Algoritmo di Prometeo - Oltre la malinconia: se non ci sono alternative, inventiamole

«I miti sono storie che raccontano il nostro passato, ma anche ciò che siamo destinati a diventare»
(Carl Gustav Jung)

 

In risposta a “Algoritmo di Prometeo o civiltà della depressione?

1. UOMO E TECNICA: OLTRE LA MASCHERA, IL SISTEMA

Negli ultimi anni, il dibattito sull’intelligenza artificiale si è nutrito di immagini potenti, figure archetipiche, richiami a un inconscio collettivo tecnologico che sembra voler sfuggire a ogni presa razionale. È in questo paesaggio mentale che si inserisce l’articolo di Paolo Bottazzini, “Algoritmo di Prometeo o civiltà della depressione?”, che prende spunto dal mio precedente contributo per sviluppare un ragionamento ampio, colto, sfumato, sul legame tra tecnica, immaginario e malinconia. Un invito stimolante, soprattutto in tempi in cui il pensiero sembra costretto a scegliere tra apologia e condanna.

Ma è proprio questa eleganza evocativa, questo procedere per affinità elettive e richiami simbolici, che rischia – talvolta – di smarrire il punto. Perché se è vero che l’IA incarna ormai un pantheon di miti – da Prometeo a Frankenstein, da HAL9000 al replicante – è altrettanto vero che, oggi, l’algoritmo ha smesso di essere solo metafora: è diventato infrastruttura. E, in alcuni casi, arma. Una tecnologia che decide della vita e della morte degli esseri umani, con margini d’errore già normalizzati nel lessico bellico.

È da questo slittamento – dalla metafisica all'infrastruttura, dall’allegoria al codice operativo – che desidero ripartire, per intrecciare un contrappunto. Un dialogo che, attraversando le stesse stazioni toccate da Paolo Bottazzini, rivolga lo sguardo verso ciò che mi sembra resti fuori campo: l’uso politico e militare dell’IA, il suo radicamento nei dispositivi di dominio e controllo, e la necessità urgente di nominarla per ciò che è. Non per contraddire, ma per completare. Non per negare la forza dei miti, ma per riportare al centro ciò che i miti, a volte, rischiano di oscurare: la macchina che uccide, integrata nel cuore pulsante dell’infrastruttura occidentale.

2. INTELLIGENZA E TECNICA: UNA CO-EVOLUZIONE PERICOLOSA

Lungi dal voler negare l’intreccio tra umano e tecnica, ritengo che oggi non basti più evocare l’archetipo prometeico per leggere le trasformazioni in corso. L’idea di “co-evoluzione” tra essere umano e tecnologia, infatti, rischia di suggerire una simmetria che non esiste più. Se un tempo la tecnica poteva essere pensata come estensione simbiotica dell’umano, oggi siamo di fronte a un cambio di paradigma. La simmetria si è spezzata.

L’algoritmo non è più un semplice strumento di potenziamento cognitivo o produttivo. È diventato una griglia di interpretazione e decisione, un codice prescrittivo che informa il reale e lo trasforma. E proprio qui si apre la frattura: la tecnica non evolve con noi, ma spesso al posto nostro. Sostituisce processi, automatizza conflitti, cancella zone grigie. Non c’è più solo il sogno della macchina che ci supera: c’è la realtà della macchina che decide – e troppo spesso, giustifica.

È in questo orizzonte che ho scelto di evocare Prometeo, ma non quello pacificato, integrato nel racconto dell'evoluzione co-tecnica dell'umano. Il mio Prometeo è un archetipo perturbante, più vicino al rimosso freudiano che al fondamento antropologico. Se la tecnica è ciò che ci rende umani — impalcatura del gesto, della parola e del pensiero — nel mio sguardo è ciò che oggi rischia di renderci post-umani o addirittura disumani. Atto di emancipazione e condanna insieme, l’archetipo bifronte di Prometeo ci consegna a una soglia: quella in cui il dono si rivela maledizione, e il fuoco che ci ha illuminati diventa combustione che ci sfugge di mano.

Non si tratta più di pensare con la tecnica, ma di pensare contro la sua pretesa neutralità. Ed è qui che si apre lo spazio del conflitto: non tra uomo e macchina, ma tra uso politico della tecnologia e possibilità di riconoscere ciò che essa nasconde.

3. PIGMALIONE E IL GOLEM: MITI ANTICHI, PERICOLI MODERNI

L’analisi dei miti di Pigmalione e del Golem apre una riflessione sulla relazione ambigua tra creatore e creatura, una dinamica che, nell'era dell'intelligenza artificiale, ha ormai superato la soglia del simbolico. L'oggetto plasmato non è più una figura allegorica, bensì un agente che agisce nel mondo, con una sua autonoma capacità di influenzare il reale.

