avvengono nella fase di utilizzo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo).[2] Il processo di produzione dei dispositivi digitali comporta, innanzitutto, una straordinaria mobilitazione di materia: minerali un tempo usati solo in modo marginale o per nulla sono oggi essenziali per il funzionamento dei nostri feticci tecnologici (per fare solo qualche esempio: il tungsteno che permette ai nostri smartphone di… vibrare; il gallio, contenuto nella bauxite, che permette di realizzare la retroilluminazione; il litio per le batterie e così via). Molti di questi metalli sono noti come terre rare, e sono definiti così non perché rari (non tutti lo sono), ma perché presenti in modo discontinuo e non concentrato, e dunque necessariamente oggetto di complessi processi industriali di estrazione, a loro volta implicanti notevoli emissioni. La qualità di questi materiali, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione dei nuovi chip miniaturizzati, dev’essere poi ultra-pura – segnala l’autrice, molto attenta a tale aspetto – e questo comporta processi industriali di raffinazione estremamente specializzati e costosi e, essi pure, assai inquinanti.
L’ammontare delle emissioni determinate dal processo di produzione dei dispositivi è poi reso più cospicuo dal fatto che quella informatica è una industria strutturalmente globale, costruita lungo filiere ramificate e lunghissime e che attraversano i continenti, per cui tutte le materie prime e i semilavorati, e infine i prodotti di questa industria debbono essere spostati per il mondo, con relativo dispendio energetico.
Si può, insomma, sintetizzare così, con le parole dell’autrice: «L’impatto di un dispositivo digitale sull’ambiente, cominciato dal momento in cui sono state estratte le materie prime, si accresce processo dopo processo, continente per continente, laboratorio per laboratorio, fabbrica per fabbrica. Se l’estrazione delle materie prime comporta un forte utilizzo di energia primaria, non è certo da meno la fabbricazione dei componenti» (Cit. p. 32).
È qui opportuno osservare una cosa. Si potrebbe pensare che il processo di continua miniaturizzazione che interessa il mondo dell’informatica, quasi una sua “legge”, favorisca un più basso impatto: è ovvio che potenza sempre maggiore espressa da supporti sempre più ridotti (microchip sempre più piccoli, devices sempre più piccoli, ma sempre più efficienti) comportano minore prelievo di materia. Ciò è vero per il singolo dispositivo, ma un po’ meno se si ragiona sul piano “aggregato”, come dicono gli economisti: è vero che i dispositivi consumano di meno e richiedono meno materia, ma poiché si stanno moltiplicando all’inverosimile, nel complesso le esigenze di estrazione di materia crescono esponenzialmente. Basti pensare che – per dare solo pochi dati – dal 2007 al 2022 sono stati venduti 15.224.000.000 di smartphone, oltre a 5 miliardi di pc, tecnologia ormai “recessiva” e comunque più matura; se poi andiamo a vedere le vendite annuali di smartphone, scopriamo che dal 2014 il numero oscilla tra 1,2 e 1,5 miliardi, mentre per i pc oscilla tra i 250 e i 350 milioni.[3] Va poi tenuto conto che gli smartphone, i pc, o i tablet rappresentano solo una frazione dell’insieme di dispositivi connessi che popolano (e sempre più popoleranno) le nostre società e che vanno sotto il nome di Internet delle cose (IoT: Internet of Things): tale immensa mole di dispositivi connessi ammontava, nel 2021, a circa 11 miliardi di oggetti, che è stimato diventeranno 30 miliardi nel 2030 (Cit. p. 28).
Se a tutto ciò si aggiunge il ritmo sempre più vorticoso di sostituzione dei dispositivi cui siamo indotti dai meccanismi della obsolescenza programmata insieme alla pressione della pubblicità (e al netto dell’acqua fresca retorica degli ultimi anni sull’uso responsabile, il consumo critico ecc.), si capisce che siamo di fronte a un bel problema: «se da un lato (…) il materiale per il singolo componente tende al limite di zero – e ciò porterebbe a dedurre una disponibilità illimitata di risorse –, dall’altro il suo sfruttamento tende all’infinito» (Cit. p. 27-29).
