Con Kafka, contro Kafka – Recensione a «Kafka. Pro e Contro» di Günther Anders

Nel 1934, esule a Parigi durante la “piena” nazista, Anders tenne presso l'«Institut d'Études Germaniques»un'importante conferenza su Kafka, per intercessione di Gabriel Marcel. La situazione era già kafkiana di per sé, ma a renderla ancora più surreale fu la conversazione con il direttore, tale Liechtenberg, che dapprima propose ad Anders di parlare di Stefan Zweig, poi accettò la proposta di Anders stesso, sostenendo di avere già sentito il nome del «per niente germanico» Kafka – così lo  definisci lo stesso Anders – e autorizzando l'evento. Davanti ad un uditorio che, eccezion fatta per la allora moglie di Anders – ovvero, niente meno che Hannah Arendt – e il di lui cugino Benjamin, del tema in questione probabilmente non sapeva nulla e mai aveva letto una sola riga di Kafka, Anders tenne quindi la sua conferenza in un clima di “straniamento” generale, parlando di un autore che, in patria come all'estero, era ancora praticamente sconosciuto. Dal punto di vista della critica letteraria è infatti sorprendentemente lungimirante quanto Anders riesca a presagire lo “spirito dei tempi” e ad ammonire i presenti sulla futura “moda kafkista” che avrebbe snaturato, alla lunga, il messaggio del  romanziere boemo. Anders, dunque, fin dal principio non tratta quest'autore come uno scrittore per i soli “iniziati” ma come un fenomeno “pop” e legge nella figura di Kafka il segno di un'intera epoca, profeticamente descritta in trasparenza nella “essenza metamorfica” della sua attualità.

Di che epoca stiamo parlando? Dell'epoca della tecnocrazia, ovviamente. Anders intuisce già durante gli anni dell'esilio il legame profondo che sottende alla società totalitaria che ha davanti – il fenomeno dell'hitlerismo – e alla caratteristica «impersonale» della tecnocrazia, che vede appunto in controluce nella lettura dei racconti kafkiani – e, in particolare, ne Il castello. Fa questo, in un senso ancora troppo analogico per essere espresso col rigore del concetto, ma non per questo meno attento rispetto agli anni successivi della maturità, in cui Anders tornerà ancora ad elaborare questa “critica della società tecnocratica” nei due volumi de L'uomo è antiquato, l'opera della sua «Kehre». Invece, la conferenza su Kafka era destinata a rimanere a lungo inedita – come, del resto, buona parte degli scritti andersiani degli anni dell'esilio – fino alla pubblicazione per C.H. Beck di Monaco, nel '51. Il saggio, subito accolto dalla stroncatura di Max Brod – nume tutelare di tutti i kafisti – inaugura così una feroce querelle che lo stesso Anders riporta poi, in appendice, nella ripubblicazione del testo per la raccolta dei suoi scritti estetici sull'uomo «senza-mondo», edita nel '84 sempre per C.H. Beck. Da tutt'altra parte, invece, il dibattito marxista risulterà ancora troppo acerbo e polarizzato per cogliere i nessi e le implicazioni sociali della lettura andersiana di Kafka, che ne critica la spoliticizzazione; si pensi, ad es., al convegno di critici “austro-marxisti” tenutosi a Libice nel '63, che Anders stesso cita come “dimostrazione per assurdo” della chiusura mentale della critica militante verso Kafka, da quel pulpito strumentalizzato per contrastare il diktat sovietico: propaganda contro la propaganda.

Quello che invece sfuggiva a Brod, e che Anders ribadisce, è che Kafka non rappresenta, per Anders ma anche più in generale, solamente un fatto letterario, ma soprattutto (forse innanzitutto) il primo esempio in letteratura di quella forza “spersonalizzante” che è la tecnica in quanto «apparato» o «impianto, dispositivo» (Gestell) impersonale. Emblematica, in tale senso, è l'interpretazione che Anders fornisce del «Castello» kafkiano come il luogo “anonimo” del potere. La «chiamata senza colui che chiama» è l'essenza fondamentale della ragione tecnica, che “piove” dall'alto sulle teste del malcapitato «agrimensore K.» reo di avere semplicemente fatto il suo lavoro, nel tentativo di entrare tra le mura del castello medesimo. L'inversione della colpa e della pena, stavolta evidente nell'altro romanzo di Kafka preso in analisi da Anders – ovvero il Processo – rappresenta invece la situazione di ricattabilità a cui costantemente i cittadini sono sottoposti nei regimi totalitari: tuttavia, l'elemento di novità espresso da Kafka ha ancora una volta molto più a che fare con la “tecnocrazia” che con il “tecnocrate” di turno, e riguarda precisamente la fine del nesso causale tra la colpa e la pena ad essa  commisurata. In sintesi, nel regno della tecnocrazia incontrastata non si tratta più di venire puniti perché colpevoli, ma viceversa si diventa colpevoli in base alla punizione a cui si viene condannati.