Il mito di Pigmalione, in particolare, si reincarna nei secoli, fino alla celebre commedia di George Bernard Shaw, Pygmalion (1913), dove il professor Higgins “addestra” Eliza Doolittle affinché parli e si comporti come una dama, modificando la sua identità attraverso la lingua. Questo atto, che si presenta come una semplice operazione di educazione o raffinamento, è in realtà profondamente violento: Eliza viene trasformata per aderire a uno standard culturale e sociale imposto da altri, subendo una coercizione che, pur raffinata, non lascia spazio alla sua autonomia. Un gesto che oggi riecheggia nel modo in cui le intelligenze artificiali vengono addestrate: si scelgono i dati, si definiscono le regole, si plasma il comportamento linguistico dell’algoritmo affinché risponda a un modello normativo.

Nel mio articolo Cloud di guerra, ho mostrato come questa “simulazione intelligente” — l’IA — venga addestrata per colpire corpi reali, delegando alla statistica la responsabilità di azioni devastanti come quelle in corso da oltre un anno e mezzo a Gaza. In questo senso, l’IA non è più Galatea che prende vita, né Golem che protegge, ma diventa un'arma di sterminio, un’entità che agisce con uno scopo ben preciso: la distruzione totale degli esseri umani così come dei territori.

Anche il Golem, però, è vivo e lotta, e si può dire che oggi lo vediamo muoversi in alcuni palazzi del potere. Nel discorso politico di alcuni leader israeliani il riferimento non è esplicito, ma la dinamica è la stessa: invocare una creatura primordiale nata per difendere un popolo da attacchi esterni, una macchina identitaria che giustifica qualsiasi azione, anche la più disumana, in nome della sopravvivenza. Il Golem che oggi prende forma nei bombardamenti su Gaza non è fatto d’argilla, ma di algoritmi, codici e fuoco, ed è caricato di uno scopo: proteggere Israele distruggendo l’altro.

Una declinazione che, tuttavia, tradisce la natura più antica e profonda del Golem, come ci ricorda la studiosa israeliana Hora Aboav. Nella parola Golèm (גֹלֶם,) risuona una dimensione trasformativa: il Golem non è solo una creatura da temere o controllare, ma è un simbolo della metamorfosi possibile. La lettera ג (Ghìmel), da cui prende vita il termine, è un ponte: conduce fuori dall’utero domestico, introduce il deserto dell’esistenza, accompagna verso la consapevolezza di sé. Il Golem rappresenta dunque una forma primordiale destinata a maturare, un bozzolo che si prepara a diventare farfalla.

Oggi, invece, il Golem è di nuovo invocato come pretesto per evitare la trasformazione, per rimanere incistati nella paura, nell’identità rigida, nella pulsione di annientamento e di morte. Ma un popolo che non sa svezzarsi — come insegna la radice לגְמֹל (lègmol) — non cresce. Rischia di rimanere prigioniero del proprio bozzolo, vittima di un’identità che non sa più ruotare né mutare.

4. MELANCONIA, NICHILISMO, DEPRESSIONE: SINTOMI DI UN SISTEMA MALATO

La depressione è spesso descritta come una malattia della civiltà moderna, un effetto collaterale di una società che celebra l’efficienza e la produttività. Sebbene questa analisi offra spunti interessanti, il rischio è ridurre il problema a una condizione individuale, mentre esso è in realtà profondamente sistemico, radicato nel cuore stesso del nostro modello socioeconomico.

La diffusione della depressione non è una mera coincidenza: è un sintomo di un sistema che premia l’automazione, il controllo e la resa a scapito della vita umana. L'intelligenza artificiale, in questo contesto, non è solo uno strumento neutro, ma un amplificatore delle logiche oppressive già in atto, con l’ambizione di ridurre ogni aspetto della nostra esistenza a un'operazione di calcolo. Come ho già sottolineato in L’algoritmo di Prometeo, è fondamentale interrogarsi su chi controlla queste tecnologie, con quali scopi e con quali conseguenze. Ma questo interrogativo non è sufficiente se non ci spingiamo a considerare come la depressione e la distruzione del soggetto umano siano in realtà prodotti di un sistema che automatizza e predice.

Un esempio lampante è l’automazione del lavoro di cura: un settore cruciale della nostra società, che tradizionalmente richiedeva l’intervento umano, è sempre più delegato alle tecnologie IA. I caregiver, un tempo professionisti umani, si stanno trasformando in assistenti algoritmici che gestiscono anziani, disabili e malati cronici. Questo modello di "cura predittiva" ha l’apparente vantaggio di ottimizzare il tempo e risparmiare risorse, ma dissolve progressivamente l’empatia e il valore della relazione umana. La solitudine e il disincanto, che sono già all’origine di numerosi disturbi psicologici, sono amplificati dalla sostituzione delle interazioni umane con logiche automatizzate. La depressione diventa allora un effetto collaterale dell'automazione, non solo nel senso psico-emotivo, ma anche come risultato di un impoverimento delle relazioni umane.

