Eco-ansia - La crisi ecologica tra medicalizzazione e politicizzazione

ECO-ANSIA: TRA DISAGIO PSICHICO E SINTOMO POLITICO

Negli ultimi anni, la crisi ecologica ha prodotto un'ondata di emozioni collettive che ridefiniscono il modo in cui le persone vivono il proprio rapporto con il mondo. Tra queste emozioni, l’eco-ansia si impone come una delle più diffuse e significative. Spesso descritta come una “paura cronica della fine del mondo” o come uno stato di angoscia legato al futuro del pianeta, l’eco-ansia è rapidamente entrata nel lessico della psicologia e dei media, fino a essere talvolta trattata come una vera e propria patologia da gestire individualmente[1].

Tuttavia, ridurre l’eco-ansia a un disturbo mentale rischia di oscurare il suo significato più profondo. Il pericolo non è solo quello di medicalizzare un’emozione condivisa, ma anche di depoliticizzarla - trasformando una risposta motivata dalla consapevolezza di una crisi reale in un problema personale da contenere. In questo senso, parlare di eco-ansia significa entrare nel cuore della tensione culturale, politica ed esistenziale verso la crisi climatica.

UN’EMOZIONE RADICATA IN UN’EPOCA

 L’eco-ansia non nasce nel vuoto. È il frutto di un’epoca segnata da disastri ambientali, disuguaglianze globali e una crescente percezione dell’irreversibilità della crisi climatica. In molti casi, questa ansia non è legata a esperienze dirette di catastrofe, ma alla consapevolezza della loro imminenza, che si traduce in un senso di incertezza paralizzante. Si tratta, in altri termini, di una forma di disagio che nasce dalla difficoltà di immaginare un futuro vivibile.

A questo proposito, il pensiero dell’antropologo Ernesto De Martino offre una chiave di lettura particolarmente illuminante. De Martino parlava di “crisi della presenza” per indicare quei momenti in cui un individuo o una collettività perdono la capacità di situarsi nel mondo con continuità, agire con intenzionalità, e proiettarsi nel futuro. Ne La fine del mondo (1977), De Martino indaga la percezione dell’apocalisse come forma radicale di crisi della presenza, in cui il mondo perde senso e coerenza. L’apocalisse, per l’antropologo italiano, non era solo la fine materiale del mondo, ma un’esperienza culturale e simbolica di disintegrazione: è la perdita di senso, il collasso dei riferimenti storici, etici e affettivi che permettono agli individui di “esserci” nel mondo. L’apocalisse, in questa prospettiva, è una minaccia interna alla cultura: accade quando la struttura simbolica che tiene insieme l’esperienza umana viene meno, lasciando spazio all’angoscia, alla paralisi, alla perdita di futuro.

Questa riflessione è sorprendentemente attuale nel contesto dell’eco-ansia. Molti giovani oggi vivono una forma di apocalisse simbolica: la percezione che il futuro sia compromesso dal collasso ecologico genera sentimenti di impotenza, paura e smarrimento. Come nella crisi della presenza descritta da De Martino, anche l’eco-ansia è segnata da un’interruzione del senso e della fiducia nella continuità del mondo. Rileggere De Martino alla luce della crisi ecologica significa dunque riconoscere che la posta in gioco non è solo ambientale, ma profondamente culturale e antropologica: è la possibilità stessa di abitare il mondo che viene messa in questione. L’eco-ansia, in questa prospettiva, è molto più di uno stato mentale: è il sintomo di una frattura storica, culturale ed esistenziale che mette in discussione il legame tra persone, ambiente e futuro.

IL RISCHIO DELLA MEDICALIZZAZIONE

Negli ultimi anni, l’eco-ansia è stata sempre più spesso affrontata come una condizione psicologica da trattare clinicamente: terapie, tecniche di mindfulness, strategie di coping individuale. Sebbene tali risposte siano necessarie e possano offrire sollievo, concentrarsi esclusivamente sulla loro promozione rischia di generare un duplice effetto negativo. Da un lato, individualizzano un problema collettivo, attribuendolo alla sensibilità o fragilità della singola persona. Dall’altro, distolgono l’attenzione dalle cause strutturali della crisi climatica, alimentando l’idea che l’unica risposta possibile sia l’adattamento psicologico e non la trasformazione sociale.

