Un manager utilitarista - Il management scientifico alla prova dei fatti

Negli ultimi mesi ho modo di vedere l’etica utilitarista messa in opera da parte di un gruppo di manager di un’azienda multinazionale.

Non parlo di attitudini caratteriali o di comportamenti specifici che ognuno di noi può avere, parlo proprio di un’impostazione che permea il pensiero, le parole, le azioni e le decisioni dell’individuo.

Parlo di un qualcosa di sistematico che, se applicato alla conduzione di un’azienda, può a ragion veduta definirsi management scientifico: c’è un metodo standard, c’è uno stile manageriale reiterabile, c’è l’estrema specializzazione del lavoro che – in ultima istanza – porta alla piena fungibilità dello stesso.

E la prima volta che mi capita di osservare una cifra etica così netta e chiara; e la cosa non va sottovalutata, perchè tutta la storia della globalizzazione degli ultimi 250 anni si basa su questa etica.

Volete sapere come me ne sono accorto?

Eccovi alcuni esempi.

Il manager utlitarista presenta i risultati di fine esercizio senza commentare neanche un numero della situazione attuale, e concentra tutto l’intervento sul nuovo livello di aspettative del mercato, sulla propria visione strategica e su cosa fare per migliorare la propensione degli investitori.

Cosa è stato raggiunto o fallito nel passato non conta; conta la decisione, adesso, decontestualizzata dalle ragioni che hanno portato ad un determinato stato dell’arte.

Il passato conta solamente in quanto deve essere rimesso in discussione, ma attenzione: non lo si rimette in discussione, per preconcetto o per dare un messaggio di discontinuità.

Lo si rimette in discussione perché è eticamente giusto farlo, perchè il processo decisionale passa dal discreto al continuo, e l’esistenza stessa dell’individuo è un continuo decidere e rielaborare la decisione.

Non a caso il manager utilitarista dichiara sin dall’inizio che sì, è vero, esiste un piano strategico, ma che poi all’interno di tale piano si può (anzi si deve) cambiare direzione n+1 volte.

Certo che è strano: una scienza basata sulle aspettative e non sulla accumulazione delle esperienze...mai vista!

Ma forse sì, se la si applica al management di azienda può essere sostenibile... sicuramente l’utilitarismo consente di fare un passo avanti rispetto ai nostri stereotipi…

Poi, il manager utilitarista identifica dal mercato i propri collaboratori, manager a riporto diretto, presentandoli come il meglio possibile per l’azienda, e rimuovendoli dopo poche settimane senza neanche sentirsi in dovere di spiegare il perchè e cosa sia cambiato rispetto al loro ingresso di poco tempo prima.

Il fatto che ogni ingresso a quei livelli comporti l’avvio di riorganizzazioni aziendali e di nuove relazioni personali non conta, visto che per lui è uguale essere a capo dell’azienda X o dell’azienda Y, sono invarianti anche i nomi dei propri collaboratori e i diversi possibili set up organizzativi.

Tutto è pienamente fungibile, quando si deve massimizzare l’utilità.

Questa me la spiego facilmente dai... il sapere scientifico deve essere invariante rispetto all’individuo, altrimenti è soggettivo; giusto, giusto, sarà per questo che le organizzazioni del manager utilitarista sono tutte piatte: un vertice (il manager stesso), un “cerchio della fiducia” di poche decine di eletti, e migliaia di persone appiattite.

Ah, un attimo, c’è qualcosa che non torna... la scienza applicata all’azienda prevede una struttura piramidale ben definita, qui invece abbiamo: un triangolo, uno spazio bianco, e un grandissimo trapezio sotto. Che roba è? Mi sembra quasi che si sia passati dalla massimizzazione del profitto di azienda alla massimizzazione del profitto individuale. Ma forse, anzi sicuramente, mi sto sbagliando....

Ancora: il manager utilitarista trasforma in valore economico anche le ultime categorie che erano rimaste non oggetto di scambio: l’ambiente e l’identità sessuale.

Essendoci un legame diretto tra massimizzazione dell’utilità e valore degli scambi, negli ultimi anni si stava osservando un problema abbastanza serio per l’utilitarismo: era finito il genere di item passibili di scambio.

E allora ecco che il manager utilitarista definisce come oggetto di scambio, e quindi portatore di valore da massimizzare, cose che prima non lo erano: l’aria, l’acqua, l’identità di genere, e gli dà un nome: ESG.

L’ossigeno? Lo si produce forestizzando i terreni pastorizi del Paese X, lo si “impacchetta” e lo si vende a lotti virtuali alle aziende che inquinano nel Paese Y.

Il pride? Rappresenta un target di clientela nuovo, interessante: e allora perchè non fare un’analisi delle abitudini di spesa dei partecipanti, venderla al Comune ospitante, che così decide i percorsi dei cortei in modo da ottimizzare la presenza degli esercizi commerciali che rispondono a tali abitudini di spesa?

Tutto è pienamente scambiabile, quando si deve massimizzare l’utilità.

La Data Science applicata al management di azienda, ecco: questo è uno spunto veramente “scientifico”! Certo, il fatto che si basi su una funzione che tende asintoticamente a zero, perchè prima o poi gli oggetti di scambio finiranno veramente, potrebbe far pensare che non mi stessi sbagliando poi tanto con la mia precedente impressione...chissà!

In ultimo: il manager utilitarista ci dice che il futuro della cultura è nel Metaverso e nella Generative AI: nuove esperienze, felicità garantita, poter essere contemporaneamente in più luoghi senza essere realmente da nessuna parte.

