La conoscenza tecnica - Meditazioni a partire dal pensiero di Platone

In molti conoscono l’esistenza di un dialogo chiamato “Apologia di Socrate”. Al suo interno, oltre al “Socrate che sa di non sapere”, viene reso noto il particolare valore che Platone attribuisce alla conoscenza posseduta dagli artigiani. Ciò avviene nell’ultimo dei tre momenti che Socrate afferma di aver passato alla ricerca degli ateniesi ritenuti “sapienti”.

Dopo aver messo alla prova i politici e i poeti, egli dice:
«Alla fine andai dai lavoratori manuali (cheirotechnas): mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E qui non mi sbagliavo, nel senso che possedevano nozioni a me ignote e in ciò erano più sapienti di me». (Apol. 22 c – d)

Differenza tra “tecnica” e “scienza”

Per Platone esiste un genere di conoscenza unicamente umano, perciò corruttibile1 e quindi di altro genere rispetto alla più famosa forma della reminiscenza,2 un genere di conoscenza analogo a quella del noto essere divino chiamato Demiurgo presente nel dialogo Timeo: una conoscenza che permette “il fare”.

Se il termine “technikoi” indica in generale gli “esperti ”, il termine “demiurgos” indica il “lavoratore pubblico” (l’artigiano libero, non schiavo), mentre i ”cheirotechnas”, quelli di cui parlava Socrate, sono più in generale tutti coloro che producono attraverso le attività manuali. Il loro sapere è tipico dell’essere umano “di ogni giorno”, cioè che interagisce e apprende attraverso la forma di conoscenza che è l’opinione (doxa), di genere meno precisa rispetto a quella dei matematici e dei filosofi, chiamata invece episteme (scienza).

In questi termini, il sapere pratico, come quello scientifico, si genera a partire dall’esperienza del mondo fisico e materiale ma, a differenza del secondo, conclude il proprio percorso nella manipolazione delle cose su questo stesso piano fisico, ponendosi come scopo l’opera di azioni mirate a produrre effetti e oggetti utili sul piano della vita materiale. Diversamente l’episteme procede dall’osservazione e interazione col mondo fisico verso la conoscenza di enti meta-fisici, ambendo a intuirne i modelli,3 i quali comprendono anche le leggi che governano la realtà fisica. Le scienze producono conoscenza sul mondo come insieme complesso e strutturato, dunque prodotti del solo intelletto e non materiali.

Questa differenza è in qualche misura la stessa che ancora oggi troviamo tra “tecnica” e “scienza”. Solo in tempi molto più recenti queste due hanno sviluppato una reciproca interdipendenza quasi senza soluzione di continuità. Ma questo rimarrà per ora solo uno spunto di riflessione suggerito al nostro lettore.

Caratteristiche del “sapere pratico” e particolarità della tecnica

Rimanendo ancora con Platone, l’utilità (opheleia) è sia l’elemento distintivo che il coronamento stesso delle attività produttive proprie delle forme di “sapere pratico”. Agli occhi del Filosofo sono però più le technai  (discipline e arti tecniche) a contraddistinguersi per la «utilità per la vita»4 che le altre forme di conoscenza pratica.

L’insieme completo delle forme di sapere rivolte al mondo materiale è infatti più ampio e comprende anche le empeiria kai tribé, che per semplicità tradurremo come “esperienze frutto della pratica”. Queste sarebbero l’insieme di quei “saper fare” non governati dal rigore disciplinare. Ma ne tratteremo in un post dedicato.
Per ora, a solo titolo di esempio, pensiamo a chi “è bravo a fare”5 ma non per questo è un esperto (technos) del campo in cui sa invece solamente districarsi. Questo “saper fare” nelle sue declinazioni è una forma del sapere “al portatore”, posseduta dai singoli individui che mostrano avere una certa disinvoltura e/o dimestichezza “nel fare” cose specifiche.

Ciò su cui dobbiamo qui focalizzarci è che la differenza tra technai ed empeiria kai tribé risiede nel modo in cui esse procedono a ottenere un risultato. Le prime lo ottengono attraverso un rigore simile a quello scientifico, perciò strutturato e disciplinato attraverso il metodo della misura e del calcolo, mentre le seconde devono la propria efficacia alla semplice pratica di azioni che l’individuo che le compie ha imparato “per esperienza” essere utili all’ottenimento di un effetto desiderato.