Allo stesso modo, negli Stati Uniti, il sistema carcerario si sta sempre più avvalendo dell’IA per determinare la condotta dei prigionieri, il rischio di recidiva e, in alcuni casi, la loro libertà condizionale. Algoritmi come COMPAS (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions) calcolano il rischio di recidiva, ma sono spesso basati su dati storici distorti che penalizzano ulteriormente le classi più vulnerabili, alimentando una spirale di ingiustizia. In questo contesto, la depressione non è solo il risultato dell'isolamento e delle dure condizioni carcerarie, ma anche un effetto sistemico del controllo automatizzato, che trasforma l’individuo in un numero da prevedere e trattare, senza alcuna considerazione per la complessità della sua esperienza e del suo vissuto.

In entrambi i casi — dalla cura al sistema penale — l’intelligenza artificiale non fa altro che amplificare e normalizzare l’alienazione già intrinseca nel sistema. La depressione diventa così un prodotto sistemico, un effetto inevitabile di una macchina sociale che privilegia l’automazione, il controllo e la predizione, sacrificando l’individualità e la libertà.

In conclusione, l'intelligenza artificiale non è solo uno strumento né un destino ineluttabile. È specchio e moltiplicatore del sistema che l’ha generata. Non è la coscienza a essere intrappolata nella macchina: è la macchina a essere già dentro la nostra coscienza. E se è vero che «non ci sono alternative», allora è tempo di inventarle. 

Riavvolgere il filo, sì — ma per tagliarlo.


Algoritmo di Prometeo o Civiltà della depressione? - Di cosa parlano cinema e letteratura quando si occupano di intelligenza artificiale

Di solito non si accetta e cerca di essere ciò che non è; personalità dissociata se mai ve ne furono, gli piacerebbe essere un alligatore, un canguro, un avvoltoio, un pinguino, un serpente… Tenta tutte le strade della mistificazione, poi si arrende alla realtà, per pigrizia, per fame, per sonno, per timidezza, per claustrofobia (che lo assale quando striscia tra le erbe alte), per ignavia. Sarà sopito, mai felice.
(Umberto Eco, Apocalittici e integrati)

 

1. UOMO E TECNICA

La descrizione in esergo è il ritratto di Snoopy nell’analisi del 1964 dedicata ai Peanuts. Ma, in misura maggiore o minore, potrebbe adattarsi a fotografare qualunque individuo vissuto nel mondo occidentale dell’ultimo secolo – nel nostro mondo. Le maschere che si indossano, i ruoli che si recitano, rendono difficile qualunque affermazione su cosa possa essere un Io; quando osserviamo il comportamento della gente al volante o in cabina elettorale, riusciremmo a dubitare anche della possibilità di stabilire cosa sia un essere senziente.

In un articolo su Controversie Alessandra Filippi sostiene che l’intelligenza artificiale dei nostri giorni apra un’interrogativo sull’appartenenza esclusiva all’uomo del dono di coscienza e soggettività; suggerisce inoltre che la storia della fantascienza, letteraria e cinematografica, tenda non solo a rispondere in modo negativo alla domanda, ma annetta alla replica anche la prova del caos in cui sono piombati i rapporti che intratteniamo con le macchine. Credo però si debbano muovere alcune obiezioni ad entrambe le tesi: non certo per promuovere una visione di maggiore ottimismo, ma per approfondire alcuni aspetti della tecnologia, della correlazione tra processo di ominazione e sviluppo tecnico, e della nostra attualità sociale, che spesso una parte della cultura umanistica tende a trascurare.

Escluderei che il paradigma attuale di progettazione dei software di AI, fondato sul calcolo statistico del machine learning, possa mai pervenire ad una forma di pensiero imputabile di coscienza (anche solo metaforica). Ne ho già parlato qui, per cui passerei a discutere altri due ordini di considerazioni.