EMISSIONI OPERATIVE
Alle emissioni che sono necessarie per il processo di produzione dei dispositivi, e che stanno per così dire “a monte” dell’universo digitale, le emissioni incorporate, si aggiungono poi quelle prodotte dall’uso della rete stessa, dal funzionamento di tutte le sue applicazioni, dal dialogare oggi sempre più fitto tra i dispositivi (oggi – non lo dimentichiamo – una quota crescente della complessiva attività della rete è tra macchine e non dipende da qualcuno che armeggia su una tastiera da qualche parte): sono, queste, le emissioni operative. Si tratta – come si vedeva in apertura – dell’aspetto che sta avendo la maggiore copertura giornalistica, forse anche perché il fenomeno dell’aumento dei consumi energetici (dovuto tra l’altro ai grandi data-center) si impone di per sé all’attenzione di decisori politici e comunità.
Quando si fa una comune ricerca in rete, o ci si serve di qualche servizio online, o si guarda un video ecc., non c’è infatti solo il proprio consumo casalingo, ben noto a tutti in quanto parte del consumo elettrico che poi uno si ritrova in bolletta (un consumo peraltro, in questo caso, quasi sempre abbastanza basso, rispetto agli altri elettrodomestici…), ma c’è un consumo elettrico dovuto a tutte le interazioni cui quella ricerca, quel servizio richiesto dal proprio dispositivo danno luogo. E in questo caso sono fenomeni che avvengono lontano da noi e che noi non registriamo in alcun modo, spesso neppure immaginiamo. E sono fenomeni che stanno conoscendo una crescita spaventosa, secondo il ritmo di crescita della digitalizzazione di sempre nuove attività e dominî della vita sociale. Anche in questo caso, un solo dato che parla da solo: sembra che oggi si producano quotidianamente 5 exabyte di dati (1 exabyte = 1 miliardo di miliardi di byte), che equivale alla massa complessiva di dati prodotti dalla nascita dell’informatica al 2003 (sì, proprio così!).[4]
Ebbene, per elaborare e gestire tutta questa impressionante mole di dati serve energia, e per produrre energia si producono emissioni.
Particolare peso hanno in questo fenomeno i data center, questi snodi fondamentali dell’attuale architettura della rete su cui oggi – lo vedevamo sopra – si sta appuntando una certa attenzione della stampa. Strumento fondamentale del cloud computing, la modalità oggi prevalente di funzionamento ed erogazione dei servizi e contenuti digitali,[5] i data center sono concentrazioni di server che devono stare accesi costantemente, e che garantiscono, da remoto, il funzionamento delle attività che ogni utente finale svolge online: le dimensioni possono andare dai piccoli data center poco più grandi di un appartamento a quelli giganteschi, che possono giungere alle dimensioni di una grande fabbrica. Qui la “popolazione” di computer accesi H24 sviluppa un notevole riscaldamento che dev’essere contenuto, mediante impianti di raffreddamento, attraverso l’acqua o altri strumenti.
E tutto ciò che abbiamo detto, inesorabilmente, costa dispendio energetico crescente, che potrebbe raggiungere, secondo alcune stime, il 14% del consumo elettrico complessivo nel 2030.[6]
Mica male, per una tecnologia leggera.
(1 / continua in una prossima
uscita di Controversie)
NOTE
[1] Il dato, riportato dall’ufficio statistico nazionale, si riferisce al 2023, quando è stato rilevato che il consumo di energia elettrica dovuto ai data center (molto numerosi in Irlanda, grazie alle ben note politiche fiscali di favore) è stato pari al 21% di tutto il consumo di elettricità misurato, mentre quello necessario per l’illuminazione delle abitazioni è stato pari al 18% (cfr. Biagio Simonetta, Irlanda, i data center usano più elettricità di tutte le abitazioni, “Il Sole 24 Ore”, 25 luglio 2024, p. 5).
[2] Le emissioni incorporate sono anche definibili come «la somma dei processi estrattivi, costruttivi e di smaltimento a fine vita» dei nostri dispositivi elettronici (Ivi, p. 86). Sono dunque da considerarsi tali anche le emissioni necessarie per i processi di smaltimento/riciclo, che sono essi pure processi industriali anche molto complessi.
[3] I dati sono tratti da Juan Carlos De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, Torino, Add, 2023, p. 63-66 e da Giovanna Sissa, Le emissioni segrete, cit., p. 27 e ss.
