In teoria, la semplicità dovrebbe attrarci. Le soluzioni semplici sono meno costose, più eleganti, più facili da implementare. In pratica, ci troviamo costantemente ad aggiungere anziché togliere: funzioni, oggetti, procedure, parole, strutture. Questo comportamento non è soltanto una cattiva abitudine culturale o manageriale. È, in realtà, un tratto sistematico del nostro funzionamento cognitivo.
Uno studio pubblicato su Nature da Gabrielle Adams, Benjamin Converse, Andrew Hales e Leidy Klotz, tutti affiliati a università americane, documenta l’esistenza di un bias dell’addizione (“People systematically overlook subtractive changes”, Nature, 2021). Gli autori hanno condotto una serie di esperimenti in cui ai partecipanti veniva chiesto di migliorare oggetti, testi o situazioni. I risultati sono stati sorprendenti: in assenza di un suggerimento esplicito, i partecipanti tendevano quasi invariabilmente ad aggiungere qualcosa piuttosto che togliere.
Uno degli esperimenti più caratteristici prevedeva la stabilizzazione di una struttura asimmetrica costruita con mattoncini Lego. Ai partecipanti veniva mostrata una piattaforma instabile poggiata su un unico pilastro, come un tavolo con una sola gamba. L’obiettivo era far sì che la piattaforma reggesse un mattone. Ogni pezzo aggiunto costava dieci centesimi, mentre rimuovere era gratuito. La soluzione ottimale – togliere il pilastro sbilenco, lasciando che la piattaforma poggiasse direttamente sul piano sottostante – era semplice ed economicamente vantaggiosa. Ma solo il 41% la sceglieva. Tutti gli altri, aggiungevano mattoncini. Questo comportamento si è ripetuto in contesti anche molto diversi: dalla revisione di testi scritti alla progettazione di schemi architettonici, fino alla risoluzione di problemi astratti. Il pattern è rimasto costante: le persone tendono a trascurare le soluzioni basate sulla sottrazione. È come se la possibilità di togliere fosse invisibile al nostro pensiero spontaneo.
Questo bias potrebbe trovare una spiegazione alla luce di diversi meccanismi cognitivi già noti in letteratura. In primo luogo, si collega a ciò che Kahneman e Tversky hanno descritto come euristiche del giudizio: strategie rapide ma imperfette che utilizziamo per prendere decisioni in condizioni di incertezza. In questo caso, l’aggiunta rappresenta una risposta “di default”, più accessibile nella memoria operativa e più coerente con il desiderio di “fare qualcosa” per risolvere un problema.
In secondo luogo, il bias dell’addizione potrebbe essere interpretato attraverso il concetto di status quo bias (Samuelson & Zeckhauser, 1988). In questo caso le persone tenderebbero a preferire l’opzione che conserva gli elementi esistenti. Rimuovere qualcosa implica una modifica visibile dello stato attuale e può apparire più rischioso, anche quando è la scelta migliore. Inoltre, le decisioni sottrattive – ovvero quelle che comportano la rimozione di un elemento – generano spesso un maggior senso di rimpianto se l’esito non è positivo. Come mostrato da Kahneman e Miller, le azioni che modificano una situazione stabile sono più facilmente soggette a controfattuali (“se solo non avessi tolto quel pezzo…”) e dunque più dolorose da rivivere mentalmente.
Una ulteriore possibile spiegazione cognitiva potrebbe derivare dall’effetto endowment (Thaler, 1980): le persone attribuiscono maggiore valore a ciò che già possiedono. In termini cognitivi, una componente di un oggetto o di una soluzione diventa automaticamente parte dell’insieme “da preservare”, anche quando non ha alcuna funzione utile. La sua rimozione è percepita come una perdita.
Tornando allo studio di Adams e colleghi, un elemento particolarmente interessante è emerso quando i ricercatori hanno introdotto una semplice modifica: ricordare ai partecipanti, prima dell’esercizio, che anche la rimozione di elementi era una possibilità. Con questa minima manipolazione, il numero di soluzioni sottrattive è aumentato significativamente.