Non è ancora chiaro cosa muova il manager utilitarista: forse la massimizzazione dell’utilità e della felicità individuale; forse lo spirito “scientifico”.

Quello che non ho ancora capito è qual’è il vantaggio per il manager utilitarista: mi auguro che lo scopo sia, anche qui, semplicemente quello di avere un nuovo item oggetto di scambio; mi auguro a questo punto che sì, le impressioni che ho manifestato in precedenza fossero corrette, e che ce la caviamo banalmente dicendo che l’utilitarismo applicato in un’azienda “scientificamente” organizzata porta solo alla massimizzazione del valore per un singolo individuo.

Non è bello ma me lo auguro perchè, se così non fosse, se ci fosse qualche altro razionale, gli effetti finali potrebbero essere ben più devastanti.

 


Perché ci chiamiamo ‘mammiferi’? Il persistere dei pregiudizi nella scienza

Contrariamente a chi pensa che scienza e società siano due sfere separate e portatrici di due tipi di conoscenza molto diversi, numerosi studi mostrano che invece esse si influenzano e contaminano reciprocamente.

Tant’è che le conoscenze scientifiche poggiano anche su conoscenze sociali (pregiudizi compresi); e viceversa.

Potrà meglio illuminare questa posizione (apparentemente blasfema) uno studio tratto dalla storia della biologia, pubblicato da Londa Schiebinger nel 1993 (nel American Historical Review, 98: 382-411), dal titolo Why Mammals are Called Mammals: Gender Politics in Eighteenth-Century Natural History. L’autrice, professoressa di storia della scienza presso il Dipartimento di Storia, della Stanford University (https://en.wikipedia.org/wiki/Londa_Schiebinger), sostiene che il termine mammalia (che potremmo rendere con l’espressione “che hanno il seno”) fu introdotto dal botanico svedese Linneo soltanto nella… decima edizione del Sistema Naturae (1758).

Quindi non nelle edizioni precedenti.

Tale termine cominciò a indicare quella specie che, da allora, conosciamo come mammiferi; mentre per secoli essi erano stati chiamati quadrupedi, secondo le indicazioni di Aristotele. Perché questo cambio di nome? Era proprio necessario? Peraltro Linneo, scegliendo quel termine, considerò solo una fra le diverse proprietà comuni ai mammiferi. Nonostante fosse adatta, a stretto rigore di termini, solo alle femmine di quella specie. Infatti Schiebinger sostiene che Linneo poteva ricorrere ad altre possibili definizioni equivalenti, quali: Pilosa (“che hanno peli”); Aurecaviga (“che hanno orecchie cave”); Lactentia (“che allattano”); Sugentia (“che succhiano”); Vivipora (“che allevano i piccoli”). Che tuttavia non scelse. Perché?

Peraltro, scegliendo Aurecaviga oppure Vivipora egli avrebbe individuato un attributo in comune fra uomini e donne (al contrario delle mammelle). Certamente il termine ‘mammifero’ suonava particolarmente bene foneticamente, per la facile assonanza di mammalia sia con il termine animalia che quello di mamma (forse la prima parola che i bambini imparano).

Nel cercare una spiegazione, l’autrice nota che la «fissazione di Linneo per le mammelle femminili”» (1993, p. 64) si inseriva in un più ampio processo culturale di erotizzazione del seno femminile che proprio in quegli anni giunse a compimento, con esiti ben visibili anche nella storia dell’abbigliamento.

Inoltre Linneo era anche politicamente schierato in una battaglia socio-culturale (nella quale egli era stato appena coinvolto) di reazione all’uso che andava diffondendosi fra le donne delle classi agiate di dare i figli da allattare alle balie. Proprio per arginare questo fenomeno, nel 1793 in Francia, e subito dopo in Prussia, fu promulgata una legge volta a promuovere l’allattamento materno. Tuttavia la pratica dell’allattamento da balia era ormai diffusa non solo tra le famiglie aristocratiche o quelle più ricche, ma anche in altre fasce sociali: infatti a Parigi e a Lione nel 1780 il 90% dei neonati andava a balia (Schiebinger 1993, p. 66).

Schiebinger osserva, inoltre, il differente trattamento che Linneo riserva al genere femminile e a quello maschile, visto che introduce l’espressione Homo sapiens per la nostra specie.

Questo passaggio è particolarmente interessante: se da una parte egli unisce la nostra specie agli altri animali mammiferi attraverso un attributo distintivo della donna (le mammelle), dall’altra per distinguere la specie umana da quella animale, usa un altro attributo pregiudizialmente (soprattutto ai tempi di Linneo) assegnato agli uomini: la ragione o razionalità. Anche se, sostiene Schiebinger, egli probabilmente non era consapevole della scelta politica che lo stava guidando nella sua classificazione.

Inoltre Linneo riteneva l’allattamento “mercenario” una catastrofe sociale, mentre l’allattamento al seno derivava da una legge naturale; quindi, una pratica benigna sia per il neonato che per la madre. Tuttavia, questa battaglia nascondeva una più generale avversione all’emancipazione femminile, al fine di ricondurre la donna al ruolo domestico tradizionale. Se pensiamo che a quel tempo una donna faceva (mediamente) 7-8 figli, questo comportava il suo allontanamento dal lavoro pubblico per almeno una decina d’anni.

-------------

In conclusione, nel campo scientifico spesso si usano termini e classificazioni che hanno un fondamento profondamente sociale (con pregiudizi annessi) e che continuano ad essere attive anche quando questi pregiudizi sono superati.

Per cui scienza e società sono fortemente compenetrate. Nel bene e nel male. Che lo si voglia o no.