Le technai dunque mirano alla produzione del proprio effetto a partire da una conoscenza riflessiva dell’intelletto nella forma della retta opinione,6 tratta, finalizzata e combinata all’esperienza empirica (empeiria).

Le vere discipline tecniche inoltre generano propri modelli su cui basare la produzione e proseguire la propria ricerca sperimentale. Va notato infatti che tutti gli artigiani si avvalgono di progetti-modelli di partenza per realizzare i propri prodotti (sedie, abiti, calzature etc.); come anche l’architetto progetta lo spazio secondo misure e calcoli precisi, vincolato per la sua realizzazione alle proprietà della materia costruttiva.

Quello del “tecnico” in generale è dunque un sapere misto di esperienza, metodo e teoria, che muove tra gli estremi della doxa e della episteme. Ѐ un sapere insegnabile e quindi oggetto di apprendimento, che per essere ottenuto dunque necessita di esercizio, pratica, sperimentazione e possiede uno scopo produttivo: produce utilità sul piano fisico.
Questo processo conoscitivo pratico determina quelle forme del sapere che confluiscono nelle discipline tecniche, ossia quelle che dotano l’esperienza sensibile di un grado di articolazione teorica e strumentale forte, rivolgendosi all’attività pratica.7

Spunti di riflessione sul mondo della tecnica oggi

Venendo ora a noi, possiamo trovare in questa analisi di Platone molti punti in comune con il modo attuale di concepire e intendere gli elementi distintivi della tecnica rispetto alla “scienza pura”, tanto da aprirci diverse prospettive di riflessione.

Con ogni evidenza il contesto della cultura tecnica è oggi ampiamente mutato. Possiamo notare per esempio che il crescente trasferimento della pratica produttiva dalle mani dell’artigiano verso tecnologie e macchine complesse e automatizzate, per la loro capacità di facilitare, razionalizzare e potenziare la produzione, è sicuramente preferito per fornire una risposta migliore in termini di produzione quantitativa e temporale. Ѐ quel valore che che oggi definiamo “volume della produzione”.8

Questi strumenti complessi sono anch’essi un prodotto della tecnica, sono prodotti per l’appunto tecnologici, e la loro complessità cresce con l’accrescersi della complessità tecnica, che ne ha infatti permesso la loro progettazione e costruzione.
Ma, e ci sono diversi “MA”, allo stesso tempo ciò comporta inevitabilmente che, uscendo dal dominio delle mani dell’artigiano o comunque sfuggendogli dalle mani per la loro complessità d’utilizzo (per cui saranno necessari ulteriori nuovi ruoli “tecnici”), questi strumenti sono in grado di soppiantare le forme della conoscenza individuale specializzata precedente, tramandata attraverso l’oralità e tramandabile attraverso il coinvolgimento pratico attivo.

Il tecnico nel senso professionale è dunque oggi sempre più un “technikos”, ossia uno specialista. Nel nostro ultimo esempio è “un esperto” di strumenti, macchine e istruzione di processi complessi, più che un “cheirotechnos” o “demiurgos”, ossia un lavoratore manuale esperto. Ciò sposta il tecnico verso forme di conoscenza specialistica di "pratica teorica" e nel ruolo di esecutore di singoli processi più che un progettista “con le mani in pasta”.

Dall’altro lato, una reazione alla produzione così impostata e spersonalizzata è la nascita da parte dei singoli individui di forme d’interesse per le pratiche manuali contro quelle automatizzate e per quelle analogiche contro la sempre più diffusa cultura digitale.
Queste fascinazioni per l’attività pratica diretta le vediamo spesso in opera sia nel campo artistico che in quello dilettantistico, con le conseguenti e rispettive aperture di nuove nicchie di tendenza. Così sottratte al circuito di tramandamento diretto obbligato dalla necessità produttiva, queste conoscenze pratiche finiscono per far ricadere la tipologia di conoscenze del loro “portatore” più nel campo di quelle empeiria kai tribé a cui abbiamo accennato che in quello delle technai. Proviamo ora a pensare a quanti eventi vengono creati oggi con l’intento dichiarato di introdurci al mondo della auto-produzione manuale attraverso brevissime esperienze temporali, quali sono i corsi o i “workshop”.

