Coltivare la vita in laboratorio - Come siamo arrivati a intendere la materia vivente come tecnologia
Pensando al lavoro di scienziati o biologi in laboratorio non ci risulta strana la possibilità che questi possano essere impegnati nella coltivazione di cellule o linee cellulari provenienti da vari organismi viventi. Ad esempio, attualmente le cellule che provengono da esseri umani sono ampiamente utilizzate nei laboratori e in programmi di ricerca biomedica, così come rivestono un ruolo centrale nella ricerca farmaceutica. In breve, la possibilità di mantenere in vita cellule e tessuti umani al di fuori del corpo e di usarle come una materia tecnologica è qualcosa che accade di routine, è ritenuto normale e non desta alcun particolare senso di straniamento. Tuttavia, com’è possibile questo? Quando siamo arrivati a pensare la vita al di fuori del corpo come qualcosa di normale e non problematico? E in quale momento la vita e le cellule hanno assunto questa particolare forma tecnologica? Questi sono alcuni degli interrogativi da cui parte anche Hannah Landecker (2007), sociologa e storica della scienza, nel ricostruire la storia della coltura dei tessuti. Tali questioni ci possono aiutare a focalizzare l’attenzione su alcune delle condizioni che hanno permesso la costruzione di infrastruttura in cui è stato possibile standardizzare metodi, tecniche e oggetti sperimentali impiegati nella coltura cellulare.
Un evento da cui iniziare può essere rintracciato nel 1907, quando Ross Harrison, a partire dal tessuto embrionale di una rana, riuscì ad osservare la crescita di una fibra nervosa al di fuori del corpo. In quegli anni era in corso un vivace dibattito scientifico sulla natura e sviluppo delle fibre nervose a cui risultava difficile trovare una soluzione con le tecniche e i metodi sperimentali impiegati. Infatti, gli scienziati si affidavano principalmente a tecniche istologiche, le quali consistevano nell’acquisizione di sezioni del corpo di un animale in diverse fasi nel tempo, per cui era necessario sacrificare vari animali in diversi momenti per osservare degli sviluppi tissutali. I tessuti ottenuti in questo modo erano resi adeguati alla conservazione e all’analisi attraverso sostanze fissative e coloranti, e in questo modo fornivano dei modelli statici di momenti precisi dello sviluppo. Nonostante ciò, con queste tecniche istologiche non era possibile trovare una risposta sostanziale allo sviluppo delle fibre nervose: gli scienziati potevano dare delle interpretazioni opposte dello stesso frammento di tessuto reso in forma statica. Harrison risolse questa controversia cercando di rendere visibile, al di fuori del corpo, il processo di sviluppo di una fibra nervosa mentre avveniva. Partendo da nozioni di coltura dei microrganismi, egli riuscì a realizzare una preparazione a “goccia sospesa” (hanging-drop) che forniva un supporto attraverso della linfa coagulata per far crescere le fibre nervose di rana al di fuori del corpo. In questo modo, Harrison utilizzando delle cellule vive risolse il problema di come gli organismi biologici viventi cambiano nel tempo e rese visibili i processi che erano interni al corpo degli animali. È in questo senso che all’inizio del XX secolo inizia ad emergere la possibilità e l’idea di sperimentazione in vitro e non più solo in vivo.
Qualche anno più tardi Alexis Carrel e il suo assistente Montrose Burrows tentarono di sviluppare le tecniche adottate da Harrison nel tentativo di mantenere in vita le cellule al di fuori del corpo. Carrel e Burrows trasformarono “il metodo di Harrison per la crescita a breve termine di un tessuto embrionale in un metodo generalizzato per la coltivazione di tutti i tipi di tessuto” (Landecker 2007, p.53) e nel 1910 coniarono il termine “coltura tissutale” per riferirsi a questa serie di operazioni. In particolare, Carrel e Burrows cercarono di mantenere in vita le cellule attraverso la creazione di colture secondarie a partire da un frammento di tessuto: spostando una parte delle cellule in un nuovo medium plasmatico si generava una sorta di riattivazione cellulare e queste continuavano a vivere. Tuttavia, con questa tecnica le cellule cessavano di aumentare di massa e diventavano più piccole ad ogni trasferimento, per cui la soluzione tecnica che adottò Carrel fu quella di aggiungere del tessuto embrionale macinato – chiamato “succo embrionale” – per nutrire le cellule. Fu in questo contesto che Carrel affermò la possibilità di poter coltivare delle “cellule immortali”, che potevano vivere in maniera indefinita al di fuori del corpo. Infatti, per Carrel la morte cellulare era un “fenomeno contingente” che poteva essere rimandato attraverso la manipolazione del medium plasmatico e le sostanze in cui era immersa la cellula. Per questa ragione, Carrel brevettò una fiaschetta, nota come “Carrel flask”, che gli permise di coltivare le cellule in modo asettico evitando infezioni e manipolando le sostanze in cui erano immerse le cellule in modo controllato. Tuttavia, va precisato che negli anni ’60 si dimostrò che le uniche cellule che potevano essere tecnicamente immortali erano quelle di origine cancerosa.