[4] Il dato si trova in Guillaume Pitron, Inferno digitale. Perché Internet, smartphone social network stanno distruggendo il nostro pianeta, Roma, Luiss University Press, 2022, p. 71.
[5] Ed è curioso notare come, anche grazie all’uso di espressioni come queste (cloud, “nuvola”), si suggerisca sempre per il mondo della rete una immagine di leggerezza.
[6] Cfr. Kate Crawford, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA, Bologna, Il Mulino, 2021.
BIBLIOGRAFIA
Evan Halper e Caroline O’Donovan, AI is exhausting the power grid. Tech firms are seeking a miracle solution, “Washington Post”, June 21, 2024, tr.it.: Le aziende tecnologiche assetate di energia, “Internazionale”, n. 1569, 28 giugno 2024, p. 32-33
Giovanna Sissa, Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale, Bologna, Il Mulino, 2024
Come si fa un premio Nobel
COME L’HA FATTO ALFRED NOBEL
Il premio nasce con la volontà testamentaria di Alfred Nobel che istituisce – con il 94% del suo notevole patrimonio[1] - un fondo di investimenti:
«La totalità del mio residuo patrimonio realizzabile dovrà essere utilizzata nel modo seguente: il capitale, dai miei esecutori testamentari impiegato in sicuri investimenti, dovrà costituire un fondo» [2] i cui interessi «si distribuiranno annualmente in forma di premio a coloro che, durante l'anno precedente, più abbiano contribuito al benessere dell'umanità»
Il premio riconosce, nel campo scientifico, «la scoperta o l'invenzione più importante nel campo della fisica», «la scoperta più importante o apportato il più grosso incremento nell'ambito della chimica», «la maggior scoperta nel campo della fisiologia o della medicina».
Poi, riconosce un premio per l'ambito della letteratura e uno per «la persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l'abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l'incremento di congressi per la pace.»
L’Alfred mecenate delle scienze, della pace e della letteratura è proprio “quel” Nobel, il “mercante di morte”[3], l’imprenditore, chimico, ingegnere e inventore della dinamite e di numerosi altri esplosivi – alla sua morte detiene 355 brevetti - che ha accumulato l’enorme fortuna poi destinata al premio grazie alle applicazioni civili (in parte minore) e militari (in parte più consistente) delle sue esplosive invenzioni.
La devoluzione del patrimonio per stimolare e premiare la ricerca scientifica, la letteratura e gli sforzi di pace è – quindi – una sorta di riparazione, un tentativo di auto-assoluzione per la creazione degli strumenti di morte.
STILE DI PENSIERO, ROMANTICO E POSITIVISTA. MA NON DEL TUTTO
La lettura del testamento, molto conciso, deve aver lasciato piuttosto male i nipoti maschi a cui Alfred ha destinato “solo” un centinaio di migliaia di corone a testa (forse 7-8 milioni di dollari attuali) e ancora peggio le due nipoti femmine, con 50.000 corone a testa - subito si coglie la differenza di trattamento, normale per i tempi, tra gli eredi di sesso maschile e quelle di sesso femminile – togliendo dall’asse ereditario familiare il grosso della fortuna, i 31 milioni di corone che vanno a costituire il fondo per il Premio Nobel.
A chi viene destinato il Premio, nelle ultime volontà di Nobel?
A delle persone, “to the person who made” testualmente; questo spezzone di frase tradisce l’influsso romantico, l’esaltazione della creatività dell’uomo[4], della immaginazione artefice, del pensiero intuitivo che si pone in contrapposizione con la razionalità illuminista. Il premio non va a dei gruppi, non a delle istituzioni, ma a dei singoli individui (in numero massimo di tre) meritevoli di aver fatto le più importanti scoperte o avanzamenti nel loro campo di studio.
Singoli individui che – da soli – hanno favorito lo sviluppo e il benessere dell’umanità.
Sempre dalle parole del testamento si possono cogliere indizi dello stile di pensiero[5] positivista che ne informa le scelte e, anche, qualche contraddizione sommersa.
Nobel è convinto, come è ovvio per un chimico, scienziato e inventore del XIX secolo, nel mezzo dell’onda positivista, che le scienze, le scoperte scientifiche siano il modo migliore per comprendere la realtà, le scoperte siano conquiste e le conquiste un veicolo di progresso, che aprono la strada ad applicazioni che migliorano il benessere dell’umanità.
