L’era post-atomica - Achille Mbembe e l’ultima utopia dell’umanità

Necropolitica

Qual è la relazione fra vita, morte e potere in quei sistemi politici che funzionano solo in uno stato di emergenza? Questa è una delle domande fondamentali a cui Achille Mbembe, filosofo originario del Camerun, cerca di rispondere all’interno di Necropolitics, un saggio breve ma molto denso pubblicato nel 2013. In esso, Mbembe afferma che «la massima espressione della sovranità risiede, in larga misura, nel potere e nella capacità di dettare chi può vivere e chi deve morire» (Necropolitics, 2019, p. 11).[1] Da ciò segue che «esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come dispiegamento e manifestazione del potere» (Cit. p. 12).[2]

È chiaro, fin dalle prime righe, il rimando al concetto di biopolitica, sviluppato da Michel Foucault nel corso degli anni ’70 per comprendere i problemi legati a fenomeni propri dei viventi costituiti in popolazione, come quelli riguardanti la salute, l’igiene, la natalità etc… e al modo in cui sono stati gestiti dalla «pratica governamentale» (Naissance de la biopolitique, 1979, p. 333). Secondo Mbembe, tuttavia, la sovranità esercita una forma di potere che va oltre la decisione circa la gestione della vita della popolazione in questione, provocando intenzionalmente la morte di quest’ultima o di parte di essa. Distinguendo tra vita «utile» e vita «superflua», il principio della razza è ciò che permette di tracciare una cesura nel continuum biologico dell’umanità e consente alla sovranità - specialmente in ambito coloniale - di giustificare ed esercitare la sua funzione di morte. Nel mondo contemporaneo, la nozione di necropolitica è necessaria per rendere conto dei modi in cui

«le armi vengono impiegate nell’interesse della massima distruzione delle persone e della creazione di mondi di morte, nuove e uniche forme di esistenza sociale in cui vaste popolazioni sono sottoposte a condizioni di vita che conferiscono loro lo status di morti viventi» (A. Mbembe, Necropolitics, p. 40).[3]

 

Tecnologia nucleare

Sebbene né Mbembe né Foucault parlino esplicitamente delle armi nucleari o dell’era atomica, l’intreccio dei concetti di biopolitica e necropolitica può essere un’utile chiave di lettura del fenomeno, soprattutto per quanto riguarda il nostro presente. Infatti, anche se non viviamo più in un’epoca in cui la bomba atomica occupa un posto centrale nella vita delle persone, così come è stato subito dopo Hiroshima e Nagasaki, e soprattutto durante la Guerra fredda, essa rimane una presenza inquietante sullo sfondo della politica internazionale: lo abbiamo visto con i recenti sviluppi della guerra in Ucraina. Alla luce di quanto detto prima, le armi nucleari possono essere interpretate come una parte fondamentale dell’esercizio della sovranità, basato sull’intreccio tra biopotere e necropotere. Servendosi delle armi nucleari, infatti, la sovranità politica, che sia quella di uno Stato o di un blocco di Stati, può legittimarsi e riaffermarsi di fronte ad eventuali nemici, in quanto unica detentrice non solo di uno strumento di controllo e regolazione della vita, ma anche e soprattutto di un veicolo di morte.

Ciò risulta evidente anche nel Trattato di non proliferazione nucleare, entrato in vigore nel 1970 e a cui oggi aderiscono più di 190 Paesi. Esso si fonda su tre pilastri: impegnare al disarmo i cinque Stati che detenevano ufficialmente armi nucleari (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, USA), offrire una base giuridica alla non proliferazione delle armi nucleari e consentire l’uso pacifico dell’energia nucleare. Di fatto, tuttavia, al Trattato non si sono ancora adeguate quelle stesse nazioni che l’avevano proposto e che avrebbero dovuto puntare al disarmo, dato che gli altri Stati accettarono di non dotarsi di armi nucleari solo perché quelli che le possedevano si impegnarono ad eliminarle nel giro di pochi anni[4]. La tecnologia nucleare, dunque, rimane tutt’oggi essenziale nella definizione del potere politico sovrano, sia a livello nazionale che internazionale.

Brutalismo

Allargando l’orizzonte della riflessione, secondo Mbembe stiamo assistendo a un’escalation tecnologica mai vista prima, la cui scintilla di inizio potrebbe essere a nostro parere identificata con la creazione e l’utilizzo della bomba atomica. Lo sviluppo sempre più rapido delle tecnologie sta rivoluzionando il nostro rapporto con il mondo, rendendo sempre più difficile separarle dalle nostre vite. A questo proposito, il filosofo parla in La communauté terrestre (2023) di una «seconda creazione», che passa attraverso il dispiegamento di un'umanità ibrida dotata di un doppio: l'umano e il suo oggetto.

