Dopo tre anni di trattative, l’Oms ha approvato il primo Piano pandemico globale

Quasi un anno fa, su questa rivista avevamo parlato del Piano pandemico globale, sollevando non poche critiche. In questi giorni, dopo tre anni di negoziazioni, il piano è stato approvato. I voti a favore sono stati 124, mentre 11 i Paesi si sono  astenuti: Italia, Russia, Bulgaria, Polonia, Romania, Slovacchia, Giamaica, Guatemala, Paraguay, Israele e Iran. Nessuno contrario.

Due le considerazioni. In primo luogo, il testo ha perso l’impostazione iniziale che appariva fortemente “dirigista”. Le sovranità nazionali non sembrano più surclassate perché è specificato che l’Oms non sarà autorizzato né a prescrivere leggi nazionali né a incaricare gli Stati di intraprendere azioni specifiche come vietare i viaggi, imporre blocchi o vaccinazioni e misure terapeutiche. Per il segretario generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il piano «è una garanzia che si possa proteggere meglio il mondo da future pandemie. Ed è anche un riconoscimento da parte della comunità internazionale che i nostri cittadini, le nostre società e le nostre economie non devono subire nuovamente perdite come quelle subite durante il Covid 19».

Seconda considerazione: la porta Oms non è del tutto chiusa per nessuno. Il Piano pandemico verrà inviato a tutti i 60 Stati membri per essere ratificato dai Parlamenti, e sarà allora che il “sì” o il “no” dei singoli Stati diventerà definitivo. 

Il fatto che l’Italia non abbia votato il Piano è stato visto come un segnale forte; per chi, in Italia, ritiene che il governo italiano abbia fatto bene, dovrà vigilare affinché questa posizione  venga mantenuta quando il Parlamento sarà chiamato a esprimersi. Va detto che il trattato entrerà in vigore, a livello internazionale, solo per i Paesi che lo ratificano. 

Quali sono le perplessità? I tempi sembrano allungarsi ancora – si ipotizza fino a marzo 2026 - perché il Piano potrà essere votato soltanto quando sarà ultimato in ogni suo allegato e al momento manca quello dedicato alla trasmissione dei patogeni (che riguarda cioè le misure di sicurezza per i laboratori che isolano batteri o virus).

A preoccupare chi dovrebbe sentirsi rassicurato dal linguaggio ammorbidito di Ghebreyesus, c’è però il Regolamento sanitario approvato dall’Oms il 1° giugno scorso: un testo che ha la volontà di censurare qualsiasi informazione considerata come non-informazione e che surclasserebbe le leggi nazionali. I Paesi hanno tempo fino al 19 luglio per respingerlo, inviando una lettera (in questo caso varrebbe il Regolamento sanitario precedente del 2015) altrimenti entrerà in vigore di default. 


Coltivare la vita in laboratorio - Come siamo arrivati a intendere la materia vivente come tecnologia

Pensando al lavoro di scienziati o biologi in laboratorio non ci risulta strana la possibilità che questi possano essere impegnati nella coltivazione di cellule o linee cellulari provenienti da vari organismi viventi. Ad esempio, attualmente le cellule che provengono da esseri umani sono ampiamente utilizzate nei laboratori e in programmi di ricerca biomedica, così come rivestono un ruolo centrale nella ricerca farmaceutica. In breve, la possibilità di mantenere in vita cellule e tessuti umani al di fuori del corpo e di usarle come una materia tecnologica è qualcosa che accade di routine, è ritenuto normale e non desta alcun particolare senso di straniamento. Tuttavia, com’è possibile questo? Quando siamo arrivati a pensare la vita al di fuori del corpo come qualcosa di normale e non problematico? E in quale momento la vita e le cellule hanno assunto questa particolare forma tecnologica? Questi sono alcuni degli interrogativi da cui parte anche Hannah Landecker (2007), sociologa e storica della scienza, nel ricostruire la storia della coltura dei tessuti. Tali questioni ci possono aiutare a focalizzare l’attenzione su alcune delle condizioni che hanno permesso la costruzione di infrastruttura in cui è stato possibile standardizzare metodi, tecniche e oggetti sperimentali impiegati nella coltura cellulare.

Un evento da cui iniziare può essere rintracciato nel 1907, quando Ross Harrison, a partire dal tessuto embrionale di una rana, riuscì ad osservare la crescita di una fibra nervosa al di fuori del corpo. In quegli anni era in corso un vivace dibattito scientifico sulla natura e sviluppo delle fibre nervose a cui risultava difficile trovare una soluzione con le tecniche e i metodi sperimentali impiegati. Infatti, gli scienziati si affidavano principalmente a tecniche istologiche, le quali consistevano nell’acquisizione di sezioni del corpo di un animale in diverse fasi nel tempo, per cui era necessario sacrificare vari animali in diversi momenti per osservare degli sviluppi tissutali. I tessuti ottenuti in questo modo erano resi adeguati alla conservazione e all’analisi attraverso sostanze fissative e coloranti, e in questo modo fornivano dei modelli statici di momenti precisi dello sviluppo. Nonostante ciò, con queste tecniche istologiche non era possibile trovare una risposta sostanziale allo sviluppo delle fibre nervose: gli scienziati potevano dare delle interpretazioni opposte dello stesso frammento di tessuto reso in forma statica. Harrison risolse questa controversia cercando di rendere visibile, al di fuori del corpo, il processo di sviluppo di una fibra nervosa mentre avveniva. Partendo da nozioni di coltura dei microrganismi, egli riuscì a realizzare una preparazione a “goccia sospesa” (hanging-drop) che forniva un supporto attraverso della linfa coagulata per far crescere le fibre nervose di rana al di fuori del corpo. In questo modo, Harrison utilizzando delle cellule vive risolse il problema di come gli organismi biologici viventi cambiano nel tempo e rese visibili i processi che erano interni al corpo degli animali. È in questo senso che all’inizio del XX secolo inizia ad emergere la possibilità e l’idea di sperimentazione in vitro e non più solo in vivo.

Qualche anno più tardi Alexis Carrel e il suo assistente Montrose Burrows tentarono di sviluppare le tecniche adottate da Harrison nel tentativo di mantenere in vita le cellule al di fuori del corpo. Carrel e Burrows trasformarono “il metodo di Harrison per la crescita a breve termine di un tessuto embrionale in un metodo generalizzato per la coltivazione di tutti i tipi di tessuto” (Landecker 2007, p.53) e nel 1910 coniarono il termine “coltura tissutale” per riferirsi a questa serie di operazioni. In particolare, Carrel e Burrows cercarono di mantenere in vita le cellule attraverso la creazione di colture secondarie a partire da un frammento di tessuto: spostando una parte delle cellule in un nuovo medium plasmatico si generava una sorta di riattivazione cellulare e queste continuavano a vivere. Tuttavia, con questa tecnica le cellule cessavano di aumentare di massa e diventavano più piccole ad ogni trasferimento, per cui la soluzione tecnica che adottò Carrel fu quella di aggiungere del tessuto embrionale macinato – chiamato “succo embrionale” – per nutrire le cellule. Fu in questo contesto che Carrel affermò la possibilità di poter coltivare delle “cellule immortali”, che potevano vivere in maniera indefinita al di fuori del corpo. Infatti, per Carrel la morte cellulare era un “fenomeno contingente” che poteva essere rimandato attraverso la manipolazione del medium plasmatico e le sostanze in cui era immersa la cellula. Per questa ragione, Carrel brevettò una fiaschetta, nota come “Carrel flask”, che gli permise di coltivare le cellule in modo asettico evitando infezioni e manipolando le sostanze in cui erano immerse le cellule in modo controllato. Tuttavia, va precisato che negli anni ’60 si dimostrò che le uniche cellule che potevano essere tecnicamente immortali erano quelle di origine cancerosa.

È attraverso le pratiche sperimentali di Harrison e Carrel che inizia ad emergere una nuova enfasi sul corpo e sulla possibilità di coltivare delle cellule in vitro. All’inizio del XX secolo non era nuova la possibilità di tenere i tessuti al di fuori del corpo per un po’ di tempo, ma in quel contesto il corpo era concepito come l’elemento essenziale che garantiva la vita delle cellule, le quali non avrebbero potuto sopravvivere al di fuori di esso. Le pratiche sperimentali di Harrison e Carrel segnano un passaggio all’idea che le cellule e i tessuti non solo possono sopravvivere al di fuori del corpo, ma continuano a dividersi, differenziarsi e vivere. In questo senso, inizia ad emergere un senso di possibilità legato al fatto che le cellule possono vivere con una certa autonomia anche se staccate dal corpo.

È tra gli anni ’40 e ’50 con la campagna contro il virus della poliomielite che, attraverso una serie di sforzi infrastrutturali, fu reso possibile l’impiego per la prima volta di tessuti umani su larga scala: in precedenza ciò non era possibile e le cellule venivano coltivate in singoli laboratori senza la possibilità di scambi e trasferimenti. Nella prima metà del XX secolo i virus erano molto difficili da osservare e coltivare: venivano conservati in laboratorio facendoli passare attraverso uova ed animali infetti; ciò era un metodo molto complesso e costoso. Per questa ragione nel 1940 John Enders pensò di utilizzare i metodi di coltura tissutale per osservare lo sviluppo delle infezioni virali. In questo modo, Enders e il suo collega Weller svilupparono un modello cellulare per osservare il lento sviluppo nel tempo del virus della parotite, questo si rivelò poi anche utile per studiare la poliomielite. Pertanto, attraverso la coltura dei tessuti è diventato possibile osservare lo sviluppo delle infezioni virali osservando i cambiamenti cellulari invece che guardare i sintomi che si manifestavano negli animali infetti. In seguito, nel 1954 John Salk attraverso l’impiego di queste tecniche di coltura cellulare riuscì a realizzare un vaccino contro la poliomielite.

Va sottolineato che ciò che Enders e Salk riuscirono a fare va inserito in uno sforzo più ampio della comunità scientifica a partire dagli anni ’40 che ha permesso il miglioramento delle tecniche di coltura tissutale e la loro standardizzazione. In particolare, in quegli anni organizzazioni come la Tissue Culture Association (TCA) e la National Foundation for Infantile Paralysis (NFIP) si impegnarono nel tentativo di standardizzare e rendere disponibile alla comunità scientifica materiali e tecniche per la coltura cellulare: vennero organizzati convegni e in breve tempo diventò possibile acquistare terreni ed estratti con cui far crescere le cellule. Fu anche grazie a questo lavoro coordinato che fu possibile utilizzare la linea cellulare immortale HeLa come materiale standard per il test del vaccino contro la poliomielite in diversi laboratori. HeLa era stata stabilita da George Gey nel 1951 grazie alla biopsia di una massa tumorale prelevata da Henrietta Lacks, la quale si era recata in ospedale per ricevere assistenza e non sapeva come sarebbe stato impiegato il tessuto prelevato (Skloot 2010). Al termine della campagna contro la poliomielite HeLa era ampiamente diffusa nei laboratori e gli scienziati iniziarono ad utilizzarla per gli scopi di ricerca più disparati, generando così un’ampia mole di studi e pubblicazioni. Dunque, se in precedenza era possibile lavorare su oggetti dello stesso tipo – lo stesso tipo di topo o lo stesso tipo di tumore – attraverso HeLa diventò possibile lavorare sulla “stessa cosa” in tempi e luoghi diversi. Pertanto, è in questa cornice che i tessuti umani sono diventati così una base standard e un modello per la ricerca biomedica.

Secondo Landecker questa storia ci racconta di come la biotecnologia dal 1900 ad oggi si associ ai “crescenti tentativi di esplorare e realizzare la plasticità della materia vivente” (Landecker 2007, p. 232). Nello specifico, la plasticità riguarda la capacità della materia vivente di essere modificata dagli esseri umani, la quale continuando a vivere può reagire all’intervento anche in modi inaspettati. Inevitabilmente, in questo racconto la plasticità si associa al tentativo di rendere operativo il tempo biologico attraverso una manipolazione della cellula, del medium e delle sostanze in cui questa è immersa. In breve, questa storia ci può aiutare a comprendere il modo attraverso cui siamo arrivati alla concezione odierna di “vita come tecnologia”; ovvero, la possibilità di utilizzare le cellule come una forma tecnologica per interventi terapeutici, sviluppi farmaceutici e per l’industria alimentare. In secondo luogo, questo resoconto permette di evidenziare alcune delle condizioni attraverso cui è stato possibile costruire un’infrastruttura con cui poter mantenere stabilmente le cellule in laboratorio. Infatti, uno scienziato tende a dare per scontata l’idea che sia possibile coltivare delle cellule in laboratorio proprio perché nel tempo è stata sviluppata un’infrastruttura funzionale, e che per questo motivo tende a risultare “invisibile” (Star 1999). In tal senso, ripercorrere gli sviluppi della coltura tissutale permette di portare alla luce gli aspetti infrastrutturali e tecnici che invece rimarrebbero opachi nello sfondo.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Landecker H. (2007). Culturing Life: how cells become technologies. Harvard University Press, Cambridge.