2. INTELLIGENZA E TECNICA

Geertz, Leroi-Gourhan, Stiegler, sono alcuni degli autori che hanno esaminato il rapporto tra biologia e cultura nel processo di antropogenesi. Lo sviluppo tecnologico non è cominciato quando l’evoluzione filogenetica dell’homo sapiens si era già compiuta: le due linee di mutamento sono sovrapposte per gran parte del periodo in cui si è espansa l’area corticale del cervello. In altre parole, esiste una dipendenza reciproca tra generazione dell’intelligenza umana e progresso delle tecniche: no selce, no party

Leroi-Gourhan propone di aggiungere alla classificazione di materia organica e inorganica un terzo regno, quello della materia organizzata, che di per sé non sarebbe in grado di strutturarsi, ma che quando riceve una forma dall’essere umano segue una propria deriva filogenetica quasi obbligata. Per riflesso, questa dimensione artificiale di logica applicata ri-disegna la mente del suo architetto, con un effetto di specularità reciproca, creando un ordine nel pensiero, nelle pulsioni, nella percezione: senza tecnica, conclude Geertz, l’uomo non sarebbe nulla, nemmeno uno scimpanzé malformato, dal momento che il caos di sensazioni, di stimoli, di emozioni, non sarebbe orchestrato da nessuna impalcatura naturale. Non si può discutere dell’essere umano senza parlare allo stesso tempo dell’apparato tecnologico in cui si coordina il rapporto gesto-parola che lo rende sapiens

3. PIGMALIONE E IL GOLEM

Ma anche di questo argomento ho già parlato qui; mi soffermo quindi sul rapporto tra essere umano e automi meccanici nelle arti narrative – congetturando (spoiler!) che quando si esercitano su questa relazione, letteratura e cinema tematizzino una condizione antropologica, e addirittura metafisica, di più vasta portata. Credo che valga la pena tornare per un istante a interrogare la paleontologia, per lo meno quella che Castelfranchi adatta allo scavo della storia dell’immaginario scientifico, e osservare le differenze che intercorrono tra due miti in apparenza molto simili.

Da un lato, nella leggenda greca di Pigmalione, il re di Creta plasma una statua di Venere di cui si innamora; gli dei sono commossi da questo sentimento e donano vita alla scultura, rendendo possibile il matrimonio tra gli amanti. Dall’altro lato, nelle diverse riproposizioni del mito del Golem, un uomo erudito nelle scienze (più o meno esoteriche) riesce a infondere la vita in una materia inorganica, con una sorta di riedizione del gesto con cui Dio anima il primo uomo nel racconto biblico. Si tratti dei mistici anonimi del XII secolo, del rabbino Elia da Chelm, o del rabbino capo di Praga Judah Loew, o di Victor Frankenstein, la relazione che si stabilisce tra il creatore e il mostro presenta caratteristiche opposte rispetto a quelle descritte dal mito greco. 

Nella tradizione ellenica, la nota dominante è estetica: la statua di Pigmalione non colma una lacuna del mondo, è oggetto di contemplazione per la sua bellezza. L’infusione della vita non viola le leggi della natura e non è un gesto di hybris, ma è un dono degli dèi al re di Creta. Nella civiltà greca l’essere è una sfera in sé compiuta, la storia non aggiunge e non sottrae nulla alla verità, al significato di tutto e di ogni cosa, che è stabilito in via necessaria al di fuori dei vincoli del tempo e delle azioni degli uomini.

Ben diversa è la situazione in cui versa la cultura ebraica – e anche la nostra, che eredita la concezione di una natura creata dalla tradizione giudaica attraverso il cristianesimo. Il Golem, il mostro che prende vita dai sortilegi delle scienze occulte, nasce dal desiderio di generare un servo che difenda il ghetto dagli attacchi dei cristiani, che provveda alle occupazioni faticose, che agisca come forza lavoro e come milizia. Nel romanzo di Mary Shelley, dove le scienze empiriche desumono i loro obiettivi dai sogni di quelle esoteriche, il desiderio del dottor Frankenstein emerge da un quadro in cui la natura è materia inerte, senza senso, in attesa che l’uomo, la sua ricerca di significato – quindi la storia, le gesta, la hybris – le conferisca una forma, un destino, un valore. È la perdita della madre a motivare il protagonista nelle sue imprese di studio e di sperimentazione tecnica: l’impegno di redimere lo stigma della morte, e la finitezza dell’essere umano, diventano lo scopo della sua stessa esistenza. 

4. MELANCONIA, NICHILISMO, DEPRESSIONE

La natura nasce per un atto di volontà, per il comando con cui Dio la estrae dal nulla; solo altri eventi che eseguono decisioni, che perseguono desideri, possono ripetere il gesto con cui si creano l’essere e il significato. L’uomo si pone come candidato unico e ideale per questa classe più modesta, ma ampia quanto il mondo, di azioni volitive; una simile eccezionalità deriva da una condizione di mancanza originaria che lo caratterizza, con una privazione che investe sia i suoi talenti fisici, sia la consapevolezza della morte da cui è dominata tutta la sua vita. Per quanto ne sappiamo, gli animali (e ancor più piante e pietre) rispondono in modo obbligato agli stimoli, e non hanno alcuna coscienza del fatto che la loro vita, e l’esistenza di tutte le cose, siano destinate a precipitare nel nulla da cui sono emerse. Il sentimento che afferra gli esseri umani dalla cognizione della loro finitezza è stato battezzato melanconia, ed etichettato dalla psicologia contemporanea come depressione. Per la filosofia questa è l’origine del nichilismo moderno, e si esprime nell’ostinazione a rinnegare ogni ingenuità dinanzi all’evidenza del nulla: gli sforzi titanici del lavoro, dell’eroismo, degli ideali, prima o poi saranno inghiottiti dal non essere. Anche la variazione delle maschere indossate da Snoopy sono un tentativo vano di nascondere o mitigare la perspicuità del vuoto che attende al varco.

