La matematica e la logica sono istituzioni sociali

Il sociologo britannico David Bloor (n. 1942) nel 1976 pubblicò un libro, Knowledge & social imagery [1],  che segnò una svolta nella sociologia della scienza. Al suo interno egli si interessa di quelle che vengono comunemente ritenute discipline che hanno una natura cogente, che rispecchiano verità uniche e immutabili: la matematica e la logica. Con l’obiettivo di arrivare al nocciolo (che lui ritiene profondamente sociale) della conoscenza matematica:

«l’idea che la matematica sia variabile, allo stesso modo dell’organizzazione della società,
viene considerata da molti sociologi un’enormità»[2].

Eppure, già il filosofo, storico e scrittore tedesco Oswald Sprengler, nel suo famosissimo Il tramonto dell’Occidente (1918), e Ludwig Wittgenstein, nel difficile Osservazioni sopra i fondamenti della matematica (1956), avevano ipotizzato una connessione tra mondi di numeri e mondi di civiltà.

Anche il matematico, logico e filosofo tedesco Gottlob Frege, ne I fondamenti dell’aritmetica nel 1884, aveva argomentato che la matematica (contrariamente alla posizione di John Stuart Mill, presentata in Sistema di logica raziocinativa e induttiva del 1843) non era una scienza induttiva, nel senso che non si basava sull’esperienza, cioè su operazioni fisiche sugli oggetti. L’idea di Mill poteva tutt’al più essere utile pedagogicamente, ossia a insegnare ai bambini ad apprendere la matematica attraverso la manipolazione di oggetti (sassolini, granelli di pepe, biglie ecc.).

Frege sostiene che i numeri non sono esperienza: chi ha mai avuto esperienza dello zero («zero sassolini») o di numeri estremamente grandi come 10.000.000.000? Avere esperienza di «una cosa», non significa avere esperienza del numero 1, dice Frege. I numeri naturali (0, 1, 2, 3 ecc.) servono per numerare, ma non si identificano con le cose numerate. Infatti, hanno proprietà che non si trovano nella cosa numerata (es. il pari o il dispari), che non si vedono né si toccano, mentre si vedono e toccano le cose a cui essi si riferiscono. Allo stesso modo è difficile sostenere che i numeri ‘immaginari’ (es. 2i), che nascono dal fatto che non è possibile calcolare la radice quadrata di un numero negativo, e i numeri ‘complessi’ (dati dalla somma di una parte reale e una immaginaria - es. 5 + 2i) siano astrazioni ottenute da cose reali.

E anche il matematico tedesco Richard Dedekind, nel suo Essenza e significato dei numeri (1888), riteneva i numeri libere creazioni dello spirito umano, del tutto indipendenti dalla realtà, e un’emanazione diretta delle pure leggi del pensiero.

Come sottolinea il matematico italiano Enrico Giusti (1999) anche gli oggetti della geometria euclidea (retta, piano, lunghezza, area, cerchio, angoli, ecc.) non provengono dall’astrazione di oggetti reali, esterni, indipendenti dall’osservatore, ma da un processo di oggettivazione delle procedure, di pratiche sociali che formalizzano l’operare umano (come tracciare un cerchio sul terreno usando una corda ecc.). La matematica si sviluppa mediante il ripetersi di una sorta di modulo che porta a «fissare», e quindi a far esistere, gli oggetti matematici. Questo avviene in tre fasi: inizialmente vengono introdotti nuovi strumenti, metodi dimostrativi originati da idee innovative; poi essi diventano soluzioni di problemi e insieme oggetti di studio; infine, se vengono accettati, acquistano una vera e propria esistenza oggettiva.