Skloot R. (2010). La vita immortale di Herietta Lacks. Adelphi, Milano.

Star S.L. (1999). The ethnography of infrastructure. American behavioral scientist, 43(3), 377-391.


Sanare una controversia - Il dissidio tra Basaglia e Tobino

Tra le pubblicazioni dello speciale Basaglia pubblicate su questa rivista, risalta l’articolo di Gianluca Fuser che ha saputo fare controversia nella controversia parlando di Mario Tobino, grazie a un’approfondita lettura degli archivi della Fondazione Tobino. Vorrei con questo articolo porre in risalto una questione che sposta il focus della controversia, cercando di suggerire un modo per ricomporla prendendo in considerazioni elementi diversi storici e sociali.

Centrale nell’articolo di Fuser è l’impossibilità di conciliare la controversia nei seguenti punti:

«Tobino, seppure non escluda del tutto l’origine sociale, ha una visione organica, fisiologica della follia, e accusa Basaglia di credere che la chiusura dei manicomi cancelli ogni traccia della follia. Basaglia, infatti, la nega e nello stesso tempo, ne attribuisce la creazione alla società malata, al potere, per rinchiudere i disallineati, i disturbatori dell’ordine e dello sfruttamento.»[1]

«Altro punto di dissidio insanabile è il tema della presenza e della forma delle strutture di cura, che coinvolge anche la visione politica delle due posizioni: Tobino non prescinde dalla necessità di un luogo dove i matti possano trovare – per periodi lunghi o brevi, più o meno volontariamente, in modo comunque aperto – riparo, protezione, cura e tranquillità; e sottolinea l’assenza di preparazione dei territori, della popolazione e delle famiglie per la trasformazione dalle strutture accentrate a quelle diffuse; Basaglia, al contrario, non transige, insiste sulla necessità di distruggere l’istituzione manicomiale e ribadisce la necessità della riforma, da farsi subito, in nome della «crescita politica, e quindi civile e culturale del paese»[2]

Ora, mi chiedo se davvero questi punti siano insanabili. Non è mia intenzione conciliare due persone che chiaramente non andavano d’accordo in quel momento e su quell’argomento. La controversia c’è stata. Se la differenza evidenziata da Fuser può essere sanata, significa soltanto che l’oggetto del contendere è da cercare altrove.

Riguardo alla forma e alla presenza delle struttura di cura, Tobino parla di un luogo dove la persona possa avere riparo, protezione, cura e tranquillità, e non vedo come questo luogo possa essere associato al manicomio basagliano, luogo di repressione, controllo e emarginazione. Se penso a Gorizia, ma anche alle diverse applicazioni della legge 180 – alcune raccontate nello stesso speciale su Controversie[3] – è innegabile la presenza di un punto di raccolta del malato, punto in cui la società lo raccoglie e egli stesso si raccoglie. Un luogo in cui ripararsi dopo una crisi sopravvenuta e cercare una normalità.

Tobino ribadisce,[4] giustamente, che Lucca era già un posto così ma non può dire lo stesso del resto d’Italia. Così, anche Basaglia ha realizzato l’esperimento di Gorizia prima e senza la legge 180 e continua nondimeno a ritenere necessaria l’abolizione del manicomio. Siamo di fronte ad una ambiguità del manicomio? Da un lato, c’è la pretesa oggettività della struttura manicomio come un certo luogo costruito in un certo definito modo con l’obiettivo di una determinata funzione. Dall’altro, invece, troviamo il significato sociale che ognuna di queste strutture porta con sé, in termini di violenza o di carità delle istituzioni. Significati e strutture che formano i luoghi, a partire dalla scelta di come disporre stanze, corridoi, finestre, fino alla formazione degli stessi operatori sanitari.

Sembra che sia Tobino che Basaglia siano ben consapevoli di questo ed entrambi hanno lavorato per contrastare strutture e pratiche che conservano il segno della storia di violenza dell’istituzione manicomiale. La frattura avviene sulla legge e, fino a qui, nulla di nuovo. Ci torno a breve, vorrei, prima, coinvolgere nel discorso anche il primo dei punti inconciliabili indicati da Fuser.

Che cosa si intende con il fatto che Tobino abbia una visione organica, fisiologica e Basaglia no? Che Tobino non consideri il ruolo dei determinanti sociali nella malattia – per quanto non li escluda – e invece Basaglia riconduca la malattia solo a quelli?

Tobino sembrerebbe distinguersi per una visione realista della malattia. “Dolorosa follia, ho udito la tua voce” è il racconto di una follia che esiste per sé stessa. Non è questione di quanto sia organica, perché proprio i racconti di Tobino sono descrizioni di comportamenti che risultano patologici proprio per la sofferenza a stare in un contesto sociale che diremmo normale. L’uomo che graffia i volti degli altri pazienti, nel racconto di Tobino, non dice esplicitamente “sto soffrendo”, ma noi comprendiamo la sua impossibilità di vivere, appunto, nel mondo normale. Tobino con coraggio risponde alla prima questione pratica della cura: il fatto è che le cose sono andate così, adesso sono malato e in qualche modo è da qui che si deve partire.

Basaglia allora è diverso? Non molto a mio parere. Egli non nega la realtà della malattia, ma si concentra sulla diversità, sul fatto che ogni variazione dalla norma è una diversa norma possibile. Non credo che si possa vedere - nel tentativo di modificare l’ambiente del malato (distruggere i muri) - un’omissione della realtà della malattia. Basaglia aveva visto una possibilità. Quella che alcune condizioni di sofferenza trovassero un nuovo senso.

Non sbaglia, Basaglia, quando afferma questa possibilità. Lo abbiamo visto nei tanti tentativi che hanno avuto successo. Sbaglia, invece, quando nega il significato pratico della «carità continua», pratica della quale Tobino spiega per bene il significato: «se il malato pulito, vestito, lì seduto, di nuovo si risporca, perde le urine, scendono le feci, noi si ricomincia da capo, per riportarlo al suo precedente aspetto». Penso sia innegabile che la speranza data da Basaglia, di una vita diversa nella società con gli altri, sia anche di nuovo possibilità di fallimento e in alcuni casi si trasformi nella falsa speranza che noi o quel nostro parente non sia quello che è.

Sono, quindi, due facce dello stesso discorso su salute e malattia. Se le guardiamo dal lato della persona che viene curata, Basaglia è la speranza di guarire ancora,Tobino la forza di salvarsi ancora un giorno. Abolito il manicomio, la persona malata trova un nuovo senso e prospera. Nel manicomio, la persona malata vive al riparo da un mondo che lo ferisce. Abolito il manicomio il malato che non trova una strada muore. Nel manicomio che lo cura, il malato vive costretto in un’unica vita possibile.

A produrre la nostra salute sono i rapporti tra organismo e ambiente, dove il primo comprende la sua personale storia non solo come determinanti, ma anche come biografia e autobiografia, mentre il secondo comprende l’inscindibile nesso tra la disposizione “materiale” dell’ambiente e i valori che lo costruiscono e strutturano. Il primo e il secondo punto di questa controversia rispondono a quella divisione tra interno e esterno, tra soggetto e mondo. Quell’ambiguità della salute che da un lato si descrive oggettivamente e dall’altro non può fare a meno di riferirsi a un soggetto che dice di se stesso di essere in salute, o in malattia.[5]

Eppure, la controversia c’è stata! Vedo due possibilità (e sicuro ce ne sono altre) per ricomporre la controversia come tale. La prima è che la morale che sottende le antropologie di Basaglia e Tobino sia in realtà molto diversa e che si rifletta nella realtà pratica delle scelte. La seconda (ed è quella che personalmente più mi interessa) è che questi Basaglia e Tobino simbolici fossero strumenti del discorso politico e culturale che faceva leva (allora come oggi) sull’autorità dei due scienziati. Consapevoli nella misura in cui era dato loro modo di ribadire la possibilità di una vita diversa, fosse essa segnata dalla quotidiana carità continua o dall’aiuto per tornare nel mondo degli altri. Inconsapevoli però del fatto che a parlare per il loro tramite sia stata ancora la voce della normalizzazione, la violenza dell’istituzione che schiaccia nella malattia (Tobino) o che distrugge nell’afflato positivista di ricondurre ogni diversità a alla norma (Basaglia). La stessa verità dei discorsi dei due scienziati è poco importante se non comprendiamo come queste verità siano state tradotte dalle forze sociali del tempo e quali elementi effettivamente abbiano concorso a comporre questa controversia.

 

 

NOTE

[1]Fuser, G., 2024, Controcanto, https://www.controversie.blog/controcanto-tobino/

[2]Fuser, G., 2024, Controcanto, https://www.controversie.blog/controcanto-tobino/\

[3]Si veda l’intervista di L. Pentimalli alla dott.sa Bricchetti [https://www.controversie.blog/raffaella-bricchetti/] così come la mia intervista al dott. Iraci [https://www.controversie.blog/rete-psichiatrica-sul-territorio-intervista-a-uno-psichiatra-che-attuava-la-legge-180/]

[4]M. Tobino, Dolorosa follia, ho udito la tua voce, La Nazione 7 maggio 1978.

[5]Su questo si veda G. Canguilhem, “La salute: concetto volgare” in G. Canguilhem, Sulla medicina. Scritti 1955-1989,  tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2007.


Stabilizzare il farmaco, stabilizzare la biomedicina - Reciproche catture tra medici e vaccini

Se l’instabilità del pharmakon non è un nostro problema, quel che sembra distinguerci al contrario […] è l’intolleranza della nostra tradizione di fronte a questo tipo di situazione ambigua e l’angoscia che suscita. È necessario un punto fermo, un fondamento, una garanzia. È necessaria una differenza stabile tra il medicamento benefico e la droga malefica, tra la pedagogia razionale e il condizionamento suggestivo, tra la ragione e l’opinione” (Stengers, 2005: 40-41)

 

Se volessimo analizzare la farmacovigilanza tenendo in considerazione le parole di Stengers qui in epigrafe, potremmo ritenerla uno strumento volto a stabilizzare farmaci: distinguere vantaggi e pericoli sembra essere obiettivo precipuo di questa pratica. Ciò è ancor più evidente se ci riferiamo alla vaccinovigilanza. Scindere ciò che è benefico da ciò che risulta dannoso appare particolarmente opportuno nel caso dei vaccini: anche i documenti ufficiali rilevano che, in questo caso, “poiché la popolazione target è rappresentata prevalentemente da soggetti sani, per la maggior parte di età pediatrica, il livello accettabile di rischio è inferiore a quello degli altri prodotti medicinali. […] Queste peculiarità dei vaccini rendono necessarie attività di farmacovigilanza post-marketing che vadano oltre quelle routinarie, al fine di monitorare e valutare adeguatamente gli eventuali rischi” (AIFA, 2017:4). Tuttavia, nonostante i vaccini siano considerati tra i prodotti più controllati nel panorama farmacologico, abbiamo già avuto modo di esplorare come le pratiche di vaccinovigilanza siano dispositivi socio-culturali complessi (Lesmo, 2025).

Di fatto, i dubbi in merito a possibili correlazioni causali tra alcuni vaccini e determinati eventi avversi sembrano affiorare tra i professionisti. Nel corso della ricerca etnografica da me condotta sul tema tra il 2017 e il 2021, è emerso come diversi medici abbiano preso in considerazione in più occasioni questa ipotesi. Ciò è stato rilevato in vario modo. Non solo alcuni di essi hanno suggerito ai genitori di bambini con possibile danno da vaccino l’ipotesi di una correlazione, per poi spesso negarla dopo poco (secondo quanto i genitori mi hanno riferito).  La presenza di simili “dubbi” è stata poi esplicitata direttamente da alcuni medici da me intervistati, che ne hanno approfondito criticità e problematiche durante i colloqui. Oltre a queste testimonianze di prima mano,  alcuni libri,  pubblicazioni e lettere scritte da medici specialisti hanno proposto pubblicamente di re-interrogare la sicurezza e/o l’efficacia delle pratiche vaccinali in corso. Alcuni tra questi professionisti sono stati in seguito interpellati, richiamati, sospesi o finanche radiati dai rispettivi ordini, evidenziando una zona di tensione particolarmente evidente che intercorre tra il sapere vaccinale e la pratica medico-clinica. È dunque estremamente rilevante interrogare la relazione complessa che lega vaccinazioni, pratica biomedica e professionisti della cura. Come si costruiscono vicendevolmente questi rapporti? Quali obiettivi, più o meno consapevoli, essi si prefiggono?

“UNKNOWN KNOWNS”: CONOSCENZE SCONOSCIUTE

Bisogna però dire che attualmente le indicazioni della medicina occidentale accademica hanno una tendenza a non mettere in correlazione patologie avverse con la vaccinazione, proprio perché la tendenza è quella di dare un valore solo positivo alla vaccinazione escludendo tutti gli elementi negativi.