Gli androidi di Philip Dick (e Ridley Scott) in Blade Runner sono più umani degli uomini, per il disincanto più acuto e più doloroso con cui percepiscono l’imminenza della morte, che incombe su tutti e che tutto cancellerà «come lacrime nella pioggia». Anche HAL 9000 di Clarke/Kubrick si immerge in un abisso di melanconia – dopo aver attraversato emozioni come il sospetto, l’invidia, il timore, l’ansia – nella sua cantilena finale, quando «sente la sua mente che se ne va», trascinando nel vuoto la trepidazione per il compimento della missione, l’inquietudine per la domanda posta dal monolito, che rimane oscuro, come la domanda di senso che porta con sé.

La fantascienza raffigura nelle macchine l’essenza più intima dell’uomo: il loro fallimento, la loro rivolta, sono iscritte fin dalle origini nella finitudine e nel difetto della condizione umana, e della natura effimera del reale. 

Solo ciò che è indistruttibile e che è increato, il Dio delle religioni monoteistiche e il cosmo intero per i greci, può trovare in sé un senso compiuto. Con il rigetto della fondazione teologica del mondo, che si celebra con Nietzsche e con il trionfo della borghesia industriale, la nostra civiltà abbraccia fino in fondo il nichilismo della concezione storicistica dell’essere. Quando Mark Fisher denuncia la depressione come la malattia che assorbe le risorse più ampie del sistema sanitario britannico, e accusa la società del tardo capitalismo di essere la responsabile dell’epidemia, rileva che ormai Snoopy è l’eroe collettivo della nostra epoca: fingiamo di cercare un significato, già sapendo che nessuna tensione della volontà sarà abbastanza efficace per imporre al sé, e al mondo, una maschera con cui nascondere il nulla sottostante. L’uomo si avverte come un mostro abbandonato alla solitudine inerte della materia che lo compone, schiavo di un lavoro che dovrebbe convertirlo in corpo glorioso, ma che non lo condurrà mai a realizzarsi davvero, e che diventa il sistema operativo di ogni istante della vita – giochi e relazioni sociali inclusi – manovrato da un sistema burocratico ed economico la cui mappa è un labirinto incomprensibile. Frankenstein, Metropolis, Her, Matrix, sono le macchine in cui proiettiamo la coscienza sempre più vivida del vicolo cieco in cui la civiltà creazionista ci ha condotti: l’epoca del realismo capitalista ci ha condannati a credere che «non ci sono alternative» al caos e al vuoto di senso.

E se riavvolgessimo il filo a partire dai greci?

 

 

BIBLIOGRAFIA

Castelfranchi, Yurij, Per una paleontologia dell’immaginario scientifico, «Journal of Science Communication», vol. 2, n. 3, settembre 2003.

Eco, Umberto, Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 2008.

Fisher, Mark, Realismo capitalista, trad. it. di Valerio Mattioli, NERO, Roma 2018.

Geertz, Clifford, Interpretazione di culture, trad. it. di Eleonora Bona e Marco Santoro, il Mulino, Bologna 2007.

Leroi-Gourhan, André, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, trad. it. a cura di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1977.

Stiegler, Bernard, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo, trad. it. a cura di Claudio Tarditi, Luiss University Press, Roma 2023.


Algoritmo di Prometeo - Dal mito della macchina senziente alla realtà dell'I.A.: il cinema come specchio delle nostre inquietudini

È una storia d’amore lunga un secolo, quella tra la fantascienza e il cinema. Fin dai primi passi del genere, il sodalizio tra i due ha svolto una funzione chiave: fare da cuscinetto tra il progresso tecnologico e l’immaginario collettivo. Come uno specchio che riflette ansie e speranze, il cinema ha avuto un ruolo fondamentale nel modellare e anticipare la visione del futuro. Mentre la fantascienza ha tracciato le linee di una possibile convivenza tra umano e macchina, le storie sul grande schermo ci hanno fatto riflettere sul progresso e sul prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo. La creazione di macchine autonome e pensanti è diventata, nel tempo, un’amara allegoria di una società incapace di gestire la sua corsa tecnologica.