Nella lettura andersiana di Kafka, pertanto, l'elemento di critica letteraria è solo in apparenza predominante. La figura di K. come colui che è imprigionato nel «non-potere-arrivare-al mondo» è, in questo senso, in una sola sintesi la trascrizione autobiografica della condizione esule di Anders medesimo – e, in generale, dell'ebreo come tradizionalmente “errante” – ma anche, ad un tempo, il riassunto della situazione di “spossessamento” di cui l'uomo si trova ad essere vittima nelle società a stampo “tecno-totalitario” e, in tal senso, l'anticipazione e la premessa a tutto il successivo lavoro di  sviluppo di una critica alla “società tecnocratica” così definita, in Anders. Motivi successivi, quali il celebre tema della «vergogna prometeica», trovano già una loro prima formulazione autonoma nelle pagine del saggio su Kafka; oppure, la cosiddetta «religiosa irreligiosità» che, per Anders, pervade l'intero corpus letterario kafkiano, può certamente essere ricondotta con facilità alle riflessioni sulla “religione immanente” nell'età della tecnocrazia che lo stesso Anders sviluppa in seguito. Da questo punto di vista, Anders lettore di Kafka non è soltanto un aiuto per la comprensione della caratura del romanziere boemo, ma anche uno strumento per l'elaborazione concettuale di una vera e propria sua originale “teoria critica” della tecnocrazia, com'era appunto intenzione del filosofo stesso.

Con Kafka, quindi, ma anche contro Kafka: contro l'elevazione ad idolo dell'immagine che il romanziere boemo mette in luce; contro la psicopatologia della vita nella società tecnocratica: con il sostegno di Kafka, ma non a favore del suo appiattimento in una «Kafka-mode». Anders forse non è il lettore che Kafka poteva aspettarsi, ma certamente è stato l'interprete di cui Kafka aveva bisogno.


Le società tecnocratiche della disciplina e del controllo - Deleuze, Foucault e Kafka

LA SOCIETÀ DELLA DISCIPLINA

La società della disciplina è qualcosa del passato.

È una conclusione che si può trarre sia da dagli ultimi capitoli di Sorvegliare e punire (Foucault M., 1975) che dall’analisi di Michel Foucault ne La volontà di sapere (1976) ed esplicitata una terza volta da Gilles Deleuze nel Poscritto sulla società di controllo (1990), «le società disciplinari erano già qualcosa del nostro passato, qualcosa che stavamo smettendo di essere» (cit., p. 234).

Provo a ricordare i tratti funzionali della “società della disciplina”: la funzione principale è “disciplinare in stato d’internamento attraverso la sorveglianza e la punizione”, operata da un campo di tecnici appoggiati a saperi extra giuridici: il medico, il militare, la guardia, l’insegnante di scuola.

La questione in gioco nella riflessione sulla società disciplinare non è tanto se vi siano esperti, tecnici, o se costoro occupino le sale del potere, ma, piuttosto, «come si esercitano quel sapere e quel potere» (Deleuze G., 2018, Foucault, p. 88), come l’esercizio del potere produca degli esperti. Come suggeriva Foucault, non possiamo vedere il potere, ma soltanto i suoi effetti (cit.).

Questo, oltre a riguardare ad un tempo oppressi e oppressori, riguarda anche gli strumenti tecnici, le architetture, le invenzioni tecno-scientifiche, che rappresentano «sintomi» di una macchinazione sociale più complessa.

È qualcosa, diceva Deleuze, che aveva in mente anche Kafka, che «non ammira affatto una semplice macchina tecnica, ma sa bene che le macchine tecniche sono soltanto degli indizi per un concatenamento più complesso che fa coesistere macchinisti, pezzi, personale e materiali, carnefici e vittime, potenti e impotenti» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p. 88).1

Sorta all’alba della nostra modernità occidentale (XVII secolo), la disciplina ha impiegato circa due secoli per arrivare al suo stesso apogeo nell’architettura fantastica del Panopticon, l’utopico carcere immaginato alla fine del Settecento da Jeremy Bentham, «macchina per dissociare la coppia vedere-essere visto: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutti, senza mai essere visti» (M. Foucault, 1975, Sorvegliare e punire, p. 220).