Questo è quanto afferma un medico da me intervistato quando riflettiamo insieme sul rapporto rischio/benefici associati ai vaccini. L’esclusione di alcuni elementi dalle pratiche di costruzione del sapere è un elemento intrinseco ad ogni epistemologia. Se già Foucault (2004) aveva illustrato come molteplici procedure di esclusione agissero nel dare consistenza a un discorso, conferendogli uno statuto di verità attraverso interdetti, evitamenti ed elisioni, questi temi sono stati ri-articolati successivamente da molti altri studiosi. Tra questi, l’antropologo Michael Taussig si è riferito al “lavoro del negativo” per evidenziare come “sapere che cosa non sapere” sia un passaggio fondamentale in molti processi socio-culturali oltre che epistemologici. Secondo quanto osserva Taussig, il “lavoro del negativo” nei singoli contesti di riferimento è così profondo che “pur riconoscendolo, pur nello sforzo di liberarci dal suo abbraccio vischioso cadiamo in trappole ancora più insidiose che ci siamo autocostruiti” (Taussig, 1999:6). Difficile è dunque acquisire consapevolezza in merito a talune esperienze note eppur sottese, che a volte fondano vere e proprie imprese epistemiche e sociali. Geissler, antropologo sociale, ha ripreso nei suoi studi il concetto ossimorico di “conoscenze sconosciute” [“unkwnown knowns”] (Geissler, 2013: 13) per evidenziare quanto queste possano talvolta aprire la strada a determinate pratiche di ricerca e/o di cura: il confine tra sapere e non-sapere risulta così estremamente labile.

Anche in ambito vaccinale sembra che alcune esperienze vengano talvolta “espulse” dall’orizzonte conoscitivo - quasi sulla soglia della consapevolezza - per rendere le pratiche di immunizzazione possibili. Una pediatra intervistata, con cui riflettiamo sulle posizioni discordanti sul tema in ambito biomedico, mi spiega:

Allora, ci sono secondo me alcuni vaccini su cui… effettivamente ci può essere una discussione, perché effettivamente non mettono a rischio la società, no? Ci sono dei vaccini invece per cui questa cosa qua si mette a maggior rischio e allora… […] Ci sono dei caposaldi che… che secondo me sono intoccabili.

In questo frammento di discussione, parte di uno scambio molto lungo e articolato, la pediatra evidenzia come certi dubbi non possano essere sollevati – a meno che non siano già sostanziati da studi scientifici solidi ed epidemiologicamente fondati. I dubbi così sommersi - questi sospetti silenziati - sembrano in qualche misura concretarsi anche nell’eliminazione simbolica, operata attraverso sanzioni disciplinari di vario genere, dei medici che tentano di palesarli. Quando interpellata in merito a tali sanzioni, un’altra pediatra intervistata ha ribadito come ciò fosse indispensabile, e finanche rassicurante, poiché la vaccinazione “è la base della medicina moderna” e “se un medico non crede ai vaccini, soprattutto un pediatra – e soprattutto alle vaccinazioni pediatriche… forse ha sbagliato campo”.

STABILIZZARE IL SAPERE BIOMEDICO

Per molti professionisti della cura, dunque, la fiducia nella vaccinazione sembra essere precondizione della stessa professione medica. Ciò è stato spesso attribuito al particolare statuto che le vaccinazioni risultano avere in biomedicina: per riprendere le espressioni qui proposte, esse sarebbero un “caposaldo”, se non “la base della medicina stessa”. Sembra così adeguato riprendere quanto asserito da Isabelle Stengers (2005) in relazione alla stabilizzazione di un sapere, che si intreccia saldamente con ciò che la studiosa definisce “reciproca cattura”, o “inter-presa”. La “reciproca cattura” è quel legame che vincola due entità attraverso la creazione di un valore reciproco. Secondo Stengers, tale cattura si attiva nel momento in cui due identità si costruiscono e si legittimano vicendevolmente. In questo caso il ruolo del medico sembra consolidarsi anche in base alle considerazioni che egli associa ai vaccini: sostenere sicurezza ed efficacia delle vaccinazioni in uso – “credere” nei vaccini come asserito più sopra – dimostra la competenza e la credibilità dei professionisti. Nel contempo, tuttavia, le pratiche vaccinali sono rinsaldate proprio dalla fiducia accordata loro dai medici, le cui competenze ne garantiscono l’affidabilità. Ciò produce un’ulteriore antinomia: i medici – ossia gli specialisti competenti che potrebbero eventualmente porre dubbi sui vaccini - non riescono a farlo, pena la perdita della propria credibilità sul campo. Questa circolarità non è però priva di uno scopo: come si può desumere dalle considerazioni sopra proposte, essa assolve un compito ben preciso, ossia la stabilizzazione del ruolo dei vaccini, attraverso la rimozione dell’ambivalenza ad essi intrinseca: scindendo, cioè, il potere di proteggere da quello di ferire. Se poi il vaccino diviene espressione del successo biomedico, allora è la biomedicina tutta che viene in questo modo rinsaldandosi. Come osserva Stengers, tuttavia, proprio l’“ossessione di differenziazione che ci contraddistingue” (ivi:43) può divenire pericolosa: essa rischia di conferire a certi oggetti epistemici “un potere che non hanno” (ibidem). Rilevare ed esplorare il “lavoro del negativo” in opera diviene dunque cruciale per cogliere le forme di “instabilità” esistenti e trovare modi alternativi di relazionarvisi.

 

 

BIBLIOGRAFIA

AIFA, 2017, “La vaccinovigilanza in Italia: ruolo e obiettivi”, https://www.aifa.gov.it/sites/default/files/La_Vaccinovigilanza_in_Italia_18.04.2017.pdf

Foucault M., 2004, L'ordine del discorso e altri interventi, Torino: Einaudi.

Geissler P. W., 2013, Public Secrets in Public Health: Knowing not to Know while Making Scientific Knowledge, “American Ethnologist”, Vol. 40 (1):13-34.

Lesmo I, 2025, “Ecologie delle evidenze in vaccinovigilanza: quali esperienze (non) si trasformano in conoscenza?”, Controversie-Ripensare le scienze e le tecnologie, 2025,4, https://www.controversie.blog/vaccinovigilanza/

Stengers, I., 2005, Cosmopolitiche, Roma: Luca Sossella Editore.

Taussig M., 1999, Defacement: Public Secrecy and the Labor of the Negative, Stanford University Press, Stanford.


Ecologie delle evidenze in vaccinovigilanza: quali esperienze (non) si trasformano in conoscenza?

Le pratiche vaccinali sono generalmente rappresentate nei discorsi pubblici, nelle discussioni mediatiche, ma anche nei documenti ufficiali nazionali e sovranazionali, come una delle forme di tutela della salute pubblica più sicure ed efficaci. Vero e proprio emblema del successo biomedico – sino a diventarne spesso una metonimia - le vaccinazioni operano “salvando innumerevoli vite” (Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2023:4) e assicurando un rapporto “rischi/benefici particolarmente positivo” (ivi: 10). La sicurezza, in particolare, sarebbe garantita da un sistema di vaccinovigilanza, anche post-marketing, particolarmente efficiente: esso si articola attorno a complessi apparati burocratico-amministrativi che coinvolgono molteplici infrastrutture e soggetti diversificati.

Secondo le indicazioni dell’OMS, infatti, ogni AEFI (Adverse Event Following Immunization) – ossia qualsiasi episodio sfavorevole verificatosi dopo la somministrazione di un vaccino, non necessariamente causato dal vaccino stesso – andrebbe riportato al sistema di sorveglianza preposto.

SEGNALAZIONI DI AEFI IN ITALIA: TRA SICUREZZE E CRITICITA’

In Italia, l’organo deputato a questa sorveglianza è la Rete Nazionale di Farmacovigilanza (RNF), connessa, da una parte, al SSN (Sistema Sanitario Nazionale) e, dall’altra, alle reti di farmacovigilanza sovranazionali. Solo in seguito alla segnalazione, l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) è tenuta a valutare la possibile correlazione causale tra l’AEFI e la vaccinazione somministrata. Tuttavia, in Italia, la RNF è un sistema di segnalazione passivo, nel senso che la segnalazione è volontaria. Per cui i medici, così come i cittadini, possono inserire spontaneamente un AEFI sul sito dell’AIFA. La vaccinovigilanza strutturata in questo modo permetterebbe di “raccogliere, monitorare e investigare continuamente l’eventualità di eventi avversi (anche imprevedibili) ed è in grado di rilevare anche potenziali segnali di allarme, utili a rivalutare il rapporto beneficio/rischio del vaccino e a gestire gli eventuali rischi per la salute” (ivi: 14).

In quanto processi socio-culturali complessi, tuttavia, queste pratiche meritano di essere esplorate in profondità, tenendo in considerazione anche i discorsi che ne evidenziano limiti e lacune e che, spesso, sono frettolosamente derubricati come “no-vax” o “anti-vax”. Prendere in considerazione tali discorsi è un passo fondamentale non solo per comprendere come sfiducia e diffidenza possano generarsi proprio all’interno di quelle azioni di “vigilanza” che vorrebbero invece produrre affidabilità e sicurezza, ma anche perché gli sguardi critici si rivelano spesso essere strumenti utili per cogliere alcune antinomie intrinseche al sistema di produzione del sapere stesso.

VISSUTI IMMOBILIZZATI IN UN’ECOLOGIA DELLE EVIDENZE

Nel corso della ricerca etnografica che ho condotto sulle pratiche vaccinali e, in particolare, sul danno da vaccino (soprattutto in relazione all’età pediatrica, Lesmo 2024), alcune narrazioni tornavano, ostinate, a tormentare i racconti di molti genitori. “Allora dopo la seconda vaccinazione, proprio… è la catastrofe” mi ha raccontato una mamma. “Dopo che ha fatto il richiamo è cambiato tutto”, ha ricordato un’altra madre. Di narrazioni simili, rievocate con emozione da madri e padri, ne ho raccolte numerose. Nonostante ciò, un’unica famiglia aveva, faticosamente, segnalato “l’episodio sfavorevole” all’AIFA. La maggior parte degli altri genitori da me incontrati non era stata informata della possibilità di farlo in autonomia; in due casi i miei interlocutori ne acquisirono piena consapevolezza solo durante i nostri incontri. D’altra parte, i genitori si erano spesso rivolti ai pediatri evidenziando l’accadimento e, in almeno due situazioni, i medici avevano immaginato una possibile correlazione tra l’evento e le vaccinazioni. In nessuna di queste situazioni, tuttavia, l’evento era stato segnalato all’AIFA.

Perché?

Il senso di questi vuoti – questi passaggi mancati - non può restare sotto traccia. Renderli visibili diviene fondamentale perché permette di intercettare quei momenti in cui l’esperienza del singolo e il sistema volto a tradurre quest’ultima in un sapere condiviso non riescono a incontrarsi. Espulse e deviate verso traiettorie divergenti, le esperienze di alcuni soggetti non possono così contribuire alla produzione di una conoscenza di cui pure riconoscerebbero il valore (Lello, 2020). L’antropologo Charles Briggs (2016) ha definito “ecologie delle evidenze” quei processi per cui alcune esperienze individuali sono chiamate ad esistere all’interno del sapere scientifico, mentre altre ne sono rigettate, declassate “allo stato di ignoranza, superstizione, o patologia”, o finanche rese “impensabili” (ivi: 151). Quali ecologie delle evidenze vengono dunque attivate entro i processi di vaccinovigilanza, e specificamente nelle pratiche di segnalazione degli eventi avversi? Quali antinomie del sistema esse rendono manifeste?

CIRCOLARITA’ EPISTEMICHE

La maggior parte dei medici incontrati sul campo ha rilevato come, effettivamente, la segnalazione di eventi avversi non avvenga di frequente. Se alcuni tra loro attribuivano questa difficoltà all’onerosità di un tempo-lavoro da situarsi tra una crescente burocratizzazione della pratica medica e la conseguente compressione degli spazi clinici – con il rischio di una riduzione nella qualità dell’assistenza ai pazienti – altri processi sono emersi più spesso, sino a delineare un’ecologia delle evidenze specifica. Essa opera in due diverse – e paradossali – direzioni.

Da una parte, i medici incontrati hanno sottolineato come disturbi “benigni” o “quadri non gravi” (l’innalzamento della temperatura, l’irritabilità, le reazioni cutanee locali o le convulsioni febbrili…) fossero “già noti” o finanche “attesi”. In quanto tali, si riteneva superfluo segnalarli. “Ci sono eventi avversi previsti e non sono neanche considerabili tali” spiegava una dottoressa. Queste esperienze, pertanto, venivano immobilizzate all’esterno del sistema di rilevazione.

D’altra parte, un’eguale immobilità interessava alcuni disagi importanti occorsi nel periodo di somministrazione vaccinale - quali ad esempio disturbi neuro-muscolari o psicomotori severi. In questo caso, la motivazione alla base dell’esclusione era, paradossalmente, opposta a quella delineata in precedenza: dal momento che la letteratura medico-scientifica in questi casi aveva già escluso ogni possibile correlazione con le vaccinazioni, sarebbe stato superfluo segnalare l’evento.