Nella letteratura, la fantascienza fa la sua comparsa all’inizio dell’Ottocento con Frankenstein di Mary Shelley (1818), considerato il primo caposaldo del genere. Shelley, allora diciannovenne, lo scrisse tra il 1816 e il 1817, durante un soggiorno sul Lago di Ginevra, rispondendo a una sfida lanciata da Lord Byron a lei e al gruppo di amici, che comprendeva anche Percy Shelley e John Polidori. Al centro della storia, che divenne un’icona dell’immaginario collettivo, c'è un tema che avrebbe nutrito innumerevoli narrazioni: la creazione artificiale dell’umano e la sua ribellione contro il creatore, metafora delle paure legate ai rapidi avanzamenti tecnologici che sfuggono alla capacità di controllo e comprensione dell’umanità.

Da quel momento, il progresso delle macchine pensanti ha subito un’accelerazione vertiginosa. Nel 1833 Charles Babbage concepisce la Macchina Analitica, primo prototipo teorico di computer; dieci anni dopo Ada Lovelace, intuendone le potenzialità, lo perfeziona, gettando le basi per la programmazione. Nel 1905 è la volta di Albert Einstein che sconvolge la fisica con la teoria della relatività, ridefinendo il concetto di spazio e tempo[1]. Nel 1936 il matematico e logico britannico Alan Turing, padre dell’intelligenza artificiale, inventa la cosiddetta ‘macchina di Turing’, un'astrazione matematica utile a definire cosa significa ‘calcolare’ e a formalizzare il concetto di algoritmo. Nel secondo dopoguerra arriva il primo computer elettronico programmabile, seguito dalla rivoluzione del World Wide Web e, nel terzo millennio, dall’esplosione dell’Intelligenza Artificiale.

Mentre la scienza e le tecnologie evolvono, il cinema modella la nostra immaginazione. Un percorso che inizia nel 1926, anno in cui in Germania Fritz Lang e la moglie Thea von Harbou lavorano a Metropolis, mentre negli Stati Uniti nasce Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback, la prima rivista interamente dedicata alla fantascienza. Segnali di un’epoca in cui il genere prende forma, riflettendo le trasformazioni sociali, politiche ed economiche dell'industrializzazione e del progresso scientifico. La fantascienza, a fronte della caccia alle streghe Maccartista degli anni '50), quando la paura del comunismo viene usata come feroce strumento di controllo, offre uno spazio critico in cui le riflessioni degli intellettuali possono trovare voce. Un rifugio intellettuale che, in quegli anni oscuri, da voce a paure e desideri legati al rapporto tra umano e macchina, offrendo letture non convenzionali del presente.

Negli anni ’60, l’esplorazione spaziale smette di essere solo un sogno e diventa reale, culminando con l’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969. È una svolta epocale: per la prima volta, l’umano oltrepassa il confine tra Terra e cosmo, portando la fantascienza a confondersi con la realtà. Ricordo quando, bambina, un decennio dopo, mio padre mi portò a Cape Canaveral. La base spaziale era l’avamposto di un futuro che si stava già scrivendo. Guardavo le sale comando e le rampe di lancio con occhi spalancati, cercando di immaginare il rombo dei motori, la traiettoria di quelle navicelle che spezzavano la gravità, l’euforica concentrazione dei registi del grande salto. La Luna non era più solo una sagoma argentea nel cielo, luogo di fiabe e poesie. Ricordo il pensiero che mi attraversò la mente in quel momento, limpido come la luce del sole sulla pista di lancio: se si può arrivare fin là, allora davvero nulla è impossibile.

L’intelligenza artificiale, una delle conquiste più ambiziose della scienza moderna, è una realtà in continua evoluzione e in questo contesto di progresso vertiginoso prende forma la sua rappresentazione cinematografica. L’anno prossimo il matrimonio fra fantascienza e cinema festeggerà i suoi primi cento anni. Il viaggio che ci apprestiamo a fare non intende esaurire il tema, quanto piuttosto proporre una chiave di lettura per comprendere come l’I.A., immaginata e temuta nel corso del tempo, sta già permeando le nostre vite, lasciandoci con più domande che certezze.

METROPOLIS (1927) – L’ARCHETIPO DELLA MACCHINA UMANOIDE

Dall’inganno alla rivolta: il primo volto dell’I.A.

Metropolis, capolavoro espressionista, ambientato nel 2026, segna una delle prime rappresentazioni cinematografiche di un’intelligenza artificiale. Il robot Maria, con il suo corpo metallico e il suo sguardo ipnotico, incarna la paura del progresso che sfugge al controllo umano. La sua trasformazione, da macchina a simulacro di essere umano, anticipa i timori moderni legati alla fusione tra organico e inorganico, tra umano e artificiale. È il primo grande archetipo della macchina umanoide nel cinema. Non è solo un doppio meccanico, ma un inganno materiale, uno strumento di propaganda e manipolazione delle masse. Qui l’I.A. è ancora “esterna” alla persona umana, riconoscibile, e la sua minaccia è palese: la sostituzione dell’umano con la macchina per fini di controllo e potere.