Si tratta di una società che muove i primi passi con la rifunzionalizzazione del confinamento: «la prigione aveva un’esistenza marginale nella società di sovranità, ma nella società di disciplina oltrepassa una soglia tecnologica» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p. 55).2 Disciplinare riesce in condizioni di internamento tramite la punizione corporale e la divisione e ristrutturazione cellulare dello spazio e del tempo. Eppure, da principio è necessario che vi sia la possibilità stessa di pensare l’internamento e di formare un diagramma che ne permetta l’applicazione: tecnica sociale, prima ancora d’essere tecnica materiale.

L’internamento panottico è di tutt’altra natura rispetto agli internamenti della prima modernità: la punizione non deve essere più applicata, ma tramutata in funzione deterrente; la sorveglianza non agisce direttamente, ma si proietta all’interno di ogni detenuto; di qui «l’effetto principale del Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere. L’obiettivo è: “Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione; che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità dell’esercizio […] in breve, che i detenuti siano presi in una situazione di potere di cui sono essi stessi portatori” (Foucault M., 1975, Sorvegliare e punire, p, 219).

Allora, cosa fa sì che la società della disciplina sia qualcosa del passato?

Foucault, diceva Deleuze, è stato frainteso come teorico dell’internamento. Certo lo è stato, ma «la prigione rimanda a una funzione agile e mobile, a una circolazione controllata, a tutta una rete che attraversa anche ambiti liberi, e che può insegnare a fare a meno della prigione» (Deleuze G., 2018, Foucault, p.57).

Insomma, si è scambiato l’essenziale per il contingente, ciò che c’è a monte con ciò che c’è a valle, la causa per l’effetto.

Non si può rispondere alla domanda sul potere se non si guarda a ciò che l’architettura panottica produce, a come il potere si esercita, appunto, al diagramma.

Difatti, senza materiale umano il panottico è nulla. Con un materiale umano, è un meccanismo di soggettivazione che produce un calco.

La sorveglianza e la punizione, operate in seno all’architettura di visibilità quale è quella del panottico, si tramutano da azione sul corpo a induzione psicologica. Porre l’internato in costante posizione di visibilità attraverso lo stato di attenzione persistente induce un disciplinamento, reso a sua volta possibile dalla divisione cellulare dello spazio e del tempo. Ne risulta la produzione di un calco: il malato, l’operaio, l’internato, ossia gruppi discreti “a metà” tra l’individuo singolarizzato e la massa indiscriminata.

Eppure, dalla fine della Seconda guerra mondiale - è sempre Deleuze a parlare - «siamo in una crisi generalizzata di tutti gli ambienti di internamento» (G. Deleuze, 1990, Poscritto, p. 235).

LA SOCIETÀ DEL CONTROLLO

Questa crisi è ciò che aveva già messo in scena Kafka nel Processo, lo stesso Kafka che rappresenta una «cerniera tra la società della disciplina e la società di controllo» (cit. p. 237). Perché in quel romanzo scritto tra il 1914 e il 1915, «Kafka ha descritto le forme giuridiche più temibili: l’assoluzione apparente della società disciplinare (tra due internamenti), il differimento illimitato delle società di controllo in continua variazione» (cit. p.237).

E Foucault, sempre in Sorvegliare e punire, scriveva che c’è una «proliferazione dei meccanismi disciplinari», una tendenza a «disistuzionalizzarsi», ad «uscire dalle fortezze chiuse dove funzionavano, ed a circolare allo stato libero» (G. Deleuze, 1975, Sorvegliare e punire, p. 230).

Aprite il Processo. Nelle primissime pagine trovate una rappresentazione piuttosto lucida di tutto ciò. Il protagonista, “K.”, si trova due guardie in casa che trasformano una stanza  in tribunale, «il comodino adesso era stato allontanato dal letto e spinto nel centro della camera, per servire come banco da udienza, e l’ispettore sedeva dietro di esso» (Kafka F., 1973, Il processo, p. 20).

L’aula di tribunale può essere dappertutto. L’imputato non sa perché sia imputato, da chi è imputato, e può comunque vivere “liberamente” la propria vita. È in arresto o è libero? «Lei è in arresto, certo, ma a cosa non deve impedirle di svolgere la sua professione» (cit. p. 25).

Il processo è dappertutto e coinvolge tutti, è costantemente differito, e tutti danno vita al grande processo, anzi, tutti non sono che soggetti collaterale di quest’ultimo, «i personaggi del Processo appaiono in una generale serie che prolifera senza sosta: tutti in effetti sono o funzionari o ausiliari di giustizia» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p. 83).