In questo modo, tuttavia, ciò che avrebbe dovuto garantire una rivalutazione costante del rischio associato a possibili eventi avversi, veniva pre-determinato a priori dalle interpretazioni già esistenti in relazione al rischio stesso. Questa circolarità epistemica, a tratti paradossale, non affiorava in un vuoto epistemologico, ma si radicava entro una gerarchia delle evidenze ben consolidata nell’Evidence Based Medicine. I livelli di evidenza qui definiti, infatti, collocano tra le prove più attendibili le revisioni sistematiche di studi clinici randomizzati; all’opposto, le opinioni e le esperienze cliniche degli esperti si collocano alla base di simile costruzione piramidale (Oxford Centre for Evidence-Based Medicine). Tale gerarchia, profondamente interiorizzata dai medici da me incontrati, non consentiva ad osservazioni basate su singole esperienze cliniche di contravvenire quanto già sostenuto in letteratura e, dunque, neanche di ritenerlo manifesto al punto da doverlo/poterlo segnalare.

In questo modo, tuttavia, il sistema di sapere tendeva a riprodurre sé stesso riconfermando quanto già definito e dirottando – o immobilizzando - al suo esterno esperienze che avrebbero potuto contribuire a sollecitarne un riesame. Tali esperienze venivano così ricondotte - e ridotte – allo stato di banalità, ovvietà, ignoranza.

Già Foucault, in fondo, aveva rilevato come “l’esterno di una scienza è più e meno popolato di quanto non si creda” (Foucault, 2004:17), costellato da tutto ciò che ogni disciplina “respinge oltre i suoi margini” (ibidem). Tuttavia, per molti genitori da me incontrati, vedersi convergere a forza verso una simile esteriorità escludeva contemporaneamente ogni possibile credibilità di un sistema orientato, invece, a produrre fiducia: esso si trasformava piuttosto in fonte di sospetto e biasimo nelle istituzioni tutte e nei loro discorsi.

 

BIBLIOGRAFIA

Briggs, Charles, L. 2016. “Ecologies of evidence in a mysterious epidemic.” Medicine Anthropology Theory 3(2):149-162.

Foucault M., 2004, L'ordine del discorso e altri interventi, Torino: Einaudi.

Lello, E., 2020, “Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax”, Rassegna Italiana di Sociologia, 3:479-507.

Lesmo, I., 2024, “Ecologie delle pratiche nella vaccinovigilanza italiana. Antinomie nel sapere vaccinale”, AM_Rivista della Società italiana di antropologia medica, 25(58):181-211,

Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2023, Piano nazionale Prevenzione Vaccinale PNPV 2023-2025.

Oxford Centre for Evidence-Based Medicine, https://www.cebm.ox.ac.uk/resources/levels-of-evidence/oxford-centre-for-evidence-based-medicine-levels-of-evidence-march-2009


Robert F. Kennedy Jr ministro della Sanità USA. Perché non è necessariamente una brutta notizia

Il 13 febbraio 2025, Robert F. Kennedy Jr è stato nominato ministro della sanità. Avrà anche la supervisione della Food and Drug Administration, la potente agenzia federale che vigila su cibo e farmaci, e il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), che si occupa espressamente anche di vaccinazioni.  Il suo intento sarebbe quello di rendere l’America più sana (MAHA – Make America Healthy Again https://www.maha.vote/), combattendo il cibo-spazzatura e lo strapotere delle Big Pharmas.

Sì è molto parlato di lui, nei media mainstream. Generalmente male.

71 anni compiuti, avvocato di molte cause ambientaliste (ne ha vinte alcune contro importanti industrie accusate di inquinamento) e dei diritti delle tribù native, è figlio di Robert Francis Kennedy (candidato alla Casa Bianca mentre fu ucciso a 43 anni) e nipote di John Fitzgerald Kennedy (che invece Presidente era riuscito a diventarlo, ma anche lui fu ucciso, a 46 anni).

Contro la sua nomina si sono scagliate più di 80 organizzazioni, numerose scienziate (sempre usando il femminile sovraesteso), 25.000 professioniste dell’American Public Health Association, 15.000 mediche.

Il (risicatissimo – 14 a favore e 13 contrarie) parere favorevole alla sua nomina da parte della commissione Finanze del Senato, è coinciso con un vistoso calo del titolo Pfizer (-2,3%) e Moderna (6,2%) sulla borsa di Wall-Street. E anche in Senato la sua conferma è passata per soli 4 voti: 52 senatori/trici repubblicani/e a suo favore (di cui 2 incerti fino all’ultimo), e 48 contrari (di cui 45 democratici/che, 2 indipendenti e Mitch McConnell, senatore repubblicano, per decenni alla guida dei repubblicani del Senato, in forte contrasto con Trump e che si definisce “un sopravvissuto alla poliomielite”.

 Le accuse, tutte vere, nei confronti di Kennedy sono di:

  • essere un traditore del Partito Democratico (il quale però ostacolò fortemente la sua corsa alle primarie nel partito);
  • essere stato un consumatore di droghe per molti anni (sembra però che ora abbia smesso, mentre molte altre politiche continuano…)
  • aver avuto una relazione extraconiugale con una nota reporter di sinistra (ma noi di queste cose non ci scandalizziamo, avendo avuto un Presidente del Consiglio sicuramente molto più esperto in materia)
  • aver confessato di aver ucciso un orso per poi abbandonarne il cadavere a Central Park (almeno in Trentino queste cose le fanno dopo una delibera)
  • essere un nemico dell’industria agroalimentare e farmaceutica (cosa però stranamente apprezzata sia a destra che a sinistra, e in particolare da giovani, ambientaliste radicali, salutiste, new age, ultras dell’anti-capitalismo tipo Occupy Wall Street)
  • voler contrastare la diffusione di prodotti chimici inquinanti e pesticidi (che idea balzana)
  • voler abolire le pubblicità dei farmaci, danneggiando così le TV (non lo sa che sono soltanto dei “consigli per gli acquisti”, come li chiamava Maurizio Costanzo?)
  • voler imporre normative per la messa al bando di vari additivi alimentari tossici o di organismi geneticamente modificati (direttive peraltro già adottate nell’Unione Europea e nella California, governata dai democratici).
  • abbracciare teorie complottiste senza fondamento (tra cui gli assassinii del padre e dello zio, da lui attribuiti alla Cia, agenzia che mai ha commissionato omicidi o organizzato colpi di stato da quanto è stata costituita nel lontano 1947).
  • essere un anti-vaccinista e di credere che alcuni vaccini possano causare (indirettamente) l’autismo nelle bambine. Con queste convinzioni, numerose scienziate prevedono il ritorno negli Usa di malattie scomparse o fortemente ridimensionate proprio per merito delle vaccinazioni. Non tutte le scienziate però la pensano così e il tema è molto più complesso delle semplificazioni proposte da molte scienziate e giornaliste (vedi Gobo e Sena 2019).

Complessivamente, però, se Kennedy riuscisse a mettere in pratica solo metà del suo programma (almeno quella metà che trova d’accordo tutte le persone di buon senso), ne vedremo delle belle.

Ma le vere domande sono: lui è in grado di farlo? Ha le competenze necessarie?

Alla prima è difficile rispondere. Per quanto motivata e decisa, una persona sola non è in grado di imprimere tutti questi cambiamenti. C’è bisogno della collaborazione di molte altre persone e istituzioni. Occorrono quindi capacità manageriali oltre che vision.

Veniamo quindi alla seconda domanda. Che competenze dovrebbe avere una ministra della sanità? Essere un’esperta di sanità? E chi è un’esperta di sanità: una medica? Una paziente? Una manager della sanità? Forse nessuna di queste.

La prima laurea di Sergio Marchionne era in filosofia. Poi si laureò in giurisprudenza. Successivamente in Discipline Commerciali e poi ottenne un Master in business administration. È stato, nell’ordine: direttore finanziario al Lawson Group, società di consulenza su salute e sicurezza (1992); amministratore delegato si Lonza Group Ltd, azienda operante nel settore della chimica farmaceutica e biofarmaceutica (2000); amministratore delegato della SGS, azienda attiva nei servizi di ispezione, verifica e certificazione (2002); nel CdA del gruppo biotecnologico Serono; nel 2008 vicepresidente non esecutivo e direttore indipendente senior di UBS (banche) e amministratore delegato FIAT.
Marchionne era forse un esperto dei settori dove operavano le “sue” aziende? No.
Eppure non pare abbia fatto peggio (anzi…) di Carlos Tavares, che è un ingegnere e ha fatto tutta la sua carriera nel settore automobilistico.

In Italia, come ministre delle sanità abbiamo avuto di tutto e di più. Nell’ordine: Nicola Perrotti (psicoanalista), Mario Cotellessa (medico), Tiziano Tessitori (avvocato), Angelo Giacomo Mott (medico), Vincenzo Monaldi (medico), Camillo Giardina (giurista), Angelo Raffaele Jervolino (avvocato e giurista), Giacomo Mancini (avvocato penalista), Luigi Mariotti (commercialista), Ennio Zelioli-Lanzini (avvocato), Camillo Ripamonti (Ingegnere), Athos Valsecchi (insegnante di scuola media), Remo Gaspari (avvocato), Luigi Gui (insegnante di filosofia), Vittorino Colombo (dirigente d’azienda), Antonino Pietro Gullotti (avvocato), Luciano Dal Falco (giornalista), Tina Anselmi (insegnante elementare e sindcalista), Renato Altissimo (dirigente d’azienda), Aldo Aniasi (pubblicista), Costante Degan (ingegnere), Carlo Donat-Cattin (giornalista e sindacalista), Francesco De Lorenzo (medico e accademico), Raffaele Costa (avvocato e giornalista); Mariapia Garavaglia (insegnante di lettere e giornalista), Elio Guzzanti (medico), Rosy Bindi (giurista), Umberto Veronesi (oncologo), Girolamo Sirchia (medico accademico), Francesco Storace (giornalista), Livia Turco (insegnante elementare), Maurizio Sacconi (funzionario), Ferruccio Fazio (medico e accademico), Renato Balduzzi (giurista), Beatrice Lorenzin (giornalista), Giulia Grillo (medico legale), Roberto Speranza (laureato in scienze politiche) e Orazio Schillaci (medico e accademico).

Eppure, almeno fino a poco tempo fa, il sistema sanitario italiano era considerato un’eccellenza mondiale.

Ma allora, che competenze servono per fare la ministra della sanità (o di un altro dicastero)? Non competenze specifiche, bensì trasversali come la capacità di: scegliersi le collaboratrici (queste sì) competenti nel settore, leadership, gestire i gruppi, mediare tra le diverse istituzioni, gestire i conflitti, motivare le collaboratrici e farle lavorare ecc. Insomma capacità gestionali, relazionali e comunicative.

Kennedy le ha? Molte persone lo dubitano…

Vedremo se riuscirà davvero a rendere l’America più sana.

Sempre che non lo uccidano prima…

  

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Gobo, G. e Sena B. (2019), Oltre la polarizzazione "pro-vax" versus "no-vax". Atteggiamenti e motivazioni nel dibattito italiano sulle vaccinazioni, in SALUTE E SOCIETÀ, XVIII, 2, pp. 176-190.


Covid, tecnocrazia e "vera" politica - Due progetti paralleli

Dalle prime due parti (qui, la prima parte e qui, la seconda parte) dell’analisi degli algoritmi di valutazione dell'andamento della pandemia, ad aprile 2020, è emerso che questi algoritmi sono un caso solo apparente di tecnocrazia.

In realtà, abbiamo visto che:

  • il tentativo di rendere gli algoritmi completi ha generato un eccesso di complessità che ha reso questi strumenti praticamente inservibili ai fini della decisione sulla Fase 2
  • la decisione di passare alla Fase 2 è stata principalmente politica, seppur basata su un set minimale di dati scientifici, limitato ai trend di contagi, decessi e di saturazione delle terapie intensive.

Ora, questo non toglie che la relazione tra scienziati e governo abbia effettivamente avuto un carattere tecnocratico già nel primo periodo della pandemia[1], tra febbraio e maggio 2020.

Per comprendere la reale portata ed estensione di questo carattere tecnocratico faremo alcune brevi considerazioni su:

  • il CTS e la rilevanza del valore della salute nella gestione della crisi
  • il ruolo che ha giocato il CTS nei processi di decisione del governo

Vedremo che il governo ha preso le sue decisioni in modo principalmente politico ma, invece, ha lasciato ampio spazio a scienziati e tecnici sul come metterle in atto.

COS’ERA E COME FUNZIONAVA IL COMITATO MEDICO SCIENTIFICO

La presenza del CTS nel processo di decisione del Governo ha, certamente, amplificato il ruolo dei valori di salute e di sopravvivenza come condizioni di possibilità del bene comune e, quindi, ha condizionato le azioni del governo nella direzione di “prima la salute”.