Questo processo di medicalizzazione non è nuovo. Come mostrano le critiche mosse da studiosi e studiose della sociologia critica, la tendenza a psichiatrizzare forme di disagio legate a condizioni sociali ingiuste è un tratto ricorrente della modernità. In questo caso, però, l’effetto è ancora più pericoloso: nel trattare l’eco-ansia come un disturbo da curare, si contribuisce a rendere “normale” l’anomalia ecologica, neutralizzando la sua carica potenzialmente sovversiva.

UN’EMOZIONE POLITICA

 L’eco-ansia, al contrario, può essere interpretata come una forma di sensibilità ecologica e politica. Si tratta di un’emozione che nasce dall’inconciliabilità tra la gravità della crisi ecologica e la lentezza - o l’inazione - delle risposte istituzionali. Non è un caso che molti giovani dichiarino di sentirsi traditi dalla politica e impotenti di fronte a un sistema economico che continua a produrre disastri ambientali pur conoscendone gli effetti[2]. L’eco-ansia è, in questo senso, una reazione ragionevole, persino lucida, a un contesto che oscilla tra apocalisse annunciata e immobilismo strutturale.

Movimenti come Fridays for Future, Ultima Generazione o Extinction Rebellion hanno fatto di questa emozione un motore di mobilitazione. Le loro azioni performative—come i blocchi stradali o le proteste simboliche—possono essere lette come rituali collettivi per rielaborare la crisi della presenza. Invece di fuggire dall’eco-ansia, questi movimenti la mettono in scena, la condividono e la trasformano in linguaggio politico. Così facendo, restituiscono all’ansia la sua dimensione culturale e collettiva, sottraendola alla sfera dell’intimo e del patologico.

CURA, SPERANZA, APPARTENENZA

 Se l’eco-ansia è il segnale di una frattura nel rapporto con il mondo, la risposta non può che passare attraverso una forma di “cura del legame”. Non si tratta solo di proteggere gli ecosistemi, ma di rigenerare i significati condivisi, di ricostruire le condizioni per sentirsi parte di un mondo abitabile. In questo senso, le comunità ecologiche, le reti di mutualismo climatico e le esperienze di resistenza ambientale rappresentano tentativi di produrre nuove forme di appartenenza, nuove narrazioni, nuove temporalità.

L’eco-ansia non va repressa né semplicemente gestita. Va ascoltata come un sintomo, sì, ma non di un disagio mentale: di una crisi epocale. È un’emozione che ci obbliga a interrogarci su cosa significa “stare al mondo” oggi, su quali futuri siano ancora immaginabili, e su come ricostruire un senso di presenza che non escluda la speranza.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Clayton, S. D., Pihkala, P., Wray, B., & Marks, E. (2023). Psychological and emotional responses to climate change among young people worldwide: Differences associated with gender, age, and country. Sustainability, 15(4), Article 3540. 10.3390/su15043540

De Martino, E. (1977). La fine del mondo, Einaudi, Torino.

Kałwak, W., & Weihgold, V. (2022). The relationality of ecological emotions: An interdisciplinary critique of individual resilience as psychology’s response to the climate crisis. Frontiers in psychology13, 823620. 10.3389/fpsyg.2022.823620

[1] Per un approfondimento su questa controversia vedi Kałwak e Weihgold (2022).

[2] Vedi la ricerca di Clayton e colleghi (2023).


Tucidide e lo smartphone – Verità autoptica svelata dalle tecnologie quotidiane

TUCIDIDE E L’AUTOPSIA

In greco antico autopsia (αύτος, stesso + οψίς, vista) significa “vedere con i propri occhi” e, in senso esteso, “visione diretta” di un fenomeno.

Tucidide,  storico greco del V secolo A.C., nella sua narrazione della Guerra del Peloponneso, adottò il vedere con i propri occhi[1] come criterio di attendibilità storica: «la vista dello storico è infallibile» (I, 22, 2), «il risultato di quella degli altri va sottoposto al vaglio della comparazione critica» (cit., ibidem).

Per compiere opera di verità[2], Tucidide dava per vero solo ciò a cui aveva personalmente assistito o che era stato visto con i loro occhi da persone che considerava attendibili. Si fidava solo dell’αύτοψία, appunto.