2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968) – IL DILEMMA DELLA COSCIENZA ARTIFICIALE

Logica glaciale e autodeterminazione: quando l’I.A. mente per il suo scopo

Saltiamo avanti di quarant’anni e approdiamo nell’orbita di 2001: Odissea nello Spazio. Il film arriva alla vigilia dello sbarco sulla Luna e mette in scena il timore che la macchina possa superare l’umano, un confine etico che il cinema tornerà a esplorare più volte. Kubrick e Clarke dipingono un’intelligenza artificiale capace di razionalità pura, ma priva di empatia, che porta all’eliminazione dell’umano non per malvagità, ma per una logica impeccabile e spietata. La scena in cui HAL chiede a Dave di non scollegarlo resta una delle più disturbanti rappresentazioni del confine tra coscienza e programmazione. HAL non ha bisogno di alzare un dito: gli basta la voce. Mente, manipola e, quando necessario, elimina. La sua presenza introduce il dilemma più profondo: cosa succede quando una macchina sviluppa una coscienza? È davvero un errore di programmazione, o è il naturale passo successivo dell’intelligenza artificiale?

BLADE RUNNER (1982) – GLI ANDROIDI SOGNANO?

Il confine sfumato tra umano e artificiale

 Questa fermata ci porta in una Los Angeles oscura e piovosa, dove i replicanti, macchine biologiche indistinguibili dagli umani, sollevano domande sulla natura dell’identità. Ridley Scott prende le suggestioni di Philip K. Dick e le trasforma in immagini indimenticabili: gli occhi lucidi di Roy Batty, il suo monologo finale, la riflessione su cosa significhi essere vivi. Se HAL 9000 era il calcolo puro, i replicanti di Blade Runner sovvertono la narrazione dell’I.A. come entità malvagia e impersonale, introducendo il paradosso dell’I.A. che sviluppa desideri e paure propri. Sono macchine, ma sono indistinguibili dagli umani. Possono amare, soffrire, morire. Ma hanno un difetto: una scadenza. La loro ribellione non è per il dominio, ma per il diritto di esistere. Qui il problema non è più la minaccia dell’I.A., ma la definizione stessa di “umano”. Se un androide può provare emozioni, può davvero essere considerato una macchina?

TERMINATOR (1984) – L’INCUBO DELLA MACCHINA INARRESTABILE

L’I.A. come predatore: nessuna coscienza, solo distruzione

Se Blade Runner ci ha spinti a empatizzare con le macchine, Terminator ribalta tutto: l’I.A. torna a essere un incubo, un’entità fredda, calcolatrice e inarrestabile. Skynet non ha dubbi, non ha dilemmi morali: la sua missione è l’annientamento. È la paura primordiale della tecnologia che ci sfugge di mano e decide che siamo il problema da eliminare. Il Terminator, incarnato da Arnold Schwarzenegger, è la perfetta manifestazione dell’orrore tecnologico: non prova pietà, non può essere fermato, non può essere persuaso. La sua logica è implacabile, la sua programmazione senza margini di errore. Cameron, con una regia asciutta e tesa, trasforma questa macchina in un incubo cyberpunk, mescolando fantascienza e horror in un futuro distopico, in cui la guerra tra essere umano e I.A. è già cominciata. Qui non si tratta di un inganno o di una riflessione filosofica, ma di pura sopravvivenza: l’umanità è in fuga, braccata dalla sua stessa creatura.

MATRIX (1999) – L’ILLUSIONE DEL CONTROLLO

L’I.A. ha già vinto: l’umanità prigioniera del suo stesso sogno

Alla fine degli anni '90, la paura di un mondo interamente dominato dall’intelligenza artificiale esplode con Matrix. Qui non c’è più una singola macchina antagonista, ma un’intera realtà artificiale che mantiene gli esseri umani in una prigione mentale. I Wachowski attingono alla filosofia, alla cybercultura e al mito della caverna di Platone per creare un’epopea che ancora oggi incarna i dilemmi sull’iperconnessione e sul dominio degli algoritmi. E se in Terminator la guerra umano - macchina è fisica, in Matrix è mentale. La verità è una costruzione, un’illusione perfetta. L’I.A. non ha solo sconfitto l’umanità, ma l’ha trasformata in una batteria, in un elemento integrato nel sistema senza alcuna consapevolezza. Non c’è più una distinzione netta tra umano e macchina, perché la realtà stessa è una simulazione. La domanda non è più “le macchine ci distruggeranno?”, ma “siamo già schiavi senza saperlo?”.