Infatti:

  • il ruolo del CTS era di dare consulenza al Capo del Dipartimento della Protezione Civile – e più tardi direttamente al Governo – su come fronteggiare la diffusione del contagio;
  • i componenti del CTS erano “esperti e qualificati rappresentati degli Enti e Amministrazioni dello Stato”, di fatto 8 componenti su 12 erano medici: i tre presidenti del Consiglio superiore di sanità, dell'Istituto superiore di sanità e dell’AIFA, un professore di patologia clinica e di comunità, un esperto di medicina delle catastrofi, un infettivologo e un epidemiologico.
  • Il CTS era sempre – ogni giorno, al mattino molto presto – l’iniziatore del processo di decisione. Era il CTS a effettuare la sintesi e il vaglio delle informazioni raccolte dal fronte del contagio e a prepararsi, sulla base dei dati, a dare consiglio al Capo della Protezione civile e ai rappresentanti del Governo, in primis al Ministro della Salute;
  • spesso, il CTS agiva in coda al processo, assumendo la funzione di supporto e di legittimazione delle decisioni prese: i membri del CTS partecipavano e parlavano alle conferenze stampa e ai talk show fornendo elementi di spiegazione e di sostegno alle misure restrittive o meno del Governo.

 

Ora, per disciplina, per etica procedurale, la salute è il faro guida del medico, soprattutto in termini di assenza di malattia, di normale funzionamento del corpo, «Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell'Uomo e il sollievo dalla sofferenza» (Codice di Deontologia Medica, all’Art. 3 – Doveri del Medico).

Ne risulta abbastanza ovvio che il CTS - un consesso di medici - si sia concentrato sui pilastri deontologici, guarire chi si è ammalato, garantire il funzionamento delle strutture di cura e, in caso di infettività, prevenire e controllare la diffusione della malattia.

Altrettanto ovvio appare il fatto che il Governo, consigliato e sostenuto dal CTS abbia posto i valori della salute e della sopravvivenza biologica al primo posto della propria scala assiologica nell’affrontare la crisi.

È interessante, peraltro, vedere che paesi iper-liberisti come Inghilterra e Brasile, in cui non c’era nulla di simile al nostro CTS, si siano, invece,  orientati più nettamente sui valori della sussistenza economica delle imprese, del paese in generale e di conseguenza dei cittadini, mettendo in conto «un numero evitabile di persone contagiate e di morti» (Habermas J., Proteggere la vita, tr. It. D’Aniello F., Società editrice Il Mulino, 2022, p. 51); è famosa l’infelice frase di Boris Johnson: «many more families are going to lose loved ones before their time».

TECNOCRAZIA O NO?

Si ripropone quindi la domanda: Il Governo ha davvero preso delle decisioni, ha fatto delle scelte morali[2], oppure chi le ha fatte è stato il CTS?

Prima di provare a dare una risposta va ricordato che la più grande partita di decisioni si è giocata sul campo dell’economia, quello degli aiuti e dei sostegni economici.

Su questo campo il governo ha preso delle posizioni, ha compiuto delle vere e proprie scelte morali, basate su dei criteri e su una assiologia chiari; una assiologia che ha determinato la destinazione e i tempi dei sostegni economici, a chi prima e a chi dopo, a chi di più e a chi di meno. La scala di priorità è stata inizialmente concentrata sui lavoratori dipendenti delle imprese medio-grandi, quelle in grado di accedere alla cassa integrazione guadagni, per intenderci ed è poi cambiata, per rispettare le istanze di giustizia sociale portate avanti dalle opposizioni: occhio ai dimenticati dei primi momenti – tra cui liberi professionisti, lavoratori autonomi e microimprese.

Fatta questa premessa, proviamo a focalizzare quale sia stato il rapporto tra CTS e Governo nei primi mesi; l’analisi[3] di documenti video, di verbali e di decreti mostra che:

  1. è fuori di dubbio che il Governo abbia fatto delle scelte morali sul tema della salvaguardia della salute e della sopravvivenza. Il Governo ha delineato una scala di valori e questi valori li ha contestualizzati nel particolare della situazione che andava affrontando.
  2. È altrettanto fuori di dubbio che, nel costruire questa priorità di valori che vede salute e sopravvivenza in alto, il governo sia stato influenzato dal CTS – soprattutto dalla componente medica. Però, è emerso anche che la storia personale dei leader di governo, la tradizione di partito, le esperienze fatte, abbiano avuto un ruolo determinante
  3. Dove, invece, il Governo è stato molto più influenzato dal CTS sembra essere stato nel COME realizzare la tutela della salute e della vita. In questo, la vera scelta del governo è stata di affidarsi a tecnici, ai medici, agli epidemiologi. Lo dice Conte in passaggio chiarissimo il 25 di febbraio.[4]
  4. È evidente che la scelta di affidarsi a scienziati e tecnici è stata fatta sulla base del criterio delle competenze mediche e tecniche del CTS.

Quindi, sul come gestire la crisi, come salvaguardare la salute, il governo ha scelto di affidarsi, consapevolmente, a quelli che riteneva competenti e questo delinea palesemente una forma di tecnocrazia indiretta. Il processo analisi – sintesi – decisione – legittimazione in cui il CTS è dominante in tre passaggi su quattro ne è conferma.

Ma, ricordiamolo, all’inizio nessuno sapeva cosa stesse accadendo, né capiva cosa potesse accadere e, in quel momento di emergenza, il fattore tempo sembrava essere determinante[5].

Così come – in un momento successivo - ha fatto affidando a un militare la logistica della distribuzione dei vaccini. In Italia solo i militari hanno competenze logistico-operative e piani già pronti di quel tipo. Nessun altro. Non avrebbe potuto farlo un tecnico degli acquisti come Arcuri (bravo a reperire materiali con contratti emergenziali a prova di bomba).

Che poi il CTS abbia seguito delle linee super consolidate e tradizionali come l’ospedalizzazione sempre e comunque, la rinuncia alle cure domiciliari, linee che trovano una impressionante analogia nel Diario della Peste di Defoe – parliamo del 1665 – è altra cosa, su cui non credo di poter dare giudizi. Mi tengo dei sospetti.

Quindi, in conclusione, siamo stati di fronte ad una forma di solo parziale tecnocrazia, in cui il governo ha mantenuto per sé la prerogativa delle decisioni politiche sul cosa fare per gestire la crisi sanitaria ed economica, in termini di priorità, quantità, destinazioni, inclusioni ed esclusioni, ma ha ceduto sovranità alla scienza e alla tecnica sul come perseguire a questi obiettivi.

 

 

NOTE

[1] Non considero quello che è successo nei mesi successivi, con le due seconde ondate, quella di riaperture e quella di contagi dell’autunno 2020, del secondo lockdown, dei vaccini, del green pass e delle varie misure interdittive.

[2] Scelta morale: decisione su come orientare la propria condotta pratica basata su una scala di priorità tra principi o valori, appunto, morali.

[3] Le fonti sono i discorsi pubblici del Presidente de Consiglio e dei diversi Ministri – reperibili facilmente su YouTube o sul sito della Presidenza del Consiglio, i testi dei Decreti del presidente del Consiglio, i Decreti Ministeriali, le circolari della Protezione Civile, ecc.. Chi volesse avere un’ampia bibliografia e sitografia può chiederla alla Redazione di Controversie.

[4] Le parole di G. Conte: «io non ho competenza scientifica in questo campo, non ho alcuna competenza, e sarebbe presuntuoso […] sopravanzare e sovrapporsi a […] quelle che sono le valutazioni tecnico-scientifiche […] loro hanno articolato quelli che sono tutti i comportamenti e sono raccomandazioni indicazioni rivolte al personale sanitario e ovviamente a tutti i cittadini» (Conferenza stampa del Presidente Conte dalla Protezione civile, YouTube - Palazzo Chigi, Canale ufficiale del Governo italiano, 25 febbraio 2020 (https://www.youtube.com/watch?v=gWJoo8O6mZ8))

[5] Il problema del confronto con una situazione in cui «i fatti sono incerti, la posta in gioco alta, i valori in conflitto, e le decisioni urgenti» è affrontato dalle raccomandazioni della Scienza Post Normale; rimandiamo a Saltelli, A., 2024, SCIENZA POST-NORMALE, XI Appendice dell’Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma - https://www.researchgate.net/publication/387296164


Gli algoritmi del Covid-19. Un caso di tecnocrazia? - Seconda parte

Nella prima parte di questo percorso abbiamo esaminato i meccanismi algoritmici che avrebbero dovuto guidare il Governo Conte nelle decisioni sull’allentamento delle misure restrittive e di contenimento del contagio da SARS-CO-V-2.

Ora possiamo fare un passo in avanti nell’analisi critica degli strumenti di valutazione e sul loro ruolo nelle decisioni del Governo.

CONSISTENZA DEGLI INDICATORI

Nell’intenzione del Ministero della Salute e del Governo – e del Comitato Tecnico Scientifico che ha messo a punto i criteri e gli algoritmi – questi strumenti di valutazione del contagio e delle possibilità di contrastarlo dovrebbero essere il più possibile esatti, coerenti, oggettivi e indipendenti dalle interferenze politiche, e guidare il governo in modo sicuro e incontrovertibile verso la decisione “scientificamente” più corretta.

Di fatto, invece, il sistema di valutazione presenta delle aree di criticabilità metodologica, dei punti di debolezza e di incoerenza – soprattutto considerando il particolare momento in cui deve essere utilizzato -  e risente di alcune evidenti influenze di tipo storico, sociale e politico che ne minano le attese di esattezza, oggettività e indipendenza.

Tra queste criticità, spicca che alcuni degli indicatori della capacità di monitoraggio[1]  sono statisticamente poco indicativi in un momento in cui la capacità diagnostica è fortemente sottodimensionata. In questo particolare periodo la propensione italiana alla diagnosi con tampone è tra le più basse d’Europa (pur con una percentuale di positivi molto più alta degli altri paesi). Parliamo di una media di soli 88 tamponi per 100.000 abitanti al giorno.[2] Ne viene particolarmente inficiato il riferimento  alla percentuale di casi segnalati con indicata la data di inizio dei sintomi e/o il comune di domicilio del caso stesso. Quello che questo indicatore misura effettivamente è un sottoinsieme non rappresentativo della situazione reale.

Un discorso simile vale per gli indicatori sulla capacità di accertamento diagnostico., in particolar modo per quelli relativi ai tempi tra inizio dei sintomi, diagnosi e isolamento. Per le ragioni appena viste di scarsa propensione “al tampone”, il numero di diagnosi effettuate e segnalate è sicuramente molto inferiore ai casi realmente presenti sul territorio; d’altro canto, l’indicatore – in questo periodo - non può che essere “fuori soglia”, a causa del meccanismo per lo più carente di prescrizione, prenotazione ed esecuzione del test diagnostico, che dilata enormemente i tempi tra inizio dei sintomi e diagnosi.

Un altro punto di caduta è rappresentato dagli indicatori sull’impegno di personale dedicato al tracciamento e al monitoraggio dei contatti oltre che alle operazioni di prelievo e invio dei test ai laboratori Un impegno che dovrebbe essere in linea con raccomandazioni Europee relative agli standard su numero, tipologia e ore di lavoro.

Un indicatore metodologicamente confuso, poiché mette insieme “mele con pere” (le mele sono l’impegno di contact-tracing, le pere l’impegno di gestione del processo di invio ai laboratori), con contorni poco chiari: il termine tipologia figure professionali è di difficile interpretazione in assenza di un elenco chiuso e condiviso di tipologie; il valore di riferimento per l’impegno pari a 1 operatore equivalente ogni 10.000 abitanti[3] (verbalizzato al CTS il 29 di maggio) cioè almeno 750 operatori per la sola area del milanese, ma, di nuovo, senza indicazioni su che tipologie di figure professionali debbano essere impiegate.

Inutile parlare della percentuale di casi confermati di infezione nella regione per cui sia stata effettuata una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti: è un indicatore importante ma decisamente fuori contesto nella situazione di aprile – maggio 2020, in cui il Sistema Sanitario rincorre a distanza con i pochi mezzi disponibili l’evolversi del contagio. Lo stesso vale per i parametri di trasmissione che implicano l’analisi dei focolai e delle catene di trasmissione. Entrambi gli indicatori risultano incongrui nella situazione di aprile e maggio 2020.

Gli indicatori sulla stabilità della trasmissione sembrano essere più consistenti e aderenti al contesto: in linea generale, il trend dei casi segnalati alla Protezione Civile e al sistema integrato di sorveglianza sono sicuramente rappresentativi dell’andamento del contagio, anche se probabilmente sottostimano il fenomeno e risentono – nella componente di temporalità – dei difetti procedurali già visti. L’indicatore dei casi segnalati alla Sentinella COVID-Net è opzionale e – di fatto – non attuato, come non sembra essere mai stata attuata la rete-sentinella.

Un discorso a parte andrebbe fatto – ma non è questa la sede - per il parametro Rt, uno strumento che sembra essere metodologicamente valido solo se i significati di alcuni suoi parametri[4]  vengono usati con cautela.