La caratteristica corruttibilità del sapere pratico che individua Platone diventa maggiormente evidente oggi, in un’epoca storica in cui si assiste alla continua interruzione della linea di trasmissione continuativa di conoscenze disciplinari appartenenti al mondo pre-industriale.
Individuarne i motivi è sicuramente un lungo lavoro che non possiamo qui affrontare, ma in sintesi possiamo affermare che questa perdita dei saperi pratici si debba non tanto a una loro intrinseca “obsolescenza” o al loro “superamento” sul piano del sapere tecnico, piuttosto ciò parrebbe avvenire sul piano della sostituzione tecnologica dell’artigiano per i motivi preferibili di sopra detti.

Potremmo affermare anche che, questo fenomeno della perdita e corruzione dei saperi tecnici pre-industriali, non possa derivare esclusivamente dal loro superamento sul piano della attendibilità del “sapere” in sé preso, poiché il più di queste forme tecniche del passato possiedono di fatto un percorso di affinamento e collaudo nettamente più lungo e verificato (esperito) rispetto ai metodi, ai materiali, alle tecniche e alle tecnologie che si sono affermate solo recentemente, nella nostra epoca contemporanea.

Altrettanto si può confermare ancora oggi come intrinseca e ineliminabile quella natura corruttibile che Platone affermava essere propria di queste forme del sapere pratico tecnico. Queste, infatti, se non vengono tramandate, muoiono con i singoli esseri viventi umani che ne sono portatori-detentori. Il loro recupero futuro sarà perciò tardivo, debole o esposto al dilettantismo.

In tal proposito possiamo aggiungere che i contenuti di queste forme del sapere, anche se messi materialmente per iscritto, non potranno per loro natura sopravvivere alle singole vite degli stessi uomini che ne sono detentori praticanti e alla loro personale memoria, laddove si perda quella parte “pratica” da parte di nuovi eredi diretti di questi saperi. Diverrebbero così testimoniate ma anche quel che si dice “lettera morta”.

 

 

 


NOTE

1 Gli esseri umani sono mortali e tutto ciò che gli appartiene come attributo umano è di per sé corruttibile. Nel precedente post “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone” sottoponevo a chi ci legge la complessa questione della Memoria e della sua corruttibilità nel pensiero di Platone. In questo presente post emergerà con maggior evidenza il senso della scelta di presentare un tema così complesso. Platone attribuisce infatti ai “saperi pratici” (definizione di comodo e non platonica) la condizione di corruttibilità. Ed è proprio il tema della corruttibilità di un sapere che il lettore dovrà tenere presente mentre affronterà ciò che troverà qui proposto.

2 La reminiscenza o anamnesis è quel processo di risveglio della memoria dell’anima immortale, perciò che rimane identica al di là delle incarnazioni di ciascun vivente mortale. Questa memoria immortale si sopisce con l’unione dell’anima immortale a un corpo fisico (= incarnazione) e il suo contenuto si riferisce a quelle idee di alto grado metafisico, quali sono il Bene, il Bello, la Giustizia etc..

3 “Idea” o “eidos” significa per l’appunto “modello”.

4 Esplicitamente scrive Platone nel Gorgia che «si occupano della nostra vita fisica» (518 a) , costituendo di fatto veri e propri «sistemi che preparano alla vita» (500 b). Ciò emerge anche in particolare nei passi Gorg. 464 b - 466 a; Phil. 58 c, 63 a; Theaet. 177 e.

5 Chi dice cose apparentemente corrette può essere un sofista e non un tecnico o uno scienziato. Chi esegue belle armonie può essere un musico ma non un musicista. Chi sa creare belle pietanze può essere un cuoco ma non un dietologo. Insomma, non sempre chi appare padroneggiare un argomento o una pratica lo fa sulla base di una conoscenza strutturata, rigorosa, “disciplinata”.