È attraverso le pratiche sperimentali di Harrison e Carrel che inizia ad emergere una nuova enfasi sul corpo e sulla possibilità di coltivare delle cellule in vitro. All’inizio del XX secolo non era nuova la possibilità di tenere i tessuti al di fuori del corpo per un po’ di tempo, ma in quel contesto il corpo era concepito come l’elemento essenziale che garantiva la vita delle cellule, le quali non avrebbero potuto sopravvivere al di fuori di esso. Le pratiche sperimentali di Harrison e Carrel segnano un passaggio all’idea che le cellule e i tessuti non solo possono sopravvivere al di fuori del corpo, ma continuano a dividersi, differenziarsi e vivere. In questo senso, inizia ad emergere un senso di possibilità legato al fatto che le cellule possono vivere con una certa autonomia anche se staccate dal corpo.
È tra gli anni ’40 e ’50 con la campagna contro il virus della poliomielite che, attraverso una serie di sforzi infrastrutturali, fu reso possibile l’impiego per la prima volta di tessuti umani su larga scala: in precedenza ciò non era possibile e le cellule venivano coltivate in singoli laboratori senza la possibilità di scambi e trasferimenti. Nella prima metà del XX secolo i virus erano molto difficili da osservare e coltivare: venivano conservati in laboratorio facendoli passare attraverso uova ed animali infetti; ciò era un metodo molto complesso e costoso. Per questa ragione nel 1940 John Enders pensò di utilizzare i metodi di coltura tissutale per osservare lo sviluppo delle infezioni virali. In questo modo, Enders e il suo collega Weller svilupparono un modello cellulare per osservare il lento sviluppo nel tempo del virus della parotite, questo si rivelò poi anche utile per studiare la poliomielite. Pertanto, attraverso la coltura dei tessuti è diventato possibile osservare lo sviluppo delle infezioni virali osservando i cambiamenti cellulari invece che guardare i sintomi che si manifestavano negli animali infetti. In seguito, nel 1954 John Salk attraverso l’impiego di queste tecniche di coltura cellulare riuscì a realizzare un vaccino contro la poliomielite.
Va sottolineato che ciò che Enders e Salk riuscirono a fare va inserito in uno sforzo più ampio della comunità scientifica a partire dagli anni ’40 che ha permesso il miglioramento delle tecniche di coltura tissutale e la loro standardizzazione. In particolare, in quegli anni organizzazioni come la Tissue Culture Association (TCA) e la National Foundation for Infantile Paralysis (NFIP) si impegnarono nel tentativo di standardizzare e rendere disponibile alla comunità scientifica materiali e tecniche per la coltura cellulare: vennero organizzati convegni e in breve tempo diventò possibile acquistare terreni ed estratti con cui far crescere le cellule. Fu anche grazie a questo lavoro coordinato che fu possibile utilizzare la linea cellulare immortale HeLa come materiale standard per il test del vaccino contro la poliomielite in diversi laboratori. HeLa era stata stabilita da George Gey nel 1951 grazie alla biopsia di una massa tumorale prelevata da Henrietta Lacks, la quale si era recata in ospedale per ricevere assistenza e non sapeva come sarebbe stato impiegato il tessuto prelevato (Skloot 2010). Al termine della campagna contro la poliomielite HeLa era ampiamente diffusa nei laboratori e gli scienziati iniziarono ad utilizzarla per gli scopi di ricerca più disparati, generando così un’ampia mole di studi e pubblicazioni. Dunque, se in precedenza era possibile lavorare su oggetti dello stesso tipo – lo stesso tipo di topo o lo stesso tipo di tumore – attraverso HeLa diventò possibile lavorare sulla “stessa cosa” in tempi e luoghi diversi. Pertanto, è in questa cornice che i tessuti umani sono diventati così una base standard e un modello per la ricerca biomedica.
Secondo Landecker questa storia ci racconta di come la biotecnologia dal 1900 ad oggi si associ ai “crescenti tentativi di esplorare e realizzare la plasticità della materia vivente” (Landecker 2007, p. 232). Nello specifico, la plasticità riguarda la capacità della materia vivente di essere modificata dagli esseri umani, la quale continuando a vivere può reagire all’intervento anche in modi inaspettati. Inevitabilmente, in questo racconto la plasticità si associa al tentativo di rendere operativo il tempo biologico attraverso una manipolazione della cellula, del medium e delle sostanze in cui questa è immersa. In breve, questa storia ci può aiutare a comprendere il modo attraverso cui siamo arrivati alla concezione odierna di “vita come tecnologia”; ovvero, la possibilità di utilizzare le cellule come una forma tecnologica per interventi terapeutici, sviluppi farmaceutici e per l’industria alimentare. In secondo luogo, questo resoconto permette di evidenziare alcune delle condizioni attraverso cui è stato possibile costruire un’infrastruttura con cui poter mantenere stabilmente le cellule in laboratorio. Infatti, uno scienziato tende a dare per scontata l’idea che sia possibile coltivare delle cellule in laboratorio proprio perché nel tempo è stata sviluppata un’infrastruttura funzionale, e che per questo motivo tende a risultare “invisibile” (Star 1999). In tal senso, ripercorrere gli sviluppi della coltura tissutale permette di portare alla luce gli aspetti infrastrutturali e tecnici che invece rimarrebbero opachi nello sfondo.
BIBLIOGRAFIA
Landecker H. (2007). Culturing Life: how cells become technologies. Harvard University Press, Cambridge.
Skloot R. (2010). La vita immortale di Herietta Lacks. Adelphi, Milano.
Star S.L. (1999). The ethnography of infrastructure. American behavioral scientist, 43(3), 377-391.