Però, quella frase « a coloro che, durante l'anno precedente, più abbiano contribuito al benessere dell'umanità» da una parte, cela la tremenda relazione tra scoperta scientifica e distruzione che ha caratterizzato il lavoro di Nobel e, dall’altra parte sembra essere un monito – del mercante di morte pentito affinché la scienza (e il Premio) evitino di focalizzarsi sul versante mortifero, distruttivo, della ricerca.
Questo monito – in qualche modo - anticipa la critica allo scientismo, la critica alla narrazione della scienza sempre buona in sé, neutrale, che genera il male solo se usata male (dai politici, ad esempio) e che assolve sempre lo scienziato, che deve solo pensare a sviluppare la sua ricerca.
Alfred Nobel, seppure negli ultimi anni della sua vita, in contrasto con la visione positivista e scientista ottocentesca, si prende la responsabilità delle sue creazioni letali e non si nasconde dietro alla pretesa di neutralità del lavoro scientifico.
In conclusione, l’istituzione del premio sembra essere una sintesi tra l’approccio alle scienze del secolo positivista, l’individualismo romantico, e il prodromo di critica anti-scientista che, forse, prova a tracciare la strada di una scienza responsabile.
COME SI FA, OGNI ANNO, IL NOBEL
L’assegnazione di un Premio Nobel – ad esempio, per la fisica[6] - segue un processo articolato che coinvolge un numero elevato di persone, fisici, professori e ricercatori, teorici e sperimentali, di rilevanza svedese e mondiale.
Responsabile della selezione dei candidati e della scelta del premiato è l’Accademia Reale Svedese delle Scienze, in particolare il Comitato del Nobel per la fisica, composto da 8 membri – quasi tutti svedesi, tutti che lavorano in università svedesi. Il processo prevede una preselezione, la discussione con un panel di esperti, una selezione dei candidati finali da discutere con i 75 membri della Academy Class of Phisycs. La scelta finale del Laureate a cui viene assegnato il premio viene fatta dal solo Comitato per la Fisica.
Può essere interessante capire chi sono – oggi - i fisici a cui viene esteso l’invito a nominare i candidati; si tratta dei Membri dell’Accademia delle Scienze Svedese e del Comitato per la Fisica, dei precedenti premiati per la fisica, dei professori con cattedra in Fisica di ruolo nelle Università e negli Istituti tecnologici scandinavi, di alcune centinaia di cattedratici in fisica di università di tutto il mondo, in modo da garantire una adeguata copertura geografica e, infine, altri scienziati che – discrezionalmente – l’Accademia ritenga adeguati.
Per dare un’idea della caratura dei nominators, nel 1955 furono invitati 57 scienziati, tra cui Wolfgang Pauli, Max Born, Jaques Hadamard, Otto Hahn, Luis Victor e Maurice de Broglie, Thomson, Occhialini, Benedetto Rossi, Werner Heisenberg.
I vincitori furono Polykarp Kusch e W.E. Lamb, rispettivamente per la scoperta della struttura fine dell’elettrone e del momento magnetico, sempre dell’elettrone, entrambi nel 1947.
Una delle regole del Premio è che le scoperte siano il più possibile “tested by time”, cioè abbiano confermato nel tempo la loro validità e rilevanza. Spesso, infatti, sono premiati scienziati che hanno raggiunto i loro risultati molti anni prima, anche più di 50, il 38% dei premi si riferisce a ricerche di più di 20 anni prima.
Questo sembra essere una garanzia contro la fretta e le mode.
I criteri da rispettare per le candidature, dichiarati nella scheda di segnalazione, sono semplici e abbastanza standard per la valutazione di lavori di ricerca: «i paper devono essere focalizzati su ricerche regolari di Fisica e la Fisica deve essere l’argomento dominante; devono contenere risultati nuovi, originali e interessanti ottenuti dall’Autore in teorie, esperimenti o realizzazione di strumenti e device».
Ecco, pare che si sia perso un carattere peculiare del lascito di Nobel: il contributo al progresso dell’umanità dei lavori proposti. Nella ricerca delle candidature questo obiettivo sembra essere sottinteso oppure, forse, questo è un segno dell’ancora prevalente principio positivista e scientista che pretende che ogni scoperta scientifica sia un passo verso il progresso e il benessere dell’umanità.