6 La “retta opinione” è quella forma di conoscenza che deve la propria corrispondenza al mondo fisico per una corretta intuizione, nel senso che “ci azzecca” rispetto all’oggetto di cui si occupa. In breve, si dà retta opinione quando per “averci visto bene” o “averci dedicato particolare impegno sperimentale” si ottiene un risultato ricercato. Ad esempio, anche i politici che reggono le città in modo retto lo fanno non per scienza ma per retta opinione, afferma Socrate in Men. 99 a – e.

7 Nella lettura che dà Platone, questo sapere misto è in generale quello che esprime la condizione dell’essere umano, del vivente mortale le cui funzioni riflessive, a partire dalla episkepsis («indagine» o «valutazione») e poi col logismos (facoltà del calcolo e della misurazione), sono volte al campo operativo sul solo piano empirico.

8 Il “volume della produzione” è quel valore complessivo di beni e servizi che un'azienda è stata in grado di produrre con le risorse disponibili in un determinato periodo di tempo. Più aumenta, più è possibile abbassare il costo medio di ogni singola unità di prodotto, rendendola più competitiva sul mercato economico.


Memoria, immaginazione e afantasia - Ma cosa stavo dicendo?

Una patologia che probabilmente ha origine recente è l’afantasia, la perdita dell’immaginazione. Il primo caso è stato descritto nel 2015 dopo un intervento al cuore (Zeman, Dewar, Della Sala, Lives without imagery - Congenital aphantasia). I pazienti che ne sono affetti non hanno immagini: se gli si chiede di pensare a un bicchiere, a un albero, al proprio gatto, non formano alcun ricordo, pur conoscendo benissimo queste cose. Studi recenti con la Risonanza Magnetica funzionale mostrano che la parola “Bicchiere”, “Albero”, “Gatto” non accende alcuna attività nel cervello, la Risonanza rimane muta. 

Aristotele chiamava φαντασíα (phantasia) la capacità di vivere nelle immagini. Al tempo di Aristotele la capacità immaginativa era la qualità dominante della coscienza, a tal punto che si considera che la logica sia nata proprio con Aristotele. Questo non vuol dire che i greci antichi non fossero dotati di logica, ma l’attività della coscienza era prevalentemente immaginativa, l’attività logico-computativa del pensiero era dedicata soprattutto al commercio. Per questo i greci avevano adottato, con qualche riluttanza, l’alfabeto dai fenici, abili trafficanti. In virtù di questa facoltà immaginativa, molti greci antichi erano dotati di una memoria prodigiosa, se pensiamo che per secoli opere letterarie come l’Iliade, l’Odissea, le opere di Esiodo furono tramandate prevalentemente per via orale affidate, con gli esametri, al ritmo del respiro.

La capacità mnemonica è sicuramente legata alla facoltà immaginativa. L’arte di ricordare risale a Simonide di Ceo, poeta greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C. Cicerone nel De oratore racconta che Simonide, scampò per uno strano prodigio al crollo di una sala in cui banchettavano duecento invitati e fu in grado di identificare i corpi di ciascuno, solo rammentando il posto che occupavano.

 

Nell’oceano della coscienza umana prevalgono, infatti, due facoltà (e chissà quanto ancora): l’attività logica e la capacità di creare immagini interiori. Freud le vedeva come una specie di iceberg, la piccola punta della coscienza dell’io, emergente dal fondo sconfinato dell’Es, diciamo, dell’inconscio (1922; in Opere complete, IX). Il padre della psicanalisi era un attento lettore di Platone, dal quale aveva preso ispirazione proprio per la lettura delle facoltà dell’anima.

Socrate, nel Fedro di Platone, dice che non può spiegare razionalmente cosa sia l’anima, ma può farlo attraverso l’immagine di una biga trainata da due cavalli. I due cavalli rappresentano bene le due attitudini dell’anima. La capacità di immaginare è lentamente svanita nel corso dei secoli, col prevalere della ragione nel Secolo dei Lumi, ma è gradualmente riapparsa dal secolo scorso: l’arte astratta, la musica atonale ne sono alcuni indizi, ma la creazione della psicanalisi ne è la prova più evidente.