Lo stesso sostiene Bloor (1976/1994, p. 143-4):

i tessitori di tappeti imparano a riprodurre un modello osservando e lavorando con gli altri. Dopo di che possono lavorare autonomamente e applicare più e più volte la tecnica a nuovi casi. Potrebbero, per esempio, mettersi a tessere il tappeto più grande che si sia mai visto: a loro basta solo aver imparato ed essersi esercitati su quelli piccoli.
Questa è la natura delle tecniche.
Analogamente, una spiegazione dell’aritmetica può basarsi su un’esperienza di portata limitata, a condizione che l’esperienza fornisca modelli, procedure e tecniche che possano essere applicati
o riprodotti all’infinito
.

Certamente la matematica non nasce dall’esperienza e dalla percezione (come già sosteneva Frege), ma viene inventata.

Tuttavia, secondo Bloor, essa non è solo un’invenzione (un gioco formale, mentale, puramente soggettivo) senza rapporti con la realtà circostante, perché essa nasce da necessità, da una manipolazione empirica.

In altri termini, essa è un’invenzione sociale, una costruzione (quindi con una certa dose di arbitrarietà) basata su pratiche. Gli enti matematici hanno, quindi, la natura di costrutti ideali, che trovano però un fondamento in una concreta prassi umana che col tempo si stabilizza e si generalizza nella forma di soluzione di problemi.

Bloor, quindi, da una parte accetta la posizione di Frege; dall’altra la porta alle estreme conseguenze, criticando lo stesso Frege e rivalutando e correggendo Mill (che aveva parlato della matematica anche come realtà soggettiva, psicologica): se i numeri non sono basati su una realtà empirica bensì su nozioni teoriche (altamente elaborate, le più fini e le più pure che mai mente sia riuscita a pensare), da dove vengono queste nozioni? Se non dalla natura, allora dalla cultura: «la componente teorica della conoscenza è proprio la componente sociale»[3].

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Bloor comincia quindi, fenomenologicamente, a immaginare una matematica alternativa[4] in cui gli esiti delle operazioni dovrebbero produrre sistematicamente risultati diversi. In questa idea apparentemente assurda, egli trova conforto nella matematica greca antica, dove il numero 1 non era considerato un numero. Non era neppure pari o dispari; esso era entrambi, cioè parimpari, perché era considerato il punto di partenza, il generatore dei numeri (1+1=2; 1+1+1=3 ecc.), sia dei pari che dei dispari, per cui partecipava di entrambe le nature (pp. 155-6). All’interno di questa visione, l’1 è anche il numero più grande perché contiene tutti gli altri numeri; è inoltre il numero con il più alto numero di relazioni/rapporti con gli altri numeri, perché tutti i numeri partono da lui e sono scomponibili nell’unità minima che è 1. Infine, l’1 è la totalità, la parte più grande: se si scompone/taglia l’1 (es. 1 torta), le parti che emergono (2, 3, 5 ecc.) sono più piccole dell’1 interezza o totalità. Peraltro, etimologicamente il numero 2 sembra derivi da «taglio».

La matematica dei pensatori pitagorici e, successivamente, dei platonici era di tipo catalogatorio e riecheggiava le classificazioni in uso nella vita quotidiana. Tale “schema di classificazione simboleggiava la società, la vita e la natura [...] I vari tipi di numeri ‘stavano per‘ proprietà come la Giustizia, l’Armonia e Dio“ (p. 169). Era una matematica applicata, usata per questioni pratiche e carica di magia: per esempio i Pitagorici consideravano il 2 un numero femminile, come tutti i numeri pari, e il numero 10 era collegato alla salute e all’ordine del cosmo. Un po’ come la smorfia napoletana[5] oppure il simbolismo numerico nella Bibbia, dove (ad esempio) il 3 era la perfezione (mentre la stessa, per i Maya, era rappresentata dal 4). Il 4 nel Medioevo era considerato un numero perno e risolutore (quattro sono i punti cardinali, i venti principali, le stagioni, le fasi lunari, le arti liberali del quadrivio, i lati del quadrato a cui veniva paragonata la Terra, in opposizione al triangolo del cielo, simbolo della Trinità). Inoltre, 4 è il numero della perfezione morale e delle proporzioni dell'uomo. Il 7 è il numero buddhista della completezza.