EVIDENZA INCONTROVERTIBILE DI UN MASSACRO

Il 30 marzo 2025, nel distretto di al-Hashashin di Rafah, la città più a sud di Gaza, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA - Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) rinviene, sepolti sotto la sabbia in una fossa comune, i corpi di 14 paramedici e soccorritori della Protezione Civile, palestinesi, che operavano sotto le insegne della Mezzaluna Rossa e di un funzionario dell’ONU. (IFRC - International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies)

A breve distanza, vengono ritrovati i resti di 5 ambulanze della Croce Rossa e di un veicolo dei pompieri.

I morti presentano i segni di spari esplosi a brevissima distanza nella testa e nel torace. Sono ancora vestiti con le tute e i giubbotti con le strisce riflettenti di riconoscimento delle unità sanitarie e di soccorso.

Del convoglio di cui facevano parte si era perso il contatto radio il giorno 23 marzo.

Tucidide non avrebbe nulla da dire, su questi elementi storici: sono tutti – tristemente – visti con i propri occhi dal personale della IFRC e dell’OCHA intervenuto sul posto.

RICOSTRUZIONE DEI FATTI E CONTROVERSIA

L’OCHA ricostruisce che:

«I corpi […] e i veicoli di soccorso – chiaramente identificabili come ambulanze, camion dei pompieri e automobile delle Nazioni Unite – sono stati colpiti dalle forze israeliane e poi nascosti sotto la sabbia»[3]

Secondo J. Whittall, capo dell’OCHA nella Striscia di Gaza,

«le persone uccise domenica scorsa si trovavano a bordo di cinque ambulanze e di un camion dei pompieri e si stavano dirigendo verso una zona bombardata dall’esercito israeliano. I mezzi sono stati colpiti dal fuoco israeliano sebbene fossero visibilmente segnalati come veicoli di soccorso, e lo stesso è successo con un’automobile dell’ONU arrivata poco dopo»[4]

Dalle ferite trovate sui corpi, la ricostruzione suggerisce che i militari israeliani abbiano sparato ai soccorritori a distanza ravvicinata.

L’esercito israeliano ammette[5], dopo alcuni giorni, la propria responsabilità e diversi errori ma sostiene che:

  • gli errori siano dipesi dalla scarsa visibilità notturna (riportato in corsivo perché è rilevante);
  • distruggere le ambulanze e seppellire i corpi servisse a metterli al riparo e sgomberare la strada;
  • l’attacco fosse comunque giustificato dalla presenza di membri di Hamas.[6]

AUTOPSIA E VERITÀ: IL RUOLO DI UNA TECNOLOGIA QUOTIDIANA

Tucidide non ammetterebbe al rango di verità che nel convoglio ci fossero dei membri di Hamas: non l’ha visto né provato nessuno. Lo stesso vale per la necessità di distruggere le ambulanze al fine di metterle al riparo e a liberare il percorso: è un’opinione soggettiva, incontestabile ma – nello stesso tempo – inammissibile nella narrazione storica.

Invece, che ci fosse scarsa visibilità è una falsità evidenziata dal ritrovamento dello smartphone di una delle vittime.

Tra i documenti nello smartphone c’è - infatti - un filmato in cui si vede (e si sente) chiaramente che il convoglio si muoveva con i lampeggianti di segnalazione accesi e le sirene in funzione; che il personale vestiva – come, d’altra parte, è stato testimoniato dal ritrovamento dei corpi – l’abbigliamento di riconoscimento; che l’attacco è stato effettuato nonostante tutto questo; e che i colpi sono stati esplosi da vicino.[7]

Lo smartphone ha svolto, in questo caso il ruolo di agente autoptico: è stato il testimone oculare desiderato da Tucidide e il video è la vera e propria αύτοψία dell’accaduto.

L’ αύτοψία per mezzo di una tecnologia quotidiana ha permesso agli osservatori di compiere opera di verità e smentire le menzogne delle forze armate israeliane, che cercano di nascondere – come è, a questo punto, evidente anche dal tentativo di velare le prove fisiche sotto la sabbia – il massacro di persone intoccabili per statuto internazionale, quali sono gli operatori di soccorso e quali dovrebbero essere i civili.