Il problema è che, nello svolgersi delle due attività dell’anima, l’una oscura l’altra. Se penso razionalmente, non percepisco le immagini; se la mia coscienza è pervasa da immagini, posso scrivere una poesia o dipingere. In realtà la facoltà di creare immagini è diffusa, ma mascherata dal lessico della tecnologia (chi di voi non ha il cellulare in tasca?). Ogni volta che accendiamo il telefonino, spegniamo la nostra fantasia. Dalla svolta del secolo stiamo imparando a pensare come le macchine. La nostra memoria è imprigionata nei byte.

Il grande neurologo russo, Aleksandr Lurija studiò un personaggio dotato di una memoria incredibile, capace di elencare lunghe serie di numeri, dal primo all’ultimo e al contrario (1968; Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla). Questa persona “vedeva” mentalmente le cose che memorizzava. 

L'immaginazione, tuttavia, non è solo lo strumento di poeti e pittori: Newton e Einstein immaginavano le loro scoperte scientifiche anni prima di realizzarle.

Ma questa è un’altra storia che vi racconterò la prossima volta.




Incontri indeterminati - Considerazioni su “La Chimera” di Rohrwacher

Taglia e cuci. Montaggio di spazi discreti e durate disparate, seguendo il filo rosso della fiction, così il cinema prova a restituirci la vera esperienza del mondo. In questo senso, “La Chimera”, di Alice Rohrwacher, propone una serie di immagini capaci di tratteggiare alcuni complessi caratteri della nostra società e del tempo in cui viviamo, rendendoci il senso della storia.

In un periodo volutamente imprecisato, sospeso fra gli anni Ottanta e un eterno presente attraversato da presagi del futuro, e senza dare un’eccessiva importanza al luogo della vicenda (l’immaginaria Riparbella, nella Tuscia), il film racconta delle peripezie di una banda di tombaroli, la quale ha un discreto successo nelle escavazioni delle tombe etrusche, riuscendo a trovare numerosi cimeli grazie al contributo del protagonista (Arthur, una specie di rabdomante), che riesce a percepire l’ubicazione dei tumuli e delle caverne interrati tramite le sue chimere, suscitate dal desiderio di ricongiungersi con il suo amore scomparso (Beniamina), che gli appare in sogno in maniera sfuggente, perdendo dietro di sé il filo dall’orlo scucito del vestito.

Ma quella del tombarolo è una professione del tutto particolare, forse il tipo di vita precario per antonomasia, sospeso fra la libertà e la soggezione assolute date dal non avere vincoli. Così, le vicende dei personaggi, si articolano grazie a espedienti, alternando la gioia della festa estemporanea alla miseria del vivere di stenti e di improvvisazione quotidiana, con un fare che ricorda molto i gitani di Kusturica. Arthur, vive in una baracca adagiata sul crinale di una collina dominata da imponenti mura medioevali, ed ha solo gli abiti che indossa, ma non sembra curarsene; il suo comportamento è un misto di angoscia e cieca determinazione, preso dalla volontà di riprendere continuamente la sua ricerca. La scoperta colma di trepidazione di sarcofagi nascosti, e il ritrovamento di oggetti del passato, veri e densi di significato perché «visti da molti occhi», gli forniscono un senso di pienezza, sostenuta dall’approcciarsi a un’ideale soggettività corale in armonia con la natura delle società arcaiche, e dando libero sfogo all’affettività delle utopie; salvo poi recuperare i caratteri della morte non appena i colleghi irrompono al seguito per fare man bassa del bottino, così che, suo malgrado, i doni dati in corredo ai defunti si trasformano in merce preziosa da rivendere ai collezionisti.