Bloor quindi ha trovato una matematica alternativa: “è chiaro che se non riconosciamo il misticismo del numero come una forma di matematica, nessuna questione di matematica alternativa può essere posta [...] esso rende tautologico il fatto che non via sia una matematica alternativa»[6]. Quindi la matematica non ha una vita propria o un significato intrinseco racchiuso negli stessi simboli che devono essere solo percepiti e compresi[7].

Bloor si chiede: la radice quadrata di 2 è un numero irrazionale (1.41421 35623…), come sostengono i moderni, oppure non è per niente un numero, come dicevano gli antichi greci? Nessuna dimostrazione giungerà a risolvere la questione perché si tratta di visioni matematiche incommensurabili, il cui «significato [non] risiede sulla carta o nelle procedure simboliche del calcolo stesso»[8]. Occorre che esistano determinate condizioni sociali, cioè un sistema di classificazioni e un insieme di significati culturalmente condivisi, perché il calcolo abbia un significato[9].

Quindi il numero è un ruolo[10], una posizione da non confondersi con l’oggetto che incontra stando in quel ruolo. Ma se parliamo di ruoli, posizioni, allora ci troviamo nel campo della sociologia e i numeri possono essere tranquillamente definiti delle istituzioni sociali: «se la matematica riguarda i numeri e le loro relazioni e se queste sono prodotti e convenzioni sociali, allora, effettivamente, la matematica riguarda qualcosa di sociale»[11].

Citando le conclusioni a cui giunge il filosofo (di origini lettoni) Jacob Klein, studioso del pensiero matematico greco, Bloor sostiene che «attribuire alla nozione di numero una tradizione di significato unica e ininterrotta sia un errore [...] la continuità che noi vediamo nella tradizione della matematica è artificiale. Deriva dal fatto che attribuiamo il nostro stile di pensiero a opere precedenti»[12].

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Per concludere, e rafforzare l’idea di un nucleo sociale della matematica, possiamo notare che i numeri raramente vengono usati in forma pura o astratta. Più spesso appaiono sempre insieme a un referente: “possedere 5 case”, “decidere in 2”, “conservare 10 lingotti”.

Il referente è il motore dell’interpretazione, del giudizio, dell’invidia o risentimento. Inoltre, a seconda del referente, possono perdere la loro natura cardinale: avere 3 figli non vuol dire avere 3 volte 1 figlio e non è come avere 3 sassolini o 3 fagioli.

La dinamica sociale, nel primo caso, si mostra in tutta la sua pregnanza: se si hanno 3 figli contemporaneamente si devono affrontare dinamiche molto diverse dall’avere 3 figli a distanza: l’organizzazione sociale ed economica sarà molto diversa nel secondo caso.

Per cui i numeri sono profondamente sociali. Se così non fosse perché gli studenti ci rimangono così male se prendono 29 anziché 30? Perché i/le docenti, in seduta di laurea, danno a malincuore un 109, considerato quasi una beffa nei confronti della/o studente/ssa?

 

NOTE

[1] D. Bloor, Knowledge and Social Imagery, The University of Chicago Press, 1976 – traduzione italiana in La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994

[2] D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994, p. 151

[3] Ibidem, p. 137

[4] Ibidem, p. 152

[5] Essa è una sorta di «dizionario» di interpretazione di sogni (ma a volte anche di situazioni reali), in cui a ciascun vocabolo (persona, oggetto, azione, situazione ecc.) corrisponde un numero da giocare al Lotto. L'origine del termine Smorfia è incerta, ma la spiegazione più frequente è legata al nome di Morfeo, il dio del sonno nell'antica Grecia. Esiste un gran numero di smorfie locali, in uso in altre città.

[6] D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994, p. 170

[7] Ibidem, p. 171

[8] Ibidem, p. 173

[9] Ibidem, p. 174

[10] Ibidem, p. 142

[11] Ibidem, p. 142

[12] Ibidem, p. 157