In aperto contrasto con la critica e il senso di responsabilità di Nobel, le cui scoperte hanno avuto, invece e palesemente, effetti distruttivi e forieri di grandi malesseri per tutta l’umanità.
DISTORSIONI E OPPORTUNITÀ
Ci sono, sicuramente, ampie possibilità di parzialità, di dominio degli stili di pensiero del momento (il premio per la Fisica del 1955 ne è una prova, tra i Nominator c’era una maggioranza di fisici quantistici e il premio fu assegnato a ricerche quantistiche), di concentrazione geografica (quasi il 50% dei premiati è statunitense), di pregiudizi (le donne premiate sono pochissime, a volte sono state escluse dalla lista seppur determinanti per la ricerca premiata), di esclusione (il criterio di 3 premiati è restrittivo per l’attuale conformazione per gruppi della ricerca).
Sappiamo, però, che le scienze sono sempre fortemente influenzate da come funziona la società e il Nobel – che è comunque espressione del mondo scandinavo – non sfugge a questa regola.
Inoltre, il processo particolarmente articolato, la presenza di una grande pluralità di soggetti, insieme al criterio di validità testata dal tempo e alla adesione della Fondazione ai principi testamentari di Nobel sembrano far sperare che la scelta dei premiati rispetti il desiderio del fondatore che scienziati e accademia si prendano la responsabilità di quello che fanno, rifuggendo l’aura di neutralità di cui si vuole ammantare il lavoro scientifico e, veramente, favoriscano e premino le ricerche che realmente creano benessere.
NOTE
[1] 31 milioni di Corone Svedesi del 1895, forse paragonabili a 2,5 miliardi di dollari US attuali (stime approssimative dell’autore)
[2] La traduzione dei passi del testamento è tratta da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Premio_Nobel
[3] Così viene definito da alcuni giornali francesi nel 1888, quando morì il fratello Ludvig.
[4] Nell’ottocento le locuzioni “dell’uomo” e “umano” sono del tutto equivalenti.
[5] Cfr.: Fleck L., Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, 1983
[6] Ci limitiamo, per brevità, a considerare quello per la fisica che è, però, caratterizzato dal processo più complesso e articolato
Attribuiamo troppa autorità ai Premi Nobel?
Una delle maggiori onorificenze in ambito scientifico è il Premio Nobel. Questo riconoscimento di valore mondiale viene attribuito annualmente a personalità di spicco che si sono distinte in diversi campi dello scibile umano - come la fisica, la chimica, la medicina, la letteratura e la pace - portando benefici all'umanità attraverso le loro ricerche, scoperte e invenzioni.
Ricevere questo prestigioso riconoscimento è il risultato di un processo lungo e articolato. La selezione dei premiati per le categorie scientifiche è affidata a istituzioni scientifiche e culturali svedesi.
Il processo di selezione inizia quando il comitato invita annualmente, generalmente a settembre dell’anno precedente alla vincita effettiva, un vasto numero di esperti e personalità di spicco nel proprio settore a proporre candidati meritevoli. Questi esperti possono essere membri dell'Accademia Reale Svedese delle Scienze, scienziati, accademici e altri professionisti riconosciuti a livello internazionale. Le richieste di nomina vengono inviate a centinaia, talvolta migliaia di persone in tutto il mondo. È importante notare che le autocandidature non vengono prese in considerazione.
Una volta raccolte le candidature, il Comitato Nobel esamina attentamente tutte le proposte e compila una lista ristretta di nominati. Dopo approfondite valutazioni e discussioni, il comitato di esperti si riunisce per eleggere i vincitori dei vari premi, che vengono annunciati pubblicamente in ottobre e premiati in una cerimonia ufficiale il 10 dicembre, anniversario della morte di Alfred Nobel.
Dal 1901, anno della prima assegnazione del Premio Nobel, solo quattro persone hanno avuto l'onore di vincerlo più di una volta. Tra questi illustri scienziati ricordiamo Marie Skłodowska Curie, che lo vinse nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica; John Bardeen, che ricevette il Nobel per la fisica nel 1956 e nel 1972; Frederick Sanger, vincitore del Nobel per la chimica nel 1958 e nel 1980; e Linus Pauling, che ottenne il Nobel per la chimica nel 1954 e il Nobel per la pace nel 1962.