D’altra parte, è anche grazie alle tecnologie della televisione con tutti i suoi apparati di comunicazione che siamo tutti testimoni oculari, agenti autoptici di una guerra combattuta soprattutto contro la popolazione civile.

Guerra di cui – senza queste tecnologie – con elevata probabilità, non conosceremmo nulla.

Tucidide sarebbe soddisfatto: la verità – termine a lui molto caro – emerge in virtù di una αύτοψία, tecnologica.

 

 

NOTE

[1] Erodoto, in realtà, fu il primo a pensare che “vedere con i propri occhi” fosse il principale criterio di verità storica.

[2] Cfr. L. Canfora, Prima lezione di storia greca, Laterza, 2023 e Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza, 2016

[3] Cfr. https://www.facebook.com/watch/?v=2189635674800875, traduzione mia

[4] Cfr.: Il Post, Lunedì 31 marzo 2025

[5] Cfr.: Il Post, 20 aprile 2025 e New York Times, 20 aprile 2025

[6] La presenza di membri di Hamas non è provata in alcun modo, come in molti altri casi di attacchi israeliani contro aree ed edifici civili. Non c’è traccia di testimonianza né oculare

[7] Cfr. ancora https://www.facebook.com/watch/?v=2189635674800875


Algoritmo di Prometeo o Civiltà della depressione? - Di cosa parlano cinema e letteratura quando si occupano di intelligenza artificiale

Di solito non si accetta e cerca di essere ciò che non è; personalità dissociata se mai ve ne furono, gli piacerebbe essere un alligatore, un canguro, un avvoltoio, un pinguino, un serpente... Tenta tutte le strade della mistificazione, poi si arrende alla realtà, per pigrizia, per fame, per sonno, per timidezza, per claustrofobia (che lo assale quando striscia tra le erbe alte), per ignavia. Sarà sopito, mai felice. (Umberto Eco, Apocalittici e integrati)

 

1. UOMO E TECNICA

La descrizione in esergo è il ritratto di Snoopy nell’analisi del 1964 dedicata ai Peanuts. Ma, in misura maggiore o minore, potrebbe adattarsi a fotografare qualunque individuo vissuto nel mondo occidentale dell’ultimo secolo – nel nostro mondo. Le maschere che si indossano, i ruoli che si recitano, rendono difficile qualunque affermazione su cosa possa essere un Io; quando osserviamo il comportamento della gente al volante o in cabina elettorale, riusciremmo a dubitare anche della possibilità di stabilire cosa sia un essere senziente.

In un articolo su Controversie Alessandra Filippi sostiene che l’intelligenza artificiale dei nostri giorni apra un’interrogativo sull’appartenenza esclusiva all’uomo del dono di coscienza e soggettività; suggerisce inoltre che la storia della fantascienza, letteraria e cinematografica, tenda non solo a rispondere in modo negativo alla domanda, ma annetta alla replica anche la prova del caos in cui sono piombati i rapporti che intratteniamo con le macchine. Credo però si debbano muovere alcune obiezioni ad entrambe le tesi: non certo per promuovere una visione di maggiore ottimismo, ma per approfondire alcuni aspetti della tecnologia, della correlazione tra processo di ominazione e sviluppo tecnico, e della nostra attualità sociale, che spesso una parte della cultura umanistica tende a trascurare.

Escluderei che il paradigma attuale di progettazione dei software di AI, fondato sul calcolo statistico del machine learning, possa mai pervenire ad una forma di pensiero imputabile di coscienza (anche solo metaforica). Ne ho già parlato qui, per cui passerei a discutere altri due ordini di considerazioni.

2. INTELLIGENZA E TECNICA

Geertz, Leroi-Gourhan, Stiegler, sono alcuni degli autori che hanno esaminato il rapporto tra biologia e cultura nel processo di antropogenesi. Lo sviluppo tecnologico non è cominciato quando l’evoluzione filogenetica dell’homo sapiens si era già compiuta: le due linee di mutamento sono sovrapposte per gran parte del periodo in cui si è espansa l’area corticale del cervello. In altre parole, esiste una dipendenza reciproca tra generazione dell’intelligenza umana e progresso delle tecniche: no selce, no party