La tecnologia, oggi, si fa teologia ed escatologia, portando l’uomo a credere in un possibile futuro in cui potrà finalmente separarsi dalla natura, addomesticare la vita e passare ad un altro stadio dell’evoluzione biologica. Mbembe parla di «brutalismo» per mostrare come questa transizione verso un'umanità ibrida corrisponda a forme di politica la cui funzione è quella di distruggere e separare, formando non l'impossibilità del luogo, ma la costruzione di un non-luogo, in cui circoscrivere certe porzioni di umanità. Con questo termine, l’autore fa riferimento a un’epoca in cui la tecnologia non è più solo uno strumento, essa è la forma che ha preso la metafisica, prima nella storia occidentale e dopo nella storia globale. Nell’epoca del brutalismo, ci si avvale di tre tipi di ragione, cioè quella economico-strumentale, quella elettronico-digitale e quella neurobiologica. Tutte si basano sulla convinzione che c’è sempre meno differenza tra l’uomo e la macchina, che anzi quest’ultima dovrebbe prendere sempre più decisioni al posto nostro. Dunque, secondo Mbembe, non sono più solo gli schiavi o i nativi delle colonie ad essere considerati oggetti, ma con lo sviluppo delle intelligenze artificiali e dell’ingegneria genetica il confine stesso tra uomo e oggetto è destinato a sfumare.

Utopia

Contro questa visione del futuro dell’umanità come definitivamente separata dal resto degli esseri viventi sulla Terra, Mbembe propone una politica di «liberazione del vivente» che si dispieghi a partire da una comunità terrestre, che sia composta da una molteplicità di archivi e che abbracci tutti gli esseri viventi. In essa, inoltre, «è il diritto dei viventi e non più il diritto dei popoli che determina i gradi e le condizioni di appartenenza» (Brutalisme, 2023, p. 173)[5]. È evidente, tuttavia, che la Terra come unità politica globale non esiste ancora. Ecco perché Mbembe afferma che «su un piano politico, il nome Terra è un’utopia, forse l’ultima utopia» (La communauté terrestre, p. 72)[6]. Il suo non esserci ancora non ne diminuisce l’importanza, anzi. Secondo Mbembe, infatti, l’essere umano è posto davanti a un’ultima scelta: «o la riparazione, o i funerali» (Cit. p. 72)[7]. La Terra sarà il luogo a partire dal quale l’umanità intraprenderà l’opera di rigenerazione del vivente, oppure «essa ne sarà la tomba universale, il suo mausoleo» (Cit.) [8]. Il concetto di utopia, pertanto, ricopre un ruolo centrale nella riflessione di Mbembe, il quale trae ispirazione dalle opere di Ernst Bloch, un filosofo che, come afferma Fergnani, ha fatto dell’utopia «il nucleo centrale cui si riconducono tutti i momenti ed aspetti essenziali del suo pensiero» (Utopia e dialettica nel pensiero di Ernst Bloch, p.191). Nel paragrafo 7 di Brutalisme, Mbembe cita espressamente Spirito dell’utopia (1918) e Il principio Speranza (1959), i due pilastri fondamentali del lavoro di Bloch, i quali costituiscono una lunga esortazione all’umanità e permettono a Mbembe di approfondire e strutturare la sua idea della Terra come ultima utopia.

Secondo Bloch, infatti, la speranza è uno dei motori più potenti della storia ed esige non un ottimismo ingenuo o una fede cieca nel progresso, né un pessimismo assoluto, incondizionato e paralizzante, ma un ottimismo critico e militante. Gli esseri umani, nati per la gioia, riescono a lanciarsi verso il divenire solo attraverso la speranza, fondando quest’ultima su un’utopia concreta[9], ovvero agendo a partire da condizioni storico-concrete che si radicano nella situazione sociale presente. Occorre analizzare il divenire storico e cercare nell’attualità quelle «eccedenze utopiche» che possono essere utilizzate per concepire nuove possibilità per il futuro; altrimenti sperare «sarebbe soltanto un atto arbitrario della volontà e, in fondo, l’effetto compensativo di una disperazione che è più profonda e ben altrimenti radicata nei fatti» (Falappa, L’umanità come utopia, p. 60).

In conclusione, contro una visione nichilistica della realtà, contro un potere politico che fonda il suo potere sulla paura, contro un’articolazione ingiusta e ineguale delle relazioni internazionali, oggi Achille Mbembe, lettore di Bloch, ci ricorda che «l’importante è imparare a sperare» (Bloch, Principio speranza, p. 5).

 

 


NOTE

[1] Il testo originale è: «the ultimate expression of sovereignty resides, to a large degree, in the power and the capacity to dictate who may live and who must die», traduzione della Redazione.

[2] Il testo originale è: «to exercise sovereignty is to exercise control over mortality and to define life as the deployment and manifestation of power», traduzione della Redazione.

[3] Il testo originale è: «weapons are deployed in the interest of maximum destruction of persons and the creation of death-worlds, new and unique forms of social existence in which vast populations are subjected to conditions of life conferring upon them the status of living dead», traduzione della Redazione.

[4] M. Elena, Il nucleare tra pace e guerra, Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263, 2013, ser. IX, vol. III, B: 45-70.

[5] Testo originale: «c’est le droit des vivants et non plus le droit des gens qui determine désormais les degrés et les conditions d’appartenance», traduzione della Redazione.

[6] Testo originale: «sur un plan politique, le nom Terre est une utopie, la dernière utopie peut-être», traduzione della Redazione.

[7] Testo originale: «ou la réparation, ou les funérailles», traduzione della Redazione.

[8] Testo originale: «elle en sera le tombeau universel, son mausolée», traduzione della Redazione.

[9] «L'utopia concreta respinge sia un “superficiale” (oberflächlich) empirismo che aderisce ai dati reificati e che al più si attende la sintesi dal loro progressivo accumulo, sia l'”esuberanza” del sognatore, che pretende di andar oltre sorvolando», (F. Fergnani, Utopia e dialettica nel pensiero di Ernst Bloch, p. 194).