Dunque, che vi sia una «crisi degli internamenti» ha un significato piuttosto inusuale. Se c’è crisi, non è perché l’internamento non ha funzionato, ma perché - come si diceva - le forze disciplinanti che adoperavano il confinamento e la scomposizione cellulare trovano punti d’applicazione che non necessitano più la forma d’applicazione del potere necessario precedentemente. Deleuze lo descrive con una frase molto semplice, «gli internamenti sono stampi, dei calchi distinti, ma i controlli sono una modulazione, qualche cosa come un calco auto deformante che cambia costantemente» (G. Deleuze, 1990, Poscritto, p. 236).

Cambia fondamentalmente la posizione della disciplina, che da funzione principale per l’estrazione della forza lavoro scivola in secondo piano, diventa funzione collaterale o derivata.

Per il controllo, l’internamento diventa superfluo perché a monte è diventato superfluo produrre l’individuo disciplinato della società precedente.

La linea direttrice della società di controllo è «un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto» (cit. p.240),  e come scriveva Deleuze già nel 1990 «l’impresa ha sostituito la fabbrica […]  la formazione permanente tende e a sostituire la scuola, e il continuo controllo ha sostituito l’esame» (cit. p.240).

Osserviamo il diagramma della società di controllo: non produce più calchi, ma dividui, che non sono più singoli soggetti facenti parte di un gruppo (medico o paziente, guardia o internato, a “metà” tra individuo e massa), ma una divisione temporalmente mutevole in seno all’individuo stesso.

Insomma, il controllo non solo è ora capace di estrarre valore dalle pulsioni multiple che sottendono l’individuo, ma come onnipresenza silente, è ora capace di modellare in modo continuativo ciò a cui in precedenza applicava calchi discontinui, il desiderio. Perciò più che formare un individuo fisso ha interesse nel direzionare i corsi multipli del desiderio che “fanno un individuo”, costringe all’espressione più che reprimere le pulsioni.

Tuttavia, il controllo non ha un interesse capillare, non deve lavorare direttamente sul singolo individuo, è un metodo statistico.

 

ATTUALITÀ DELLA SOCIETÀ DEL CONTROLLO

È sufficiente intercettare e ridistribuire un numero necessario di dividui per generare una massa critica: Cancel Culture, bolle mediatiche, grandi proclami di pro e contro, sono tutti prodotti di un sistema fluttuante che si avvale di grandi masse di desiderio per la creazione di temporanee forme dicotomiche che l’attimo dopo si sono già disfatte a favore di qualcosa di nuovo.

Non c’è più un calco fisso di gruppi, formati a “metà” tra la massa e l’individuo. La massa statistica dei dividui assomiglia, più che semplice fluido, ad un materiale non newtoniano: liquido e penetrabile in uno stato di quiete, solido e mortale appena è messo in moto.

Ahimè, non esiste il mondo contemporaneo in cui grandi forze ingenuamente rivoluzionare hanno sconfitto o sono in procinto di sconfiggere il tremendo mondo patriarcale delle restrizioni e dell’oppressione.

Quello che esiste è un mondo diverso dalla società della disciplina, è un mondo del controllo che si nutre del fatto stesso che qualcuno creda ancora alla liberazione delle passioni. Uno è un calco, l’altro è una modulazione. La disciplina determina dei comportamenti, il controllo sviluppa degli spettri d’azione. Ma proprio perché tutto ciò, ora, avviene in condizione di apparente apertura, e non più di internamento, e avviene non più attraverso il deterrente della punizione, ma con la modulazione di desideri apparentemente spontanei e liberi - perché ancora ci convinciamo vi sia «un desiderio esterno al potere» - l’azione e gli effetti del potere diventano ad un tempo più pervasivi ed invisibili. E tanto più il desiderio si dichiara assolutamente spontaneo, tanto più possiamo sospettare che ciò che vi sottostà sia il più capillare dei poteri.

Perciò, prendendo in prestito le parole di Kafka, Deleuze e Guattari scrivevano che bisogna «essere non uno specchio ma un orologio che anticipa» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p.92). Perché al tempo sempre-ora delle fluttuazioni di desiderio bisogna opporre la precisione di un orologio che immagazzina la struttura presente per anticiparne il futuro, perché chi agisce con perfetta spontaneità, vedendo nella buona società che immagina un riflesso dei propri intenti migliori, non si accorge che è il controllo l’immagine reale, e lui o lei l’immagine riflessa.

 


NOTE

1 In Foucault, p. 54, si legge «le macchine sono sociali prima di essere tecniche».

2 Foucault ne parla in Sorvegliare e punire, p. 244.