Maniac, di Benjamín Labatut - Considerazioni

Quando alla fine della seconda guerra mondia­le John von Neumann concepisce
il MANIAC – un calcolatore universale che doveva, nel­le intenzioni del suo creatore,
«afferrare la scienza alla gola scatenando un potere di cal­colo illimitato»
- sono in pochi a rendersi conto che il mondo sta per cambiare per sem­pre”
[1]

 

Il terzo libro di Benjamín Labatut, pubblicato in Italia per i tipi di Adelphi, cerca di raccontare, come i due che lo hanno preceduto, la società e la tecnologia del presente grazie ad uno sguardo su alcune figure drammatiche, tra cui spiccano John Von Neumann , il creatore del Maniac e Lee Sedol, maestro di Go.

Cos’è il Go? Un gioco millenario diffuso soprattutto in Asia
che il profano può considerare come una sorta di dama
soggetta ad una rapida esplosione combinatoria.
Esplosione combinatoria che si è a lungo tempo considerata
il vero argine contro il riproporsi della capitolazione
nel mondo degli scacchi di Garry Kasparov contro DeepBlue.

 

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Il tema di quella che chiamiamo intelligenza artificiale è raccontato dalla prospettiva di Sedol, uno dei due veri protagonisti di questa narrazione, che con una frase esemplifica un atteggiamento molto in voga nei confronti di questi temi: il senso di «impotenza e paura», che esalta quella sensazione di «debolezza e fragilità di noi esseri umani».

Di virgolettati come questi, è bene dirlo, il lettore non ne troverà poi molti, a favore invece di un gusto dell’invenzione tutto modernista dell’esplosione, della frammentazione del racconto.

Una frammentazione che regna in realtà nello sguardo con cui Labatut dipinge l’altro protagonista, John von Neumann, e si eclissa invece nella più piana rappresentazione delle vicende di Sedol.

In questo libro non troviamo l’efficacia evocativa che pervade i bozzetti di figure che ci hanno aiutato a “smettere di capire il mondo”, ma una sorta di hollywoodizzazione della vicenda che rende sicuramente avvincenti alcuni momenti di quella rivoluzione innescata dagli anni ’930, a partire della sommessa presentazione di Kurt Gödel a Könisberg.

Tuttavia, si può dire che la lettura non si conclude avendo capito davvero e a fondo quello che è successo. Von Neumann pare niente più che una scheggia impazzita, intenta a portare a termine ogni progetto che incontra nel suo vagabondaggio nei regni della fisica, della matematica e della biologia. Sedol, al contrario, sembra semplicemente schiacciato da qualcosa di impossibile da comprendere.

L’istrionismo del primo e l’incredulità del secondo risultano allora uniti da uno stesso fatalismo: di fronte ad una abilità dirompente di costruzione del mondo, pare che l’intelligenza che la sottende, questa abilità, non possa essere di questo mondo.

Ne segue, inevitabilmente, che von Neumann, insieme ad altri geniali profughi ungheresi, diventi un «marziano» e Sedol paia affrontare nelle sue iconiche partite il terminale umano di uno dei Grandi Antichi sognati negli incubi di Lovecraft, piuttosto che il risultato di una peculiare modo di ragionare sul mondo (quello di una infallibile computazione).

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Cosa resta dunque da fare a questa umanità derelitta?

Arrendersi a queste forme di intelligenza aliena?

No, dice Labatut, perché il «miracolo», come lo ha definito in una recente intervista[2],  può sempre accadere e può sempre dunque stravolgere il domani.

Ma è stato un miracolo, allora, che von Neumann abbia portato a fondo la ricerca sulla bomba H?

È stato un miracolo che la sua teoria dei giochi sia stata «l’architrave della Guerra Fredda», come Labatut fa dire a Oskar Morgenstern?

Oppure è stato un miracolo il tumore alle ossa che a 53 anni ha interrotto le sue azioni su questa terra?

Labatut non sorvola certo su questi fatti storici e morali e anzi fa di essi alcuni snodi cruciali del suo racconto. Tuttavia, possiamo dire che l’inevitabilità di un contrappasso sia la stessa di una decisione presa scientemente e ripetutamente in compagnia dei più disparati generali?

Dove sta, quindi, la responsabilità del singolo?

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Ecco, forse preso dal tentativo di rendere il più godibile, e cioè serrata e avvincente, la narrazione, Labatut non si confronta davvero con questa domanda, ma la fa aleggiare nelle decisioni di ogni singolo attore.[3]

A chi legge resta così il compito di soppesare e dare una propria risposta a questa questione e forse, durante questo dibattimento tutto privato, torneranno alla mente le parole con cui Leonardo Sciascia commenta il giudizio di Enrico Fermi sul futuro scomparso Ettore Majorana.

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Alla «mancanza di buon senso» rimproverata da Fermi a Majorana, mancanza che non gli avrebbe permesso di inventare la bomba atomica come lui invece aveva fatto, Sciascia propone un’altra visione: «Perché un genio della fisica come Majorana, trovandosi di fronte alla virtuale, anche se non riconosciuta, scoperta della fissione nucleare, non potrebbe aver capito che il fiammifero per accendere l’isola di fulmicotone su cui si trovavano c’era già, ed essersene allontanato – poiché mancava di buon senso – con sgomento, con terrore?».

Rompere la mano che vuol sfregare quel fiammifero allora può diventare il vero segno di un’intelligenza non aliena ma ben radicata nel nostro pianeta. E non è detto che questa intelligenza sia per forza umana.

 

 

NOTE

[1] Dal risvolto di copertina dell’edizione italiana: Maniac, B. Labatut, Adelphi, 2023

[2] L’intervista è quella rilasciata a Fahrenheit, il programma di Rai Radio 3, e il passaggio è nella risposta dell’autore all’ultima domanda della conduttrice. https://www.raiplaysound.it/audio/2023/10/Fahrenheit-del-04102023-24a6d3a6-db42-424b-8941-1ebcb3426e1e.html

[3] Nella stessa intervista prima menzionata Labatut, tuttavia, dice: «People who have great intelligence carry a weight of responsibility but the fact of the matter is that we, as human beings, make the world and it could be made in very different ways, so the responsibility is shared. It’s not something that we can just delegate to others who are smarter than us, who are more intelligent than us, who are more capable than us. I think that there are certain people whose job it is to come up with new things but it's all of our jobs to decide what we do what are the limits»