UNA QUESTIONE DI POLITICA SANITARIA: GLI INDICATORI DI OSPEDALIZZAZIONE

Nel terzo gruppo di indicatori – quello dei parametri di trasmissione e di tenuta dei servizi sanitari, troviamo il Tasso di occupazione della Terapia Intensiva, con la soglia accettabile del 30%, e il Tasso di occupazione dei posti letto in Area Medica per pazienti COVID-19, con una soglia di accettabilità del 40%. Questi due parametri sono sintomatici dell’approccio di ospedalizzazione che caratterizza la gestione del contagio in Italia: quello che preoccupa il CTS e il Ministero è se gli ospedali sono in grado di sostenere il flusso di malati da ricoverare, ignorando completamente – anche negli indicatori oltre che nella pratica – il ruolo della medicina territoriale, della terapia domiciliare (attuata solo sporadicamente in poche regioni) e della relativa sorveglianza. Di fatto, chi è malato e ha sintomi preoccupanti deve andare in ospedale; chi, invece, è malato e non va in ospedale è sostanzialmente lasciato a sé stesso; non è interessante – per la valutazione dell’andamento della pandemia – avere dati sulla consistenza del presidio medico territoriale e domiciliare: il focus è l’ospedale.

INCOERENZE INTERNE DEL SISTEMA DI VALUTAZIONE E DI ALLERTA?

È curioso notare che l’algoritmo di valutazione del rischio è contenuto nello stesso documento dei 21 indicatori puntuali e di trend, ma – in realtà – fa riferimento solo al terzo gruppo di indicatori, quelli sulla trasmissione del contagio e sulla tenuta della risposta sanitaria (ospedaliera, s’intende) e include dei criteri di valutazione che esulano dai 21 indicatori - ad esempio, la gestibilità o meno della diffusione con “zone rosse” localizzate, oppure l’età (oltre i 50 anni) dei soggetti contagiati.

Lo sviluppo dell’algoritmo di calcolo del livello di rischio – nonostante sia un sistema di allarme per la “marcia indietro” verso misure di controllo più rigorose - sembra essere slegato da due terzi degli indicatori e assai riduttivo rispetto a quello per valutare la possibilità di transizione alla Fase 2.

Sembra che l’allerta e la marcia indietro tengano conto della sola misura dei fenomeni e non della loro misurabilità; come dire: non importa se i dati non sono affidabili, si decide su quelli.

D’altra parte, è pur vero che il sistema di calcolo prevede che – in caso di difficoltà o scarsa affidabilità delle misurazioni – ci si attesti su una condizione di rischio elevato e si imponga la  “marcia indietro”.

In conclusione, dall’esame di dettaglio, si evidenziano numerosi punti deboli, in sintesi:

  • scarsa indicatività statistica di una buona parte degli indicatori relativi alla capacità di monitoraggio e di accertamento diagnostico
  • incongruenza di altri indicatori rispetto al contesto in cui sono applicati e, quindi alla loro effettiva utilizzabilità
  • visione focalizzata sulle procedure di ospedalizzazione dei parametri di tenuta dei servizi sanitari e assistenziali
  • incoerenza di alcuni passi dell’algoritmo di valutazione del rischio rispetto all’insieme di indicatori di processo e di risultato e la scarsa integrazione tra i due algoritmi

SIAMO DI FRONTE AD UN CASO DI SCIENTIFIZZAZIONE DELLA POLITICA?

Lo strumento di valutazione del tasso di rischio e delle condizioni di possibilità della transizione alla Fase 2, che il Comitato Tecnico Scientifico fornisce al Ministero della Salute e al Governo, composto dal set di 21 indicatori e dai due algoritmi, è molto articolato, apparente non troppo complesso da maneggiare e sembra cogliere un range ampio e abbastanza completo di punti di attenzione per la valutazione dello stato del contagio. La sua struttura rispecchia gli obiettivi di esattezza, coerenza, oggettività e indipendenza dalle interferenze politiche e sociali, per guidare l’azione politica in modo sicuro verso decisioni “scientificamente” corrette.

È chiaro che si tratta di un caso di tentata scientifizzazione della politica:

  1. le decisioni – se viene usato lo strumento per come è costruito – possono essere appaltate alla “scienza” e non tenere conto di variabili socialmente rilevanti quali, per fare un esempio, le esigenze di continuità del reddito o di socializzazione
  2. le indicazioni dello strumento sono basate su indicatori molto generali, che non tengono conto della stratificazione di età, di condizioni di salute (fa eccezione il > 50 anni dell’algoritmo della probabilità) e sociali.
  3. La visione dell’intervento è ristretta alla dimensione di ospedalizzazione e ignora tutti fenomeni e le possibilità di intervento e di azione sul territorio
  4. La scarsissima condivisione pubblica della strumentazione di osservazione e algoritmica, disponibile solo a prezzo di una ricerca approfondita tra i Decreti e i relativi allegati, denuncia una scarsa propensione della “scienza ufficiale” alla discussione pubblica.

In questo quadro, la “scienza medica ed epidemiologica” apparentemente neutrale ed oggettiva ma, come abbiamo visto, orientata alla semplificazione dei fenomeni, cieca alle sue dimensioni sociali e storicamente focalizzata sull’ospedalizzazione,  sembra “catturare e guidare” la politica, portando i decisori ad abdicare al loro ruolo guida.

Tuttavia,

  • le debolezze del sistema di misurazione, che lo rendono una cattedrale teoretica nel deserto epistemologico della pandemia del primo semestre 2020, con utilizzabilità estremamente limitata, salvo accontentarsi dei pochi indicatori effettivamente misurabili,
  • e la mancata applicazione della regola che avrebbe imposto lo stop alla transizione a causa della valutazione di rischio elevato in caso di non misurabilità degli indicatori

hanno favorito un maggiore grado di libertà e di movimento da parte dei decisori politici.

Il governo italiano e il Presidente del Consiglio Conte hanno, infatti, dimostrato – forse solo nel caso delle riaperture del 4 e 18 maggio 2020 – di riuscire ad essere svincolati[5] dalla scientifizzazione e hanno deciso, di fatto, sulla base di una aperta dialettica tra le istanze morali della salute da un lato e della sopravvivenza economica dall’altro.

Le riaperture “limitate” del DPCM del 26 aprile[6] e il relativo controllo dello stato dei contagi sono state, quindi, il risultato di compromesso tra le istanze normative della medicina e la sintesi tra le due posizioni di stampo decisamente politico del governo e delle opposizioni[7].

 

NOTE

[1] Ad esempio, la percentuale di casi segnalati con indicata la data di inizio dei sintomi e/o il comune di domicili

[2] Cfr. Analisi Gimbe dei tamponi effettuati dalle Regioni nel periodo 22 aprile – 6 maggio 2020, in Franco Pesaresi, Tamponi: quanti se ne fanno e quanti ne servono, Welforum, Osservatorio Nazionale sulle politiche sociali, 14 maggio 2020

[3] Fonte: Verbale n. 83, 29 maggio 2020, Riunione del Comitato Tecnico Scientifico, Dipartimento della Protezione Civile

[4] la relativa isteresi rispetto al fenomeno, i problemi di distorsione del ricordo dell’insorgenza dei sintomi, la sua dubbia significatività per dare atto della velocità di diffusione o della virulenza di un agente infettivo in contesti di densità di popolazione diversa

[5] Questa conclusione non tiene in considerazione le decisioni del periodo successivo, in particolare quelle relative alle campagne di vaccinazione e al green pass, capitoli molto delicati sul tema della subordinazione della politica alla scienza.

[6] Si veda qui il testo del DCPM 26 aprile 2020

[7] Ne parlo diffusamente nella mia Tesi Magistrale Le scelte morali del governo italiano durante la prima parte della crisi pandemica del 2020.


Gli algoritmi del Covid-19 – Un caso di tecnocrazia?

La gestione della pandemia SARS-CoV-2 è stata, molto probabilmente, un caso emblematico di tecnocrazia, in cui la politica ha abdicato al suo ruolo di decisione per il bene pubblico a favore delle competenze tecnoscientifiche, in particolare mediche ed epidemiologiche, e delle linee di comportamento dettate dal Comitato Tecnico Scientifico istituito dalla Protezione Civile[1] e, spesso, con scarsissima o nessuna trasparenza.

L’algoritmo studiato dal CTS, nell’aprile del 2020, per misurare l’andamento del contagio e valutare se procedere con la fase di riaperture sembra essere un esempio lampante di questa tecnocrazia: è uno strumento complesso e fortemente tecnico, “detta” - di fatto – al governo quali comportamenti tenere e, infine, è rimasto praticamente celato all’interno dei decreti, non ne è stata data alcuna pubblicità né è stato possibile discuterne democraticamente

Proverò, in questo articolo, a far conoscere e ad esaminare criticamente i contenuti di questo algoritmo, e in quello successivo (che sarà pubblicato da Controversie la prossima settimana) a mostrare quale sia stato il suo ruolo e se, in questo caso, la politica abbia effettivamente ceduto la mano alla tecnoscienza. Con, forse, qualche sorpresa.

INQUADRAMENTO STORICO

Siamo alla fine di aprile del 2020, a un mese e mezzo dalla dichiarazione di pandemia di Covid-19[2], la situazione pandemica – datata 26 aprile – nel mondo e in Italia è questa:

Il picco di contagi[3] è stato registrato da pochi giorni, il 20 aprile, e per la prima volta dall'inizio dell'epidemia, l'Italia registra una diminuzione nel numero degli “attualmente positivi”: 20 in meno del giorno precedente, per un totale di 108.237. Anche i ricoveri e le terapie intensive sono in calo; dalla prima settimana di aprile, infatti, i contagi giornalieri seguono una curva sensibilmente discendente, come si può vedere dal grafico del bollettino di “Aggiornamento nazionale, 28 aprile 2020”[4]

Lo stesso sembra valere – pur con tutte le cautele di attribuzione delle cause – per il numero di decessi. Sono segnali che suggeriscono che le misure contro la diffusione del virus prese dal Governo stiano funzionando, come dice Giuseppe Conte – Presidente del Consiglio dei Ministri del governo giallo-rosso[5] - nella conferenza stampa del 26 aprile: “stiamo riuscendo a contenere la diffusione della pandemia”.[6]

L’interpretazione di questo segnale orienta la prospettiva di attivazione della cosiddetta Fase 2, cioè della progressiva riapertura delle attività produttive, pur mantenendo ancora restrizioni rigorose per evitare una contestuale ripresa della diffusione del contagio.

Il Presidente del Consiglio Conte annuncia[7] che, a partire dal 4 maggio - posto che la curva dei contagi mantenga il trend decrescente – inizierà  la Fase 2, caratterizzata, a grandi linee, dalla progressiva riapertura delle attività produttive e commerciali, dall’allentamento di alcune delle restrizioni e dallo sblocco dei cantieri[8].

Che si mantenga il trend decrescente è, quindi, la condizione per procedere con la fase di alleggerimento delle misure di contenimento del contagio.

UN ALGORITMO PER MISURARE L’ANDAMENTO DELLA PANDEMIA

Questa condizione di trend decrescente della curva dei contagi diventa, quindi, oggetto di un problema di misurazione il più possibile oggettiva, sulla base della quale il governo possa prendere delle decisioni, se è possibile passare alla Fase 2, se si può restare in Fase 2 una volta effettuata la transizione, oppure se è il caso di tornare al livello di massimo rigore, quello del lockdown (Fase 1).

Serve uno strumento di valutazione del contagio e delle possibilità di contrastarlo in termini puntuali e di andamento. Ossia momento per momento e potendo confrontare nel tempo dei valori puntuali.

Questo strumento di misurazione è contenuto in parte nell’Allegato 10 al DCPM 26 aprile 2020 “Principi per il monitoraggio del rischio sanitario” e in parte nell’allegato DM3042020 al Decreto 30 aprile 2020 del Ministero della Salute.

Si tratta di 21 indicatori di processo e di risultato, ossia criteri di valutazione puntuale[9] dello stato delle cose con delle soglie di allerta per singolo indicatore o per gruppi di indicatori. Sulla base dei valori degli indicatori sono predisposti inoltre due algoritmi. Il primo restituisce il livello di rischio puntuale, il secondo la Fase più opportuna per quelle condizioni di rischio. Fase da intendersi come il grado di rigore delle misure di contenimento, determinata in modo esplicito e apparentemente deterministico e oggettivo.