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Una possibile chiave di lettura del film è quindi quella delle possibilità di vita nelle rovine del capitalismo, come descritte dall’antropologa statunitense Anna L. Tsing nel volume The Mushroom at the End of the World (2015), dove illustra la sua etnografia della filiera del matsutake, il fungo più pregiato del mondo, che cresce spontaneamente in aree boschive rinfoltite al seguito di processi si de-forestazione e sfruttamento intensivo del suolo. I raccoglitori, i mediatori, i rivenditori e gli importatori descritti dalla ricerca, ovvero stranieri e derelitti a cui non è permesso assimilarsi con la società, sono così delle figure istituite dalla catena del valore internazionale del fungo, che si sviluppa incidentalmente nelle fratture di modelli sociali consolidati, creata tramite salti e traduzioni, e che richiede perciò delle traiettorie di vita al margine, stimolate dalla ricerca di un contesto di libertà imprecisata e multisfaccettata. Così si genera l’accumulazione di recupero che, lungi dal rappresentare gli scarti, o le disfunzioni, di un sistema globale ordinato e in espansione inesorabile, avviene negli interstizi degli spazi politici e culturali formatisi storicamente e intrecciati in un assemblaggio che fornisce direzioni impreviste agli eventi, insieme a nuovi territori per l’agire sociale.

Questa performance drammatica, in una mescolanza che include una supposta competizione di mercato, non permette riscatto se non al termine della filiera e solo per pochi: il gioco quindi è truccato, funziona a forza di errori, falsità e distorsioni. Non c’è determinismo, non c’è sistematicità, il progresso è una chimera. Ma come sottolinea l’autrice, «gli umani contano in questi paesaggi. E gli umani portano le storie con loro nell’affrontare le sfide dell’incontro. Queste storie, sia umane che non-umane, non sono mai programmi robotici, ma piuttosto delle condensazioni nell’indeterminato qui e ora; il passato che cogliamo, come dice il filosofo Walter Benjamin, è una memoria ‘che brilla nel momento del pericolo’. Noi generiamo la storia, scrive Benjamin, come ‘il salto di una tigre in ciò che è stato’».

 

La storia così non può essere una successione di fatti. La storia si fa proprio con i “se” e con i “ma”, propri degli esperimenti mentali: la civiltà occidentale sarebbe fiorita se il libero mondo ellenico avesse perso la battaglia di Maratona con la teocrazia persiana? La cultura patriarcale esisterebbe se i Romani non avessero conquistato gli Etruschi? Le nostre valutazioni muovono sempre da insostituibili valori culturali. Conoscere è valutare, è scegliere. «Già il primo passo verso il giudizio storico è quindi – questo dev’essere qui sottolineato – un processo di astrazione, il quale si svolge attraverso l’analisi e l’isolamento concettuale degli elementi del dato empirico – che viene appunto considerato come un complesso di relazioni causali possibili – e deve sfociare in una sintesi della connessione causale ‘reale’. Già questo primo passo trasforma pertanto la ‘realtà’ data, allo scopo di farne un ‘fatto’ storico, in una formazione concettuale: nel ‘fatto’ è appunto implicita, per dirla con Goethe, la ‘teoria’» (Weber, 1922: Il metodo delle scienze storico-sociali).

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L’autenticità è una messa in scena, parziale, situata, biased. Come ricorda l’etimologia di “empirico”, bisogna avere “fede” nell’esperienza, l’una si capovolge nell’altra. «A opporsi alla finzione non è il reale, non è la verità, che è sempre quella dei padroni o dei colonizzatori, ma è la funzione fabulatoria dei poveri, in quanto dà al falso la potenza che ne fa una memoria, una leggenda, un mostro».

Affabulare vuol dire impegnarsi nell’invenzione di un popolo, «allora il cinema può chiamarsi cinema-verità, tanto più che avrà distrutto ogni modello del vero per diventare creatore, produttore di verità: non sarà un cinema della verità, ma la verità del cinema»

(Deleuze, 1985: L’immagine-tempo. Cinema 2).


La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone

Immagine: Incendio della Public Library di Los Angeles del. 29 aprile 1986

Se ancora oggi Platone viene inquadrato come filosofo sradicato dalla concretezza del mondo e proiettato nell’Iperuranio, ciò è dovuto perlopiù alla ormai superata (ma ancora presente) visione diffusa dalla formazione scolastica ordinaria. Invece, la filosofia di Platone è profondamente radicata nel mondo fisico e materiale.

Della “memoria”, in Platone, è noto che ve ne sia un genere immortale, il quale provvede alla reminiscenza (anamnesis) degli oggetti intelligibili. Meno noto e poco esplicito nei dialoghi è invece l’altro genere, quello della memoria “mortale” (non è questo il termine platonico), inteso come proprio della condizione incarnata dell’Anima immortale in un vivente (zoòn).