Questo suggerisce che il bias non dipende da un errore di valutazione – le persone, una volta rese consapevoli, riconoscono i benefici della sottrazione – ma da un difetto nel processo generativo delle soluzioni. È una cecità progettuale, una sorta di buco nell’immaginazione. E la cosa affascinante è che riguarda anche contesti “alti”: la burocrazia istituzionale, le politiche ambientali, i processi decisionali pubblici. La complessità, anche quando è inutile, ha un’aria rassicurante. Ma è spesso un inganno cognitivo, un’abitudine mentale più che una necessità razionale.
Lo sanno meglio di tutti i designer. Studi in questo ambito (Norman, 2002; Maier & Fadel, 2009) indicano come i designer inesperti preferiscano sempre “caricare” un progetto con nuove funzioni piuttosto che eliminare ridondanze.
Le implicazioni di questa distorsione non dovrebbero essere sottovalutate. Nei processi decisionali, nei modelli organizzativi, nella comunicazione pubblica, nella progettazione tecnologica, nella governance istituzionale, siamo costantemente portati a complicare le soluzioni. Ogni elemento aggiunto – che si tratti di una regola, un modulo, una funzione, un vincolo – sembra rassicurante. Ma ha un costo nascosto: aumenta la complessità, rallenta i processi, rende tutto meno adattabile e resiliente.
Essere consapevoli del bias dell’addizione non è sufficiente per evitarlo. Come per molte altre distorsioni cognitive, la consapevolezza è una condizione necessaria ma non sufficiente. Servono promemoria, checklist, strumenti di valutazione che mettano sistematicamente sotto i riflettori la possibilità di togliere, semplificare, ridurre.
La nostra mente non sembra fatta per sottrarre. Ma possiamo allenarla a vederne il valore. Come ci ricorda Dieter Rams, uno dei maestri del design minimalista, Good design is as little design as possible.
Oggi sappiamo che vale anche per il pensiero creativo. Anche questo articolo, probabilmente, sarebbe stato migliore, se avessi tagliato qualcosa.
BIBLIOGRAFIA
Adams, Gabrielle, Benjamin A. Converse, Andrew Hales, and Leidy Klotz. “People Systematically Overlook Subtractive Changes.” Nature, vol. 592, no. 7853, 2021, pp. 258–261.
Kahneman, Daniel, and Amos Tversky. “Choices, Values, and Frames.” American Psychologist, vol. 39, no. 4, 1984, pp. 341–350.
Kahneman, Daniel, and Dale T. Miller. “Norm Theory: Comparing Reality to Its Alternatives.” Psychological Review, vol. 93, no. 2, 1986, pp. 136–153.
Lovell, Sophie. Dieter Rams: As Little Design as Possible. Foreword by Jonathan Ive, Phaidon, 2024.
Maier, Jennifer R., and Georges M. Fadel. “Affordance-Based Design Methods for Innovative Design.” Design Studies, vol. 30, no. 4, 2009, pp. 383–410.
Motterlini, Matteo. Trappole mentali: Come difendersi dalle proprie illusioni e dagli inganni altrui. Rizzoli, 2008.
Norman, Donald A. Il design delle cose di tutti i giorni. Translated by R. Boggiani, Giunti, 2002.
Samuelson, William, and Richard Zeckhauser. “Status Quo Bias in Decision Making.” Journal of Risk and Uncertainty, vol. 1, no. 1, 1988, pp. 7–59.
Thaler, Richard H. “Toward a Positive Theory of Consumer Choice.” Journal of Economic Behavior and Organization, vol. 1, no. 1, 1980, pp. 39–60.
Autore
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Ha studiato filosofia, economia e scienze cognitive, rispettivamente, a Milano (Università degli Studi), Londra (London School of Economics) e Pittsburgh (Carnegie Mellon University). Professore ordinario di filosofia della scienza e Professor of Behavioral Change e titolare del corsi di Economia cognitiva e Neuroeconomia, Behavioral Change e Filosofia della scienza, all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. E' direttore scientifico del CRESA, Centro di Ricerca di Epistemologia Sperimentale e Applicata, e del Lab for Behavior Change per l’analisi biometrica e neuroscientifica.
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