Il processo di valutazione prevede, quindi,

  • la misurazione di almeno 16 indicatori con frequenza per lo più settimanale
  • il confronto con i valori precedenti per comprendere se il trend è favorevole o meno per il passaggio alla fase meno rigorosa
  • l’elaborazione di una parte questi andamenti in un primo sub-algoritmo che restituisce la probabilità della minaccia sanitaria, ossia quanto è probabile che si verifichi una «trasmissione non controllata e non gestibile di SARS-CoV-2» e di una altra parte degli andamenti in un secondo sub-algoritmo che restituisce l’impatto, «ovvero la gravità della patologia con particolare attenzione a quella osservata in soggetti con età superiore a 50 anni»
  • la combinazione di probabilità (di trasmissione) e di impatto (gravità della diffusione) in una matrice a doppia entrata per determinare il livello di rischio;
  • infine, l’elaborazione degli indicatori e degli andamenti nel secondo algoritmo, indica “cosa fare”, ossia se sia possibile passare alla Fase 2[10]

Per comprendere il funzionamento degli algoritmi, è opportuno fare tre approfondimenti: il primo sugli indicatori, il secondo sul senso attribuito dal Ministero della Salute al livello di rischio calcolato con il primo algoritmo e il terzo sul funzionamento dell’algoritmo che determina se sia possibile passare alla Fase 2.

INDICATORI DELL’ANDAMENTO DEL CONTAGIO E DEI PROCESSI DI CONTENIMENTO

Gli indicatori coinvolti nello strumento di misurazione sono raggruppati in tre gruppi, il primo, di 6 indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio dei contagi:

  • in particolare, della disponibilità delle date di inizio - dei casi sintomatici, dei ricoveri in ospedale e dei trasferimenti in terapia intensiva - e della presenza del dato del comune di residenza

Il secondo gruppo di 6 indicatori di processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti, che comprende:

  • dati quali la percentuale di tamponi positivi (sul totale di tamponi effettuati), i tempi trascorsi tra inizio dei sintomi, diagnosi ed eventuale isolamento;
  • e dati che riguardano la consistenza del personale dedicato al tracciamento dei contatti, al monitoraggio dei contatti stretti - idealmente allineati agli standard

raccomandati a livello europeo - e alla percentuale di indagini epidemiologiche sui casi tracciati.

Il terzo gruppo, infine, di 9 indicatori di risultato relativi alla stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari che contano – il dettaglio qui sembra essere necessario:

  • il numero di casi riportati alla Protezione Civile, alla sorveglianza sentinella COVID-net e alla sorveglianza integrata COVID-19 (per data diagnosi e per data inizio sintomi);
  • il numero di nuovi focolai di trasmissione;
  • il numero di nuovi casi di infezione per Regione non associati a catene di trasmissione note;
  • due indicatori sull’Rt calcolato[11], per data inizio sintomi e per data di ospedalizzazione;
  • il numero di accessi al PS con quadri sindromici riconducibili a COVID-19;
  • il tasso di occupazione delle Terapie Intensive per pazienti COVID-19;
  • il tasso di occupazione dei posti letto totali per pazienti COVID-19.

I primi 12 indicatori dovrebbero misurare quanto l’apparato sanitario è in grado di avere un quadro preciso del contagio, delle diagnosi, della gestione dei contatti; si potrebbero considerare, quindi, dei meta-indicatori della validità della misurazione.

Solo gli ultimi 9, invece, fanno riferimento alla dimensione effettiva del contagio, della trasmissione e della capacità delle strutture locali e regionali di farvi fronte.

SENSO DEL PRIMO ALGORITMO DI VALUTAZIONE DEL LIVELLO DI RISCHIO

I due sub-algoritmi di determinazione della probabilità e dell’impatto della minaccia di trasmissione incontrollata sono molto semplici e ne riporto di seguito lo schema[12] del Comitato Tecnico Scientifico:

Lo stesso vale per la matrice di determinazione del rischio che combina i livelli di probabilità e di impatto[13]:

Questa valutazione del rischio non concorre direttamente alla determinazione della possibilità di passare alla Fase 2 (o di restarci, una volta effettuata la transizione) ma ha esclusivamente il senso di sistema di allerta, per attivare la “marcia indietro” dalla Fase 2 verso un inasprimento delle «misure restrittive necessarie e urgenti per le attività produttive» in caso di «rischio alto/molto alto» o di «rischio moderato ma non gestibile con le misure di contenimento in atto».

In questo quadro funzionale, il Decreto del 30 aprile sottolinea che. se non è possibile misurare gli indicatori alla base dell’algoritmo, la valutazione del livello di rischio va considerata elevata[14].

ALGORITMO DI VALUTAZIONE PER LA TRANSIZIONE ALLA FASE 2

Questo secondo algoritmo – allegato 10 al DCPM del 26 aprile 2020 e definito nel Decreto come strumento per individuare il rischio sanitario[15] – impone, perché sia possibile la transizione alla Fase 2, che:

  • siano presenti gli standard minimi di qualità della sorveglianza epidemiologica nella Regione – ossia che almeno per il 50% dei casi segnalati siano disponibili la data di inizio dei sintomi o del ricovero (in terapia intensiva e non) e l’indirizzo di domicilio[16]
  • la trasmissione di COVID-19 nella Regione (o zona) sia stabile o in decremento – ossia che gli indicatori del terzo gruppo siano in miglioramento o stabili (il numero di casi segnalati e il numero di focolai di trasmissione siamo in diminuzione, l’ Rt sia ≤ 1)
  • siano soddisfatti «gli altri criteri» di valutazione, che comprendono il livello di saturazione delle strutture ospedaliere, standard e di terapia intensiva, la abilità di testare i casi sospetti, la prontezza operativa e la disponibilità di risorse per il tracciamento dei contatti (che possono essere ricondotti al secondo gruppo di indicatori)

Se tutti questi criteri sono soddisfatti, il Decreto dice che è possibile allentare le misure di contenimento dei contagi e iniziare un primo passo di normalizzazione, la Fase 2A (oppure mantenere le condizioni della Fase 2A e attendere più serenamente[17] l’arrivo dei vaccini sicuri e affidabili).

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La transizione avvenne, per mano del Presidente del Consiglio Conte, con decisione di realizzare il piano di riaperture dal 4 maggio 2020 in poi.

Ma, come vedremo nel seguito, forse gli algoritmi di valutazione – vuoi per alcune aree di debolezza e di inconsistenza sia interna che contestuale - ebbero un ruolo meno importante del previsto in questa decisione.

 

 

NOTE

[1] «Con Decreto del Capo Dipartimento della Protezione civile n. 371 del 5 febbraio 2020, è stato istituito il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) con competenza di consulenza e supporto alle attività di coordinamento per il superamento dell’emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del Coronavirus.  Il Comitato è composto da esperti e qualificati rappresentati degli Enti e Amministrazioni dello Stato.» Ministero della Salute, Portale Covid 19

[2] «Coronavirus disease (COVID-19) is an infectious disease caused by the SARS-CoV-2 virus», OMS, Health topics, Coronavirus disease (COVID-19)

[3] Dati Epicentro-ISS e grafiche da Cose che noi umani, Lab24, 2021 (https://lab24.ilsole24ore.com/storia-coronavirus/)

[4] Epidemia COVID-19 Aggiornamento nazionale, 28 aprile 2020 – ore 16:00, Epidemia COVID-19

Aggiornamento nazionale 28 aprile 2020 – ore 16:00 (https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-Covid-19_28-aprile-2020.pdf)

[5] Il governo cosiddetto Conte II è sostenuto da una coalizione di forze di centro-sinistra che comprende il Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico, Liberi E Uguali (LEU) -  lista elettorale nata dall'alleanza tra i partiti Articolo Uno, Sinistra Italiana e Possibile - e Italia Viva, più una serie di piccole entità politiche, sempre di centro-sinistra; Le altre forze che appoggiano il governo Conte II nel primo semestre del 2020 sono: il Movimento Associativo Italiani all'Estero e – in forma di appoggio esterno, il Partito Socialista Italiano, il Südtiroler Volkspartei, l’ Union Valdôtaine, il Partito Autonomista Trentino Tirolese, Centristi per l’Europa, Centro Democratico e Sicilia Futura

[6] Fase due, conferenza stampa del Presidente Conte, YouTube - Palazzo Chigi, Canale ufficiale del Governo italiano (26 aprile 2020, https://www.youtube.com/watch?v=tXxQBLNZZqA)

[7] Il discorso di Conte del 26 aprile ricorda che non si può abbassare la guardia e che l’attenzione alle misure di sicurezza deve essere ancora mantenuta: «evitare il rischio che il contagio si diffonda […] come lo puoi fare? non bisogna mai avvicinarsi, bisogna rispettare distanze in sicurezza almeno un metro, questo è fondamentale e, guardate, anche nelle relazioni familiari con i parenti bisogna stare attenti». Ibidem.

[8] La tematica delle attività produttive è lo snodo della tensione tra governo e opposizioni. Ne ho parlato diffusamente nella mia tesi magistrale.

[9] Puntuale va inteso come: in un determinato momento, tipicamente quello della misurazione

[10] La versione più generale dell’algoritmo contenuta nell’Allegato 10 al DPCM 26 aprile 2020 comprende anche i passaggi alla fase 2B o “Transizione avanzata”, sulla base dei medesimi criteri ma di cui non sono esplicitate le soglie obiettivo, e del passaggio alla Fase 3, di ripristino (si può pensare: delle condizioni di normalità), subordinata all’«accesso diffuso a trattamenti e/o ad un vaccino sicuro ed efficacie». Ma anche questa è un’altra storia.

[11] Numero di riproduzione netto, ossia numero medio di infezioni trasmesse da ogni individuo infetto nel tempo, cfr. R0, Rt: cosa sono, come si calcolano?, Istituto Superiore di Sanità. Sulla consistenza e validità del Rt come strumento di misura della trasmissione ci sono state ampie polemiche, cfr., ad esempio, Wired 5 maggio 2021, Corriere della Sera, 11 maggio 2021

[12] Fonte: Verbale n. 83, 29 maggio 2020, Riunione del Comitato Tecnico Scientifico, Dipartimento della Protezione Civile

[13] Cit.

[14] «Se non sarà possibile una valutazione [degli indicatori, NdA] secondo le modalità descritte, questa costituirà di per sé una valutazione di rischio elevata, in quanto descrittiva di una situazione non valutabile e di conseguenza potenzialmente non controllata e non gestibile», Decreto 30 aprile 2020 del Ministero della Salute

[15]«rischio sanitario, individuato secondo i principi per il monitoraggio del rischio sanitario di cui all'allegato 10», DCPM del 26 aprile 2020

[16] La soglia del 50% vale per le prime tre settimane di maggio 2020; successivamente la soglia sarà innalzata al 60%.

[17] Il valore della “serenità” è uno di quelli che costituiscono la scala assiologica del governo Conte, cfr. Gianluca Fuser, Le scelte morali del governo italiano durante la prima parte della crisi pandemica del 2020, Tesi Magistrale, Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Milano, 2024


Legge 13 maggio 1978, n. 180 – Testo integrale

Comunemente, la legge n. 180 viene chiamata “legge Basaglia”; in realtà il suo estensore fu lo psichiatra e politico democristiano Bruno Orsini e Franco Basaglia non ne fu particolarmente soddisfatto – anche se la difese come impianto teorico ed ideologico, come dichiarò in una intervista fatta da Maurizio Costanzo:

«Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c'è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.»

La legge n. 180 nacque con un iter frettoloso: il progetto iniziale – che recepiva le istanze e le proposte di Franco Basaglia, del movimento di Psichiatria Democratica e di un numero non indifferente di psichiatri – prevedeva che la precedente legge che regolava il trattamento “dei matti” (Legge 14 febbraio 1904, n. 36 - Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati) fosse parzialmente abrogata attraverso un referendum e sostituita nell’ambito della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.

Tuttavia, il referendum rappresentava un rischio, perché il tema “dei matti” poteva essere sentito in modo controverso nella società, e la legge sul Sistema Sanitario avrebbe potuto avere tempi più lunghi del previsto. Il governo Andreotti optò, allora, per lo stralcio degli articoli che riguardavano i principali temi correlati ai manicomi e ne fece la legge n. 180, abrogando in buona parte (fatta esclusione per i temi economici e fiscali) la legge del 1904.

La “180” è una legge breve, molto sintetica, densa di contenuti e difficile da mettere in opera, soprattutto negli anni ’70.

Controversie ha ritenuto – per evitare che il dibattito viaggi sull’onda dei soli commenti e opinioni – di riportarla qui integralmente, insieme all’articolo 64 della legge n. 833/1978, istituiva del Sistema Sanitario Nazionale.

 

Legge 13 maggio 1978, n. 180

Sommario

Art. 1 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori

Art. 2 Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale

Art. 3 Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale

Art. 4 Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio

Art. 5 Tutela giurisdizionale

Art. 6 Modalità relative agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale

Art. 7 Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica

Art. 8 Infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici

Art. 9 Attribuzioni del personale medico degli ospedali psichiatrici

Art. 10 Modifiche al codice penale

Art. 11 Norme finali

 

" Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori "

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 16 maggio 1978, n. 133.

Art. 1 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.

Art. 2 Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale.

Le misure di cui al secondo comma del precedente articolo possono essere disposte nei confronti delle persone affette da malattie mentali. Nei casi di cui al precedente comma la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere. Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel precedente comma.

Art. 3 Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale.