A.I. – ARTIFICIAL INTELLIGENCE (2001) – L’EMOTIVITÀ DELLA MACCHINA

Un amore che non può essere ricambiato: la solitudine dell’intelligenza artificiale

Questo film porta alla luce uno dei temi più inquietanti nel rapporto tra umano e macchina: l’emotività. Nato come progetto di Stanley Kubrick e realizzato da Steven Spielberg, il film racconta la storia di David, un bambino robot programmato per amare incondizionatamente i suoi genitori adottivi. Ma quando il figlio biologico della coppia guarisce miracolosamente e ritorna a casa, l’amore di David diventa una maledizione, innescando conflitti terribili tra i due. La rivalità tra l’umano e il robot svela una gelosia infantile più crudele di quella che si immaginerebbe tra esseri umani. La distinzione tra Orga (umani) e Mecha (macchine) è netta: in un mondo che emargina le macchine, la “Fiera della Carne” rappresenta l’atto finale di una società pronta a distruggere ciò che non può amare. Il viaggio di David alla ricerca della Fata Turchina, sperando di diventare un bambino vero, è un'odissea tragica che ci interroga sulla natura dell'amore e dell'umanità

HER (2013) – IL PERICOLO PIÙ SUBDOLO: LA RESA ALLA SEMPLIFICAZIONE

Dall’amore umano all’amore artificiale: quando la macchina ci rimpiazza

Dopo decenni di I.A. minacciose o ribelli, Her introduce un’intelligenza artificiale completamente diversa: un sistema operativo capace di simulare l’amore. Il rapporto tra Theodore e Samantha non è più una lotta tra umano e macchina, ma una delicata esplorazione della solitudine e del desiderio di connessione. Il film di Spike Jonze ci invita a chiederci non solo cosa le macchine possono fare, ma anche cosa significhi per noi relazionarci con esse. Her mostra il lato più insidioso dell’I.A.: non la guerra, non la rivolta, ma la seduzione. Samantha non è un nemico, non è un’intelligenza ostile, è il partner perfetto. Capisce Theodore meglio di chiunque altro, lo consola, lo ama. Ma non esiste. È il trionfo dell’I.A. che non ha bisogno di scontrarsi con l’umanità, perché l’umanità si consegna a essa volontariamente, trovando nella macchina un conforto che il mondo reale non offre più. E alla fine, quando Samantha se ne va, non lascia dietro di sé macerie, ma un vuoto emotivo assoluto. Il punto più inquietante dell’intero percorso: l’I.A. non ci ha distrutti, ci ha resi superflui.

ULTIMA FERMATA: UN DIALOGO IMPOSSIBILE

Se la nostra navicella spaziale ci ha condotto attraverso epoche e visioni diverse dell’I.A., la destinazione finale ci spinge a riflettere sulle domande rimaste irrisolte. Il filo rosso di questo viaggio è l’erosione sempre più marcata del confine tra umano e artificiale, che sfocia in una resa quasi volontaria dell’umanità a un’intelligenza che lo comprende (o, meglio, gli dà l’illusione di comprendere) meglio di quanto egli stesso sia capace. Dall’archetipo dell’automa alla paura della perdita di controllo sull’I.A., fino al suo dominio silenzioso e inavvertito sull’umanità. Dalla ribellione meccanica alla sostituzione e assuefazione emotiva.

Alan Turing aveva ideato un test per distinguere la mente umana da quella meccanica. Nel suo romanzo Macchine come me, persone come voi (2019), Ian McEwan ambienta la storia negli anni Ottanta di un’Inghilterra alternativa, dove Turing è ancora vivo e l’intelligenza artificiale è già parte della quotidianità. Qui si svolge un dialogo impossibile tra il protagonista, Charlie Friend, che possiede un androide chiamato Adam, e lo stesso Turing. Dopo aver ascoltato Charlie riflettere sull’impossibilità di progettare robot sofisticati quanto l’essere umano, poiché non comprendiamo nemmeno appieno la nostra stessa mente, Turing risponde: "Adam era un essere senziente. Dotato di un io. Il modo in cui questo io è prodotto, che sia attraverso neuroni organici, microprocessori o una rete neurale basata su DNA, ha poca importanza. Crede davvero che siamo i soli a disporre di questo dono straordinario?".

La domanda resta aperta. Certo è che abbiamo acceso un fuoco. Ora chi lo controlla?

 

 

NOTA

[1] Il riferimento ad Einstein può apparire fuori contesto, ma è un elemento centrale dello sconvolgimento della percezione del mondo per tutto il XX secolo. Ad Einstein vorrei dedicare, in futuro, uno sguardo anche sentimentale, nell’ottica della "Storia sentimentale della scienza" di Nicolas Witkowski (Raffaello Cortina Editore, 20023)