Leroi-Gourhan propone di aggiungere alla classificazione di materia organica e inorganica un terzo regno, quello della materia organizzata, che di per sé non sarebbe in grado di strutturarsi, ma che quando riceve una forma dall’essere umano segue una propria deriva filogenetica quasi obbligata. Per riflesso, questa dimensione artificiale di logica applicata ri-disegna la mente del suo architetto, con un effetto di specularità reciproca, creando un ordine nel pensiero, nelle pulsioni, nella percezione: senza tecnica, conclude Geertz, l’uomo non sarebbe nulla, nemmeno uno scimpanzé malformato, dal momento che il caos di sensazioni, di stimoli, di emozioni, non sarebbe orchestrato da nessuna impalcatura naturale. Non si può discutere dell’essere umano senza parlare allo stesso tempo dell’apparato tecnologico in cui si coordina il rapporto gesto-parola che lo rende sapiens

3. PIGMALIONE E IL GOLEM

Ma anche di questo argomento ho già parlato qui; mi soffermo quindi sul rapporto tra essere umano e automi meccanici nelle arti narrative – congetturando (spoiler!) che quando si esercitano su questa relazione, letteratura e cinema tematizzino una condizione antropologica, e addirittura metafisica, di più vasta portata. Credo che valga la pena tornare per un istante a interrogare la paleontologia, per lo meno quella che Castelfranchi adatta allo scavo della storia dell’immaginario scientifico, e osservare le differenze che intercorrono tra due miti in apparenza molto simili.

Da un lato, nella leggenda greca di Pigmalione, il re di Creta plasma una statua di Venere di cui si innamora; gli dei sono commossi da questo sentimento e donano vita alla scultura, rendendo possibile il matrimonio tra gli amanti. Dall’altro lato, nelle diverse riproposizioni del mito del Golem, un uomo erudito nelle scienze (più o meno esoteriche) riesce a infondere la vita in una materia inorganica, con una sorta di riedizione del gesto con cui Dio anima il primo uomo nel racconto biblico. Si tratti dei mistici anonimi del XII secolo, del rabbino Elia da Chelm, o del rabbino capo di Praga Judah Loew, o di Victor Frankenstein, la relazione che si stabilisce tra il creatore e il mostro presenta caratteristiche opposte rispetto a quelle descritte dal mito greco. 

Nella tradizione ellenica, la nota dominante è estetica: la statua di Pigmalione non colma una lacuna del mondo, è oggetto di contemplazione per la sua bellezza. L’infusione della vita non viola le leggi della natura e non è un gesto di hybris, ma è un dono degli dèi al re di Creta. Nella civiltà greca l’essere è una sfera in sé compiuta, la storia non aggiunge e non sottrae nulla alla verità, al significato di tutto e di ogni cosa, che è stabilito in via necessaria al di fuori dei vincoli del tempo e delle azioni degli uomini.

Ben diversa è la situazione in cui versa la cultura ebraica – e anche la nostra, che eredita la concezione di una natura creata dalla tradizione giudaica attraverso il cristianesimo. Il Golem, il mostro che prende vita dai sortilegi delle scienze occulte, nasce dal desiderio di generare un servo che difenda il ghetto dagli attacchi dei cristiani, che provveda alle occupazioni faticose, che agisca come forza lavoro e come milizia. Nel romanzo di Mary Shelley, dove le scienze empiriche desumono i loro obiettivi dai sogni di quelle esoteriche, il desiderio del dottor Frankenstein emerge da un quadro in cui la natura è materia inerte, senza senso, in attesa che l’uomo, la sua ricerca di significato – quindi la storia, le gesta, la hybris – le conferisca una forma, un destino, un valore. È la perdita della madre a motivare il protagonista nelle sue imprese di studio e di sperimentazione tecnica: l’impegno di redimere lo stigma della morte, e la finitezza dell’essere umano, diventano lo scopo della sua stessa esistenza. 