Il provvedimento di cui all'articolo 2 con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, corredato dalla proposta medica motivata di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 e dalla convalida di cui all'ultimo comma dell'articolo 2, deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune. Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è disposto dal sindaco di un comune diverso da quello di residenza dell'infermo, ne va data comunicazione al sindaco di questo ultimo comune. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è adottato nei confronti di cittadini stranieri o di apolidi, ne va data comunicazione al Ministero dell'interno e al consolato competente, tramite il prefetto. Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico di cui all'articolo 6 è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice tutelare, con le modalità e per gli adempimenti di cui al primo e secondo comma del presente articolo, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso. Il sanitario di cui al comma precedente è tenuto a comunicare al sindaco, sia in caso di dimissione del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni che richiedono l'obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso. Il sindaco, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione del sanitario, ne dà notizia al giudice tutelare. Qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell'infermo. La omissione delle comunicazioni di cui al primo, quarto e quinto comma del presente articolo determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio.

Art. 4 Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio.

Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio. Sulla richiesta di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati con lo stesso procedimento del provvedimento revocato o modificato.

Art. 5 Tutela giurisdizionale.

Chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al tribunale competente per territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare. Entro il termine di trenta giorni, decorrente dalla scadenza del termine di cui al secondo comma dell'articolo 3, il sindaco può proporre analogo ricorso avverso la mancata convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio. Nel processo davanti al tribunale le parti possono stare in giudizio senza ministero di difensore e farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce al ricorso o in atto separato. Il ricorso può essere presentato al tribunale mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Il presidente del tribunale fissa l'udienza di comparizione delle parti con decreto in calce al ricorso che, a cura del cancelliere, è notificato alle parti nonché al pubblico ministero. Il presidente del tribunale, acquisito il provvedimento che ha disposto il trattamento sanitario obbligatorio e sentito il pubblico ministero, può sospendere il trattamento medesimo anche prima che sia tenuta l'udienza di comparizione. Sulla richiesta di sospensiva il presidente del tribunale provvede entro dieci giorni. Il tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, dopo aver assunto informazioni e raccolte le prove disposte di ufficio o richieste dalle parti. I ricorsi ed i successivi procedimenti sono esenti da imposta di bollo. La decisione del processo non è soggetta a registrazione.

Art. 6 Modalità relative agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale.

Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presìdi psichiatrici extra ospedalieri. A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge i trattamenti sanitari per malattie mentali che comportino la necessità di degenza ospedaliera e che siano a carico dello Stato o di enti e istituzioni pubbliche sono effettuati, salvo quanto disposto dal successivo articolo 8, nei servizi psichiatrici di cui ai successivi commi. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anche con riferimento agli ambiti territoriali previsti dal secondo e terzo comma dell'articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, individuano gli ospedali generali nei quali, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura. I servizi di cui al secondo e terzo comma del presente articolo - che sono ordinati secondo quanto è previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128, per i servizi speciali obbligatori negli ospedali generali e che non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15 - al fine di garantire la continuità dell'intervento sanitario a tutela della salute mentale sono organicamente e funzionalmente collegati, in forma dipartimentale con gli altri servizi e presìdi psichiatrici esistenti nel territorio.

Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano individuano le istituzioni private di ricovero e cura, in possesso dei requisiti prescritti, nelle quali possono essere attuati trattamenti sanitari obbligatori e volontari in regime di ricovero. In relazione alle esigenze assistenziali, le province possono stipulare con le istituzioni di cui al precedente comma convenzioni ai sensi del successivo articolo 7.

Art. 7 Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica.

A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge le funzioni amministrative concernenti la assistenza psichiatrica in condizioni di degenza ospedaliera, già esercitate dalle province, sono trasferite, per i territori di loro competenza, alle regioni ordinarie e a statuto speciale. Resta ferma l'attuale competenza delle province autonome di Trento e di Bolzano. L'assistenza ospedaliera disciplinata dagli articoli 12 e 13 del decreto-legge 8 luglio 1974, numero 264, convertito con modificazioni nella legge 17 agosto 1974, n. 386, comprende i ricoveri ospedalieri per alterazioni psichiche. Restano ferme fino al 31 dicembre 1978 le disposizioni vigenti in ordine alla competenza della spesa. A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge le regioni esercitano anche nei confronti degli ospedali psichiatrici le funzioni che svolgono nei confronti degli altri ospedali. Sino alla data di entrata in vigore della riforma sanitaria, e comunque non oltre il 1° gennaio 1979, le province continuano ad esercitare le funzioni amministrative relative alla gestione degli ospedali psichiatrici e ogni altra funzione riguardante i servizi psichiatrici e di igiene mentale. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano programmano e coordinano l'organizzazione dei presìdi e dei servizi psichiatrici e di igiene mentale con le altre strutture sanitarie operanti nel territorio e attuano il graduale superamento degli ospedali psichiatrici e la diversa utilizzazione delle strutture esistenti e di quelle in via di completamento. Tali iniziative non possono comportare maggiori oneri per i bilanci delle amministrazioni provinciali. E' in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche. Agli ospedali psichiatrici dipendenti dalle amministrazioni provinciali o da altri enti pubblici o dalle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza si applicano i divieti di cui all'articolo 6 del decreto-legge 29 dicembre 1977, n. 946, convertito con modificazioni nella legge 27 febbraio 1978, n. 43. Ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura degli ospedali generali, di cui all'articolo 6, è addetto personale degli ospedali psichiatrici e dei servizi e presidi psichiatrici pubblici extra ospedalieri. I rapporti tra le province, gli enti ospedalieri e le altre strutture di ricovero e cura sono regolati da apposite convenzioni, conformi ad uno schema tipo, da approvare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro della sanità di intesa con le regioni e l'Unione delle province di Italia e sentite, per quanto riguarda i problemi del personale, le organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative. Lo schema tipo di convenzione dovrà disciplinare tra l'altro il collegamento organico e funzionale di cui al quarto comma dell'articolo 6, i rapporti finanziari tra le province e gli istituti di ricovero e l'impiego, anche mediante comando, del personale di cui all'ottavo comma, del presente articolo. Con decorrenza dal 1° gennaio 1979 in sede di rinnovo contrattuale saranno stabilite norme per la graduale omogeneizzazione tra il trattamento economico e gli istituti normativi di carattere economico del personale degli ospedali psichiatrici pubblici e dei presidi e servizi psichiatrici e di igiene mentale pubblici e il trattamento economico e gli istituti normativi di carattere economico delle corrispondenti categorie del personale degli enti ospedalieri.

Art. 8 Infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici.

Le norme di cui alla presente legge si applicano anche agli infermi ricoverati negli ospedali psichiatrici al momento dell'entrata in vigore della legge stessa. Il primario responsabile della divisione, entro novanta giorni dalla entrata in vigore della presente legge, con singole relazioni motivate, comunica al sindaco dei rispettivi comuni di residenza, i nominativi dei degenti per i quali ritiene necessario il proseguimento del trattamento sanitario obbligatorio presso la stessa struttura di ricovero, indicando la durata presumibile del trattamento stesso. Il primario responsabile della divisione è altresì tenuto agli adempimenti di cui al quinto comma dell'articolo 3. Il sindaco dispone il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera secondo le norme di cui all'ultimo comma dell'articolo 2 e ne dà comunicazione al giudice tutelare con le modalità e per gli adempimenti di cui all'articolo 3. L'omissione delle comunicazioni di cui ai commi precedenti determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio. Tenuto conto di quanto previsto al quinto comma dell'articolo 7 e in temporanea deroga a quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 6, negli attuali ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera.

Art. 9 Attribuzioni del personale medico degli ospedali psichiatrici.

Le attribuzioni in materia sanitaria del direttore, dei primari, degli aiuti e degli assistenti degli ospedali psichiatrici sono quelle stabilite, rispettivamente, dagli articoli 4 e 5 e dall'articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128.

Art. 10 Modifiche al codice penale.

Nella rubrica del libro III, titolo I, capo I, sezione III, paragrafo 6 del codice penale sono soppresse le parole: "di alienati di mente". Nella rubrica dell'articolo 716 del codice penale sono soppresse le parole: "di infermi di mente o".

Nello stesso articolo sono soppresse le parole: "a uno stabilimento di cura o".

Art. 11 Norme finali.

Sono abrogati gli articoli 1, 2, 3 e 3-bis della legge 14 febbraio 1904, n. 36, concernente "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati" e successive modificazioni, l'articolo 420 del codice civile, gli articoli 714, 715 e 717 del codice penale, il n. 1 dell'articolo 2 e l'articolo 3 del testo unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223, nonché ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge. Le disposizioni contenute negli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9 della presente legge restano in vigore fino alla data di entrata in vigore della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale. Fino a quando non si provvederà a modificare, coordinare e riunire in un testo unico le disposizioni vigenti in materia di profilassi internazionale e di malattie infettive e diffusive, ivi comprese le vaccinazioni obbligatorie, sono fatte salve in materia di trattamenti sanitari obbligatori le competenze delle autorità militari, dei medici di porto, di aeroporto e di frontiera e dei comandanti di navi o di aeromobili.

La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Data a Roma, addì 13 maggio 1978

Leone - Andreotti - Bonifacio - Anselmi

Visto, il Guardasigilli: Bonifacio

 

STRALCIO DELLA LEGGE 833/1978

TITOLO III

Norme transitorie e finali

Art. 64 - Norme transitorie per l'assistenza psichiatrica.

La regione nell'ambito del piano sanitario regionale, disciplina il graduale superamento degli ospedali psichiatrici o neuropsichiatrici e la diversa utilizzazione, correlativamente al loro rendersi disponibili, delle strutture esistenti e di quelle in via di completamento. La regione provvede inoltre a definire il termine entro cui dovrà cessare la temporanea deroga per cui negli ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente al 16 maggio 1978 e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera; tale deroga non potrà comunque protrarsi oltre il 31 dicembre 1980 . Entro la stessa data devono improrogabilmente risolversi le convenzioni di enti pubblici con istituti di cura privati che svolgano esclusivamente attività psichiatrica . È in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni psichiatriche o sezioni neurologiche o neuro-psichiatriche. La regione disciplina altresì con riferimento alle norme di cui agli articoli 66 e 68, la destinazione alle unità sanitarie locali dei beni e del personale delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (IPAB) e degli altri enti pubblici che all'atto dell'entrata in vigore della presente legge provvedono, per conto o in convenzione con le amministrazioni provinciali, al ricovero ed alla cura degli infermi di mente, nonché la destinazione dei beni e del personale delle amministrazioni provinciali addetto ai presidi e servizi di assistenza psichiatrica e di igiene mentale. Quando tali presidi e servizi interessino più regioni, queste provvedono d'intesa. La regione, a partire dal 1° gennaio 1979, istituisce i servizi psichiatrici di cui all'articolo 35, utilizzando il personale dei servizi psichiatrici pubblici. Nei casi in cui nel territorio provinciale non esistano strutture pubbliche psichiatriche, la regione, nell'ambito del piano sanitario regionale e al fine di costituire i presidi per la tutela della salute mentale nelle unità sanitarie locali, disciplina la destinazione del personale, che ne faccia richiesta, delle strutture psichiatriche private che all'atto dell'entrata in vigore della presente legge erogano assistenza in regime di convenzione, ed autorizza, ove necessario, l'assunzione per concorso di altro personale indispensabile al funzionamento di tali presidi. Sino all'adozione dei piani sanitari regionali di cui al primo comma i servizi di cui al quinto comma dell'articolo 34 sono ordinati secondo quanto previsto dal D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 , al fine di garantire la continuità dell'intervento sanitario a tutela della salute mentale, e sono dotati di un numero di posti letto non superiore a 15. Sino all'adozione e di provvedimenti delegati di cui all'art. 47 le attribuzioni in materia sanitaria del direttore, dei primari, degli aiuti e degli assistenti degli ospedali psichiatrici sono quelle stabilite, rispettivamente, dagli artt. 4 e 5 e dall'art. 7, D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 . Sino all'adozione dei piani sanitari regionali di cui al primo comma i divieti di cui all'art. 6 del D.L. 8 luglio 1974, n. 264 , convertito, con modificazioni, nella L. 17 agosto 1974, n. 386, sono estesi agli ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici dipendenti dalle IPAB o da altri enti pubblici e dalle amministrazioni provinciali. Gli eventuali concorsi continuano ad essere espletati secondo le procedure applicate da ciascun ente prima dell'entrata in vigore della presente legge. Tra gli operatori sanitari di cui alla lettera i) dell'art. 27, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 , sono compresi gli infermieri di cui all'art. 24 del regolamento approvato con R.D. 16 agosto 1909, n. 615 . Fermo restando quanto previsto dalla lettera a) dell'art. 6 della presente legge la regione provvede all'aggiornamento e alla riqualificazione del personale infermieristico, nella previsione del superamento degli ospedali psichiatrici ed in vista delle nuove funzioni di tale personale nel complesso dei servizi per la tutela della salute mentale delle unità sanitarie locali. Restano in vigore le norme di cui all'art. 7, ultimo comma, L. 13 maggio 1978, n. 180