La Memoria (mneme) è una delle facoltà dell’anima, quella di imprimere, tracciare o racchiudere nella forma di ricordo (hypomnema) le informazioni che otteniamo da oggetti incontrati attraverso l’esperienza empirica. Essa è l’insieme di ciò che si è sedimentato nell’anima a partire dalle sensazioni memorabili, prodotte dall’esperienza, che facciamo di oggetti che esistono fisicamente nel mondo empirico (il processo completo è esposto nel discorso fisiologico contenuto nel Timeo[1]).

Il tema che ci interessa indagare in questo post è quello della “volatilità” del sapere in Platone, per produrre nuovi spunti di riflessione utili nel dibattito odierno.

La reminiscenza (anamnesis) è un’operazione prodotta dalla sola Anima immortale. Più propriamente essa è una forma del ri-memorare oggetti visti nella condizione disincarnata. L’operazione dell’apprendimento (mathesis) di nozioni avviene, invece, durante la vita e il contenuto di una memoria “mortale” (il ricordo) può dissolversi irrimediabilmente. La memoria nella sua totalità cessa definitivamente la propria esistenza con la morte del vivente che lo possiede, perciò con lo scioglimento dei vincoli tra l’anima e il corpo.

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In primo luogo possiamo affermare l’esistenza di una memoria “mortale” nel pensiero di Platone poiché non ci è pervenuta nessuna testimonianza o accenno a proposito della possibilità di reminiscenza di ricordi appartenenti a vite passate - come invece è presente nelle dossografie pitagoriche[2], che Egli conosceva e custodiva gelosamente nella propria biblioteca. In secondo luogo, nei dialoghi che affrontano problemi legati sia alla reminiscenza che alla metempsicosi, troviamo l’idea che a ogni nuova incarnazione debba esservi un “reset” della memoria in relazione alla vita empirica (si veda nello specifico il “Mito di Er”[3])

Parrebbe anche che, sul piano mortale, le conoscenze pratiche e dell’esperienza empirica siano più durevoli rispetto a quelle epistemologicamente superiori (“scientifiche”) del filosofo o del matematico (che hanno come proprio oggetto ultimo gli intelligibili).
Questo lo si può dedurre in particolare da un passo del prologo drammaturgico del Timeo. Qui Crizia il Giovane riporta un racconto che apprese da bambino, in cui Solone incontrò in Egitto un sacerdote che così affermava:

«“Siete tutti giovani d’animo (voi greci)”, rispose il sacerdote, “perché non avete nelle vostre anime nessuna opinione antica trasmessa attraverso una tradizione che proviene dal passato né alcun sapere ingrigito dal passare del tempo».

Prosegue poi con la motivazione di questa brevità della memoria collettiva dei greci:

«ogni cosa viene registrata, fin dall’antichità, nei nostri templi e conservata alla memoria», mentre in Grecia «a intervalli regolari di tempo, come una malattia, torna il flusso del cielo che vi inonda e non lascia illesi fra voi che gli illetterati e i nemici delle Muse (gli incolti), sicché ricominciate nuovamente dal principio, come tornati giovani». Per di più, aggiunge il sacerdote: «nel corso di molte generazioni, i sopravvissuti sono morti senza aver fissato la loro voce nella scrittura». (Tim. 22 d – e)

In questo passo possiamo individuare almeno sei punti ri-attualizzabili al giorno d’oggi:

  1. la scrittura esprime qui il suo ruolo di strumento tecnico corruttibile ma preservabile dalla distruzione, perciò tramandabile;
  2. la scrittura è uno strumento tecnico ausiliario, che richiede una stabilità materiale continuativa della società per essere mantenuto e motivato nell’uso ordinario;
  3. il vivente mortale, se non ha né la possibilità né la premura di tramandare il prodotto della propria conoscenza, non conserverà un sapere collaudato da mettere a disposizione dei posteri;
  4. la condizione del dopo-catastrofe è analoga a un “momento zero” della memoria mortale, un “cominciare nuovamente da principio”;
  5. i saperi pratici “degli illetterati e degli incolti” sopravvivono più facilmente rispetto a quelli di filosofi e scienziati, propedeutici a porre le basi di quella stabilità materiale che rende possibile l’accumulo del sapere;
  6. l’accumulo di un sapere avanzato e complesso, come quello “scientifico” (episteme), non è necessario alla vita, ma è un “in più”.