La famiglia Curie rappresenta uno dei casi unici nella storia dei Premi Nobel, avendo accumulato ben cinque premi tra i suoi membri. Marie e suo marito Pierre Curie condivisero il Nobel per la fisica nel 1903, mentre Marie lo vinse nuovamente per la chimica nel 1911. Loro figlia, Irène Joliot-Curie, insieme al marito Frédéric Joliot, vinse il Nobel per la chimica nel 1935.
I CANDIDATI NON LO SANNO
Ora, in realtà, lo saprebbe solo dopo 50 anni. Le candidature al Nobel rimangono infatti segrete per almeno mezzo secolo, e gli archivi vengono resi pubblici solo dopo questo periodo. Gli unici che vengono informati della loro candidatura sono i vincitori effettivi del Nobel di quell'anno. Per farvi capire meglio: i candidati ai Premi Nobel del 2024, se tutto procede come di consueto, scopriranno di essere stati candidati nel 2074.
Questo fatto ci può mettere in guardia contro affermazioni non accurate. Se qualcuno dichiara: "Sono stato candidato al Premio Nobel", è opportuno essere scettici, poiché, data la riservatezza che circonda le candidature, è improbabile che ne sia effettivamente a conoscenza. A meno che non sia estremamente anziano, è più probabile che tale affermazione non sia fondata.
PRESTIGIO E AUTOREVOLEZZA?
Tuttavia, non è tutto oro ciò che luccica: ricevere il Premio Nobel conferisce una posizione di prestigio sia all'interno sia all'esterno della comunità scientifica, ma questa posizione può non essere utilizzata in modo virtuoso; è accaduto – infatti - che alcuni eccellenti scienziati, dopo aver ricevuto il premio, abbiano iniziato a sostenere posizioni discutibili dal punto di vista della fondatezza e – spesso – poco attinenti con il loro campo di studi. Specialmente se rivolte un pubblico di massa, le opinioni di questi scienziati hanno avuto un impatto profondo proprio a causa del prestigio conferito dal Nobel.
Un esempio noto di posizione discutibile assunta da un vincitore del Nobel è quello di Kary Mullis, il biochimico statunitense che sviluppò la reazione a catena della polimerasi (PCR), una tecnica rivoluzionaria per la biologia molecolare che gli valse il Premio per la Chimica nel 1993. Mullis era noto per le sue idee eccentriche[1] e per il suo scetticismo verso alcune fondamentali teorie scientifiche. In particolare, negò la correlazione tra HIV e AIDS, sostenendo che il virus HIV non fosse la causa della malattia.
Un altro caso emblematico è quello di Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008 per la co-scoperta del virus HIV. Negli anni successivi, Montagnier iniziò a sostenere teorie già allora non supportate dalla comunità scientifica e oggi decisamente confutate, tra cui la "memoria dell'acqua", un concetto associato all'omeopatia che suggerisce che l'acqua possa conservare una "memoria" di sostanze precedentemente disciolte in essa. Propose persino che le sequenze di DNA potessero emettere onde elettromagnetiche rilevabili nell'acqua, ipotesi che non ha trovato riscontri sperimentali.
Infine, possiamo citare Linus Pauling, unico individuo ad aver ricevuto due Premi Nobel non condivisi: uno per la Chimica nel 1954 e uno per la Pace nel 1962 (se siete stati attenti, vi sarete accorti che l’ho citato un’altra volta in questo articolo). Nonostante i suoi innegabili contributi scientifici, Pauling divenne un fervente sostenitore della "medicina ortomolecolare", promuovendo l'assunzione di megadosi di vitamine e altre sostanze come metodo per prevenire e curare una vasta gamma di malattie, incluso il cancro. Tuttavia, numerosi studi clinici hanno dimostrato che tali terapie non hanno l'efficacia proclamata da Pauling.
Il problema comune a queste situazioni è che questi scienziati hanno avanzato tesi senza supportarle con dati verificati e verificabili.
Nel mondo delle scienze, il principio di autorità non ha valore: le affermazioni devono essere sostenute da evidenze empiriche e sottoposte al vaglio critico della comunità scientifica. Per quanto un Premio Nobel possa arricchire un curriculum, nessuno è immune dal rischio di incorrere in errori o di sostenere idee infondate. Gli spropositi sono sempre in agguato e il pensiero critico rimane un baluardo fondamentale per il progresso scientifico.