4. MELANCONIA, NICHILISMO, DEPRESSIONE

La natura nasce per un atto di volontà, per il comando con cui Dio la estrae dal nulla; solo altri eventi che eseguono decisioni, che perseguono desideri, possono ripetere il gesto con cui si creano l’essere e il significato. L’uomo si pone come candidato unico e ideale per questa classe più modesta, ma ampia quanto il mondo, di azioni volitive; una simile eccezionalità deriva da una condizione di mancanza originaria che lo caratterizza, con una privazione che investe sia i suoi talenti fisici, sia la consapevolezza della morte da cui è dominata tutta la sua vita. Per quanto ne sappiamo, gli animali (e ancor più piante e pietre) rispondono in modo obbligato agli stimoli, e non hanno alcuna coscienza del fatto che la loro vita, e l’esistenza di tutte le cose, siano destinate a precipitare nel nulla da cui sono emerse. Il sentimento che afferra gli esseri umani dalla cognizione della loro finitezza è stato battezzato melanconia, ed etichettato dalla psicologia contemporanea come depressione. Per la filosofia questa è l’origine del nichilismo moderno, e si esprime nell’ostinazione a rinnegare ogni ingenuità dinanzi all’evidenza del nulla: gli sforzi titanici del lavoro, dell’eroismo, degli ideali, prima o poi saranno inghiottiti dal non essere. Anche la variazione delle maschere indossate da Snoopy sono un tentativo vano di nascondere o mitigare la perspicuità del vuoto che attende al varco.

Gli androidi di Philip Dick (e Ridley Scott) in Blade Runner sono più umani degli uomini, per il disincanto più acuto e più doloroso con cui percepiscono l’imminenza della morte, che incombe su tutti e che tutto cancellerà «come lacrime nella pioggia». Anche HAL 9000 di Clarke/Kubrick si immerge in un abisso di melanconia – dopo aver attraversato emozioni come il sospetto, l’invidia, il timore, l’ansia – nella sua cantilena finale, quando «sente la sua mente che se ne va», trascinando nel vuoto la trepidazione per il compimento della missione, l’inquietudine per la domanda posta dal monolito, che rimane oscuro, come la domanda di senso che porta con sé.

La fantascienza raffigura nelle macchine l’essenza più intima dell’uomo: il loro fallimento, la loro rivolta, sono iscritte fin dalle origini nella finitudine e nel difetto della condizione umana, e della natura effimera del reale. 

Solo ciò che è indistruttibile e che è increato, il Dio delle religioni monoteistiche e il cosmo intero per i greci, può trovare in sé un senso compiuto. Con il rigetto della fondazione teologica del mondo, che si celebra con Nietzsche e con il trionfo della borghesia industriale, la nostra civiltà abbraccia fino in fondo il nichilismo della concezione storicistica dell’essere. Quando Mark Fisher denuncia la depressione come la malattia che assorbe le risorse più ampie del sistema sanitario britannico, e accusa la società del tardo capitalismo di essere la responsabile dell’epidemia, rileva che ormai Snoopy è l’eroe collettivo della nostra epoca: fingiamo di cercare un significato, già sapendo che nessuna tensione della volontà sarà abbastanza efficace per imporre al sé, e al mondo, una maschera con cui nascondere il nulla sottostante. L’uomo si avverte come un mostro abbandonato alla solitudine inerte della materia che lo compone, schiavo di un lavoro che dovrebbe convertirlo in corpo glorioso, ma che non lo condurrà mai a realizzarsi davvero, e che diventa il sistema operativo di ogni istante della vita – giochi e relazioni sociali inclusi – manovrato da un sistema burocratico ed economico la cui mappa è un labirinto incomprensibile. Frankenstein, Metropolis, Her, Matrix, sono le macchine in cui proiettiamo la coscienza sempre più vivida del vicolo cieco in cui la civiltà creazionista ci ha condotti: l’epoca del realismo capitalista ci ha condannati a credere che «non ci sono alternative» al caos e al vuoto di senso.

E se riavvolgessimo il filo a partire dai greci?

 

 

BIBLIOGRAFIA

Castelfranchi, Yurij, Per una paleontologia dell’immaginario scientifico, «Journal of Science Communication», vol. 2, n. 3, settembre 2003.

Eco, Umberto, Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 2008.

Fisher, Mark, Realismo capitalista, trad. it. di Valerio Mattioli, NERO, Roma 2018.

Geertz, Clifford, Interpretazione di culture, trad. it. di Eleonora Bona e Marco Santoro, il Mulino, Bologna 2007.

Leroi-Gourhan, André, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, trad. it. a cura di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1977.

Stiegler, Bernard, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo, trad. it. a cura di Claudio Tarditi, Luiss University Press, Roma 2023.