Platone ci indica anche che, quando si sia memorizzata un’informazione, la sua durevolezza dipenderà non solo dalle condizioni in cui il suo proprietario la custodisce e preserva, ma anche da come egli l’ha ottenuta. Ad esempio, Crizia il Giovane racconta una storia di cui ha acquisito un ricordo “vivido”, in quanto giovane, attento e partecipativo nel momento del suo apprendimento[4]. Un caso diverso è invece quello di Fedro che, nel dialogo omonimo, deve confrontarsi con un’opera scritta che necessita di rileggere più volte per ricordarla “alla lettera” al fine di tenere il proprio discorso[5].

Nel primo caso, quello di Crizia, la qualità del ricordo è dovuta alle caratteristiche che contraddistinguono il momento in cui egli ha appreso un’informazione, ossia la pregnanza dell’esperienza di apprendimento. Nel secondo caso, quello di Fedro, la qualità della formazione del ricordo sarà dovuta all’ausilio di strategie mnemotecniche, quali la rilettura e la ripetizione a voce alta.

Per concludere, il problema della conservazione, del tramandare e della possibile perdita della memoria (nel senso più ampio che comprende storie, tradizioni, tecniche e conoscenze) è un fenomeno oggi ancora più complesso.

In particolare se guardiamo al fenomeno di progressiva sostituzione dei mezzi di trasmissione “tradizionali” dell’oralità e della scrittura manuale in favore della digitalizzazione dell’informazione.

Quante tipologie e forme di “memoria” abbiamo a oggi sviluppato e quali si stanno depotenziando o stanno scomparendo?

Quante forme della scrittura possediamo e quali competenze sono necessarie per farne uso?

Quanti livelli di linguaggio e quante forme di linguaggio esistono per la sola codificazione informatica dell’informazione?

Quali i pericoli a cui si espone la loro conservazione?

Ai cataclismi menzionati dal sacerdote egizio che ha incontrato Solone, evidentemente presenti e comunque imprevedibili ancor oggi, quali si aggiungono?

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Ovviamente, sono domande complesse che richiedono risposte altrettanto articolate. Ad esempio, per i supporti di archiviazione digitale, da cui oramai dipendiamo largamente, sono deleteri i fenomeni elettrici, magnetici ed elettromagnetici, i quali sono tutti in grado di cancellare, corrompere o rendere inaccessibili, se non addirittura irrecuperabili, le informazioni registrate.

La stessa obsolescenza delle tecnologie e delle tecniche di conservazione e riproduzione dell’informazione, giorno per giorno avvia verso la fine la riproducibilità delle precedenti forme di “memoria”, sia collettiva che individuale (foto, video, documenti, scansioni di immagini, etc.). Gli attuali dispositivi che possediamo saranno sempre meno reperibili con l’avanzare di nuove tecnologie e dei relativi sistemi che ne permettono il funzionamento?

I dispositivi attualmente in uso, per quanto collaudati, non saranno un giorno più compatibili con quelli più avanzati, per protocolli di scrittura e lettura?

Saranno reperibili le tecnologie di giunzione che permettono di interfacciare fisicamente vecchi e nuovi dispositivi di archiviazione di memoria?

Le tecnologie di traduzione e conversione reciproca tra vecchi e nuovi protocolli di archiviazione dell’informazione saranno ancora implementate sui nuovi dispositivi o saranno ancora reperibili e adoperabili?

Quali altre problematiche sono riscontrabili o sono di imminente larga diffusione?

 

La memoria è un affare complesso, sia individuale che collettivo.

 

NOTE

[1] Tim. 42 d - segg. e 69 c - segg.

[2] Centrone, B. 1996, Introduzione a i pitagorici, Editori Laterza, Roma-Bari, pp. 52-61

[3] Resp. 614 b - 621 d

[4] Tim. 26 b

[5] Phaedr. 228 a