BARRIERE
Un altro aspetto che merita una profonda riflessione è il seguente: secondo uno studio pubblicato su The Lancet nel 2019, solo il 2,2% di tutti i Premi Nobel assegnati dal 1901 è stato conferito a donne. Questo dato ha portato a critiche rivolte al comitato Nobel per aver trascurato i contributi femminili nel campo della scienza.
L'analisi condotta dal team di ricerca suggerisce che le donne nominate per il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina e per il Premio Nobel per la Chimica avevano le stesse, se non maggiori, probabilità di vincere rispetto ai loro colleghi uomini nelle stesse categorie. Tuttavia, storicamente, le scienziate sono state spesso lasciate in secondo piano, nonostante abbiano contribuito in modo significativo al progresso scientifico.
Purtroppo, senza dati recenti sulle candidature ai premi, è difficile identificare le barriere nei processi di nomina o selezione che impediscono alle donne meritevoli di ricevere questi riconoscimenti. Sarebbe quindi auspicabile che la Fondazione Nobel rendesse disponibili in modo trasparente tutti i dati sulle nomine e sul genere, per comprendere meglio le ragioni di questa disparità e lavorare verso un riconoscimento più equo dei contributi delle scienziate.
CONCLUSIONI
In conclusione, possiamo chiudere con tre considerazioni:
- Da sempre le donne svolgono un ruolo cruciale in tutti gli ambiti, inclusa la scienza. È essenziale riconoscere e valorizzare il loro contributo per promuovere un progresso autentico e inclusivo.
- Se qualcuno si autodefinisce "Candidato al Premio Nobel", è opportuno mantenere un sano scetticismo, poiché le candidature rimangono segrete per almeno 50 anni.
- Il principio di autorità non ha valore nella scienza. Pertanto, quando qualcuno presenta una tesi, è fondamentale valutare le evidenze e i dati verificabili che la supportano.
Il Premio Nobel simboleggia l'apice dell'ingegno umano e dell'impegno nel migliorare la condizione dell'umanità. Tuttavia, come abbiamo esplorato, il percorso della scienza non è privo di ostacoli e paradossi. La storia ci insegna che il progresso autentico si ottiene non solo attraverso scoperte rivoluzionarie, ma anche grazie a una comunità scientifica che valorizza l'integrità, l'inclusività e la critica costruttiva. È essenziale riconoscere che ogni voce, indipendentemente dal genere o dal prestigio, può contribuire significativamente alla conoscenza collettiva.
Come sosteneva il filosofo Karl Popper, la scienza avanza per tentativi ed errori, e l'apertura al confronto è fondamentale. Coltiviamo dunque uno spirito critico, valutiamo le idee sulla base delle evidenze e promuoviamo un ambiente in cui tutti possano partecipare pienamente al meraviglioso viaggio della scoperta scientifica. Solo così potremo costruire un futuro in cui il sapere sia realmente patrimonio di tutti e per tutti.
NOTE
[1] Kary Mullins nelle sue memorie, raccontò esperienze legate all’uso massiccio di droghe, oltre a strani incontri con procioni parlanti e presunti rapimenti alieni.
BIBLIOGRAFIA
- https://www.focus.it/cultura/storia/la-nascita-del-premio-nobel-una-storia-di-armi-strafalcioni-e-ripensamenti
- https://it.wikipedia.org/wiki/Premio_Nobel
- Erik Jorpes, “Alfred Nobel”, in British Medical Journal. Link Diretto: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1992347/pdf/brmedj02952-0013.pdf
- https://www.wired.it/scienza/lab/2019/12/07/sindrome-nobel-bufale-premiati/
- Mahmoudi, J. A. Poorman, J. K. Silver, “Representation of women among scientific Nobel Prize nominees”. DOI: 10.1016/S0140-6736(19)32538-3 ; Link diretto all’articolo: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(19)32538-3/fulltext
Nobel nelle scienze: una questione di genere?
Ogni anno vengono assegnati sei premi Nobel, di cui quattro nelle scienze: chimica, fisica, medicina ed economia. Inoltre, molto spesso, ciascun Nobel viene assegnato a 2 o 3 persone. Per cui abbiamo un’abbondanza di vincitor*.
Una cosa che salta subito all’occhio è che, nella storia di questa istituzione, solo poche donne sono state insignite del Premio (Cole 1987, Wade 2002). Infatti, i Premi Nobel e i Premi per l’economia, tra il 1901 (anno di prima assegnazione) e il 2024, sono stati assegnati a donne 58 volte (solo una donna, Marie Curie, è stata premiata due volte). A fronte di 57 donne, nello stesso periodo, i vincitori uomini sono stati… 902[1].
Scartando l’ipotesi (in auge nei secoli passati) che le donne siano intellettualmente inferiori, ci troviamo dinnanzi a un’enorme sotto-rappresentazione della creatività e del contributo femminile nelle scienze.
Peraltro, interviene anche una seconda dimensione: molte delle donne Nobel non hanno avuto figli
(Stemwedel 2009). Infatti, se prendiamo le 11 donne Nobel vincitrici in fisica, chimica e fisiologia/medicina tra il 1901 e il 2006, e i 37 maschi che hanno ricevuto il Nobel nella stessa area e nello stesso periodo, e li compariamo su alcune variabili come anno di nascita, stato civile, numero di figli, premi ricevuti, livello di scolarizzazione e presenza di un Nobel tra i loro mentori, scopriamo che “le donne insignite del Nobel sono state significativamente meno orientate a sposarsi e a avere figli” (Stemwedel 2009)[2].
Questo vale, più in generale, anche per le donne (“semplicemente”) laureate. Quando le laureate hanno avuto figli ne hanno avuti meno dei colleghi maschi laureati (Charyton, Elliott, Rahman, Woodard and Dedios 2011: 203). Le autrici concludono che le più eminenti scienziate – rispetto ai colleghi maschi - tendono a scegliere di dedicarsi alla ricerca scientifica piuttosto che mettere su famiglia.
E’ possibile invertire la tendenza? Certamente sì, e le politiche di genere attuate degli ultimi anni vanno sicuramente in questa direzione. Però, il problema è: mediante queste politiche, quanto tempo ci vorrà per raggiungere un vero riequilibrio? Probabilmente, molti decenni.
Allora sorge un’altra domanda: si può fare qualcosa per accelerare questo lungo processo sociale e culturale? Probabilmente, sì. Le “azioni affermative” temporanee (giornalisticamente dette “quote rose”), l’assegnare dei coefficienti di valutazione (delle carriere scientifiche) diversi per donne e uomini (Gobo 2016), tenendo conto che le prime hanno spesso maggiori carichi di cura famigliare, e altri correttivi, potrebbero essere un rimedio temporaneo per accelerare il processo sociale e culturale.
Ma quando si propone questo, subito si levano cori che gridano “attacco al merito”, “ingiustizia al contrario”, “discriminazioni nel confronti dei maschi” e altre banalità.
Per cui, rassegniamoci ad avere un predomino maschile nell’assegnazione dei Nobel per ancora molti decenni e a vedere la parità di genere realizzata nel… 2070 (o giù di lì).
Però, come cantavano i Nomadi, ma noi (che scriviamo) non ci saremo…
BIBLIOGRAFIA
Charyton C., J. Elliott, M. Rahman, J. Woodard, and S. Dedios (2011). “Gender and Science: Women Nobel Laureates”. Third Quarter 45(3): 203–214
Cole, J. R. (1987). “Women in science”. In: Jackson, D. N. and J. P. Rushton (eds.) Scientific excellence: Origins and Assessment. University of Michigan: SAGE Publications: 359–375.
Gobo, G. (2016), The Care Factor: A Proposal for Improving Equality in Scientific Careers, in M. Bait, M. Brambilla and Crestani, V. (eds.), Utopian Discourses Across Cultures. Scenarios in Effective Communication to Citizens and Corporations, Bern: Peter Lang, pp. 157-183.
Stemwedel, J. D. (2009). ‘Engendered Species. Science, motherhood, and the Nobel Prize: have things gotten harder? Biochemical Evolution”. The Biochemical Magazine, 31(1): 62.
Wade, D. (2002). “Nobel Women”. Science 295(5554): 439.
[1] Se con ci credete, guardate https://it.wikipedia.org/wiki/Vincitori_del_premio_Nobel
[2] A onor del vero, le 11 donne che hanno vinto il Nobel negli ultimi 9 anni mostrano un significativo cambio di tendenza: sono tutte sposate e molte di loro hanno figli.